Salve
a tutti!
Lo
so, ormai mi avrete dato per disperso. Vi chiedo scusa per il mostruoso
ritardo. Purtroppo sto attraversando un periodo molto complicato dal
punto di
vista degli impegni, e il tempo per scrivere si è ridotto al
minimo. Voglio
però rassicurarvi: questa storia vedrà la sua
conclusione, anche se non sono in
grado di dirvi quanto ci vorrà. Detto questo, godetevi il
capitolo!
CAPITOLO
NOVE
Lungo
la sponda del Lago Nero, a un decina di metri dalla linea
dell’acqua, c’era uno
splendido faggio solitario, che cresceva lontano dalle altre piante:
alto più
di venti metri, con un tronco enorme e un fogliame ampio e folto,
sembrava un
monumento alla forza della natura. Da quando lo avevo scoperto,
all’inizio
della primavera, avevo stabilito che era il luogo perfetto dove sedersi
a
riflettere, a studiare oppure semplicemente a riposare, cullato dal
vento.
Mai
come in quel momento avevo avuto bisogno di un luogo dove poter pensare
da
solo, senza dover rispondere alle inevitabili domande degli altri. Dopo
aver
percorso qualche centinaio di metri verso il castello, quindi, deviai
verso il
lago, certo di non essere stato visto da nessuno, e raggiunsi
l’albero.
Crollai
letteralmente con la schiena contro il tronco, trassi un profondo
respiro, poi
lasciai cadere l’argine che fino a quel momento aveva
trattenuto le mie lacrime
e piansi per alcuni minuti.
Il
confronto con il Molliccio mi aveva letteralmente distrutto. Non era
stato
tanto l’orrore della scena a fiaccare la mia resistenza,
bensì il timore che,
nel suo tentativo di terrorizzarmi, l’orrido animale avesse
centrato più verità
di quanto lui stesso avesse potuto immaginare. Quante
volte…in mezzo alla
notte, mentre i ragazzi intorno a me dormivano
tranquilli…quante ore avevo
passato a fissare il baldacchino del letto senza vederlo realmente,
ponendomi
le stesse domande che la rappresentazione del mio cadavere mi aveva
vomitato
addosso come affermazioni. Poteva essere vero? In realtà io
non sapevo nulla di
quanto era accaduto dopo l’incidente. Ricordavo
però fin troppo bene lo
schianto, e sapevo che era stato più che sufficiente per
uccidermi. Mi ero
convinto da solo, senza alcuna prova e addirittura senza alcun indizio,
che
dall’altra parte il corpo di Matteo Simoncini fosse ancora
vivo, magari caduto
in un profondo coma, ma… e se le cose fossero state
differenti? Era possibile
che non ci fosse più alcun Matteo Simoncini? Che il mio
cadavere si stesse
davvero decomponendo all’interno di una bara, in un piccolo
cimitero
dell’Italia centrale? Era possibile che quella vita, che
tanto stavo
apprezzando ma che nel profondo della mia mente continuavo a
considerare una
sorta di lunga vacanza, fosse davvero tutto ciò che mi
rimaneva?
A
questi pensieri se ne aggiungevano altri, forse meno cupi, ma parimenti
disturbanti:
posto che le mie previsioni più nere fossero sbagliate, che
Matteo Simoncini
fosse ancora vivo dall’altra parte, e che miracolosamente mi
si presentasse, in
futuro, la possibilità di tornare, volevo veramente farlo?
Cosa avrei trovato nel
mio vecchio mondo? Anche partendo dal presupposto che
l’incidente non mi avesse
ucciso, era stato comunque devastante, abbastanza da creare danni
terribili al
mio corpo. Sarei tornato indietro solo per trovare un guscio spezzato e
paralizzato, sarei andato incontro ad una vita di sofferenza, bloccato
in un
letto fino al mio ultimo giorno? Davvero avrei voluto correre un
rischio
simile? Erano pure e semplici ipotesi, non avevo, per il momento, la
minima
prospettiva che mi facesse pensare di poter compiere un viaggio a
ritroso, ma
se anche fosse accaduto, ne avrei avuto il coraggio? Per di
più, una parte
minoritaria ma sempre più insistente della mia mente mi
esortava a riflettere
bene su quello che avrei lasciato tornando indietro, anche avendo la
certezza
di ritrovare tutto come prima del mio viaggio: non soltanto un mondo
magico che
superava le mie più fervide fantasie, ma un luogo dove avevo
trovato una
seconda casa. C’era affetto per me, ad Hogwarts,
c’erano amici, persone che
tenevano a me e alle quali avevo imparato a tenere: Semus, Ginny, Dean,
Neville, Harry, Ron, Hermione… Mary. C’erano una
madre e una sorella che,
nonostante qualche timore, ero ormai molto curioso di conoscere.
C’era la
prospettiva di vivere una grande avventura, che per quanto pericolosa,
era
superiore a qualsiasi cosa avrei mai potuto vedere come Matteo.
C’era la vita
di Joshua Carter, che ogni giorno sentivo più mia. Iniziavo
veramente a
chiedermi se avrei avuto la forza di abbandonare tutto.
Ero
talmente assorto nelle mie riflessioni che non avvertii la presenza di
un’altra
persona finché la voce gentile di Mary non
risuonò alle mie spalle: “Tutto
bene, Josh?”.
Mi
voltai, sorpreso: la ragazzina era in piedi con una mano appoggiata al
tronco,
e mi sorrideva con gentilezza.
“Come
mi hai trovato?” le chiesi.
Il
suo sorriso si allargò: “Sei stato proprio tu a
raccontarmi di questo albero!
Mi hai detto che quando hai bisogno di pensare è il tuo
posto preferito. Dean e
Seamus mi hanno raccontato quello che è successo durante
l’esame, e mi sono
immaginata che ti saresti rifugiato qui”.
Si
sedette accanto a me, le gambe raccolte sotto il corpo. Per un paio di
minuti
rimase in silenzio, in attesa che io avviassi il discorso. Rimase
però delusa:
non mi dispiaceva affatto la sua compagnia, ma ero semplicemente
incapace di
parlare dell’accaduto. Alla fine fu lei a rompere il
silenzio: “Ti va di
raccontarmi quello che è successo?” mi chiese.
Impiegai
parecchio prima di decidermi a rispondere: “Non posso, Mary.
Veramente non posso”.
Vedendo la sua faccia delusa, mi affrettai a tranquillizzarla:
“Non dipende da
te, credimi. Anzi, ti sono grato per la tua preoccupazione. Non
è con te che
non voglio parlarne. Non mi sento di raccontare quello che ho visto a
nessuno”.
Guardai la mia mano, e mi accorsi che stava tremando. Stavo dicendo la
pura e
semplice verità: anche lasciando perdere il fatto che avrei
rischiato di
rivelare il mio segreto raccontando ciò che avevo trovato
all’interno
dell’albero, rivelare la messa in scena del Molliccio
l’avrebbe resa
ulteriormente reale, e perciò ancora più tremenda.
“E’
stata così brutta?” mi chiese. Annuii senza dire
una parola.
“E’
stata una visione legata ai tuoi incubi, vero?”.
Mi
voltai, sorpreso: non riuscivo a capire come facesse a saperlo.
Sorrise
nuovamente: “Visti i ghiri con i quali dividi il dormitorio,
posso capire la
tua sorpresa: Dean, Neville e Ron non si sveglierebbero neanche se ti
mettessi
a demolire il letto con una mazza. Seamus, però, ha il sonno
abbastanza
leggero: mi ha raccontato di averti sentito diverse volte borbottare
mentre
dormivi, se non proprio parlare, di averti sentito rovesciarti sotto le
coperte
in preda ad un sogno. Mi ha detto che spesso ti svegli di soprassalto,
o che
addirittura piangi nel cuscino”. Si fermò a
guardarmi, preoccupata: dovevo
essere impallidito in maniera evidente. Continuò a parlarmi
con dolcezza: “Mi
dispiace, non volevo impicciarmi di cose che riguardano solo te, ma
sono
preoccupata. Riguarda per caso il divorzio dei tuoi
genitori?”.
Scossi
la testa: “Mi dispiace, Mary. Credimi, non voglio tenerti
all’oscuro di
qualcosa, ma non riesco veramente a parlare di questo. Ci sono cose che
non
posso raccontare, almeno non ancora. Ti assicuro, però, che
quando sarà il
momento sarai la prima a sapere tutto – per la prima volta da
diverse ore
sorrisi – Grazie, comunque. E’ bello che tu sia
venuta qui per me”.
Mary
non disse altro: semplicemente, mi abbracciò con grande
calore. La sua stretta
trasmetteva un enorme affetto, e quasi senza volerlo mi trovai a
ricambiare.
Una parte della mia mente continuava a ricordarmi che c’era
qualcosa di
sbagliato in ciò che stavo facendo, che nonostante tutto
rimanevo un
venticinquenne abbracciato ad una ragazzina, ma tutto il resto urlava a
pieni
polmoni che non ci sarebbe potuto essere nulla di più
giusto: non ero più un
uomo, ero un tredicenne disperatamente bisognoso di comprensione, e la
stavo
trovando tra le sue braccia. Cara, dolcissima Mary! Sembrava aver
capito tutto
quello che avevo detto, e anche quello che avevo tenuto per me: senza
chiedermi
spiegazioni o chiarimenti, come la maggior parte degli amici avrebbero
fatto,
con la sua semplice vicinanza mi stava dando quello di cui avevo
maggiormente
bisogno: la certezza di non essere solo. Neanche se mi avesse
sussurrato le due
fatidiche parole avrebbe potuto trasmettermi più chiaramente
i suoi sentimenti,
e in quel momento mi stava benissimo. Affondai la guancia nei suoi
capelli, e
una lacrima solitaria, remota erede delle tante che avevo versato solo
pochi
minuti prima, mi solcò il viso.
“Aww,
non sono carini?”.
Bastò
quella voce gracchiante per ridurre in briciole il momento magico.
Già
consapevole della spina nelle chiappe sulla quale mi stavo sedendo,
lasciai
andare Mary ed alzai gli occhi sopra la sua spalla: Nott era in piedi
ad una
decina di metri da noi, un ghigno da carogna dipinto sul volto, e ci
fissava
ridacchiando. Ai suoi lati c’erano Vasey e Harper, i suoi
scherani preferiti,
con l’aria di non sapere esattamente su quale pianeta si
trovassero, ma
stolidamente impegnati ad imitare il loro capo. Mi alzai, tenendo Mary
leggermente dietro di me.
“Complimenti,
Yankee, sei riuscito davvero a trovarti la ragazza! – con la
coda dell’occhio
vidi Mary arrossire furiosamente – Le mie congratulazioni,
sinceramente non lo
avrei mai creduto possibile, anche se effettivamente riuscire a pescare
questa
gattina morta non deve essere stato troppo difficile”.
Lo
devo ammettere: in quel momento una valvola di sfogo era ben accetta
quanto un
abbraccio consolatorio. Ridurre Nott in sottili striscioline di carne
mi
sembrava la migliore delle idee. Feci per farmi avanti, ma Mary mi
afferrò la
mano: “Lascia perdere, Josh. Non vale la pena di sporcarsi le
mani con tipi
come lui”.
“Sì,
Carter, dai retta alla tua cagnetta – sibilò con
malevolenza Nott – Buffo, di
solito è il padrone a tenere il cane al guinzaglio, ma in
questo caso sembra
sia il contrario! Devo dire che comunque vi siete trovati
perfettamente: il
coglione e la cagna! Credo che i Babbani dicano qualcosa di simile a
‘Conservate per me un cucciolo’, ma dovrei fare
anche la fatica di annegarlo!
In ogni caso, la feccia non può che accoppiarsi con altra
feccia”.
Stavo
letteralmente per esplodere. Ero furibondo per quello che Nott aveva
appena
detto, era andato oltre qualsiasi insulto che avesse utilizzato fino a
quel
momento. Feci per avanzare, deciso ad aggredirlo nonostante
l’inferiorità
numerica, ma Mary mi fermò di nuovo, e si portò
davanti a me. Era molto
pallida, ma quando parlò lo fece con voce ferma e dura come
il ghiaccio: “Sai,
Nott, all’inizio ho pensato che ti comportassi in questo modo
per invidia,
perché Josh è tutto quello che non sei:
è più bello di te, più abile di te, e
tutti gli vogliono bene. Poi però ho capito che per provare
invidia serve un
cervello, cosa che tu non hai. Perciò, sono giunta ad una
conclusione: quello
che fai, lo fai soltanto per cattiveria. Sei un perfido bastardo
arrabbiato con
il mondo, e vuoi semplicemente fare del male a chiunque ritieni che non
meriti
il tuo rispetto. Non so se mi fai maggiormente pietà o
ribrezzo!”.
“Piccola,
sudicia puttanella!” ringhiò Nott in risposta,
mentre infilava la mano sotto la
veste ed estraeva la bacchetta “Ti insegno io come ti devi
comportare con chi
ti è superiore! Exulcero!”.
“Protego!”.
La
Fattura Ustionante di Nott sembrò schiantarsi contro un muro
invisibile pochi
secondi prima di colpire Mary. Se ne avessi avuto il tempo, mi sarei
sorpreso
della velocità con la quale avevo estratto la bacchetta,
oltre che di essere
riuscito a lanciare un perfetto Incantesimo Scudo senza averlo mai
provato, ma
in quel momento il mio cervello si era ormai spento, ed una seconda
mente,
molto diversa da quella che solo due minuti prima si stava con ogni
probabilità
preparando a piangere sulla spalla di Mary, aveva assunto il controllo.
Questa
volta non si trattava di una semplice rissa tra ragazzi:
l’incantesimo di Nott
era pericoloso, era fatto per fare del male. Aveva cercato veramente di
ferire
Mary! Senza il mio scudo, la mia amica si sarebbe ritrovata a
combattere contro
ustioni di secondo o terzo grado!
Anche
lei sembrava averlo compreso: dopo l’istante di puro shock
che aveva seguito il
cozzo tra la magia di Nott e il mio scudo, un velo di puro furore si
era
dipinto sul suo volto: “Fottuto maniaco psicopatico! -
urlò a pieni polmoni, e
la bacchetta dardeggiò nella sua mano – Questa me
la paghi cara!”.
“Ferma!”.
Si
voltò, quasi scandalizzata dal mio tono, e vidi
chiaramente la sorpresa, mista quasi a timore, sostituire la rabbia sui
suoi
lineamenti: doveva
aver notato la mia
espressione, e ne era rimasta spaventata.
“Metti
via la bacchetta, e fai qualche passo indietro – dissi, in un
tono che non
ammetteva repliche – Questo sacco di spazzatura è
mio”.
Senza
neanche attendere la sua risposta, mi feci avanti, la bacchetta al
fianco.
Ormai non c’era niente, dentro di me, tranne determinazione e
cieco furore.
Joshua Carter si era immediatamente ritirato in buon ordine, ma non era
Matteo
Simoncini ad aver preso il suo posto: neanche nei momenti di massima
rabbia
Matteo aveva raggiunto uno stato simile. In qualche modo, mi rendevo
conto di
stare controllando a mala pena il mio corpo: a guidarmi era un odio mai
provato
prima. Sembravo essermi trasformato nel lato oscuro di me stesso. La
sola cosa
che vedevo era Nott, il mio solo desiderio era demolirlo pezzo per
pezzo. Se
qualcuno mi avesse chiesto le mie intenzioni, con ogni
probabilità avrei citato
Clubber Lang in Rocky III: ‘Gli farò
male’.
“Bene,
Nott – dissi, con voce di ferro – Oggi sistemiamo
questa faccenda. Sei andato
veramente troppo oltre stavolta. Hai il coraggio di affrontarmi quando
ti
guardo in faccia o sai colpire solo a tradimento? – ghignai
– In fondo, hai già
pronti i rinforzi per pareggiare la situazione quando ti
starò prendendo a
calci in culo!”.
Nott
rimase interdetto per alcuni secondi, poi, forse ricordandosi di
possedere una
spina dorsale o, al contrario, dimenticando quanto facilmente avessi
pulito il
pavimento con lui l’ultima volta che ci eravamo scontrati, si
rivolse a Vasey e
Harper: “Fatevi indietro. Per questo idiota basto
io”.
I
due Serpeverde rimasero a fissarci per qualche istante, sorpresi dal
modo nel
quale si era evoluta la situazione, poi si allontanarono lentamente,
lasciandoci alcuni metri di spazio. Mary tentò di dire
qualcosa, ma fu
sufficiente una mia occhiata per farle morire le parole sulle labbra, e
si
ritirò a sua volta, chiaramente spaventata.
Sulla
riva del lago calò un silenzio irreale: io e Nott, distanti
circa cinque metri
l’uno dall’altro, restammo per parecchi secondi
immobili a fissarci, gli occhi
incatenati, le bacchette al fianco. Avevo quasi la sensazione di
sentire nelle
orecchie una musica da duello tratta da un film western. Nott sembrava
in preda
al nervosismo: il suo braccio tremava, quasi fosse ansioso di attaccare
ma non
riuscisse a decidersi. Io, dal canto mio, ero immobile come una statua,
la
mente sgombra, la mano stretta come una morsa intorno alla bacchetta.
Ero
deciso a lasciar fare a lui la prima mossa, per poi demolirlo.
Non
dovetti attendere molto. Sperando forse di sorprendermi, Nott
alzò il braccio
di scatto e puntò la bacchetta contro di me, lanciando lo
stesso incantesimo
che aveva provato ad usare contro Mary: “Exulcero!”.
Stavolta non cercai
di parare: ero abbastanza concentrato sulla situazione per riuscire a
schivare
il colpo, e risposi immediatamente con pari velocità:
“Flipendo!”.
Nott
dimostrò a sua volta una buona concentrazione, ed
evitò l’Incantesimo d’Urto
per pochi centimetri. Lo scontro divenne rapidamente furioso: il mio
avversario
stava provando a scagliarmi contro tutto quello che conosceva, incluse
alcune
fatture che decisamente non facevano parte del lato chiaro della magia,
senza
però riuscire, tra parate e schivate, a colpirmi. Io
rispondevo a tono,
utilizzando però, almeno per il momento, incantesimi comuni:
volevo dargli un
certo senso di sicurezza prima di far scendere in campo
l’artiglieria pesante.
Fu solo quando un Incantesimo Tagliuzzante di Nott riuscì a
superare in parte
il mio scudo, aprendomi un taglio superficiale sulla spalla, che
compresi che
il momento dei giochi era finito: il mio nemico poteva essere
pericoloso, era
meglio metterlo subito al posto che gli spettava. In ginocchio.
Accadde
in pochi secondi: mi abbassai, appoggiando a terra la mano sinistra e
facendomi
passare sopra l’ultima fattura di Nott, poi sparai il colpo
decisivo: “Impactus!”.
Non
era certo un incantesimo tipico per un ragazzo del terzo anno: lo avevo
letto in
biblioteca, su un libro che trattava di Magia da Combattimento. Era un
Incantesimo d’Urto molto più potente di quelli che
avrei dovuto conoscere, una
vera magia da battaglia. Ce n’erano diverse altre, capaci di
ferire molto più
profondamente, ma avevo scelto con oculatezza: almeno in quel momento,
non
volevo mandare Nott in infermeria o al cimitero, solo umiliarlo come
mai gli
era accaduto nella sua vita. Non avevo mai provato ad eseguirlo,
eppure, benché
senza alcun motivo, ero certo che sarebbe riuscito. Mi sentivo
invincibile.
L’incantesimo
lo centrò in pieno stomaco, spedendolo indietro di almeno un
metro e facendolo
crollare a terra. Avrei potuto immobilizzarlo, legarlo o disarmarlo, ma
non
feci nulla di tutto questo: rimasi solo a fissarlo con sguardo
predatorio. La
mia vittima era a terra, ed ero sempre più intenzionato a
farla strisciare come
il lombrico che era.
A
suo onore, Nott non si arrese, nonostante il dolore che sembrava
provocargli la
brusca riorganizzazione subita dalle sue viscere: respirando
affannosamente e
tenendosi il ventre con la mano sinistra, si tirò in piedi,
sia pure a fatica,
e cercò di puntare di nuovo la bacchetta contro di me.
Avevo
atteso proprio quel momento per frustrare le sue speranze: prima che
potesse
aprire bocca, lo anticipai con un “Impedimenta!”
che lo mandò nuovamente
a terra, come se fosse inciampato su un filo invisibile.
Sentivo
che un ghigno feroce aveva iniziato a deformare la mia faccia, ma mi
importava
sempre di meno: avevo intenzione di far pagare a Nott ogni
meschinità che
avesse fatto nella sua vita, ed il conto era molto lungo.
Riuscì a tirarsi
nuovamente in piedi, benché chiaramente sofferente, ma prima
che potesse anche
solo pensare a come contrattaccare io presi la mira contro le sue
gambe: “Tarantallegra!”.
Nott
iniziò a tremare come una foglia, riuscì a
restare in piedi per qualche
secondo, poi collassò come un mucchio di stracci, le gambe
in preda a movimenti
incontrollabili. Anche da terra, provò a puntare la
bacchetta contro di me, ma
ero più che pronto. Avrei potuto semplicemente disarmarlo,
ma scelsi una via più
complicata e più dolorosa. Mirai alla sua bacchetta e urlai:
“Flagrante!”.
Fino
a quel momento Nott aveva incassato quasi in silenzio, ma
lasciò partire un
urlo quando fu costretto a lasciar andare la bacchetta, divenuta
all’improvviso
incandescente. Non aveva fatto neanche in tempo a casere a terra che
già avevo
ripreso la mia opera di umiliazione: “Slugulus
Eructo!”.
Per
un istante il mio avversario si immobilizzò come un palo,
portandosi la mano
alla bocca, poi, nonostante le gambe continuassero a muoversi senza
controllo,
con uno sforzo supremo riuscì a tirarsi sulle ginocchia, per
poi vomitare a
terra una grossa lumaca.
Rimasi
per alcuni secondi a fissarlo, mentre altri viscidi animali seguivano
il primo.
Era inerme, completamente sconfitto, abbattuto senza speranza di
ripresa,
eppure ancora non mi bastava. Qualcosa di inquietante sembrava essersi
impadronito di me: mai nella vita mi ero comportato in un modo simile
con un
avversario sconfitto, non avevo mai infierito così su
nessuno, neanche con
persone che detestavo con tutto me stesso. A stento mi rendevo conto di
quello
che stavo facendo: Nott continuava a vomitare lumache e a tremare come
in preda
alle convulsioni, e la sola cosa alla quale pensavo era come ferirlo
ulteriormente. Un pensiero orribile quanto allettante mi
attraversò la mente,
pensando all’incantesimo che aveva tentato di utilizzare sia
contro Mary che contro
di me, e un sorriso malvagio mi attraversò il volto mentre
il giovane
Serpeverde, tra un conato e l’altro, mi fissava con sguardo a
metà tra la
rabbia e la supplica. A quanto pareva, Nott aveva un debole per le
ustioni:
forse avrebbe apprezzato un po’ di vero fuoco! Chiaramente,
non stavo più
ragionando: non mi interessava quanto male avrei fatto al ragazzo
distrutto che
giaceva davanti a me, volevo solo che soffrisse.
La
parola “Incendio!” era
già sulla mie labbra, quando dalle mie spalle
arrivò un urlo disperato: “Basta!”.
Mi
voltai sorpreso, come se mi fossi appena svegliato da un sogno: Mary
era in
piedi accanto all’albero, il terrore dipinto sul volto, le
guance rigate dalle
lacrime.
“Ti
prego, Josh…- singhiozzò, con la voce di una
persona spaventata a morte – Per
favore, fermati!”.
Rimasi
immobile a guardarla per qualche istante, mentre la mia mente iniziava
a
snebbiarsi. Era come uscire da una trance, come svegliarsi da un
incubo.
Improvvisamente mi resi conto dell’enormità di
quello che stavo per fare: ero
stato sul punto di dare fuoco ad un ragazzo! Nott era un essere infame,
ma
quello che avevo pensato di fargli…era malvagio, a dire
poco.
Scossi
la testa, quasi per scacciare gli ultimi resti della follia che aveva
invaso il
mio cuore, poi tornai a voltarmi: Nott era ancora a terra, le gambe
fuori
controllo, in preda ai conati per le lumache che continuava a sputare.
Continuavo
a detestarlo, ma la furia bruciante che mi aveva avvolto fino a quel
momento
sembrava essere scomparsa. Puntai un’ultima volta la
bacchetta contro di lui: “Finite
Incantatem!”.
Il
tremito si fermò di colpo, e il giovane Serpeverde, lasciata
cadere a terra
un’ultima lumaca, si accasciò stremato.
Sollevai
lo sguardo verso Vasey e Harper: durante tutto lo scontro erano rimasti
fermi a
qualche metro di distanza, come paralizzati. Avevano le bacchette
estratte per
metà, ma non sembravano essere in grado di raccogliere il
coraggio necessario
per assalirmi. Mi osservavano con più timore che rabbia
Li
fissai per qualche istante, poi parlai, con una voce secca come un
colpo di
pistola: “Filate. Ora!”.
I
due lanciarono un’ultima occhiata allo stremato compagno,
poi, riposte le
bacchette, si allontanarono verso il castello senza voltarsi indietro.
Certo
che non sarebbero tornati, rivolsi nuovamente la mia attenzione a Nott.
Mi
avvicinai e lo afferrai per il bavero dell’uniforme.
“E
adesso a noi” ringhiai, per poi trascinarlo in piedi.
Sembrava più un sacco di
patate che un essere umano. Lo trascinai per qualche metro e lo
scaraventai
contro il tronco dell’albero. Nel suo sguardo c’era
il terrore: nonostante non
avesse riportato nessun vero danno, in qualche modo sembrava aver
capito il
rischio corso.
Mi
faceva
quasi pena, ma respinsi quel pensiero, ricordando i mesi di insulti e
agguati,
le parole infami che aveva detto a Mary, il suo tentativo di ferirla.
Doveva
finire lì.
Quando
parlai, la mia voce aveva recuperato la necessaria durezza:
“Con questo concludiamo
il nostro scontro, Nott. Ne ho le palle piene di guardarmi le spalle
ogni volta
che percorro i corridoi, di sentire le tue idiozie, di sopportare
insulti e
prese in giro. Oggi hai visto quello che sono capace di fare se mi
arrabbio, e
spero proprio ti sia bastato. Non avrai una seconda occasione: se ti
azzarderai
di nuovo a offendere o aggredire me, Mary o un altro dei miei amici, ti
assicuro che quello che ti ho fatto fino a questo momento ti
sembrerà una
gentile carezza rispetto a ciò che ti farò. Hai
capito?”.
La
voce di Nott somigliò al pigolio di un pulcino spaventato.
Lo scossi rudemente:
“Quando hai dato a Mary della puttana non sembrava mancarti
il fiato, vedi di
trovarlo anche ora! Ho chiesto: hai capito?”.
“S…si!
Ho capito!” squittì.
Lo
fissai ancora per un istante, poi lo spinsi via: “Raccogli la
tua bacchetta e
levati dai piedi!”.
Non
se lo fece ripetere due volte: presa la bacchetta, scappò
incespicando verso il
castello.
Fu
come
se io fossi stato un materassino gonfiabile e uno spillo mi avesse
improvvisamente bucato: letteralmente, mi sgonfiai. Tutta
l’adrenalina che mi
aveva sostenuto fino a quel momento sembrò scomparire di
colpo: crollai a
sedere con un sospiro, lasciando cadere la bacchetta e portandomi una
mano alla
fronte come se fossi stato colto da un improvviso dolore lancinante
alla testa.
Dopo quello che era accaduto, niente sarebbe riuscito a far tornare
Nott
indietro, ma se lo avesse fatto in quel momento sarebbe riuscito a
ridurmi ad
una polpetta senza neanche sforzarsi, tanto ero abbattuto,
più mentalmente che
fisicamente, ma ugualmente fuori combattimento.
Non
saprei dire quanto passò, forse trenta secondi, forse dieci
volte tanto, forse
un paio di vite umane. Davanti ai miei occhi era calata una sorta di
nebbia,
mentre la consapevolezza dell’accaduto mi investiva con la
forza di un ciclone:
ero stato sul punto di uccidere una persona. Peggio: avevo provato il
desiderio
di uccidere una persona! Un ragazzo di tredici anni! Era qualcosa di
talmente assurdo
che facevo fatica perfino a prenderne coscienza. Cosa mi era successo?
La
rabbia per l’aggressione a Mary e per gli insulti ricevuti
non era neanche lontanamente
sufficiente per giustificare una simile reazione. Possibile che
ciò che avevo
visto dentro l’albero mi avesse scosso al punto
da… da cosa? Da tirare fuori
dalla mia anima una personalità completamente diversa?
Perché era questo che
era accaduto: l’essere che aveva infierito su Nott non era
Joshua Carter, non
era Matteo Simoncini. Chi diavolo era? Avevo sentito già
altre volte premere ai
limiti del mio inconscio quella sorta di velo nero, lo spirito di un
combattente,
di un guerriero pronto a tutto, incurante delle conseguenze. Ero
io… e allo
stesso tempo non lo ero. Sembrava quasi che, dopo il mio viaggio, alle
due
persone che componevano il mio essere se ne fosse aggiunta una terza,
che era
entrambe e nessuna delle due, che era una sorta di doppio oscuro, che
restava
in panchina, silente, pronta però ad entrare in campo quando
lo riteneva
opportuno. C’era di che impazzire: perché
esisteva? Avevo la sensazione che
questa personalità fosse sorta con il mio arrivo in quel
mondo, o forse proprio
a causa di esso, ma quale era il suo scopo?
Una
sorta di sussurro, lieve come il volo di una farfalla e allo stesso
tempo
potente come un tuono, arrivò a distogliermi dalle mie
riflessioni: “Josh…”.
Mi
voltai di scatto: Mary era in piedi accanto a me, il volto spaventato e
preoccupato
allo stesso tempo, le lacrime che ancora le rigavano le guance.
All’improvviso
realizzai il terribile spettacolo al quale l’avevo costretta
ad assistere:
poteva essere anche partita come una vendetta per quello che Nott le
aveva fatto,
ma ciò che aveva visto era stato l’equivalente
magico di uno spietato pestaggio.
Mary, la dolce ragazzina che tanto teneva a me, che con ogni
probabilità
provava un adolescenziale amore per me, aveva visto un mostro. Aveva
paura per
me… e allo stesso tempo aveva paura di me!
Senza
riflettere ulteriormente, mi tirai in piedi e mi avvicinai. Per
fortuna,
nonostante nei suoi occhi ci fosse ancora l’orrore per
ciò che era successo,
non si scostò. Non credo che lo avrei sopportato.
Ci
sarebbero state mille cose che avrei potuto dire per spiegarmi, per
giustificarmi, per scusarmi. La sola che riuscì a lasciare
le mie labbra fu un rantolante
‘Perdonami’, prima che le crollassi letteralmente
tra le braccia. Un attimo
dopo, piangevo sulla sua esile spalla.