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Autore: MaxB    23/07/2020    7 recensioni
Ossessionata dalla saga de La Passe-Miroir, non riesco a pensare ad altro da settimane.
E ho bisogno di approfondire alcune scene dei primi tre (e spoiler del quarto) volumi.
Ci saranno missing moments, scene descrittive relative a Thorn, soprattutto alla sua infanzia, e immersioni nei dialoghi tra Ofelia e Thorn, per come me li immagino io. Ed eventuali scene mancanti che ci starebbero bene.
Per possibili spoiler sul quarto volume verranno dati avvisi in cima alla pagina.
Aggiornamento irregolare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Allora. C'è una parte, in cui Thorn si mette a calcolare quantitativi di microfilm nelle bobine nelle scatole, in cui oltre a sembrarmi di essere tornata a scuola, a risolvere problemi sui quantitativi di mele ecc, ho coinvolto mio fratello per fare dei calcoli che fossero realistici. Mi sono stufata subito quindi non so se sono giusti. Non fate dei controlli, per favore. Tutto qui xD Non controllate se ho scritto giusto.
Conclusa questa parentesi imbarazzante, questo capitolo mi era stato suggerito da Valy1090 anche se avevo già in programma di analizzarlo. Il primo bacio VERO signori. Capitolo scorso, il bacio andato male, questo capitolo il bacio andato bene e nel prossimo... mah *faccina furba*. Vi lascio immaginare.
Spero che vi piaccia e accetto qualsiasi critica costruttiva vogliate lasciarmi, ci sono andata giù pesante con Thorn e la parola "amore" perché il poveraccio è allo stremo, almeno io l'ho percepito così. Caro lui xD
L’Attraversaspecchi III, La Memoria di Babel, Le parole, pagine 414-422


14. Je vous aime aussi

Thorn era confuso. Determinato. Sbalordito. Indignato.
Tutto insieme. Non gli piaceva sentirsi così. Ogni volta che Ofelia era nei paraggi si sentiva così, perché, inutile a dirsi, lei metteva a soqquadro il suo mondo in un modo del tutto imprevedibile. Come in quel momento. Lei non era direttamente implicata nella faccenda mentre, seduto nel Secretarium di fronte all’Ordinatore, osservava con attenzione l’aspirante virtuoso di fronte a lui; anche se, correttamente, sarebbe stato nominato aspirante virtuoso nel giro di poco. La cerimonia si sarebbe svolta tre ore e diciassette minuti dopo, e Octavio, il figlio di Lady Septima, avrebbe ottenuto i gradi. Obiettivamente, Thorn non avrebbe saputo dire se li avesse meritati imparzialmente per il suo lavoro e il suo talento o solo per i favori e i sotterfugi di Lady Septima, ma qualcosa, negli occhi decisi del ragazzo, nel suo portamento fiero eppure intimorito, nella stessa decisione di vederlo con così tanta insistenza gli fece pensare che forse, solo forse, la sua promozione sarebbe stata meritoria. In ogni caso aveva ben altro a cui pensare che non alla giustizia delle promozioni e delle nomine di un sistema già di per sé corrotto.
Octavio gli aveva rivelato tutto. Tutto quello che era successo. Con Ofelia. Thorn, in quanto Sir Henry, sapeva tutto ciò che di strano accadeva all’interno del Memoriale, e la sparizione di due precorritori era qualcosa di strano, tanto più se uno dei due fuggiaschi altri non era che il figlio di Lady Septima, una delle più influenti rappresentati di Lux e insegnante. Il fatto che Ofelia fosse con lui lo aveva resto oltremodo… infastidito, dalla cosa. Ma non voleva pensare al perché Ofelia avesse dormito fuori con Octavio.
Non voleva pensarci, eppure il pensiero lo pungeva come un’ape fastidiosa ancora, e ancora, all’angolo della sua coscienza, facendogli diventare quel giovane e basso precorritore ancora più antipatico. Aveva l’età di Ofelia. Aveva quasi la sua statura. Aveva altro, in comune con lei? Qualcosa che lui non avrebbe mai potuto avere?
Thorn si intimò di darsi una calmata. Sapeva che Octavio, in quanto Visionario, interpretava ogni suo gesto e minimo cambiamento d’espressione, un po’ come Ofelia leggeva gli oggetti. Come avrebbe inteso la sua mascella contratta, il cipiglio che si faceva più marcato di attimo in attimo? Non doveva pensare ad Ofelia.
Doveva pensare alle rivelazioni di Octavio. Su E. D., su quei libri distrutti da miss Silence, sul Senza Paura e Quasi Senza Rimprovero, sul professor Wolf, sulla Lacerazione. Sul fatto che Ofelia era riuscita così facilmente a capire quale fosse il libro che cercava, mentre lui aveva impiegato anni a catalogare, analizzare e setacciare tutto lo scibile in quella gigantesca biblioteca che era il Memoriale.
Ofelia aveva trovato ciò che a lui serviva. La chiave di volta. La soluzione dell’equazione. Ed era una notizia di portata incredibile. Ora doveva solo rintracciare quel libro per bambini, portarlo ai Genealogisti, e continuare con le sue ricerche. Si rese conto che Ofelia, alla fine, lo aveva davvero aiutato, anche se lui l’aveva accusata di avergli fatto perdere tempo. Tempo, sì, gliene aveva fatto effettivamente perdere quando non si era fatta trovare, e lei non si era trattenuta dal rivolgergli a sua volta delle accuse, ma se solo avesse saputo… l’avrebbe aiutata, avrebbero collaborato. Insieme. Perché invece aveva coinvolto Octavio, il figlio di una loro nemica, completamente inaffidabile? O affidabile, dal momento che si trovava di fronte a lui, dopo avergli rivelato ogni singolo fatto?
Aveva troppo lavoro da svolgere per soffermarsi anche ad analizzare se la presenza e la confessione di quel precorritore fossero un bene o un male. Troppo lavoro.
Analizzò l’aspirante virtuoso con la stessa intensità con cui quest’ultimo osservava lui, due animali che si scrutavano a vicenda. Octavio era impettito, come a volerlo sfidare a mettere in dubbio le sue parole. Sembrava persino fiero, come se parlare fosse stata una liberazione per lui. Aspettava un responso con quieta determinazione, anche se Thorn era più bravo a mascherare la trepidazione. Si augurò che, per quanto fosse bravo come Visionario, nemmeno Octavio potesse leggere il suo volto.
- Sono informazioni cruciali, avete fatto bene a farmi rapporto.
Octavio ebbe un leggero tentennamento prima di riprendere la posa statuaria. Interpretò la reticenza di Thorn a parlare come un invito ad esprimersi lui stesso, così intervenne. – Vi ringrazio, sir Henry. Ho riferito quanto vi ho detto anche a mia madre, ma… credo che riportare l’accaduto anche a voi sia stato utile per avere un altro punto di vista.
- Certo – riprese Thorn, indeciso su cosa dire o meno. Scelse di non dire nulla. – Le vostre rivelazioni mi hanno dato molto su cui riflettere e lavorare, avete reso un buon servizio ai lord di Lux e agli stessi Genealogisti. Al contrario di ciò che sostiene Lady Septima, come mi avete riferito, le vostre parole vanno ben oltre semplici vaneggiamenti. Bisogna indagare. Credo però che ora dobbiate andare a prepararvi in vista della cerimonia.
Se era contrariato da quel congedo, Octavio non lo diede a vedere. Anzi, parve addirittura sollevato.
- Vi ringrazio, sir Henry.
Agendo d’impulso, Thorn afferrò le chiavi del Secretarium. Forse si sarebbe pentito di quella scelta, forse sarebbe stato un atto scellerato, ma se Ofelia si fidava di quel tale, doveva fidarsi anche lui. Certo, Ofelia si fidava anche di Archibald, individuo a cui non avrebbe affidato nemmeno una scarpa bucata, ma doveva fare un atto di fede. Doveva fidarsi di Ofelia.
- Se volete ringraziarmi, dovete far pervenire queste alla precorritrice Eulalia – disse allungando in punta di dita le chiavi. – Devo vederla da solo, subito dopo la cerimonia, quando sarà più difficile notare la sua assenza.
Octavio si avvicinò senza esitazioni per prendere le chiavi che Thorn gli tendeva, e lui fu ben attento a non toccarlo. Non ci teneva a far incontrare le loro mani, le loro pelli. Il solo pensiero gli faceva sorgere una sorta di nausea, un certo malcelato disgusto. Anche un po’ di più. Sentì l’impulso di prendere il disinfettante per ripulirsi, ma si trattenne. Doveva attendere.
- Farò come dite, sir Henry.
Perso nelle sue elucubrazioni, Thorn quasi non si accorse della sua uscita. Sperò solo che Octavio non avesse frainteso il suo intento di vedere Ofelia da sola. Avrebbe potuto pensare, in fondo, che lui volesse sentire anche la sua versione dei fatti, cosa probabile e addirittura doverosa. Ma sapeva che Octavio vedeva ben oltre le parole di una persona, leggeva gli intenti. E Thorn non voleva vedere Ofelia solo per ascoltare la sua versione dei fatti.
Si alzò con impazienza, pronto a mettersi al lavoro. L’incontro con i Genealogisti era fissato per l’indomani mattina, e lui aveva tempo solo fino alla fine dei festeggiamenti per ritrovare quel libro che cercava da due anni, dieci mesi e cinque giorni. Due anni, dieci mesi, cinque giorni e sette ore. E Ofelia lo aveva trovato in meno di tre mesi. La cosa assumeva una portata ridicola.
La sua mente lavorava febbrilmente, scartando variabili e giungendo a soluzioni che a loro volta creavano nuova incognite, da risolvere utilizzando metodi sempre diversi. Come trovare un libro nel minor tempo possibile? Non poteva andare a frugare in ogni scaffale del Memoriale, ci sarebbe voluto troppo tempo. Inoltre, sapeva per certo, da quanto Octavio gli aveva detto, che non li avrebbe trovati lì, a disposizione di tutti. Doveva consultare l’Ordinatore? No, il metodo di catalogazione che aveva progettato era buono ma gli avrebbe impiegato troppo e non era nemmeno sicuro che il libro di E. D. fosse stato registrato. Inoltre, se anche avesse trovato la sua ubicazione nell’archivio, era impossibile che il libro fosse ancora al posto in cui era stato assegnato, sempre per via di miss Silence e della sparizione. E si trovava al punto di partenza. Doveva esserci un modo per consultare ogni singolo libro presente al Memoriale nel giro di poco, molto poco. Ma come?
Mentre si dirigeva verso la sua camera per disinfettarsi le mani, che sentiva sudicie come il resto di sé, la targhetta appesa fuori dalla camera che indicava la presenza della porta quasi invisibile e un lampo di luce giunto da fuori dalla finestra gli fecero avere un’illuminazione.
Era una buona idea. Anche un po’ di più.
 
Tre telefonate dopo, Thorn era quasi certo che sarebbe riuscito a trovare il libro entro la scadenza prefissata. Sessant’anni prima c’era stata l’Esposizione interfamiliare, al Memoriale. Allora il metodo di archiviazione era stato talmente grossolano e approssimativo da essere impossibile da catalogare. Decisamente scadente. La maniacalità insita in Thorn lo spingeva ad aborrire quel sistema, o meglio, a volergli porre rimedio, ma decisamente non aveva tempo. In occasione dell’Esposizione erano stati realizzati dei microdocumenti contenenti copia di tutti i libri esposti. Sessant’anni prima i libri di E. D. non erano a rischio estinzione da parte di Miss Silence e, se davvero risalivano a prima della Lacerazione, sicuramente sarebbero stati contenuti all’interno dei microfilm. Con la prima telefonata Thorn era venuto a conoscenza dell’Esposizione, con la seconda dell’assenza di catalogazione dei microfilm che erano conservati poco distante dal Secretarium e con la terza aveva chiesto che gli venissero portati con urgenza tutti i microfilm insieme all’attrezzatura necessaria a scorrerli uno ad uno. Quando l’operatore aveva provato ad obiettare che stava per iniziare la cerimonia per la consegna dei gradi, Thorn aveva perso la pazienza. Il tono del precorritore incaricato del fattorinaggio si era fatta subito terrorizzata quando sir Henry aveva accennato al volere diretto dei Genealogisti.
Aveva una pista. E calcolò che ci sarebbero voluti circa dieci minuti prima che il precorritore insieme ad altri due o tre compagni gli portassero quanto richiesto. Non aveva avuto bisogno di minacciare nessuno, la seconda volta che aveva avanzato una richiesta. Odiava ricorrere a simili sotterfugi, citare l’influenza dei lord di Lux, ma era in ballo il futuro di Ofelia. Non contava il fatto che, se entro la mattina successiva non avesse avuto nulla da provvedere ai Genealogisti, loro avrebbero fatto sparire dalla circolazione la sua identità fittizia e, di conseguenza, lui. Anche un po’ prima della mattina dopo, a dire il vero. Lui non contava, la sua vita non contava. Non aveva mai contato; per nessuno, tanto meno per se stesso. Ma la vita di Ofelia era un altro paio di maniche.
In quei dieci minuti cercò di sgomberare il più possibile la camera dell’ordinatore, di sistemare un tavolino di fronte ad un muro spoglio per posarci il proiettore di diapositive, ad una distanza di un metro e cinquanta centimetri per poter visionare gli ingrandimenti dei libri senza dover strizzare gli occhi. Avrebbe dovuto lavorare alacremente, non era il caso che i suoi occhi si stancassero troppo. Gli servivano.
Gli rimanevano ancora quattro minuti e dodici secondi quando finì di preparare, tempo che impiegò per disinfettarsi con cura le mani, nella camera adiacente. Non impegnata a coordinare qualche lavoro fisico o a calcolare le sistemazioni e le soluzioni al suo problema, la sua mente corse a briglia sciolta verso quello che sembrava essere il suo unico chiodo fisso: Ofelia.
Confusione. Determinazione. Sbalordimento. Indignazione. Riaffiorarono in lui, tutte insieme, con prepotenza, rendendogli impossibile ignorarle.
Confusione. Cos’era lui per Ofelia? Niente, a dire il vero, quella risposta non era confusa. Quante volte le aveva chiesto, quando si erano incontrati, se avesse qualcosa da dirgli? Qualsiasi cosa. Qualsiasi. Ma lei non diceva mai nulla. Eppure persino lui si era reso conto che… lo cercava. Prolungava volutamente i loro discorsi, come per prendere tempo. Però, quando lui l’aveva baciata, lo aveva respinto violentemente, nel vero senso della parola. L’eco dello schiaffo che gli aveva dato gli bruciava ancora, dentro. Nell’orgoglio. Nel cuore. Allora perché era andata a cercarlo? Perché lo aveva trovato? Perché era così accanita? Solo perché voleva risolvere il mistero di Dio, dell’Altro, perché si sentiva minacciata? O c’era qualcosa di più, che riguardava lui? Perché quella donna, sua moglie, si ricordò con un moto di possessività ingiustificata, non parlava chiaro? Cosa voleva da lui? Ciò che lui voleva da lei era chiaro come una giornata tersa. Non glielo aveva nascosto. Le aveva promesso che non le avrebbe più nascosto ciò che la riguardava direttamente, e così era stato.
Determinazione. Voleva venire a capo dell’arcano, voleva ridare al mondo i suoi dadi. Voleva mettere al sicuro Ofelia, darle la possibilità di scegliere tutto ciò che voleva. Perché Ofelia, più di tutto, desiderava essere indipendente, essere padrona della sua vita. Inutile dire che Thorn sperava che, in qualche modo, lui rientrasse nella sua scelta. In ogni caso, aveva un lavoro da portare a termine, ad ogni costo, e non aveva intenzione di permettere a Dio o chi di per sé di minare la libertà e l’esistenza di Ofelia. Voleva strapparlo da Ofelia. Quella determinazione gli faceva fremere con orrore gli artigli, che bramavano il sangue quando lui si lasciava trasportare dal pensiero di quell’essere e della trappola che rappresentava. Cercò di tenerli a bada con scarsi risultati.
Aggiunse altro disinfettante alle mani, sentendosi ancora più sporco di prima.
Sbalordimento. Ofelia, in un modo o nell’altro, causava talmente tanti disastri che ormai Thorn era sicuro di poter trovare lei al centro di qualsiasi sciagura si abbattesse sulle arche. Più volte, durante la sua lontananza e il suo isolamento a Babel, aveva setacciato i giornali interfamiliari, concentrandosi con accanimento sulle notizie più nefaste, temendo di trovarci una sua foto. Fortunatamente nessun problema verificatosi sulle altre arche sembrava essere legato ad Ofelia, ma Thorn aveva sinceramente paura ogni volta che leggeva una brutta notizia. Eppure, nonostante la sua presenza ovunque ci fossero catastrofi, quasi le piacesse trovarsi in pericolo, era sempre quella che trovava la soluzione per prima. In qualche modo riusciva sempre a farsi amico qualcuno, come Octavio, e chissà chi altri, grazie all’aiuto dei quali indagava e risaliva alla fonte di tutti i problemi. Thorn si ricordava ancora del coinvolgimento di Renard nel caso degli scomparsi di Chiardiluna, del suo intervento tempestivo e dell’aiuto che aveva fornito ad Ofelia. Lei… attirava le persone in un modo che gli era incomprensibile. E questo lo rendeva estremamente geloso. Ofelia piaceva. Si faceva amici e alleati senza difficoltà. E se, un giorno, si fosse innamorata di uno di questi aiutanti? Non era una cosa impossibile.
Questo, in ogni caso, lo portava ad essere indignato. Non tanto per la sua popolarità, ma per il fatto che era riuscita a rintracciare il libro che gli serviva, e che cercava da così tanto tempo da irritarlo oltremodo, senza nemmeno sapere cosa stesse cercando. Non poteva essere un caso. E se lo era, era una coincidenza ridicola, che sfidava ogni regola matematica, statistica, probatoria e di comune buonsenso.
Ma Ofelia era così.
E lui l’amava al punto da essere arrabbiato con se stesso.
Si strofinò le mani una terza volta, cercando di purificarsi dentro, di pulire il suo stesso sangue. Di essere un pochino più degno di lei. E cercò di sbollire, senza risultati. L’ultima volta che si erano visti non era andata bene per niente.
Sentì bussare proprio quando uscì dalla camera. I fattorini erano in anticipo di dieci secondi, e Thorn apprezzò, a modo suo. Cioè semplicemente non li guardò trucemente. Impiegarono trentatrè minuti a scaricare nella stanza tutte le scatole di microfilm. Nel frattempo, Thorn aveva già posizionato proiettore, visore e la prima bobina di microfilm. Quando, lanciandosi un’occhiata esterrefatta, i fattorini ebbero lasciato la stanza, ingombra di pile di scatole disposte in equilibrio precario, Thorn lasciò il visore per fare un rapido calcolo. C’erano sedici scatole contenenti ciascuna quaranta bobine di diapositive e microfilm; nello specifico, ogni bobina conteneva quindici diapositive e un microfilm da quattro minuti. In due secondi Thorn calcolò che doveva esaminare diecimiladuecentoquaranta documenti fotografici tra diapositive e microfilm. Con quei numeri in testa si adoperò per visionare un’altra bobina e impiegò sei minuti e mezzo precisi per consultarla interamente. Con quel ritmo, constatò, avrebbe finito in tempo.
Soddisfatto, cercò velocemente una delle scatole più recenti. A seguito dell’Esposizione interfamiliare quel metodo di archiviazione era stato abbandonato. Del resto, comportava solo una perdita di tempo, un costo eccessivo e una grande difficoltà di catalogazione. Sperava che avessero licenziato chi aveva avuto l’idea. In ogni caso, quel metodo approssimativo e raffazzonato era stato usato dall’Esposizione all’indietro. Ciò significava che il libro che gli interessava era contenuto nei microfilm e nelle diapositive esposte al Memoriale in quell’occasione. Dunque, doveva cercare di partire dalle scatole più recenti, dov’era certo che avrebbe trovato ciò che cercava. Le scatole più vecchie poteva tenerle per ultime.
Thorn non era un individuo speranzoso, ma si augurò che la sua deduzione fosse corretta. Aveva preso troppi abbagli in quei due anni, doveva rimettersi in carreggiata.
Il tempo venne scandito dal sul orologio da taschino che, animato, si apriva e chiudeva da solo ogni volta che lui finiva con una bobina e passava alla successiva. In grado di operare su più fronti, grazie alla memoria fotografica non doveva perdere tempo a leggere tutte le singole righe riportate nelle diapositive: con uno sguardo aveva già assimilato ogni informazione. La sua mente, dunque, aveva tempo di correre a briglia sciolta.
Correre verso il suo ultimo incontro con Ofelia. Era stato uno dei peggiori diverbi che avessero mai avuto. In quanto sir Henry, lui doveva essere inflessibile, e quella di Ofelia, o meglio Eulalia, era stata una grave trasgressione di protocollo. Non poteva essere indulgente, e non lo era stato, sostituendola, ma lei non aveva capito che il suo ruolo era quello, e per la sicurezza di entrambi non poteva permettersi errori. Eppure gli era apparsa così ferita… Allo stesso tempo lo innervosiva il fatto che avesse trascorso tutto quel tempo con l’inaffidabile figlio di Lady Septima. Aveva capito il motivo del suo ritardo, a posteri, certo, ma l’aveva capito; ciò che invece gli sfuggiva era il perché delle sue azioni. Perché aveva indagato con Octavio? Perché non aveva coinvolto lui in prima persona? Forse perché lo aveva giudicato troppo preso dal suo metodo di ricerca? Non si rendeva conto che sarebbe stato aperto a qualsiasi suo suggerimento, anche stupido, solo per lavorare insieme? Glielo aveva detto, di consultarlo. Era un modo per includerlo, non per tenerla d’occhio.
Invece no, era andato tutto a rotoli, e lei aveva agito d’impulso come suo solito. Impulsiva, testarda, così determinata da tralasciare dettagli fondamentali. E aveva dato a lui dell’egoista! Era armata di buoni sentimenti, ma li adoperava nella maniera sbagliata. Glielo aveva anche detto, che non sapeva cosa farsene dei suoi buoni sentimenti. Non finché lei agiva per conto suo, non finché sembravano due entità separate, che non condividevano le informazioni. Lui avrebbe tanto voluto che i suoi buoni sentimenti fossero indirizzati a lui. E non solo in ambito lavorativo o pratico, collaborativo.
Si sentì pizzicare il petto di dolore e stizza quando rivisse quelle ultime parole. Egoista… se solo Ofelia avesse saputo. Se avesse saputo non solo quanto ancora l’amava, con quel sentimento esacerbato da rifiuto e lontananza, ma anche che tutto quel suo darsi da fare aveva come finalità lei, la sua libertà, la loro libertà. Era scappato per permetterle di scegliere senza vincoli, senza legami. Le aveva detto che la loro collaborazione era finita, con il cuore a pezzi e gli artigli che fremevano di collera e odio, ancora una volta verso se stesso, che continuava ad illudersi e sperare; non riusciva a soffocare ciò che provava per lei.
Più Ofelia lo allontanava, lo rifiutava, lo escludeva, più lui odiava se stesso; come un riflesso, o una proporzione diretta. Quando invece Ofelia lo cercava, si interessava, gli stava vicino, gli sembrava di non essere un fallimento totale. Il problema era che Ofelia era indecifrabile, e Thorn non riusciva mai a capire cosa pensasse di lui. In passato si era sbagliato troppe volte per permettersi di fare ulteriori congetture errate.
Proprio sul filone di quei rimestii mentali sentì battere due timidi colpi alla porta. Non si mosse, non si interruppe. Ofelia aveva le chiavi per entrare; chiunque altro non sarebbe stato il benvenuto, il tempo stringeva.
Così come si strinse il suo stomaco per un breve istante quando Ofelia, perplessa, fece il suo ingresso nella stanza. Sbatté immancabilmente contro una pila di scatole pericolanti nella penombra. Avrebbe dovuto prevederlo: maldestra com’era alla luce del sole, la scarsa luce per lei rappresentava una vera e propria insidia.
Si fermò davanti alla luce del proiettore, disorientata, e strinse gli occhi dietro gli occhiali per cercare di capire dove fosse finita. Ofelia rimase bloccata di fronte a lui per quindici secondi, permettendogli di cambiare due diapositive. Peccato che le parole dei testi ingranditi proiettate sul corpo di Ofelia non fossero di facile lettura. Gli occhi di Thorn dovettero scrutare parti anatomiche sulle quali non voleva nemmeno accennare un pensiero.
- Non rimanete nel cono di luce.
Sentì Ofelia avvicinarsi, ma non si interruppe per osservarla. Il tempo stringeva, e le sue mani giravano con precisione i pomelli del proiettore per non perdere nemmeno un decimo di secondo del tempo che gli restava. Percepì, anche se non li vide, gli occhi di Ofelia su di sé. Fu grato di essere impegnato, perché non voleva assolutamente vedere cosa albergasse nei suoi occhi. Collera? Stizza? Disgusto? Distacco?
Indifferenza? L’indifferenza sarebbe stata la peggiore.
- Prendete una scatola – le ordinò quindi, solo per evitare che continuasse a fissarlo.
Ofelia si mosse per la stanza, tirando su con il naso. Dubitava che stesse piangendo, non ne avrebbe avuto motivo. Raffreddore? In ogni caso, il rumore gli giunse attutito, come se lei avesse cercato di camuffarlo con della stoffa. Sentì il tipico fruscio di una scatola che veniva aperta, mentre Ofelia obbediva al suo ordine perentorio. Di solito non accadeva mai, tanto meno senza un’adeguata spiegazione.
- Se riuscite a decifrare una data, mettete da parte i più vecchi – si raccomandò lui.
In effetti l’aiuto di Ofelia avrebbe potuto fargli risparmiare il tempo di alzarsi e andare a ravanare tra tutte le bobine, scandagliando le etichette sbiadite riportanti le date delle diapositive. Il fatto che lui fosse sollevato all’idea di averla lì, di fianco a lui, non gli era di nessuna utilità, anche se il suo animo ne appariva risollevato. Comunque, i suoi artigli erano ancora all’erta, saggiando l’aria come alla ricerca della prossima vittima. Erano talmente nervosi, come lui del resto, che dubitava che sarebbe riuscito a trattenerli se qualcuno si fosse avvicinato troppo. Mentre pensava cambiò un’altra bobina. Anche quella precedente era stata inutile. Cercò di trattenere la frustrazione: l’impazienza giocava a suo sfavore, rendendolo impreciso. Doveva concentrarsi.
Ignorava il corpo intirizzito, la postura scomoda, le ossa contratte e rigide per le troppe ore passate senza muoversi. Non si era mai curato troppo di se stesso, e quel giorno non faceva eccezione. Il suo fisico era uno strumento, e come tale lo avrebbe usato. Non c’era indulgenza, era una perdita di tempo prezioso.
Si accorse quasi per caso che Ofelia non si muoveva più. Aggrottò le sopracciglia. Sì, Ofelia gli sarebbe stata utile… se avesse lavorato. Che si aspettasse… qualcosa? Anche lui si aspettava qualcosa che non era mai arrivato, una confessione, una parola, ma non era quello il caso di star lì a mettere i puntini sulle i. Gli serviva aiuto, e se parlare era l’unica cosa in grado di far muovere Ofelia, avrebbe parlato. Si rese conto, in effetti, che senza lei e la sua pista non sarebbe arrivato a quel punto, ad un passo dal trovare ciò che i Genealogisti volevano. Non era tipo da lodi, non ne aveva mai ricevute e tanto meno elargite, esisteva solo il proprio dovere, però, come al solito, quando c’era di mezzo Ofelia le cose funzionavano diversamente. Lui l’apprezzava davvero, in tanti modi e per tanti motivi. Il fatto che lei non lo ricambiasse non implicava che lui dovesse desistere. Finché avesse avuto fiato in corpo l’avrebbe amata, era innegabile. E amarla lo rendeva un uomo diverso.
Le era grato.
- Sono al corrente del vostro incontro con il Senza Paura e Quasi Senza Rimprovero, della vostra edificante conversazione con il professor Wolf e delle vostre ricerche sui libri di E. D. distrutti da miss Silence. Una pista eccellente. Se ne avessimo parlato l’altra sera, invece di scaldarci, avremmo guadagnato tempo. – Era stato soprattutto lui a scaldarsi, lo sapeva, ma di quello non si sarebbe scusato. Ofelia non lo metteva mai a parte dei suoi piani, e a suo modo quel tacergli i suoi intenti era come mentirgli. Una spiegazione era d’obbligo, però. – I microdocumenti che vedete lì sono stati realizzati in occasione dell’Esposizione interfamiliare di sessant’anni fa. Da allora non sono mai stati ordinati. È ragionevole supporre che una copia dei libri di E. D. si trovi una di quelle scatole…
- Non sarò virtuosa – esordì Ofelia, bloccandolo.
Thorn continuò a lavorare al visore, una diapositiva dietro l’altra. Il tono di Ofelia era quasi… deluso. Temeva che lo fosse anche lui? O temeva che non sapesse che non sarebbe diventata virtuosa? Non riusciva a carpire i pensieri dietro le sue parole.
- Lo immaginavo – disse soltanto, incerto su come risponderle. Alla fine optò per la sincerità. – Ho dato parere sfavorevole al vostro passaggio di grado. Presumo che abbia avuto il suo peso nella valutazione.
- Cosa avete fatto? – balbettò Ofelia, del tutto presa in contropiede. – Ma io credevo che voleste…
Non era per ripicca che aveva fatto ciò che aveva fatto. Non era perché il suo lavoro era stato mediocre o scadente, o per il ritardo. Come sempre, Ofelia era stata ineccepibile nello svolgimento del suo compito. Anche un po’ di più.
- Ho cambiato idea – la interruppe. – Ultimamente mi è sembrato che i Genealogisti si interessassero un po’ troppo da vicino al futuro dei precorritori. Non avrei dovuto spingervi a ottenere la promozione. La vostra copertura non avrebbe retto a lungo con loro.
Non le disse che aveva premuto perché lei prendesse la promozione perché, in parte, temeva di vederla sparire di nuovo. Non le disse che lo aveva fatto perché, in parte, in gran parte, voleva continuare a vederla, avere una scusa per incontrarsi da soli, loro due. Per lavorare, certo, ma da soli. E la cosa gli faceva talmente male, quando erano insieme e sembravano distanti quanto due arche, che odiava se stesso per la sua poca amabilità. Avrebbe tanto voluto essere migliore, per lei.
- Allora avreste potuto…
- Dirvelo prima? Non eravate molto raggiungibile negli ultimi giorni.
Il tono di Thorn non era d’accusa. Ma il pensiero dietro quelle parole, sì. Si sentiva ferito, inutile dirlo, dal fatto che lei avesse lavorato da sola. O meglio, non con lui. Con gli altri sì, però. Individui dalla dubbia raccomandabilità. Continuò lo stesso a lavorare, senza guardarla.
Poi la udì sospirare.
- C’è un’altra cosa che devo dirvi. Che avrei dovuto dirvi prima, in realtà.
Cattive notizie, con una probabilità del novantaquattro percento. Raramente Ofelia aveva buone notizie. Quando era ancora ospite a Chiardiluna, lo andava a trovare all’intendenza ogni volta con nuovi problemi, che gli chiedeva cortesemente di risolverle. Quando mai Ofelia gli aveva portato buone nuove?
Era troppo indaffarato per ascoltarla in quel momento. Qualsiasi nefasta comunicazione avrebbe dovuto attendere. C’erano delle priorità.
- Potrà certamente aspettare ancora un po’ – mormorò tra i denti, cercando di concentrarsi sui microfilm e non immaginarsi le situazioni più nere e i grattacapi più irrisolvibili che Ofelia potesse proporgli. – Al ritmo di una diapositiva ogni dieci secondi e di un microfilm ogni quattro minuti, prima dell’alba avrò trovato quello che cerco.
Cambiò la bobina. Il discorso era chiuso.
Ofelia avrebbe dovuto capire l’antifona e mettersi al lavoro. Stranamente, lo fece. La sentì muoversi tra le scatole di carta, probabilmente per cercare di mettere in ordine le date. Era davvero inusitata la sua obbedienza, ma forse aveva colto il tono impaziente nella sua voce. Il tempo stringeva, sul serio questa volta, e se non avesse portato quello che volevano ai Genea…
- Anch’io vi amo.
La prima cosa che Thorn percepì furono i suoi artigli scattare. Si svolse tutto troppo in fretta per dare un senso a ciò che accadde, ma lui era pienamente consapevole della situazione. Si voltò immediatamente, bloccandole il polso. Aveva intuito la sua posizione per colpa degli artigli, che erano saettati, violenti, verso quel corpo estraneo che si avvicinava di soppiatto verso il suo angolo cieco. In un lampo pensò con acidità che era proprio il momento sbagliato perché Ofelia, la goffa e rumorosa Ofelia, iniziasse a muoversi silenziosamente. Un’altra statistica bruciata. Riuscì a fermare lo slancio dei suoi artigli, bramanti il sangue, appena in tempo, ma lo slancio che si era dato per girarsi e bloccare Ofelia era stato troppo. Si sentì vacillare e attirò Ofelia a sé. La verità era che, Thorn lo ammise controvoglia, avrebbe attirato Ofelia contro di sé a prescindere, in quella situazione.
In un battito di ciglia si rese conto di cadere, e il battito dopo era a terra, con la schiena dolorosamente sbattuta contro uno scaffale. Il visore era in mille pezzi sul parquet. Le scatole erano rovinate a terra in un fracasso di microfilm. Documenti volavano ovunque. La sua armatura si era allentata al punto da togliersi completamente. Ma niente aveva importanza in quel momento, niente che non fosse il corpo di Ofelia premuto contro il suo. Era sdraiata su di lui, incastrata contro il suo busto, tra le sue braccia che si erano automaticamente serrate contro di lei per proteggerla dalla caduta. O forse per tenerla stretta e non lasciarla andare, come se allentando la presa potesse rimangiarsi le parole pronunciate.
Quelle parole che ancora gli risuonavano limpide all’orecchio, impedendogli di sentire il suo stesso respiro.
“Anch’io vi amo”.
Anch’io vi amo.
Anch’io. Vi. Amo.
Aveva udito male? Impossibile. Anche se tutto, in quella situazione, sembrava impossibile.
Thorn sentì che Ofelia cercava di spostarsi, ma non la lasciò muovere di un millimetro. Se davvero Ofelia lo amava, aveva vinto. Non si sarebbe più trattenuto. Non voleva lasciarla andare, e non l’avrebbe fatto. Aveva aspettato quel momento così tanto, così a lungo, che ancora si chiedeva se in realtà non fosse tutta un’illusione. Eppure a Babel non c’erano illusioni. Quando era stato lui a dirle che l’amava, lei non aveva ribattuto. Ciò che aveva confessato pochi istanti prima, però, era una chiara risposta.
“A proposito: vi amo”.
“Anch’io vi amo”, gli aveva risposto lei, finalmente, dopo una separazione di due anni, dieci mesi e cinque giorni.
Sentiva il cuore di Ofelia, premuto contro il suo torace, galoppare insieme al suo. Non era mai stato più felice di una perdita di controllo del genere.
Le affondò il viso nei capelli cercando di trattenersi dal fare altro, dall’andare oltre. Voleva… cosa? Cosa voleva?
Tutto. Voleva tutto di Ofelia. Voleva sentirla contro di lui, uniti in quel modo, sempre.
Eppure, un senso di urgenza spiccò sugli altri all’improvviso. Voleva che lei fosse al sicuro, e lui non era sicuro.
- Niente gesti bruschi.
Il silenzio di Ofelia lo indusse a chiedersi se avesse capito o meno le sue parole. Cercò, con riluttanza, di allentare la stretta delle sue braccia, quanto meno per lasciarla respirare. Ofelia gli appoggiò lentamente le mani sullo stomaco, facendogli sentire uno strano formicolio sotto il suo tocco, e lo tenne d’occhio da dietro gli occhiali storti. Lui la fissava a sua volta, ma in cerca di una conferma alle sue parole. Trovò tutto tranne quella.
- Non fatelo mai più – ribadì, più duramente che poté. Abbandonare l’accento di Babel era liberatorio, parlare con l’accento del Nord in presenza di Ofelia lo era ancora di più. Sperava che così lei potesse recepire meglio il messaggio. -  Non prendetemi mai più di sorpresa. Avete capito?
Ancora una volta, Ofelia non diede segno di aver compreso. Lo fissava con perplessità, in modo inquisitorio, come se quello che doveva capire qualcosa fosse lui, non lei. Poi il suo sguardo si posò sull’armatura, o meglio, sui pezzi che la componevano, disordinatamente sparsi sul pavimento. Thorn lanciò ad essi un’occhiata rapida e disinteressata, tornando a concentrarsi su Ofelia. Sembrava preoccupata, colpevole.
- Niente che non si possa riparare. Ho un po’ di attrezzi in camera – la tranquillizzò lui. Poi adocchiò il visore.  – Invece quello è più grave. Dovrò procurarmene un altro.
Non calcolò il tempo che avrebbe perso. Il tempo che stava perdendo.
Anch’io vi amo.
Era come se avesse raggiunto lo scopo della sua esistenza, anche se in realtà era ben lungi dall’aver concluso il suo compito. Eppure, le sue priorità apparvero ad un tratto completamente ribaltate. E lui si sentiva più leggero, come se gli fosse stato tolto un gran peso dalle spalle.
Ofelia parve leggergli nel pensiero, a modo suo. – Non credo che sia una priorità – disse, stizzita.
Per una volta, Thorn non ebbe dubbi. Capì che Ofelia era sulla sua stessa lunghezza d’onda. Lui non aveva voluto nulla in cambio, quando si era dichiarato. Lei, invece, voleva qualcosa.
Thorn posò la bocca sulla sua senza esitazione. Non era certo che un bacio fosse quel qualcosa che Ofelia voleva, ma appena sentì le sue labbra morbide incontrare le sue, capì che era quello che voleva lui. Che quella era la sua priorità. La baciò senza timidezza, incerto su come fare eppure animato da una forza di volontà insopprimibile. I contatti fisici gli davano il disgusto tanto quanto quello di Ofelia, e solo il suo, gli facevano l’effetto opposto.
Ne voleva di più. Ne voleva ancora.
Fu acutamente cosciente di come il suo mento ispido di barba accarezzasse quello piccolo e morbido di Ofelia, e si pentì di non essersi rasato quella mattina, preso com’era dal lavoro. Mosse le mani verso di lei, quasi con titubanza, ma quando la sentì muoversi per scostarsi non ebbe incertezze. Le prese il viso tra le mani, colto da una smania incontrollabile, fremente d’eccitazione. Era così… piacevole il contatto con le sue labbra umide, il calore del suo respiro, la morbidezza della sua pelle. Le infilò le dita tra i capelli, desiderando toccare di più, averla più vicina, di più, di più. Caddero altri documenti, ma nessuno dei due ci fece caso.
E finalmente Ofelia reagì, arrendendosi alla sua volontà, per una volta. Rispose al bacio muovendo la bocca insieme a lui, respirando con lui, schiudendo le labbra per farlo avvicinare a sé più di quanto si fosse mai permessa di fare con qualcun altro. Il bacio, da casto com’era cominciato divenne ben altro, umido, affannato, e Thorn si scoprì a dover trattenere, a stento, dei mormorii di apprezzamento che gli raschiavano la gola, pronti ad uscire. Non riusciva a credere a ciò che stava facendo, e soprattutto a quanto gli piacesse. Anche un po’ di più.
Fu costretto a staccarsi, proprio costretto, quando i suoi polmoni iniziarono a bruciare per la mancanza di ossigeno. Era stata un’esperienza… incredibile. Era davvero assurdo che toccare un altro essere umano potesse essere così galvanizzante per uno come lui, che aveva sempre aborrito i contatti. Si stava già chiedendo quando avrebbero potuto rifarlo.
Inchiodò gli occhi a quelli di Ofelia, che lo scrutavano sorpresi da dietro gli occhiali. Sorpresi, ma non spaventati, inorriditi o pentiti. Era evidente che il bacio fosse piaciuto anche a lei.
- Vi avverto. A proposito di quel che avete detto non vi permetterò di avere ripensamenti.
Se già era stato difficile sopportare il fatto che lei non lo amasse, e non lo avrebbe mai amato, ora che finalmente aveva raggiunto il suo obiettivo e Ofelia ricambiava i suoi sentimenti, non l’avrebbe fatta allontanare per nulla al mondo. Se prima starle lontano era stato una fonte di distrazione, fastidioso anche, da quel momento in poi Thorn capì che sarebbe stato un vero e proprio calvario. Un dolore fisico. I suoi artigli, per una volta, si quietarono, in pace con se stessi e con lui. No, se Ofelia avesse cambiato idea per lui sarebbe stata la fine. In molti, troppi sensi.
Tenne le mani strette attorno al suo viso delicato, restio a lasciarla andare, come a voler infondere i suoi sentimenti in quel contatto. La verità era che non era ancora pronto per staccarsi da lei; voleva stare ancora un po’ in quell’anfratto di tempo solo loro, senza preoccupazioni sul passato o sul futuro. Solo loro due, insieme.
- Vi amo – ribadì lei, con decisione, facendo mancare qualche battito al cuore di Thorn.
Avrebbe potuto starla ad ascoltare mentre glielo ripeteva ancora e ancora, all’infinito, continuando a dubitare delle sue parole tanto sembravano una chimera. E invece erano vere.
Ofelia lo amava. Glielo aveva detto non una, ma due volte. Non un dubbio aveva attraversato i suoi occhi sinceri, non un’incrinatura aveva alterato la sua voce ferma. La sua confessione le sgorgava dritta dall’anima, e Ofelia, al contrario di lui, non parlava se non con il cuore in mano.
- È quello che avrei dovuto rispondervi quando mi avere chiesto perché ero venuta a Babel. È quello che avrei dovuto rispondervi ogni volta che volevate sapere cos’avevo da dirvi.
È quello che lui avrebbe voluto sentirsi dire ogni volta che la vedeva, non solo a Babel, ma anche al Polo, molti anni prima. Non c’erano parole che avrebbe voluto udire di più.
- Certo, desidero penetrare i misteri di Dio e riprendere il controllo sulla mia vita, ma… giustappunto voi fate parte della mia vita.
Era suo marito. E lei era sua moglie. Il loro legame era stato stipulato giuridicamente tempo prima, e finalmente era stato riconosciuto anche da lei. Il matrimonio era fatto per essere spezzato solo dalla morte, e Thorn seppe con certezza che nemmeno quella avrebbe potuto cambiare la loro condizione. Lui era parte della vita di Ofelia, e non avrebbe mai voluto appartenere ad altri se non a lei.
- Vi ho dato dell’egoista senza mettermi mai nei vostri panni. Vi chiedo scusa.
Mentre la voce le moriva su quelle parole, una lacrima silenziosa le sfuggì dall’angolo dell’occhio, andandosi a raccogliere sul suo pollice. Lui sgranò gli occhi, colpito. Più di tutte le altre cose che Ofelia gli aveva rivelato, confessato, palesato, le sue scuse furono quelle che lo colpirono di più, a parte la dichiarazione. Finalmente, finalmente Ofelia si era resa conto che tutto quello che lui aveva fatto, faceva e avrebbe fatto era per lei. Per lei e nessun altro; non per il suo tornaconto personale, per il suo orgoglio e la sua ambizione, ma per tenere al sicuro lei.
Era sollevato, così sollevato e leggero che non percepì nemmeno più la pressione degli artigli, come se si fossero addormentati per un attimo. Combatté l’enorme, pesante stanchezza che gli era crollata addosso in un secondo, crogiolandosi nella dolcezza di quell’ultima asserzione.
Non era un egoista. Ofelia lo sapeva. Aveva visto del buono in lui. Nient’altro contava.
Era più che mai urgente tenerla al sicuro, dunque. Rafforzò la presa sul suo viso, cercando di parlare con il tatto oltre che con la bocca, come a voler infondere in lei una lettura inversa. – Devo insistere. Non avvicinatevi mai più alle mie spalle o negli angoli morti del mio campo visivo, non fate movimenti che non possa vedere, o se lo fate avvertitemi ad alta voce.
Come a voler confermare il suo avviso, gli artigli si svegliarono dal torpore, rimettendosi in allerta, pronti. Non li aveva mai odiati più che in quel momento, mentre lo costringevano a dedicare attenzione a loro invece che alla pelle di Ofelia contro le sue mani, il suo corpo ancora così vicino, troppo vicino, al suo.
All’improvviso un lampo di comprensione le attraversò gli occhi. – Non avete più il controllo dei vostri artigli?
Aveva capito, dunque, l’incresciosa situazione in cui si trovava. Vergognandosi di se stesso, e odiando ciò che era, strinse le labbra, increspò il viso, come a voler ingabbiare il quel modo il suo nefasto e sanguinario potere familiare.
- Posso trattenerli se non vi percepiscono come una minaccia, ma farete bene a osservare le mie raccomandazioni per evitare di scatenare riflessi di difesa. È molto semplice, non potete permettervi di essere sbadata con me.
Non più del solito almeno, per quanto Ofelia potesse evitare di essere sbadata. Un’immagine fugace gli attraversò la mente: lei insanguinata, sfregiata da lui. Che nonostante tutto, lo sapeva, non lo avrebbe considerato un mostro, che invece era. O sarebbe stato. Era intollerabile, non poteva permetterlo.
- Com’è successo? – balbettò lei, per nulla preoccupata di ciò che lui poteva accidentalmente infliggerle. – L’inoculazione del mio animismo ha forse creato un’instabilità nel vostro potere familiare?
Thorn contrasse le sopracciglia, terribilmente a disagio. Quell’ammissione, quella situazione, quella mancanza di controllo di se stesso gli causava più umiliazione della gamba storpia, della sua fisionomia così longilinea e dinoccolata, della corporatura ossuta, delle cicatrici che lo ricoprivano come scarabocchi su un foglio di carta, dell’altezza spropositata. Il suo aspetto fisico, per quanto anodino e insignificante, non era fonte di vergogna. La mancanza di padronanza su una potenziale arma sì. Avrebbe dato qualsiasi cosa per riottenere il governo dei suoi artigli.
Sperava solo che Ofelia non ne fosse orripilata. Ma come sarebbe potuto essere altrimenti? In una situazione del genere non l’avrebbe biasimata se si fosse ritratta da lui, schifata e delusa.
- La cosa vi mette a disagio?
Sul viso di Ofelia la sorpresa lasciò presto il posto alla consapevolezza, e inaspettatamente il suo sguardo parve quasi ammorbidirsi, come se avesse capito qualcosa di importante. Sembrava che con quell’ammissione lui le avesse tolto un peso dalle spalle. Come al solito, le sue reazioni erano del tutto incomprensibili e improbabili.
Lo guardò dritto negli occhi, decisa e rassicurante, quando gli disse: - No. Adesso che lo so starò attenta.
Com’era possibile che non fosse disgustata da lui? Com’era possibile che fosse ancora lì, tra le sue braccia, sul suo corpo, e non in fuga da qualche parte, spaventata? Com’era possibile che Ofelia lo amasse davvero, al punto di sopportare tutte le sue manie, la sua asocialità, la sua totale incapacità di parlare di qualcosa che non fossero obiettivi da raggiungere o lavoro? Che non provasse repulsione per ciò che era, per il suo aspetto, per ciò che aveva fatto, per chi era?
Provò un calore intenso nelle viscere, come un’onda d’urto che si sparse nelle sue vene, accelerandogli il battito. Era un’iniezione di fiducia, di consapevolezza nel fatto che Ofelia era una persona buona, che guardava in profondità, e forte, che non si fermava di fronte al primo inconveniente. Lui continuava a darle meno credito di ciò che meritava.
Strinse con forza le dita sul suo viso, lottando con se stesso per non baciarla, resistendo a quel nuovo impulso che non sapeva come gestire. La voleva vicino, la voleva stretta contro di sé, su di sé, dentro di sé, con sé. Le sembrò troppo lontana, nonostante fosse a pochi centimetri da lui, leale, sincera, onesta.
Non poteva baciarla lì. Non poteva fare altro, lì. Ofelia meritava di meglio. Quel pensiero gli diede forza, scacciando ogni altra immagine incontrollata che gli invase il cervello. Non ultima, quella delle sue mani che scendevano dal suo viso per accarezzarle i capelli scarmigliati, il collo, le spalle, le braccia. I fianchi. Per attirarla a sé, perdersi in lei.
Invece lasciò cadere le mani, privo di energie. Concentrati.
- Voi… la scatola degli attrezzi è sotto il letto di camera mia, potete portarmela? – le chiese, tentando di rimettere ordine nelle sue priorità. Per prima cosa doveva riparare l’armatura. Poi… - Devo trovare un altro visore di microfilm e rimettermi al lavoro, ma per questo ho bisogno della gamba.
Quando cercò di piegare il ginocchio non poté trattenere una smorfia. Senza il sostegno dell’armatura era davvero difficile usare l’arto storpio, e lui odiava essere rallentato. Specialmente se a rallentarlo era il suo stesso corpo.
Thorn fece fatica ad interpretare l’espressione di Ofelia quando gli rispose: - È davvero così urgente?
Sembrava… corrucciata? Contrariata? Pareva restia a staccarsi da lui, ad allontanarsi. Che anche lei volesse indugiare ancora in quei contatti?
Thorn prese l’orologio da taschino in modo meccanico, un gesto che in tutti quegli anni gli era mancato. Sentire il metallo freddo e liscio, perfettamente rotondo, sotto le dita, gli aveva sempre dato un senso di pace, come se l’orologio in sé potesse sistemare ogni suo grattacapo. Lo aiutava a rimettere ogni questione nella giusta prospettiva. E gli segnava il tempo. Tempo che, in quel momento, proprio non aveva.
Contrasse le labbra, facendosi forza per staccarsi mentalmente da Ofelia.
- Lo è. Anche un po’ di più.
Sapeva che Ofelia non avrebbe collaborato finché non le avesse rivelato tutto, così cedette e le disse la verità.
- Ho tempo fino alla fine dei festeggiamenti per trovare il libro che mi hanno chiesto i Genealogisti, dopo di che, se non ho niente in mano faranno sparire sir Henry dalla circolazione. Mi portate la scatola degli attrezzi, per piacere?
Mise in tasca l’orologio, usando anche la forma di cortesia più comune, poco avvezzo a pronunciarla, per spronare Ofelia a collaborare. Aveva davvero fretta. Doveva trovare quanto cercava quanto prima, per poter… stare ancora con lei. Senza l’ansia della scadenza imminente, per giunta. Non desiderava altro.
Ofelia, comunque, sembrava più lenta del solito a darsi una mossa. Era sbalordita, e non in senso positivo.
- Faranno sparire sir Henry dalla circolazione. Sir Henry siete voi.
Aveva una mente brillante, era tenace, astuta, talvolta geniale… e incredibilmente poco collaborativa quando serviva. Non era la prima volta che faticava ad afferrare dei concetti basilari.
- È solo un’identità creata dai Genealogisti. Possono riprendersela in qualsiasi momento e darmi in pasto a Dio o peggio, cosa che faranno senza la minima esitazione se non do loro ciò che vogliono prima dell’alba. La scatola degli attrezzi, per favore.
L’alba si avvicinava secondo dopo secondo, ticchettio dopo ticchettio. Aveva bisogno di Ofelia, era disposto ad ammetterlo, per una volta, e proprio in quel momento lei lo ostacolava.
Sembrava indignata, dietro lo sgomento. – Sapevate fin dall’inizio di avere il tempo contato e non mi avete detto niente?
- Dirvelo sarebbe stato controproducente.
Ofelia doveva rimanere lucida, non farsi prendere dall’ansia. E gli serviva uno sguardo esterno, fuori dai giochi. Non aveva voluto escluderla per mancanza di fiducia, ma per aumentare le possibilità di riuscita. Per avere più opportunità.
D’un tratto, invece che pronta a baciarlo nuovamente, sembrava più in procinto di arrabbiarsi seriamente con lui. Thorn sperava che quella condizione non fosse permanente, ma avrebbe accettato il suo livore di buon grado, se fosse servito a farla muovere.
- Perché vi siete alleato con gente simile? Perché mettete sempre in pericolo la vostra vita?
Si sentì pervadere dal sollievo nonostante la situazione critica e disperata. L’ira di Ofelia era causata dalla sua premura per lui, dalla sua preoccupazione. Non si era mai sentito così considerato in vita sua. Lui influenzava la sfera emotiva di Ofelia. Non avrebbe voluto farla stare male, ma in quel frangente era necessario. Stare con lui aveva delle conseguenze, non poteva più nasconderglielo. Cercò di raddrizzarsi e controllò automaticamente il suo aspetto quando si accorse della devastazione che li circondava. Il primo passo per riuscire in un lavoro, qualunque esso fosse, era l’ordine. La disciplina. Non poteva stare in quel caos. Né mentale, né materiale.
Le rispose quasi senza pensarci, preso com’era dal controllare che almeno i suoi abiti fossero in ordine. - Perché la mia vita è l’unica cosa che mi sento in diritto di mettere in gioco. La scatola degli attrezzi, vi prego. E anche l’alcol visto che ci siete.
Era umiliante dover supplicare aiuto a quel modo, per uno come lui, che non aveva mai avuto bisogno di nessuno. Eppure era anche… rassicurante sapere di non essere solo, di poter contare su qualcuno. In ogni caso, aveva bisogno di ripulirsi. Sentiva la polvere e le scatole cadute in modo caotico aggrapparsi e appicciarsi alla sua pelle come disgustose sanguisughe. Non si sentiva più degno di toccare Ofelia, doveva disinfettarsi. Sistemarsi la gamba e disinfettarsi. Una volta fatto quello, si sarebbe concentrato.
- Ma perché? – lo rimbeccò Ofelia, imperterrita, inamovibile. Thorn amava la sua cocciutaggine molto poco, in quel momento. Ma la amava molto di più per il vivo timore che provava. Paura per la sua sorte. – Perché vi infliggete una cosa del genere? Perché vi costringete continuamente a sfidare forze al di sopra della vostra portata? E non venite a dirmi che è senso del dovere. Voi non dovete niente al mondo. Che ha fatto il mondo per voi?
La tensione che lo attanagliava svanì completamente, scacciata dalle dure parole di Ofelia. Rilassò la fronte. Era passata dal considerarlo un egoista della peggior specie a credere che fosse il più grande filantropo dell’umanità. Farlo per il mondo? Senso del dovere? Odiava quasi chiunque, in quel mondo. Non doveva nulla a nessuno… se non a lei.
Lei, che era forse l’unica cosa che rendeva la sua esistenza vivibile. L’unica cosa per cui valesse qualsiasi sacrificio. L’unica cosa per cui avrebbe rischiato tutto ciò che aveva, vita compresa. Ofelia meritava tutto. Il meglio.
- Credete che lo faccia per il mondo?
La forza degli artigli crebbe in lui, accompagnata da quelle parole. Ofelia meritava di vivere in un mondo in cui potesse essere libera, e al sicuro. Non in quel mondo marcio e corrotto, controllato, falso, pericoloso. All’improvviso si sentì vicino al suo dono familiare, comprese la brama degli artigli. Se avesse avuto davanti Dio non avrebbe esitato a sfogarsi.
- Dio ha detto che non vi avrebbe perso di vista, proprio davanti a me. – La scena, vivida nella sua mente, gli fece stringere la mascella mentre la rabbia, cocente, lo divorava. – Sarò pure un marito scadente, ma non permetto a nessuno, soprattutto non a lui, di molestare mia moglie. Non posso strapparvi a Dio, ma posso strappare lui da voi. E sarà quello che farò non appena vi deciderete a portarmi quella benedetta scatola degli attrezzi. Se esiste un libro che contiene il segreto di Dio e che permette di individuare una falla nella sua invulnerabilità, io lo troverò.
Non si era mai espresso con più chiarezza, non aveva mai reso più espliciti i suoi intenti. Faceva tutto per lei. Nient’altro aveva più importanza. Si sentiva svuotato, sotto tutta quell’angoscia e quella rinnovata determinazione. Non aveva più segreti con lei, si era aperto completamente, mostrando quanto fosse possessivo e implacabile.
Sperava che Ofelia capisse. E lo aiutasse. Ma soprattutto, sperava che fosse disposta a stargli sempre vicino, da quel momento in poi. Lei parve volergli comunicare proprio quello, mentre lo inchiodava con lo sguardo da dietro le spesse lenti degli occhiali, ostinata. Poi, finalmente, e malauguratamente, ammise una piccola parte irragionevole di Thorn, si allontanò da lui per andare a prendere la scatola degli attrezzi in camera. La seguì con lo sguardo, notando in lei cose verso le quali in precedenza non si era mai permesso nemmeno di abbozzare un pensiero. La curva dei fianchi, il modo in cui la toga le scendeva sul corpo, le parti di pelle nuda, lì dove era possibile vederla.
Thorn deglutì e serrò per un istante gli occhi, incapace di controllare quell’ondata di nuove emozioni che provava. Faticava ancora a rendersi conto che lui si sentiva attratto da quella pelle, invece che respinto. Nutriva il desiderio estraneo di… toccarla, percepire come fosse al tatto.
Quando riaprì gli occhi era di nuovo padrone di sé, e Ofelia stava incedendo verso di lui. – Riparatevi l’armatura e lasciate perdere i microfilm. So dov’è il libro.
So dov’è il libro. Quel maledetto libro che cercava da tempo immemore. E lei lo aveva trovato in pochi mesi.
Thorn era estremamente contrariato, mentre si sistemava con gesti rapidi e precisi l’armatura. Stupito, anche se non avrebbe dovuto. Irritato, per il fatto che lei lo aveva preceduto.
E terribilmente attratto da lei.
Mentre la seguiva fuori dal Memoriale, lasciandosi alle spalle quel disordine che non era più un suo problema, Thorn sentì verso di lei uno slancio d’amore che era più fisico che altro. Cercò di non guardarla mentre incedevano uno di fianco all’altra, in silenzio.
Avrebbe dovuto parlarle il giorno dopo, in seguito al completamento del suo compito.
Doveva parlarle. Perché non era più disposto ad amarla platonicamente, a distanza, di nascosto, in silenzio. Ed era pronto ad ammetterlo apertamente, senza più dubbi o indecisioni.
La voleva.
L’amava, e voleva farla sua.
Il pensiero era così intenso da far quasi male, ma finché ci fosse stato quel dolore ci sarebbe stato anche un “loro”, e Thorn non desiderava altro.
  
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