Crossover
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Autore: Registe    26/07/2020    4 recensioni
Quarta storia della serie "Il Ramingo e lo Stregone".
La guerra tra l'Impero Galattico e la famiglia demoniaca si è conclusa, ma non senza un costo. Vi è una cicatrice profonda che attraversa mondi e persone, le cambia, rimane indelebile a marchiare i frammenti di tutti coloro che hanno la fortuna di essere ancora vivi. Qualcuno decide che è il momento giusto per partire, cercare di recuperare qualcuno che si è perso. Qualcuno decide di dimenticare tutto e lasciarsi il passato alle spalle.
Qualcun altro decide invece di raccogliere i frammenti di una vita intera e metterli di nuovo insieme, forse nella speranza che lo specchio rifletta qualcosa di diverso.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Film, Libri, Videogiochi
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
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Capitolo 7 - Nella notte e nel buio







Stormtrooper imperiali








Le gambe di Vexen erano incollate al pavimento.
“Polizia di Coruscant! Esci fuori con le mani in alto o sfondiamo la porta!”
La scarica di colpi contro la porta aumentò di intensità. Vexen non osava nemmeno respirare, chiedendosi quanto mancasse prima che i poliziotti si stancassero di usare i pugni e passassero al fuoco dei blaster. O a qualcosa di peggio.
Riuscì a recuperare quel poco di presenza di spirito necessaria a spegnere la luce in camera di Zexion e infilarsi nuovamente lo zaino sulle spalle. Forse, se fosse rimasto completamente immobile e in silenzio, avrebbero pensato che in casa non ci fosse nessuno e se ne sarebbero andati.
Dentro di sé sapeva già che era una speranza vana.
Ad un certo punto, senza preavviso, i colpi si interruppero.
Nella completa oscurità, Vexen osò muovere qualche passo verso la porta d’ingresso. Si chinò leggermente in avanti per ascoltare. Le voci provenienti dall’esterno erano attutite dallo strato di duracciaio, ma si riuscivano comunque a distinguere le parole.
“Joe, forse siamo arrivati troppo tardi. La segnalazione dal sistema di antifurto è arrivata in centrale un’ora fa.”
Vexen si morse l’interno del palato, soffocando una serie colorita di bestemmie. Sistema di antifurto. Ma certo. Come aveva potuto essere così incauto?
“Ma è stata rilevata solo un’entrata, non un’uscita. No Bill, te lo dico io, il bastardo è ancora là dentro. E stavolta giuro che lo prendiamo.”
“Ormai ha esaurito la sua fortuna, ragazzi” sogghignò una terza voce, dal timbro femminile. “Il malfunzionamento del droide sonda che lo seguiva fuori dall’ufficio anagrafico gli ha regalato qualche ora di libertà in più… ma prima o poi doveva commettere un errore. Questi Ribelli avranno anche armi e astronavi, ma restano sempre dei contadini pezzenti che hanno alzato un po’ troppo la testa.”
Fortuna. Era arrivato sano e salvo fin lì soltanto perché aveva avuto fortuna. L’intelligenza di cui andava tanto fiero e l’abilità con le trasmutazioni alchemiche non c’entravano nulla.
Camus direbbe che ho peccato di superbia.
Quella consapevolezza bruciava dritta nell’orgoglio, ma gli diede la forza di reagire, propagandosi in tutto il suo corpo come una miccia esplosiva che mise in moto allo stesso tempo gambe e cervello. Si guardò furiosamente attorno, valutando le proprie opzioni. Anche con l’elemento sorpresa della magia a disposizione, le sue possibilità di mettere al tappeto almeno tre soldati addestrati erano pressoché nulle. Il che significava che doveva trovare un’altra via d’uscita.
Gettò un’occhiata alla finestra nella stanza da letto. Nessun cornicione lungo la facciata del grattacielo, nessun appiglio. Altezze vertiginose rapirono per un attimo il suo sguardo, proiettandolo verso una caduta di chilometri e chilometri attraverso i nastri luminosi delle file di veicoli in perenne movimento, avvolti come le spire infinite di una catena di brillanti attorno ad ogni edificio del pianeta. Da quell’altezza il terreno non era neanche visibile.
Fuori la porta, le voci si fecero più concitate.
“Direi che il poliziotto buono non ha funzionato. Passiamo al poliziotto cattivo. Joe, passami le granate a impulsi!”
Vexen si impose di pensare più rapidamente. Porta e finestre erano fuori questione. I condotti di aerazione, spesso provvidenziali per tirare gli eroi fuori dai guai, esistevano solo negli olofilm proiettati talvolta alla mensa delle Case di Guarigione. Percorse le quattro stanze a larghi passi con la frenesia di un animale in gabbia.
Quattro stanze. Le finestrelle tutte uguali visibili dall’esterno. Quattro porte sul pianerottolo del trentaseiesimo piano. Ogni appartamento del nucleo abitativo doveva avere la stessa identica pianta, occupare lo stesso numero di metri quadrati, come tante cellette collocate ordinatamente una sopra l’altra.
Si fermò di colpo nel bel mezzo della cucina. Se le sue deduzioni erano corrette, oltre la parete di destra doveva trovarsi la cucina della signora rodiana che aveva incontrato quel pomeriggio.
Spostò il frigorifero di lato con una spallata e si infilò a forza nel pertugio tra quello e il mobile dell’angolo cottura, estraendo il gessetto dalla tasca e iniziando a tracciare segni sulla parete con gesti ampi e frettolosi.
Oltre la porta d’ingresso, una serie di penetranti bip lo informò che un qualche tipo di dispositivo diabolico era appena entrato in funzione.
La fretta gli fece tremare la mano, costringendolo a cancellare e rifare tre volte la seconda runa catalizzatrice. Stavolta bestemmiò ad alta voce, senza curarsi della segretezza.
I bip divennero più rapidi e ravvicinati.
Il cerchio iniziò a brillare di luce bianca proprio mentre all’esterno i circuiti del meccanismo di apertura della porta sfrigolavano surriscaldati da una scarica ad altissimo voltaggio. La puzza di plastica e metallo bruciati si infilò insieme a lui nel buco ora spalancato sulla parete, seguendolo fin dentro la cucina della rodiana.
Aveva un minuto scarso, massimo due, prima che le cariche si disperdessero e i poliziotti potessero toccare di nuovo la porta e aprirla.
Ancora una volta, ebbe fortuna. La padrona dell’appartamento in quel momento si trovava proprio in cucina e, vedendolo sbucare di colpo dalla parete dell’appartamento adiacente, aveva fatto cadere a terra la tazza della bevanda scura che stava sorseggiando ed era rimasta paralizzata al centro della stanza, gli occhi da insetto dilatati all’estremo come due buchi neri ricolmi di terrore. Vexen, però, era arrivato preparato.
Non aveva scelto a caso quella via di fuga. Dalle sue ricerche sapeva che la struttura ossea dei rodiani era più minuta e delicata di quella umana, e in effetti, quando afferrò le braccia della donna per bloccargliele dietro la schiena, riuscì a stringerle entrambi i polsi sottili con una sola mano. Con l’altra le tappò la bocca, evocando uno spesso strato di ghiaccio per avere la certezza matematica che non urlasse. Poi fece apparire tra le dita una sottile lama gelida e gliela accostò delicatamente contro il collo.
La testa della povera rodiana gli arrivava sì e no a metà del petto. Non provò nemmeno a scalciare o a liberarsi, completamente paralizzata dal terrore. La sentì tremare in modo incontrollabile contro di sé e vide i suoi grandi occhi neri ricoprirsi di una patina liquida, che infine si sciolse in due grosse lacrime che silenziosamente le solcarono le guance.
“Adesso ascoltami bene. Non voglio farti del male né rubarti nulla. Mi serve solo che tu mi apra la porta della tua casa.” Anche la sua voce tremava come il piccolo corpo della rodiana, ma lei era troppo spaventata per rendersene conto.
“Adesso ti porterò lì, ti libererò una mano, e tu mi aprirai. Dopodiché giuro che sparirò alla velocità della luce e non mi vedrai mai più. Tutto chiaro?”
La donna riuscì a compiere un esitante cenno di assenso con la testa, e Vexen la spinse leggermente in avanti, facendole cenno di iniziare a muoversi. Aveva calcolato che potessero esserci altri membri della famiglia in casa, ma un appartamento del genere non poteva ospitare più di tre, massimo quattro persone, e le sue possibilità sarebbero comunque state più alte contro un gruppo di civili rodiani piuttosto che contro gli agenti della polizia di Coruscant.
I pochi metri che lo separavano dalla porta gli sembrarono snodarsi in eterno. Non percepiva più rumori provenire dall’appartamento di Zexion, ma le sue orecchie erano invase da un rimbombo cupo e forsennato, il martellare del sangue che il cuore, spronato dall’adrenalina, pompava a ritmo frenetico nel cervello. Ad un certo punto non fu più sicuro che i tremiti che sentiva provenissero davvero dalla piccola rodiana stretta tra le sue braccia.
Infine la donna, con un braccio libero, sbloccò la serratura della porta d’ingresso. Vexen la spinse di lato, sussurrandole: “Il ghiaccio si scioglierà tra qualche minuto.” prima di imboccare la tromba delle scale alla velocità del vento.
Con la coda dell’occhio vide la porta di Zexion aperta, i cardini ancora fumanti. Sentì le urla confuse dei poliziotti provenire dall’interno, poi ci fu spazio solo per la corsa. Scese cinque o sei piani, si lanciò in un ascensore che stava per chiudersi e raggiunse la hall del nucleo abitativo in meno di un minuto. Scostò a forza di gomitate un paio di residenti che gli ostruivano la strada e finalmente si ritrovò all’aria aperta, respirando a pieni polmoni la notte di Coruscant.
Anche a quell’ora le piattaforme e le corsie aeree erano affollatissime, ma stavolta la confusione giocava a suo vantaggio, perché disperdersi tra la folla anonima e variopinta era la sua unica possibilità per scrollarsi di dosso gli inseguitori. Zigzagò tra i passanti, che non fecero assolutamente caso a lui, probabilmente convinti di trovarsi davanti l’ennesimo lavoratore pendolare che non voleva assolutamente perdere il prossimo speederbus diretto a casa. Voltato un angolo, una luce rossa attirò la sua attenzione verso l’alto: a pochi palmi dalla sua testa, una sfera metallica sospesa in aria puntava quello che sembrava un grosso obiettivo rotondo direttamente sulla sua faccia. Una voce metallica e gracchiante proruppe dal nucleo del piccolo droide.
Obiettivo rilevato. Ripeto, obiettivo rilevato.”
“Non stavolta, pezzo di ferraglia!”
Lo colpì in pieno con un getto di ghiaccio, facendolo precipitare oltre il bordo della piattaforma in un viaggio di sola andata verso il suolo del pianeta. Stavolta diversi passanti si voltarono allibiti, e sentì qualche voce rabbiosa inseguirlo mentre si gettava di nuovo a capofitto tra la folla, ma l’indifferenza della grande metropoli infine ebbe la meglio e nessuno se la sentì di sprecare tempo a corrergli dietro. La marea di gente si richiuse nuovamente alle sue spalle, facendogli da scudo.
Dopo qualche metro scorse uno speederbus non troppo pieno e ci saltò sopra al volo. Si accasciò letteralmente contro uno dei pali metallici di sostegno, cercando di riprendere fiato. Fuori dal finestrino le luci di Coruscant accelerarono, allontanandolo dal luogo dove Zexion era vissuto per tre lunghissimi anni per catapultarlo verso una direzione ignota.
Non riusciva a capire che tipo di errore avesse commesso all’ufficio anagrafico. Il suo documento falso aveva superato i controlli in due spazioporti diversi, dove la sicurezza era immensamente più elevata rispetto a un banale ufficio pubblico. Forse i suoi dati erano rimasti nei database imperiali e non avevano retto a controlli più approfonditi.
In ogni caso si trovava in un mare di guai. Le forze dell’ordine imperiali conoscevano sia il suo volto che il suo alias, perciò non poteva nemmeno più prendere una nave per lasciare il pianeta. E non aveva l’ombra di un credito in tasca per pagare qualcuno che lo portasse via da Coruscant clandestinamente. Camus avrebbe potuto aiutarlo, ma al momento era in missione per l’Alleanza e non prevedeva di rientrare presto sulla Terra II.
Ciononostante, le sue dita scivolarono istintivamente nella tasca della giacca e si chiusero intorno all’olopad. Non aveva altra scelta. Estrasse il dispositivo, lo avvicinò alle labbra e iniziò a registrare un messaggio.
“Camus, c’è stata una complicazione. Avrei bisogno che… “
La voce gli morì in gola. Lo speederbus stava rallentando in prossimità di una fermata, e attraverso il finestrino Vexen riconobbe le ormai familiari silhouette cilindriche dei droidi controllori stagliarsi contro il gigantesco pannello pubblicitario al neon sulla facciata del vicino grattacielo. Era salito senza biglietto, e se i pezzi di ferraglia gli avessero chiesto di mostrare i documenti lo aspettava un bel viaggio di sola andata verso un centro di detenzione imperiale.
Non appena le porte scorrevoli si aprirono si affrettò a saltare fuori dal mezzo dall’uscita posteriore. I droidi salirono fluttuando dalla parte del conducente, e nessuno dei due lo bloccò per chiedergli il biglietto. La testa del secondo, però, ruotò per un istante nella sua direzione. Vexen si vide avvolgere da una luce verde e d’istinto mise le mani davanti al viso per proteggersi, ma le ritirò un attimo dopo, accorgendosi che non stava provando dolore o altre sensazioni sgradevoli. La realizzazione di cosa era appena successo lo colpì un attimo prima che la voce metallica del droide annunciasse a volume spropositato: “Soggetto pericoloso individuato. Inizio trasmissione alle forze dell’ordine.
In quel momento lo schermo al neon sfarfallò, e l’istante successivo la pubblicità del villaggio vacanze su Ithor venne sostituita da una gigantografia della sua faccia con il nome Arjen Summerwind a caratteri cubitali, probabilmente leggibili da due o tre settori di distanza.
“Dèi ladri!”
Vexen ricominciò a correre. Travolse chiunque gli capitò a tiro senza voltarsi indietro, sparando per precauzione qualche raffica di aghi di ghiaccio dietro di sé per scoraggiare eventuali inseguitori. Sapeva che i droidi controllori non disponevano di armi da fuoco, ma in pochi secondi la piattaforma avrebbe iniziato a brulicare di forze di polizia e lui doveva allontanarsi il più possibile prima che gli tagliassero ogni via di fuga. Senza rallentare, estrasse a fatica la sciarpa dallo zaino e se la avvolse alla bene e meglio davanti al viso, sperando che bastasse almeno a confondere gli scanner più superficiali.
Ormai si muoveva completamente a caso, le gambe sospinte dall’adrenalina e dal terrore. Imboccò l’ingresso di un locale notturno da cui proveniva un’assordante musica sintetica, si fece strada tra i tavoli gremiti di avventori e uscì da un ingresso posteriore, ritrovandosi su una piattaforma più stretta e meno affollata. Poco lontano vide un ascensore pubblico con appena cinque persone in fila, e riuscì ad infilarsi dentro dietro di loro poco prima che le porte si chiudessero.
Appoggiò la schiena a una parete, respirando pesantemente. L’ascensore iniziò a scendere, rapidissimo e silenzioso.
Attraverso la cabina fatta interamente in vetracciaio, Vexen scandagliò l’ambiente circostante. I maledetti droidi sonda, minuscoli e con le loro subdole lucine rosse, erano incredibilmente difficili da distinguere nel caleidoscopio della notte di Coruscant. Colto da un’improvvisa paura, sollevò la testa e scrutò con attenzione il soffitto dell’ascensore, alla ricerca di eventuali telecamere. Non gli parve di notarne.
Chissà da quante si era già fatto inquadrare senza saperlo.
Strinse i pugni, cercando di concentrarsi. Doveva trovare un posto sicuro. Un rifugio dove nascondersi qualche giorno fino a che Camus non avesse trovato il modo di mandargli degli aiuti. Ma esisteva un posto del genere su un pianeta in cui ogni droide, ogni sensore, ogni schermo poteva individuare e trasmettere la sua posizione in qualsiasi momento? Si sentiva come una mosca imprigionata in una gigantesca ragnatela: poteva provare a muoversi, resistere giorni interi perfino, ma prima o poi il ragno sarebbe arrivato a divorarla. Forse la sua ombra gravava già sopra di lui, in quieta attesa.
Osservò la gente che lo circondava, chiedendosi quanti di loro fossero informatori imperiali o avessero visto la sua gigantografia segnaletica in giro per i grattacieli. La maggior parte aveva l’aria di lavoratori stanchi di ritorno a casa. Un giovane Twi’lek (almeno gli sembrava fosse un Twi’lek) muoveva la testa avanti e indietro al ritmo di qualsiasi musica le sue gigantesche cuffie gli stessero pompando nelle orecchie. Ad ogni livello, quando le porte si riaprivano, Vexen si irrigidiva, aspettandosi squadre di soldati pronte a fare irruzione. Dopo diversi minuti, però, si accorse che l’ascensore andava svuotandosi. Le persone che scendevano erano molte di più di quelle che salivano.
Al livello 22 rimasero soltanto lui e il Tw’lek con le cuffie.
Al livello 20 anche quest’ultimo scese, lanciandogli uno sguardo di puro stupore prima di stringersi nelle spalle e allontanarsi di corsa. Vexen seppellì ancora di più il viso nel tessuto morbido della sciarpa, coprendosi fin quasi sotto gli occhi. Il ragazzino lo aveva riconosciuto? Stava andando a denunciarlo?
Al livello 17, mentre Vexen si stava chiedendo se fosse il caso di scendere oppure o no, il pavimento tremò lievemente, facendogli perdere per un attimo l’equilibrio. L’ascensore si era arrestato di colpo. All’interno della cabina, le luci si spensero tutte insieme.
Diciassettesimo livello. Ultima fermata. I passeggeri sono pregati di scendere” annunciò una voce pre-registrata. “L’ascensore inizierà la risalita tra cinque minuti.”
Le luci, oltre le pareti di vetracciaio, apparivano ora più rade e fioche. Vexen impiegò qualche attimo a rendersi conto di quale altro elemento gli sembrasse terribilmente fuori posto: il silenzio.
Premette il pulsante di apertura delle porte con le dita che tremavano.
Il primo particolare che lo colpì fu che a quell’altezza non si vedevano corsie aeree, e il traffico di veicoli era pressoché inesistente. Il secondo fu la lattina schiacciata sulla quale rischiò di inciampare non appena mise piede sulla piattaforma del diciassettesimo livello.
Fino a quel momento, Vexen era sempre rimasto ammirato dalla pulizia eccezionale di tutti gli edifici e ambienti pubblici malgrado il traffico impressionante di mezzi e persone su ogni centimetro della superficie del pianeta; squadre di droidi netturbini erano al lavoro a tutte le ore, braccando ogni traccia di sporco e rifiuti con la stessa tenacia con cui le forze dell’ordine si accanivano adesso al suo inseguimento. A paragone, la piattaforma del livello 17 sembrava una discarica. La superficie aveva una colorazione anomala in diversi punti, come se liquami di vario tipo l’avessero ricoperta per lunghi periodi senza essere rimossi, mentre in un angolo erano ammassati alla rinfusa decine di sacchi di immondizia, alcuni dei quali semiaperti, che una pioggia recente aveva trasformato in una poltiglia disgustosa da cui si innalzava un odore che definire nauseabondo sarebbe stato un complimento.
In giro non si vedeva anima viva.
Non ebbe il tempo di formulare ipotesi in merito. Davanti al suo sguardo sbigottito, la lattina ai suoi piedi venne proiettata in aria da un improvviso colpo di blaster, andando ad impattare con la forza di un proiettile contro le porte dell’ascensore.
“Questo era un avvertimento! Alza le mani e tienile bene in vista, o con il prossimo ti faccio un buco in fronte!”
La voce sembrava provenire da qualche punto sopra di lui, ma Vexen non rimase fermo a vedere se il cecchino avrebbe veramente dato corpo alla sua minaccia. Scattò lungo la piattaforma ancora prima che quello finisse di parlare, aggrappandosi alla tenue speranza che la polizia di Coruscant non lo avrebbe fatto fuori prima di avere la possibilità di interrogarlo e accertarsi delle sue intenzioni. Alle sue spalle, un altro paio di colpi laser si infransero dove i suoi piedi si erano trovati fino a un attimo prima.
“Obiettivo in movimento! Probabili capacità magiche. Da considerarsi armato e pericoloso. Autorizzazione a usare forza letale confermata.”
Come non detto.
Una tempesta di colpi esplose da troppe direzioni diverse per poterle contare. Vexen incespicò, incassò la testa tra le spalle e alzò le mani, urlando con tutto il fiato che aveva in corpo: “Mi arrendo!” mentre indietreggiava alla cieca verso il bordo della piattaforma. Il fuoco cessò immediatamente. L’aria fu attraversata da una serie di scie luminose accompagnate da quello che sembrava il rombo di diversi speeder messi in moto tutti insieme, e dall’oscurità tutto intorno presero forma sagome di soldati con i blaster spianati. Sulle loro spalle si intravedeva una massa ingombrante, da cui fuoriuscivano due getti di gas luminoso, come propulsori di un’astronave in miniatura.
“In ginocchio e mani sopra la testa! Niente movimenti bruschi!”
Tremando, lo scienziato obbedì. Quattro soldati avanzarono verso di lui, circondandolo da tutti i lati tranne che alle spalle, dove Vexen percepì il vuoto di diciassette livelli di caduta sotto forma di un brivido freddo che gli si infilò lungo la nuca, serpeggiando fin dentro le pieghe della sciarpa.
Adesso riusciva a distinguere la ruota dentata simbolo dell’Impero dipinta sulla placca pettorale del soldato più vicino. Il poliziotto estrasse un paio di manette elettromagnetiche e gli fece bruscamente cenno di porgere i polsi.
Persino in quel momento il suo cervello lavorava freneticamente alla ricerca di una via d’uscita. L’istinto gli gridava di fare il nome di Zexion, spacciarsi per un suo contatto e sperare che il giovane agente segreto lo tirasse fuori da quella situazione. Ma le parole gli morirono sulle labbra, strangolate dalla paura di mettere il nipote nei guai se avesse rivelato qualcosa di sbagliato.
Il poliziotto lo fece voltare e gli bloccò i polsi dietro la schiena come lui aveva fatto neanche un’ora prima con la vicina di Zexion. Ma le manette non scattarono mai, perché di colpo, come se un fuoco d’artificio gli si fosse acceso dietro gli occhi, la testa del soldato esplose in un tripudio di scintille.
Il suo corpo rimase immobile per qualche attimo, poi si inclinò di lato e si accasciò come un sacco vuoto sul bordo della piattaforma.
“Cecchino!”
“Ore nove! Una delle finestre!”
Ancora scosso dal colpo esploso a pochi centimetri da lui, Vexen osservò i poliziotti in posizione più arretrata puntare i blaster verso la facciata del grattacielo che ospitava l’ascensore, scambiandosi una serie concitata di avvertimenti e indicazioni in gergo militare. Ne vide cadere un secondo, abbattuto da un colpo che lo catapultò oltre il bordo della piattaforma con un grido lacerante, e subito dopo un terzo, il cui zaino a razzo andò in cortocircuito e deflagrò facendo sbocciare un piccolo fiore rosso nella notte.
I tre uomini rimasti intorno a lui si stavano riavendo dalla sorpresa, ma Vexen aveva ancora le mani libere. Uno fece per afferrarlo per un braccio, ma il palmo dello scienziato era già premuto con forza sul metallo incrostato della piattaforma, chiamando a sé la forza del suo elemento con ogni briciola di energia che gli rimaneva in corpo.
I tre urlarono all’unisono quando le punte di ghiaccio scaturite dal pavimento li infilzarono come spiedini in un buffet, infilandosi negli spazi tra le placche protettive della loro tenuta militare e trasformandoli in grotteschi fantocci con gli arti scomposti, piegati in posizioni innaturali. Uno di loro riuscì a mantenere la presa sul blaster e a sparare un colpo anche da quella posizione precaria, ma la sua mira fu imprecisa e Vexen scartò di lato in tempo per schivarlo.
Si guardò freneticamente intorno, valutando le sue opzioni per la fuga. Bestemmiò per l’ennesima volta nel corso di quella maledetta serata quando si rese conto che l’unica via praticabile passava nel bel mezzo della sparatoria ancora in corso.
Rimanevano in piedi sei poliziotti, che adesso avevano concentrato tutto il fuoco su un’unica finestra, poco più a sinistra del condotto lungo il quale passava l’ascensore. Il misterioso cecchino rispose con diverse raffiche di laser, poi, per una serie di secondi lunghissimi, non si sentì più nulla. Proprio quando Vexen iniziava a temere che lo avessero fatto fuori, gli sembrò di intravedere una figura scura che si muoveva da una finestra all’altra, spostandosi rapidamente nella sua direzione. Una scia di laser sparati da terra la seguì, facendo piovere schegge di vetro su tutta la piattaforma. Vexen si abbassò, coprendosi la testa con le braccia. Provò ad evocare di nuovo gli aghi di ghiaccio, ma tutto ciò che sgorgò dalla punta delle sue dita fu qualche modesto fiocco di neve che prese a vorticare pigramente nell’aria satura di radiazioni laser. Aveva messo troppa forza nell’incantesimo precedente.
Il cecchino adesso si trovava neanche tre metri sopra la sua testa, nascosto nello spazio tra una finestra e l’altra. Ora Vexen riusciva persino a distinguere la canna del lungo fucile con cui aveva ricominciato a rispondere colpo su colpo al fuoco imperiale. Ma quasi subito i suoi occhi furono attratti nuovamente verso terra da un particolare nuovo e agghiacciante. Due poliziotti si erano staccati dal gruppo. Un passo dopo l’altro, pur continuando a tenere sotto tiro l’aggressore misterioso, si avvicinavano lentamente alla sua posizione.
“Salta giù!”
Una voce chiara, femminile, si levò oltre le raffiche di spari. Il cecchino stava urlando nella sua direzione.
“Ti si è fritto il cervello?!”
“Fidati, salta e basta! Ora!”
Maledicendo tutti gli dèi e i santi che conosceva, Vexen mosse un passo oltre il bordo della piattaforma mentre i due poliziotti facevano esplodere una raffica di laser contro di lui. Chiuse gli occhi, sentendo il mondo capovolgersi e il fischio del vento lacerargli le orecchie insieme al crepitio dei colpi che lo mancavano per un soffio. Le falde della sciarpa volarono verso l’alto come le code di una cometa, frustandogli il viso. Precipitò all’indietro, gridando fino a squarciarsi i polmoni.
Sopra di lui rimbombò un’esplosione fragorosa. Ne percepì il calore fin da quella distanza, come dita lunghe e arroventate che si protendevano verso di lui per ghermirlo, e tossì nella sciarpa, credendo di soffocare. Qualcosa di duro e metallico gli colpì il braccio, facendogli fare una capriola in aria e voltandolo con il viso verso il basso.
Fu in quel preciso momento che si accorse di non stare più precipitando. Stupefatto, osò socchiudere gli occhi.
Fluttuava.
Galleggiava sospeso nel denso fumo nero che adesso si sprigionava dalla piattaforma del diciassettesimo livello. Muovendo braccia e gambe, come se stesse nuotando in uno specchio d’acqua, riuscì con fatica a rimettersi in posizione eretta. A quel punto però il suo intero corpo iniziò a muoversi da solo, come se un enorme magnete invisibile lo stesse attraendo verso una delle piattaforme più in basso. Vide la superficie di metallo avvicinarsi e si preparò all’impatto, ma atterrò in maniera sorprendentemente delicata, appoggiandosi al suolo con le braccia e le ginocchia. Esausto, rotolò sulla schiena e rimase immobile per lunghi istanti ad ascoltare il suono spezzato del suo respiro. In alto, la piattaforma del diciassettesimo livello andava a fuoco.
Da qualche parte, in lontananza, risuonò l’ululato penetrante di sirene antiincendio.
Sapeva che doveva rialzarsi e ricominciare a fuggire, ma non aveva più la forza neanche per mettersi seduto.
Un tonfo sul metallo e una serie di passi gli annunciarono che non era solo.
“Puoi camminare? Dobbiamo andarcene di qui.”
Riconobbe la voce della sua salvatrice misteriosa e cercò a fatica di sollevare la testa.
“Più facile a dirsi che a farsi… “
La donna era vestita completamente di scuro, con la parte inferiore del viso coperta da un passamontagna e un cappuccio calato sulla testa. Da dietro le spalle, assicurato a una cintura a tracolla, sbucava la canna del fucile di precisione con cui aveva decimato gli imperiali. Sotto il mantello nero, la tuta attillata lasciava intravedere le linee e i muscoli tesi di una corporatura agile ma molto atletica. Umana o umanoide, quasi sicuramente. Gli tese una mano guantata, aiutandolo a rimettersi in piedi.
“Come hai fatto a farmi… volare fino a qui?”
Sotto il cappuccio, la donna soffocò una risatina. Non sembrava avere neanche il fiatone dopo lo sforzo terribile compiuto. “Mai sentito parlare di campi gravitazionali portatili?”
“Adesso sì, suppongo. Ma… “
Lei si mise un dito davanti alle labbra coperte dal passamontagna, tranciando di netto ogni sua obiezione. “Le domande dopo. Adesso dobbiamo andare. Gli imperiali manderanno altre squadre.”
Vexen annuì, controllando che le fibbie dello zaino fossero ancora chiuse e in ordine. Aveva paura di scoprire in che stato fosse la sua attrezzatura medica all’interno.
“Ma dove possiamo nasconderci?”
“Giù in basso.” Per un attimo, sotto le pieghe del cappuccio, a Vexen parve di cogliere lo scintillio di un paio d’occhi color ambra.
“Dove persino gli sgherri di Palpatine non osano addentrarsi.”
  
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