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Autore: Marco1989    29/07/2020    1 recensioni
Da un momento all'altro, la tua vita cambia all'improvviso: un istante, uno schianto, e ti trovi in un mondo che hai soltanto sognato. Ti trovi di nuovo ragazzo, e coinvolto in una avventura che mai avresti sognato di vivere. Matteo Simoncini si troverà improvvisamente catapultato ad Hogwarts, e dovrà decidere cosa fare in quel nuovo mondo, mentre una oscura minaccia si avvicina, e lui potrebbe essere il solo ad avere il potere per fermarla.
Genere: Avventura, Azione, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A strange, new world'
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Salve a tutti!

Lo so, ormai mi avrete dato per disperso. Vi chiedo scusa per il mostruoso ritardo. Purtroppo sto attraversando un periodo molto complicato dal punto di vista degli impegni, e il tempo per scrivere si è ridotto al minimo. Voglio però rassicurarvi: questa storia vedrà la sua conclusione, anche se non sono in grado di dirvi quanto ci vorrà. Detto questo, godetevi il capitolo!

 

 

 

 

CAPITOLO NOVE

Lungo la sponda del Lago Nero, a un decina di metri dalla linea dell’acqua, c’era uno splendido faggio solitario, che cresceva lontano dalle altre piante: alto più di venti metri, con un tronco enorme e un fogliame ampio e folto, sembrava un monumento alla forza della natura. Da quando lo avevo scoperto, all’inizio della primavera, avevo stabilito che era il luogo perfetto dove sedersi a riflettere, a studiare oppure semplicemente a riposare, cullato dal vento.

Mai come in quel momento avevo avuto bisogno di un luogo dove poter pensare da solo, senza dover rispondere alle inevitabili domande degli altri. Dopo aver percorso qualche centinaio di metri verso il castello, quindi, deviai verso il lago, certo di non essere stato visto da nessuno, e raggiunsi l’albero.

Crollai letteralmente con la schiena contro il tronco, trassi un profondo respiro, poi lasciai cadere l’argine che fino a quel momento aveva trattenuto le mie lacrime e piansi per alcuni minuti.

Il confronto con il Molliccio mi aveva letteralmente distrutto. Non era stato tanto l’orrore della scena a fiaccare la mia resistenza, bensì il timore che, nel suo tentativo di terrorizzarmi, l’orrido animale avesse centrato più verità di quanto lui stesso avesse potuto immaginare. Quante volte…in mezzo alla notte, mentre i ragazzi intorno a me dormivano tranquilli…quante ore avevo passato a fissare il baldacchino del letto senza vederlo realmente, ponendomi le stesse domande che la rappresentazione del mio cadavere mi aveva vomitato addosso come affermazioni. Poteva essere vero? In realtà io non sapevo nulla di quanto era accaduto dopo l’incidente. Ricordavo però fin troppo bene lo schianto, e sapevo che era stato più che sufficiente per uccidermi. Mi ero convinto da solo, senza alcuna prova e addirittura senza alcun indizio, che dall’altra parte il corpo di Matteo Simoncini fosse ancora vivo, magari caduto in un profondo coma, ma… e se le cose fossero state differenti? Era possibile che non ci fosse più alcun Matteo Simoncini? Che il mio cadavere si stesse davvero decomponendo all’interno di una bara, in un piccolo cimitero dell’Italia centrale? Era possibile che quella vita, che tanto stavo apprezzando ma che nel profondo della mia mente continuavo a considerare una sorta di lunga vacanza, fosse davvero tutto ciò che mi rimaneva?

A questi pensieri se ne aggiungevano altri, forse meno cupi, ma parimenti disturbanti: posto che le mie previsioni più nere fossero sbagliate, che Matteo Simoncini fosse ancora vivo dall’altra parte, e che miracolosamente mi si presentasse, in futuro, la possibilità di tornare, volevo veramente farlo? Cosa avrei trovato nel mio vecchio mondo? Anche partendo dal presupposto che l’incidente non mi avesse ucciso, era stato comunque devastante, abbastanza da creare danni terribili al mio corpo. Sarei tornato indietro solo per trovare un guscio spezzato e paralizzato, sarei andato incontro ad una vita di sofferenza, bloccato in un letto fino al mio ultimo giorno? Davvero avrei voluto correre un rischio simile? Erano pure e semplici ipotesi, non avevo, per il momento, la minima prospettiva che mi facesse pensare di poter compiere un viaggio a ritroso, ma se anche fosse accaduto, ne avrei avuto il coraggio? Per di più, una parte minoritaria ma sempre più insistente della mia mente mi esortava a riflettere bene su quello che avrei lasciato tornando indietro, anche avendo la certezza di ritrovare tutto come prima del mio viaggio: non soltanto un mondo magico che superava le mie più fervide fantasie, ma un luogo dove avevo trovato una seconda casa. C’era affetto per me, ad Hogwarts, c’erano amici, persone che tenevano a me e alle quali avevo imparato a tenere: Semus, Ginny, Dean, Neville, Harry, Ron, Hermione… Mary. C’erano una madre e una sorella che, nonostante qualche timore, ero ormai molto curioso di conoscere. C’era la prospettiva di vivere una grande avventura, che per quanto pericolosa, era superiore a qualsiasi cosa avrei mai potuto vedere come Matteo. C’era la vita di Joshua Carter, che ogni giorno sentivo più mia. Iniziavo veramente a chiedermi se avrei avuto la forza di abbandonare tutto.

Ero talmente assorto nelle mie riflessioni che non avvertii la presenza di un’altra persona finché la voce gentile di Mary non risuonò alle mie spalle: “Tutto bene, Josh?”.

Mi voltai, sorpreso: la ragazzina era in piedi con una mano appoggiata al tronco, e mi sorrideva con gentilezza.

“Come mi hai trovato?” le chiesi.

Il suo sorriso si allargò: “Sei stato proprio tu a raccontarmi di questo albero! Mi hai detto che quando hai bisogno di pensare è il tuo posto preferito. Dean e Seamus mi hanno raccontato quello che è successo durante l’esame, e mi sono immaginata che ti saresti rifugiato qui”.

Si sedette accanto a me, le gambe raccolte sotto il corpo. Per un paio di minuti rimase in silenzio, in attesa che io avviassi il discorso. Rimase però delusa: non mi dispiaceva affatto la sua compagnia, ma ero semplicemente incapace di parlare dell’accaduto. Alla fine fu lei a rompere il silenzio: “Ti va di raccontarmi quello che è successo?” mi chiese.

Impiegai parecchio prima di decidermi a rispondere: “Non posso, Mary. Veramente non posso”. Vedendo la sua faccia delusa, mi affrettai a tranquillizzarla: “Non dipende da te, credimi. Anzi, ti sono grato per la tua preoccupazione. Non è con te che non voglio parlarne. Non mi sento di raccontare quello che ho visto a nessuno”. Guardai la mia mano, e mi accorsi che stava tremando. Stavo dicendo la pura e semplice verità: anche lasciando perdere il fatto che avrei rischiato di rivelare il mio segreto raccontando ciò che avevo trovato all’interno dell’albero, rivelare la messa in scena del Molliccio l’avrebbe resa ulteriormente reale, e perciò ancora più tremenda.

“E’ stata così brutta?” mi chiese. Annuii senza dire una parola.

“E’ stata una visione legata ai tuoi incubi, vero?”.

Mi voltai, sorpreso: non riuscivo a capire come facesse a saperlo.

Sorrise nuovamente: “Visti i ghiri con i quali dividi il dormitorio, posso capire la tua sorpresa: Dean, Neville e Ron non si sveglierebbero neanche se ti mettessi a demolire il letto con una mazza. Seamus, però, ha il sonno abbastanza leggero: mi ha raccontato di averti sentito diverse volte borbottare mentre dormivi, se non proprio parlare, di averti sentito rovesciarti sotto le coperte in preda ad un sogno. Mi ha detto che spesso ti svegli di soprassalto, o che addirittura piangi nel cuscino”. Si fermò a guardarmi, preoccupata: dovevo essere impallidito in maniera evidente. Continuò a parlarmi con dolcezza: “Mi dispiace, non volevo impicciarmi di cose che riguardano solo te, ma sono preoccupata. Riguarda per caso il divorzio dei tuoi genitori?”.

Scossi la testa: “Mi dispiace, Mary. Credimi, non voglio tenerti all’oscuro di qualcosa, ma non riesco veramente a parlare di questo. Ci sono cose che non posso raccontare, almeno non ancora. Ti assicuro, però, che quando sarà il momento sarai la prima a sapere tutto – per la prima volta da diverse ore sorrisi – Grazie, comunque. E’ bello che tu sia venuta qui per me”.

Mary non disse altro: semplicemente, mi abbracciò con grande calore. La sua stretta trasmetteva un enorme affetto, e quasi senza volerlo mi trovai a ricambiare. Una parte della mia mente continuava a ricordarmi che c’era qualcosa di sbagliato in ciò che stavo facendo, che nonostante tutto rimanevo un venticinquenne abbracciato ad una ragazzina, ma tutto il resto urlava a pieni polmoni che non ci sarebbe potuto essere nulla di più giusto: non ero più un uomo, ero un tredicenne disperatamente bisognoso di comprensione, e la stavo trovando tra le sue braccia. Cara, dolcissima Mary! Sembrava aver capito tutto quello che avevo detto, e anche quello che avevo tenuto per me: senza chiedermi spiegazioni o chiarimenti, come la maggior parte degli amici avrebbero fatto, con la sua semplice vicinanza mi stava dando quello di cui avevo maggiormente bisogno: la certezza di non essere solo. Neanche se mi avesse sussurrato le due fatidiche parole avrebbe potuto trasmettermi più chiaramente i suoi sentimenti, e in quel momento mi stava benissimo. Affondai la guancia nei suoi capelli, e una lacrima solitaria, remota erede delle tante che avevo versato solo pochi minuti prima, mi solcò il viso.

“Aww, non sono carini?”.

Bastò quella voce gracchiante per ridurre in briciole il momento magico. Già consapevole della spina nelle chiappe sulla quale mi stavo sedendo, lasciai andare Mary ed alzai gli occhi sopra la sua spalla: Nott era in piedi ad una decina di metri da noi, un ghigno da carogna dipinto sul volto, e ci fissava ridacchiando. Ai suoi lati c’erano Vasey e Harper, i suoi scherani preferiti, con l’aria di non sapere esattamente su quale pianeta si trovassero, ma stolidamente impegnati ad imitare il loro capo. Mi alzai, tenendo Mary leggermente dietro di me.

“Complimenti, Yankee, sei riuscito davvero a trovarti la ragazza! – con la coda dell’occhio vidi Mary arrossire furiosamente – Le mie congratulazioni, sinceramente non lo avrei mai creduto possibile, anche se effettivamente riuscire a pescare questa gattina morta non deve essere stato troppo difficile”.

Lo devo ammettere: in quel momento una valvola di sfogo era ben accetta quanto un abbraccio consolatorio. Ridurre Nott in sottili striscioline di carne mi sembrava la migliore delle idee. Feci per farmi avanti, ma Mary mi afferrò la mano: “Lascia perdere, Josh. Non vale la pena di sporcarsi le mani con tipi come lui”.

“Sì, Carter, dai retta alla tua cagnetta – sibilò con malevolenza Nott – Buffo, di solito è il padrone a tenere il cane al guinzaglio, ma in questo caso sembra sia il contrario! Devo dire che comunque vi siete trovati perfettamente: il coglione e la cagna! Credo che i Babbani dicano qualcosa di simile a ‘Conservate per me un cucciolo’, ma dovrei fare anche la fatica di annegarlo! In ogni caso, la feccia non può che accoppiarsi con altra feccia”.

Stavo letteralmente per esplodere. Ero furibondo per quello che Nott aveva appena detto, era andato oltre qualsiasi insulto che avesse utilizzato fino a quel momento. Feci per avanzare, deciso ad aggredirlo nonostante l’inferiorità numerica, ma Mary mi fermò di nuovo, e si portò davanti a me. Era molto pallida, ma quando parlò lo fece con voce ferma e dura come il ghiaccio: “Sai, Nott, all’inizio ho pensato che ti comportassi in questo modo per invidia, perché Josh è tutto quello che non sei: è più bello di te, più abile di te, e tutti gli vogliono bene. Poi però ho capito che per provare invidia serve un cervello, cosa che tu non hai. Perciò, sono giunta ad una conclusione: quello che fai, lo fai soltanto per cattiveria. Sei un perfido bastardo arrabbiato con il mondo, e vuoi semplicemente fare del male a chiunque ritieni che non meriti il tuo rispetto. Non so se mi fai maggiormente pietà o ribrezzo!”.

“Piccola, sudicia puttanella!” ringhiò Nott in risposta, mentre infilava la mano sotto la veste ed estraeva la bacchetta “Ti insegno io come ti devi comportare con chi ti è superiore! Exulcero!”.

“Protego!”.

La Fattura Ustionante di Nott sembrò schiantarsi contro un muro invisibile pochi secondi prima di colpire Mary. Se ne avessi avuto il tempo, mi sarei sorpreso della velocità con la quale avevo estratto la bacchetta, oltre che di essere riuscito a lanciare un perfetto Incantesimo Scudo senza averlo mai provato, ma in quel momento il mio cervello si era ormai spento, ed una seconda mente, molto diversa da quella che solo due minuti prima si stava con ogni probabilità preparando a piangere sulla spalla di Mary, aveva assunto il controllo. Questa volta non si trattava di una semplice rissa tra ragazzi: l’incantesimo di Nott era pericoloso, era fatto per fare del male. Aveva cercato veramente di ferire Mary! Senza il mio scudo, la mia amica si sarebbe ritrovata a combattere contro ustioni di secondo o terzo grado!

Anche lei sembrava averlo compreso: dopo l’istante di puro shock che aveva seguito il cozzo tra la magia di Nott e il mio scudo, un velo di puro furore si era dipinto sul suo volto: “Fottuto maniaco psicopatico! - urlò a pieni polmoni, e la bacchetta dardeggiò nella sua mano – Questa me la paghi cara!”.

“Ferma!”.

Si voltò, quasi scandalizzata dal mio tono, e vidi chiaramente la sorpresa, mista quasi a timore, sostituire la rabbia sui suoi lineamenti:  doveva aver notato la mia espressione, e ne era rimasta spaventata.

“Metti via la bacchetta, e fai qualche passo indietro – dissi, in un tono che non ammetteva repliche – Questo sacco di spazzatura è mio”.

Senza neanche attendere la sua risposta, mi feci avanti, la bacchetta al fianco. Ormai non c’era niente, dentro di me, tranne determinazione e cieco furore. Joshua Carter si era immediatamente ritirato in buon ordine, ma non era Matteo Simoncini ad aver preso il suo posto: neanche nei momenti di massima rabbia Matteo aveva raggiunto uno stato simile. In qualche modo, mi rendevo conto di stare controllando a mala pena il mio corpo: a guidarmi era un odio mai provato prima. Sembravo essermi trasformato nel lato oscuro di me stesso. La sola cosa che vedevo era Nott, il mio solo desiderio era demolirlo pezzo per pezzo. Se qualcuno mi avesse chiesto le mie intenzioni, con ogni probabilità avrei citato Clubber Lang in Rocky III: ‘Gli farò male’.

“Bene, Nott – dissi, con voce di ferro – Oggi sistemiamo questa faccenda. Sei andato veramente troppo oltre stavolta. Hai il coraggio di affrontarmi quando ti guardo in faccia o sai colpire solo a tradimento? – ghignai – In fondo, hai già pronti i rinforzi per pareggiare la situazione quando ti starò prendendo a calci in culo!”.

Nott rimase interdetto per alcuni secondi, poi, forse ricordandosi di possedere una spina dorsale o, al contrario, dimenticando quanto facilmente avessi pulito il pavimento con lui l’ultima volta che ci eravamo scontrati, si rivolse a Vasey e Harper: “Fatevi indietro. Per questo idiota basto io”.

I due Serpeverde rimasero a fissarci per qualche istante, sorpresi dal modo nel quale si era evoluta la situazione, poi si allontanarono lentamente, lasciandoci alcuni metri di spazio. Mary tentò di dire qualcosa, ma fu sufficiente una mia occhiata per farle morire le parole sulle labbra, e si ritirò a sua volta, chiaramente spaventata.

Sulla riva del lago calò un silenzio irreale: io e Nott, distanti circa cinque metri l’uno dall’altro, restammo per parecchi secondi immobili a fissarci, gli occhi incatenati, le bacchette al fianco. Avevo quasi la sensazione di sentire nelle orecchie una musica da duello tratta da un film western. Nott sembrava in preda al nervosismo: il suo braccio tremava, quasi fosse ansioso di attaccare ma non riuscisse a decidersi. Io, dal canto mio, ero immobile come una statua, la mente sgombra, la mano stretta come una morsa intorno alla bacchetta. Ero deciso a lasciar fare a lui la prima mossa, per poi demolirlo.

Non dovetti attendere molto. Sperando forse di sorprendermi, Nott alzò il braccio di scatto e puntò la bacchetta contro di me, lanciando lo stesso incantesimo che aveva provato ad usare contro Mary: “Exulcero!”. Stavolta non cercai di parare: ero abbastanza concentrato sulla situazione per riuscire a schivare il colpo, e risposi immediatamente con pari velocità: “Flipendo!”.

Nott dimostrò a sua volta una buona concentrazione, ed evitò l’Incantesimo d’Urto per pochi centimetri. Lo scontro divenne rapidamente furioso: il mio avversario stava provando a scagliarmi contro tutto quello che conosceva, incluse alcune fatture che decisamente non facevano parte del lato chiaro della magia, senza però riuscire, tra parate e schivate, a colpirmi. Io rispondevo a tono, utilizzando però, almeno per il momento, incantesimi comuni: volevo dargli un certo senso di sicurezza prima di far scendere in campo l’artiglieria pesante. Fu solo quando un Incantesimo Tagliuzzante di Nott riuscì a superare in parte il mio scudo, aprendomi un taglio superficiale sulla spalla, che compresi che il momento dei giochi era finito: il mio nemico poteva essere pericoloso, era meglio metterlo subito al posto che gli spettava. In ginocchio.

Accadde in pochi secondi: mi abbassai, appoggiando a terra la mano sinistra e facendomi passare sopra l’ultima fattura di Nott, poi sparai il colpo decisivo: “Impactus!”.

Non era certo un incantesimo tipico per un ragazzo del terzo anno: lo avevo letto in biblioteca, su un libro che trattava di Magia da Combattimento. Era un Incantesimo d’Urto molto più potente di quelli che avrei dovuto conoscere, una vera magia da battaglia. Ce n’erano diverse altre, capaci di ferire molto più profondamente, ma avevo scelto con oculatezza: almeno in quel momento, non volevo mandare Nott in infermeria o al cimitero, solo umiliarlo come mai gli era accaduto nella sua vita. Non avevo mai provato ad eseguirlo, eppure, benché senza alcun motivo, ero certo che sarebbe riuscito. Mi sentivo invincibile.

L’incantesimo lo centrò in pieno stomaco, spedendolo indietro di almeno un metro e facendolo crollare a terra. Avrei potuto immobilizzarlo, legarlo o disarmarlo, ma non feci nulla di tutto questo: rimasi solo a fissarlo con sguardo predatorio. La mia vittima era a terra, ed ero sempre più intenzionato a farla strisciare come il lombrico che era.

A suo onore, Nott non si arrese, nonostante il dolore che sembrava provocargli la brusca riorganizzazione subita dalle sue viscere: respirando affannosamente e tenendosi il ventre con la mano sinistra, si tirò in piedi, sia pure a fatica, e cercò di puntare di nuovo la bacchetta contro di me.

Avevo atteso proprio quel momento per frustrare le sue speranze: prima che potesse aprire bocca, lo anticipai con un “Impedimenta!” che lo mandò nuovamente a terra, come se fosse inciampato su un filo invisibile.

Sentivo che un ghigno feroce aveva iniziato a deformare la mia faccia, ma mi importava sempre di meno: avevo intenzione di far pagare a Nott ogni meschinità che avesse fatto nella sua vita, ed il conto era molto lungo. Riuscì a tirarsi nuovamente in piedi, benché chiaramente sofferente, ma prima che potesse anche solo pensare a come contrattaccare io presi la mira contro le sue gambe: “Tarantallegra!”.

Nott iniziò a tremare come una foglia, riuscì a restare in piedi per qualche secondo, poi collassò come un mucchio di stracci, le gambe in preda a movimenti incontrollabili. Anche da terra, provò a puntare la bacchetta contro di me, ma ero più che pronto. Avrei potuto semplicemente disarmarlo, ma scelsi una via più complicata e più dolorosa. Mirai alla sua bacchetta e urlai: “Flagrante!”.

Fino a quel momento Nott aveva incassato quasi in silenzio, ma lasciò partire un urlo quando fu costretto a lasciar andare la bacchetta, divenuta all’improvviso incandescente. Non aveva fatto neanche in tempo a casere a terra che già avevo ripreso la mia opera di umiliazione: “Slugulus Eructo!”.

Per un istante il mio avversario si immobilizzò come un palo, portandosi la mano alla bocca, poi, nonostante le gambe continuassero a muoversi senza controllo, con uno sforzo supremo riuscì a tirarsi sulle ginocchia, per poi vomitare a terra una grossa lumaca.

Rimasi per alcuni secondi a fissarlo, mentre altri viscidi animali seguivano il primo. Era inerme, completamente sconfitto, abbattuto senza speranza di ripresa, eppure ancora non mi bastava. Qualcosa di inquietante sembrava essersi impadronito di me: mai nella vita mi ero comportato in un modo simile con un avversario sconfitto, non avevo mai infierito così su nessuno, neanche con persone che detestavo con tutto me stesso. A stento mi rendevo conto di quello che stavo facendo: Nott continuava a vomitare lumache e a tremare come in preda alle convulsioni, e la sola cosa alla quale pensavo era come ferirlo ulteriormente. Un pensiero orribile quanto allettante mi attraversò la mente, pensando all’incantesimo che aveva tentato di utilizzare sia contro Mary che contro di me, e un sorriso malvagio mi attraversò il volto mentre il giovane Serpeverde, tra un conato e l’altro, mi fissava con sguardo a metà tra la rabbia e la supplica. A quanto pareva, Nott aveva un debole per le ustioni: forse avrebbe apprezzato un po’ di vero fuoco! Chiaramente, non stavo più ragionando: non mi interessava quanto male avrei fatto al ragazzo distrutto che giaceva davanti a me, volevo solo che soffrisse.

La parola “Incendio!” era già sulla mie labbra, quando dalle mie spalle arrivò un urlo disperato: “Basta!”.

Mi voltai sorpreso, come se mi fossi appena svegliato da un sogno: Mary era in piedi accanto all’albero, il terrore dipinto sul volto, le guance rigate dalle lacrime.

“Ti prego, Josh…- singhiozzò, con la voce di una persona spaventata a morte – Per favore, fermati!”.

Rimasi immobile a guardarla per qualche istante, mentre la mia mente iniziava a snebbiarsi. Era come uscire da una trance, come svegliarsi da un incubo. Improvvisamente mi resi conto dell’enormità di quello che stavo per fare: ero stato sul punto di dare fuoco ad un ragazzo! Nott era un essere infame, ma quello che avevo pensato di fargli…era malvagio, a dire poco.

Scossi la testa, quasi per scacciare gli ultimi resti della follia che aveva invaso il mio cuore, poi tornai a voltarmi: Nott era ancora a terra, le gambe fuori controllo, in preda ai conati per le lumache che continuava a sputare. Continuavo a detestarlo, ma la furia bruciante che mi aveva avvolto fino a quel momento sembrava essere scomparsa. Puntai un’ultima volta la bacchetta contro di lui: “Finite Incantatem!”.

Il tremito si fermò di colpo, e il giovane Serpeverde, lasciata cadere a terra un’ultima lumaca, si accasciò stremato.

Sollevai lo sguardo verso Vasey e Harper: durante tutto lo scontro erano rimasti fermi a qualche metro di distanza, come paralizzati. Avevano le bacchette estratte per metà, ma non sembravano essere in grado di raccogliere il coraggio necessario per assalirmi. Mi osservavano con più timore che rabbia

Li fissai per qualche istante, poi parlai, con una voce secca come un colpo di pistola: “Filate. Ora!”.

I due lanciarono un’ultima occhiata allo stremato compagno, poi, riposte le bacchette, si allontanarono verso il castello senza voltarsi indietro.

Certo che non sarebbero tornati, rivolsi nuovamente la mia attenzione a Nott. Mi avvicinai e lo afferrai per il bavero dell’uniforme.

“E adesso a noi” ringhiai, per poi trascinarlo in piedi. Sembrava più un sacco di patate che un essere umano. Lo trascinai per qualche metro e lo scaraventai contro il tronco dell’albero. Nel suo sguardo c’era il terrore: nonostante non avesse riportato nessun vero danno, in qualche modo sembrava aver capito il rischio corso.

Mi faceva quasi pena, ma respinsi quel pensiero, ricordando i mesi di insulti e agguati, le parole infami che aveva detto a Mary, il suo tentativo di ferirla. Doveva finire lì.

Quando parlai, la mia voce aveva recuperato la necessaria durezza: “Con questo concludiamo il nostro scontro, Nott. Ne ho le palle piene di guardarmi le spalle ogni volta che percorro i corridoi, di sentire le tue idiozie, di sopportare insulti e prese in giro. Oggi hai visto quello che sono capace di fare se mi arrabbio, e spero proprio ti sia bastato. Non avrai una seconda occasione: se ti azzarderai di nuovo a offendere o aggredire me, Mary o un altro dei miei amici, ti assicuro che quello che ti ho fatto fino a questo momento ti sembrerà una gentile carezza rispetto a ciò che ti farò. Hai capito?”.

La voce di Nott somigliò al pigolio di un pulcino spaventato. Lo scossi rudemente: “Quando hai dato a Mary della puttana non sembrava mancarti il fiato, vedi di trovarlo anche ora! Ho chiesto: hai capito?”.

“S…si! Ho capito!” squittì.

Lo fissai ancora per un istante, poi lo spinsi via: “Raccogli la tua bacchetta e levati dai piedi!”.

Non se lo fece ripetere due volte: presa la bacchetta, scappò incespicando verso il castello.

Fu come se io fossi stato un materassino gonfiabile e uno spillo mi avesse improvvisamente bucato: letteralmente, mi sgonfiai. Tutta l’adrenalina che mi aveva sostenuto fino a quel momento sembrò scomparire di colpo: crollai a sedere con un sospiro, lasciando cadere la bacchetta e portandomi una mano alla fronte come se fossi stato colto da un improvviso dolore lancinante alla testa. Dopo quello che era accaduto, niente sarebbe riuscito a far tornare Nott indietro, ma se lo avesse fatto in quel momento sarebbe riuscito a ridurmi ad una polpetta senza neanche sforzarsi, tanto ero abbattuto, più mentalmente che fisicamente, ma ugualmente fuori combattimento.

Non saprei dire quanto passò, forse trenta secondi, forse dieci volte tanto, forse un paio di vite umane. Davanti ai miei occhi era calata una sorta di nebbia, mentre la consapevolezza dell’accaduto mi investiva con la forza di un ciclone: ero stato sul punto di uccidere una persona. Peggio: avevo provato il desiderio di uccidere una persona! Un ragazzo di tredici anni! Era qualcosa di talmente assurdo che facevo fatica perfino a prenderne coscienza. Cosa mi era successo? La rabbia per l’aggressione a Mary e per gli insulti ricevuti non era neanche lontanamente sufficiente per giustificare una simile reazione. Possibile che ciò che avevo visto dentro l’albero mi avesse scosso al punto da… da cosa? Da tirare fuori dalla mia anima una personalità completamente diversa? Perché era questo che era accaduto: l’essere che aveva infierito su Nott non era Joshua Carter, non era Matteo Simoncini. Chi diavolo era? Avevo sentito già altre volte premere ai limiti del mio inconscio quella sorta di velo nero, lo spirito di un combattente, di un guerriero pronto a tutto, incurante delle conseguenze. Ero io… e allo stesso tempo non lo ero. Sembrava quasi che, dopo il mio viaggio, alle due persone che componevano il mio essere se ne fosse aggiunta una terza, che era entrambe e nessuna delle due, che era una sorta di doppio oscuro, che restava in panchina, silente, pronta però ad entrare in campo quando lo riteneva opportuno. C’era di che impazzire: perché esisteva? Avevo la sensazione che questa personalità fosse sorta con il mio arrivo in quel mondo, o forse proprio a causa di esso, ma quale era il suo scopo?

Una sorta di sussurro, lieve come il volo di una farfalla e allo stesso tempo potente come un tuono, arrivò a distogliermi dalle mie riflessioni: “Josh…”.

Mi voltai di scatto: Mary era in piedi accanto a me, il volto spaventato e preoccupato allo stesso tempo, le lacrime che ancora le rigavano le guance. All’improvviso realizzai il terribile spettacolo al quale l’avevo costretta ad assistere: poteva essere anche partita come una vendetta per quello che Nott le aveva fatto, ma ciò che aveva visto era stato l’equivalente magico di uno spietato pestaggio. Mary, la dolce ragazzina che tanto teneva a me, che con ogni probabilità provava un adolescenziale amore per me, aveva visto un mostro. Aveva paura per me… e allo stesso tempo aveva paura di me!

Senza riflettere ulteriormente, mi tirai in piedi e mi avvicinai. Per fortuna, nonostante nei suoi occhi ci fosse ancora l’orrore per ciò che era successo, non si scostò. Non credo che lo avrei sopportato.

Ci sarebbero state mille cose che avrei potuto dire per spiegarmi, per giustificarmi, per scusarmi. La sola che riuscì a lasciare le mie labbra fu un rantolante ‘Perdonami’, prima che le crollassi letteralmente tra le braccia. Un attimo dopo, piangevo sulla sua esile spalla.

  
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