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Autore: Dragon mother    19/07/2020    1 recensioni
Il Natale, per Isabella è il periodo più magico dell'anno e questo in particolare, le lascerà un regalo inaspettato. Dal prologo -..per chi, per un motivo o un altro, è costretto a vivere per strada.
Ma si sa che l’amore e la magia che avvolgono questo giorno, possono rendere possibile ogni storia.
E questa è la nostra storia.-
Genere: Fluff, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alice Cullen, Edward Cullen, Isabella Swan, James | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
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Buonasera ragazze.. vi chiedo scusa per questo nuovo ritardo.. non è stato un buon fine settimana.
Comunque vi lascio a questo capitolo che spiega un po’ di cosucce di Bella e di Edward.
Buona lettura.. un bacio.
 
 
 
Bella
 
Nel momento esatto in cui la sveglia suona, i mei occhi si aprono su questa nuova e importante giornata.
Edward avrà il suo primo giorno di lavoro e forse una svolta anche nella sua vita privata e se va tutto bene io parteciperò a quella che spero sia per lui una grande gioia.
Mi preparo in fretta e raggiungo la cucina dove trovo Edward che sta preparando il caffè.
Tutto questo sa così tanto di casa, di famiglia, anche se fra quelle mura non siamo soli e tra noi non c’è nessun legame d’amore.
Mi soffermo un attimo a pensare a quanto mi piacerebbe trovare una persona che la mattina mi prepara il caffè, qualcuno con cui passare il tempo libero, con cui addormentarsi la sera e svegliarsi la mattina.
Mi soffermo ad osservarlo un attimo, non sembra neanche più lui, quel ragazzo di strada, ora fasciato in un abito blu scuro che gli calza a pennello, con quei suoi capelli sempre un po’ scompigliati e quella voglia di famiglia bussa di nuovo al mio cuore.
Non ci ho mai riflettuto più di tanto ma il mio uomo ideale assomiglia molto a questo ragazzo che nella mia cucina, proprio ora sta versando il caffè in un paio di tazze.
Sembra tutto così vero che fatico a ritornare alla realtà e mi do della stupida per averlo immaginato anche solo per un attimo.
Ma cosa sto fantasticando, non è il caso di spingersi in pensieri così audaci, perché una volta che ogni tassello sarà al suo posto, non è detto che lui voglia ancora vedermi.
Stiamo comunque agendo alle sue spalle e temo che le conseguenze potrebbero essere diverse da ciò che vorremmo tutti.
Una voce che mi chiama mi riporta in quella cucina.
Edward, la mano tesa a porgermi una delle due tazze di caffè riempite poco prima, mi sorride dandomi il buongiorno.
Osservo la scena da fuori, come se fossi una terza persona ad assistere a quello che sembra un vero e proprio quadretto familiare.
Basta Bella, devi smetterla di pensare a queste cose perché non ti porteranno da nessuna parte.
Agito una mano davanti al mio viso come a scacciare quei pensieri e afferro la tazza di caffè, ringraziandolo.
Edward mi sta fissando e posso immaginare cosa gli passa per la testa: penserà sicuramente di abitare con una pazza.
“Ciao Edward, grazie per il caffè. Mi stai viziando, lo sai?” gli dico riservandogli un sorriso.
“Sai Bella, niente potrà mai ricompensarti abbastanza per tutto quello che hai fatto, che fai e che so farai ancora per me, non basta prepararti il caffè qualche mattina o aiutarti a cucinare o tenerti compagnia la sera.. forse non basterebbe neppure una vita intera.. però per ora comincio con queste piccole cose” mi dice abbracciandomi con i suoi occhi acquamarina.
Mi ci perdo ogni volta in quelle pietre così espressive e faccio fatica a ridestarmi dalle emozioni che provo.
Mette intensità in quelle parole che in questo momento smuovono in me mille pensieri.
“Alice non c’è? Di solito a quest’ora è già sveglia” mi domanda forse intuendo il mio momentaneo disorientamento.
“Ah no, Alice è uscita presto stamani, aveva alcune commissioni da sbrigare fuori città ed è uscita molto presto”
Se solo sapessi di cosa si tratta Edward, non oso immaginare quanto ti arrabbieresti.
Ma ora abbiamo altro a cui pensare e dopo aver finito il mio caffè, finalmente usciamo per andare a lavoro.
 
Edward si cala subito nella parte e anche se non ha l’esperienza di James, ho già capito che a modo suo è sicuramente alla sua altezza.
Mi sembra molto sereno e tranquillo, anche quando appena entrati, ho provveduto a presentarlo ai suoi colleghi: l’hanno subito accolto con calore, soprattutto le ragazze, e questo un po’ mi ha infastidita.
Passato il momento di tensione, al quale ho provveduto trascinandolo via in malo modo dalle grinfie di quelle smorfiosette, l’ho portato nel mio ufficio.
Ho chiesto che venisse aggiunta una scrivania nel mio studio, accanto alla vetrata che tanto amo e dalla quale ho accesso ad un meraviglioso skyline di New York.
Penserete che l’ho fatto per tenerlo d’occhio o perché voglio tenerlo tutto per me ma non è così o meglio non è solo per questo: voglio che si senta a suo agio, accanto a qualcuno che conosce ed evitargli così che gli vengano rivolte domande scomode e poi in questo modo gli sono accanto per ogni dubbio o chiarimento che gli possa servire.
Lo lascio libero di ambientarsi anche se dobbiamo sfruttare al massimo questi ultimi giorni dell’anno per partire al meglio con l’anno nuovo.
Si guarda intorno, tocca i libri, sfoglia riviste e osserva i miei diplomi e i quadri in cui sono appesi i riconoscimenti per il mio lavoro.
Ma è quando sposta lo sguardo sulla mia scrivania che mi accorgo di non aver pensato di nascondere quella cornice, la cornice che ora lui sta fissando con l’espressione di chi ha mille domande ma non sa se è il caso di farle.
Non posso più rimediare, forse è giunto il momento per me di parlarne, di esternare il mio dolore e chi meglio di lui può stare ad ascoltarmi?
Sposta lo sguardo su di me ora che anche io lo sto guardando e abbozza un sorriso.
“Non devi, se non vuoi” mi dice ancora prima che io apra bocca.
Ormai non si tratta più di doverlo fare ma piuttosto di volerlo fare: ad un tratto mi ritrovo che voglio parlarne, adesso è diventato un bisogno, una necessità e so che lui è la persona giusta con cui aprirmi.
“Voglio” sussurro con un filo di voce.
Mi siedo sul divano accanto alla scrivania e lo invito a fare lo stesso.
Ho bisogno di un attimo per raccogliere le idee ma soprattutto le forze: solo Alice sa tutta la storia ma non sono stata io a raccontargliela bensì Jacob.
 
Questa per me è la prima volta in assoluto.
 
Tutti abbiamo nella nostra vita tante prime volte, ogni cosa è una prima volta se non l’abbiamo mai compiuta prima: il primo passo, il primo giorno di scuola, la prima rovinosa caduta dalla bici, il primo amore tante prime volte ma alcune sono più difficili di altre e questa è decisamente molto difficile per me.
Prendo un respiro di sollievo e inizio a raccontare dall’inizio.
Racconto di quanto eravamo felici noi 4 insieme, una famiglia piena d’amore, senza mai litigi, una famiglia unita come poche, spezzata da quel dannato incidente.
Ero a lavoro quel maledetto giorno di 5 anni fa in cui un pazzo ubriaco si è scontrato con l’auto dei miei genitori, catapultandola in un canale a fianco della strada.
Si era ribaltata più volte su se stessa, per finire la sua corsa rovesciata sulla fiancata.
Il conducente dell’altra vettura, nonostante il violento scontro, non era ferito in modo grave e all’arrivo dell’ambulanza, dopo averlo visitato, i paramedici hanno constatato che aveva fatto uso di droga e alcool.
Quando sono giunta sul luogo dell’incidente, i vigili del fuoco avevano appena estratto mamma e papà: erano ancora vivi ma in condizioni molto gravi.
Ho appena fatto in tempo a salutare papà prima che lo portassero in ospedale: aveva perso molto sangue da una ferita all’addome.
L’ho abbracciato per quanto la situazione lo permettesse e gli ho sussurrato che mi avrebbe trovata accanto al suo letto.
Quella fu l’ultima volta che gli parlai: papà non arrivò vivo in ospedale, il suo cuore si fermò a metà strada, a bordo dell’ambulanza.
Mamma non fu più fortunata, anche lei aveva delle ferite gravi e se anche riuscirono a portarla in ospedale, non fecero in tempo a salvarla.
Durante tutto il mio racconto non ho fatto altro che guardare il pavimento e torturare le mie povere mani, sentendo addosso lo sguardo addolorato di Edward.
E’ una situazione in cui non servono parole, è difficile trovare quelle giuste e forse neanche esistono, per alleviare un dolore così grande.
E Edward lo sa perché non perde tempo e mi abbraccia stretto, scontrando i nostri corpi come a farne uno solo.
E’ un abbraccio che ha qualcosa di diverso, nella sua forza, nella sua intensità e mi trasmette un dolcissimo senso di pace.
Lente le sue mani mi accarezzano la schiena, delicate e direi amorevoli, compiono movimenti circolari come a voler rilassare i miei muscoli tesi.
“Vorrei dirti che nella mia vita ho sofferto più di te ma mi accorgo che non è così: credo che non si possa soffrire per qualcosa che non si è mai conosciuto, se non ne hai mai sperimentato la gioia e il piacere di possederla. Tu hai conosciuto i tuoi genitori, li hai amati e ci hai vissuto accanto e poi ti sono stati portati via: il tuo è un dolore molto più grande del mio”
Sussurra quelle parole tra i miei capelli, ancorato al mio corpo, come se in questo momento fosse lui quello da consolare, quello che sta cercando di non finire spaccato in mille pezzi.
E da ciò che ha appena detto, credo di aver capito che il suo dolore dura esattamente da quando è nato.
Scioglie l’abbraccio e percepisco che di lì a poco, quelle quattro mura accoglieranno una seconda prima volta.
Ed è esattamente così.
Sull’onda delle rivelazioni, Edward mi racconta la sua triste e difficile vita.
 
Comincia col dirmi di essere stato abbandonato.
Quella sua prima rivelazione mi lascia stupita anche se già nei miei pensieri si era fatta spazio questa idea.
Dalla nascita è cresciuto in un convento di suore, dove è rimasto fino all’età di 10 anni.
Da lì mi racconta che la sua vita è decisamente peggiorata: se dalle suore si era trovato bene e aveva stretto amicizia con altri bambini, una volta lasciato il convento erano iniziati i problemi.
Dall’orfanotrofio in cui era stato trasferito, lo avevano affidato ad una famiglia dopo l’altra, nelle quali, per un motivo o per un altro, lui non era riuscito a rimanere.
Mi racconta quelle cose senza mai togliere i suoi occhi dai miei, forse per cercare la forza per continuare.
E io davvero sono senza parole: come hanno potuto tutte quelle persone non affezionarsi ad un bambino così bisognoso d’affetto e attenzioni?
Non si dilunga molto nei particolari anche perché da come mi parla di quegli anni, l’unico filo conduttore è il disagio della solitudine e del non essere amato.
“Ho passato anni sbattuto da una famiglia all’altra, da una casa all’altra, cambiando fratelli, sorelle e genitori non so quante volte ma il mio senso di vuoto e di solitudine non sono mai cambiati. Mi sentivo un oggetto più che una persona e questo ha contribuito a danneggiare la mia già precaria personalità. Così ho deciso che sarei scappato.”
Mi si avvicina afferrando le mie mani, vedendo il mio sguardo un po’ sconvolto, poi prosegue.
“Dall’ultima famiglia a cui ero stato affidato all’età di 16 anni, una notte, sono scappato. Non ne potevo più di quella vita a singhiozzo, sapevo come sarebbe finita anche quella volta e sapevo che una volta compiuti i 18 anni, nessuna famiglia mi avrebbe più preso in casa con se.
Ho raccolto le mie cose e ciò che poteva essermi utile in un borsone e me ne sono andato. Gli ho lasciato un biglietto solo per scusarmi.”
Non posso credere che l’abbia fatto veramente, lasciare un tetto sicuro per vivere solo in strada.
Posso però comprendere quanta disperazione c’era in quel suo gesto.
“Da allora vivo per strada, all’inizio è stata dura, non hai amici perché le persone come te che incontri, sono nella tua stessa situazione e raramente sono disposti ad aiutarti. Ma sono stato fortunato ad incontrare un vecchio con cui sono stato per alcuni anni e che quando è morto mi ha lasciato i suoi averi. E’ lui che mi ha insegnato a dipingere con i gessetti e per questo gliene sarò sempre grato. Da allora mi sono arrangiato come potevo, vivendo proprio alla giornata, ho girato alcune città, fino a quando ho raggiunto New York e da come stanno andando le cose credo che ci resterò per un bel pezzo”.
Termina così il suo racconto, con una strana inflessione nella voce, lasciandomi un po’ scossa da quelle parole; poi mi sorride e dice
“Allora, quando iniziamo a lavorare?”
   
 
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