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Autore: QueenOfEvil    01/08/2020    0 recensioni
Prima che Aa perdesse due dei suoi tre occhi. Prima dell'ultimo verobuio. Prima della Profezia.
Mia era senza alcun dubbio "una ragazza con una storia da raccontare".
Ma, vedete, gentili amici, quella definizione poteva benissimo valere anche per i suoi genitori.
"Julius non aveva mai visto qualcuno morire quando, a sei anni non ancora compiuti, Atticus aveva deciso che era il momento per lui di assistere al suo primo venatus magnii. Non conosceva l’odore ferroso del sangue, né il modo in cui la sabbia cambiava colore, mentre dai corpi caduti sbocciavano fiori vermigli. Non conosceva le urla estasiate della folla adorante, né tantomeno quelle agonizzanti degli schiavi che trovavano la morte per l’altrui divertimento.
Dopo averli conosciuti, non era riuscito a dormire per settimane.
La seconda volta, quando di anni ne aveva otto, era andata meglio: si era limitato a rimettere il suo ultimopasto, l’illuminotte seguente.
La terza, l’unica reazione che quello spettacolo gli aveva procurato era stata uno sbadiglio."
Genere: Avventura, Fantasy, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash | Personaggi: Alinne Corvere, Altri, Julius Scaeva, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Neh diis lus'a, lus diis'a'
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Egestas docet artes





 

Qualcosa di freddo lo colpì con violenza al viso, facendolo sussultare.
Julius aprì gli occhi di scatto, sentendo l’acqua scorrergli lungo le guance e il collo, e cercò di scostare i propri riccioli dagli occhi, ma scoprì -con un brivido che non aveva nulla a che fare con il liquido che gli bagnava i vestiti- di non poter muovere le mani. Scattò di lato, la vista ancora annebbiata dall’acqua e dalla soliluce, e perse l’equilibrio, cadendo dalla posizione seduta in cui si era svegliato e battendo il fianco sinistro con un tonfo sordo sul pavimento di legno. La corda che gli legava polsi e caviglie, talmente stretta da rendere gli arti insensibili, sfregò contro la pelle e gli strappò un gemito.
“Il signorino si è svegliato, finalmente. Avevo paura che avrei dovuto ricorrere a metodi… più drastici”
Julius ruotò la testa verso l’alto, cercando di ignorare il dolore alla testa nel punto in cui qualcosa -qualcuno- lo aveva colpito ore prima e riuscì a distinguere nell’angolo una figura che lo osservava dal lato opposto della stanza. I contorni del viso erano sfocati -annebbiati dalle lacrime che si erano raccolte negli occhi senza il suo permesso-, ma anche così riuscì a distinguere sulla sua testa una folta chioma rossa. 
E quella voce… Figlie, quella voce…
Facendo leva con il gomito e le ginocchia, riuscì a rimettersi a sedere nella posizione originale ed avere, finalmente, una visione d’insieme della stanza: l’ambiente somigliava molto ad una mansarda ritagliata nel sottotetto, con travi in bella vista e un soffitto tanto basso che un uomo di media statura avrebbe dovuto chinarsi per non sbattere la testa. La luce proveniva da una finestra che Julius non riusciva ad identificare, con tutta probabilità posizionata nel muro contro cui era seduto, e la porta, accanto alla quale era appoggiato un secchio di metallo vuoto, era direttamente di fronte a lui, ad un paio di metri di distanza: l’arredamento era completato da un letto malandato a sinistra della porta, talmente storto da sembrare il risultato di un artigiano strabico e affetto da scoliosi, e da una sedia altrettanto sghemba, sua sorella gemella, dirimpetto.
Su quella sedia stava l’uomo che lo aveva preso in custodia e che Julius riconobbe come l’individuo che aveva tentato di ucciderlo, quel cambio in cantina. Le ombre attorno a loro si agitarono e pregò -ancora una volta, nessuno in particolare- che egli non se ne accorgesse: non sapeva cosa sarebbe potuto succedere, se avesse intuito che c’era qualcosa di tremendamente sbagliato nel ragazzino intrappolato a pochi passi da lui. Se c’era margine di peggioramento per la sua situazione, non era interessato a verificarne l’ampiezza.
“Chi… chi siete voi? E dove mi trovo?”
Il suo interlocutore non diede mostra di avere sentito la domanda: “Devo essere sincero, non mi aspettavo che tu eri così stupido da tornare. Ma sono felice che lo hai fatto: almeno abbiamo l’occasione di fare una chiacchierata, io e tu”
Julius realizzò di avere posto le proprie domande in Itreyano e che l’uomo davanti a lui aveva replicato nel medesimo idioma, anche se in modo un po’ sgrammaticato: era strano, non erano molti gli schiavi che conoscevano più di una lingua, in quei luoghi, il che lasciava trasparire che egli avesse un certo grado di istruzione. Non era il caso di mostrare di poter sostenere una conversazione anche in Liisiano, né di mostrarsi troppo svegli. Se i cani delle croste riuscivano a cacciare fingendosi morti, forse lui sarebbe riuscito a sopravvivere imitandoli1.
“Voi ed io ci conosciamo, mi domine?”
Il suo interlocutore si alzò di scatto, si accovacciò davanti a lui e gli prese il viso nella mano sinistra, premendo le dita sui suoi zigomi con tanta forza da fargli male e costringendolo a guardarlo negli occhi. Poi, si toccò il cerchio arkemico sulla guancia destra: “La vedi questa?”
Julius rimase immobile, la propria paura appiccicata addosso come il succo di un frutto zuccherino. Quando l’altro realizzò che non avrebbe avuto una risposta, ringhiò e gli sbatté la testa contro il muro con tanta forza che per un attimo vide nero.
“Ti ho fatto una domanda. Rispondi.”
“S-sì… sì la vedo”
“Bene. Allora non provare più di prendere me per il culo a chiamare me ‘mi domine’ come se sono un ricco coglione”
Messaggio recepito.
“Scusatemi”
“E non dare me del ‘voi’”
Julius abbassò gli occhi, il cuore che gli batteva in gola sempre più veloce: “Continuo a non capire. Chi si… sei? Cosa ti ho fatto?” E poi, con tremolio nella voce falso solo in parte, aggiunse: “Voglio andare a casa”
L’uomo gli rivolse un sorriso cattivo: “Tu non hai mai visto me, vero?”
Sì, anche troppe volte. Julius scosse la testa.
“Ma io visto te. E non solo io” Si frugò nella tasta dei pantaloni, ne prese qualcosa e aprì il pugno proprio di fronte a lui “Li riconosci questi?”
Gli orecchini con il simbolo della Trinità luccicarono alla luce dei soli e Julius strinse denti e labbra, imponendosi uno sguardo vacuo mentre le sue mani -ancora legate dietro la schiena- si serravano in pugni così stretti da conficcare le unghie nella carne dei palmi. Non voleva ripensare a ciò che quei gioielli significavano, alle scene che si erano impresse a fuoco nella sua mente dopo quell’illuminotte. E i sensi di colpa, il rimpianto, o qualsiasi tipo di affetto avesse provato nei confronti di Bert rivestivano tutti un ruolo secondario.
A dispetto dei cambi passati, sentiva ancora sulle dita la consistenza del sangue e in bocca il suo sapore. Faticava ad abituarcisi.
“No, mi dom… no. Cosa sono?”
Lo schiaffo che seguì gli fece sbattere nuovamente la testa contro la parete e sentì le ombre attorno a lui attorcigliarsi nella sua direzione, rabbiose e spaventate insieme: cercò di muovere le dita per calmarle, ma si accorse che esse erano troppo intorpidite dai legacci per muoversi con la necessaria scioltezza. L’uomo, da parte sua, sembrò non notarle.
“Non li ricordi? Mi sembra strano, guarda bene”
Julius abbassò nuovamente gli occhi e si strinse nelle spalle, facendosi più piccolo, ma non modificò la propria posizione: “Non li ho mai visti, lo giuro”
Lo sguardo dell’altro si adombrò e Julius si ritrasse d’istinto, certo che a quella sua negazione sarebbe seguita una seconda sberla, ma l’uomo si alzò in piedi, torreggiando sopra di lui con la sua statura, tutto meno che esile: “Forse vedere qualcun altro ti fa cambiare idea”
Si diresse verso la porta e la aprì, poi allungò il collo oltre l’uscio, rivolgendosi in Liisiano a qualcuno nascosto nell’ombra del corridoio: “Evenit, tesoro, dammi la mano. Ecco, così, brava, segui la mia voce…” Dei passi esitanti accompagnarono le sue parole e quando egli si spostò di lato, lasciando libera la visuale, Julius provò una fitta di impaurito disgusto così pura e lancinante che, fosse stata un’arma, gli avrebbe con facilità trapassato lo stomaco da parte a parte.
Riconobbe la bambina che aveva incontrato nella cucina della villa dal colore dei capelli e dal modo in cui ella si aggrappava alla mano di suo padre -come se fosse lui l’unico scoglio in superficie nel raggio di chilometri e lei una nuotatrice esausta dispersa in una distesa di blu infinito-, perché, se si fosse dovuto basare solo sul suo viso, non vi sarebbe riuscito.
Tre piaghe le tagliavano la faccia a spicchi, profonde, slabbrate e ricucite alla bell’e meglio da qualcuno che Julius sospettava non essere un medico: erano rosse, le suture sulle guance tiravano, e notò con quanta forza l’uomo stringesse entrambe le mani della piccola, che invece cercavano di divincolarsi per andare a grattarsi i punti che le dolevano maggiormente. Doveva avercela fatta più di una volta, perché sbuffi rossi le decoravano la pelle attorno, linee secche che alludevano ad una disperazione crescente. Ma la parte peggiore, quella che fece maturare in Julius stesso il bisogno di tracciare con le dita i lineamenti del proprio viso, era che due delle tre ferite passavano dritte attraverso gli occhi. C’era una garza a coprirli, una benda che le avvolgeva la testa, fasciandole anche le orecchie, e impediva di vedere l’orribile spettacolo al di sotto. Julius ripensò alla minaccia che aveva trattenuto sulla punta della lingua, quel cambio -E non azzardarti a parlare di questa conversazione con nessuno o farò in modo che tu venga frustata- e sentì mani e stomaco dolergli per il disgusto: neanche Atticus aveva mai fatto qualcosa del genere. Neanche Atticus aveva mai minacciato qualcosa del genere.
“Conosci mia figlia, sì? Ricordi lei, almeno?”
Julius non sapeva se continuare a fissarla o distogliere lo sguardo -entrambi potevano essere interpretati come mancanze di rispetto-, così si rivolse direttamente al padre: “Io non…”
“Ti do un indizio, sono generoso: sei entrato in casa, hai preso questi” strinse nuovamente il pugno in cui teneva gli orecchini “e poi incontrato qualche in cucina”
“Non sono mai entrato nella casa della vostra padrona prima di oggi. Dovete credermi, non so di cosa stiate parlando”
Negare. Negare quanto più possibile era la sua migliore possibilità di uscire di lì. La ragazzina era cieca in quel momento -il che voleva dire che non avrebbe potuto indicarlo come colpevole- e nessun altro lo aveva visto quel maledetto cambio. Se avesse provato a dire che non era stato lui a commettere il furto, nessuno gli avrebbe creduto: lo leggeva nella fredda furia dell’uomo che aveva davanti, la soddisfazione bruciante dell’avere alla propria mercé la persona che si odia. Sperò solo che dopo quasi due settimane la sua voce non fosse ancora nitida nella mente della sua interlocutrice.
“È lui che ti ha parlato, tesoro?”
La bambina aggrottò la fronte e annuì. Poi, dopo un momento di esitazione, si aggrappò con forza al braccio del padre e scosse la testa: “Non… non lo so. Non ricordo bene. Era diverso, ma non tanto” Arricciò le labbra “Forse”
“Pensaci bene. Capelli neri e ricci, pelle chiara, occhi scuri: è così che me l’hai descritto, no?”
“Sì, sì proprio così” e poi aggiunse, dopo un momento di silenzio “e non era come noi. Lo so perché sulla sua guancia non c’era nulla. È per quello che non ho ti ho avvertito subito. Credevo che sarei finita nei guai, e tu mi avevi detto di fare la brava, mi dispiace tanto…” La sua voce si incrinò e nascoste il viso contro la camicia del genitore, che a sua volta la strinse a sé e le accarezzò la testa, sussurrandole parole rassicuranti che Julius non riuscì a comprendere.
L’ultima frase di Evenit, però, gli aveva dato un’idea.
“La mia padrona si arrabbierà se non mi vedrà tornare in fretta dalla mia commissione: ti supplico, dimmi cosa vuoi che io faccia e io la farò. Sono già terribilmente in ritardo e non voglio essere punito” I capelli, ancora bagnati e appiccicati alle guance, gli incrociavano il viso e nascondevano il falso marchio arkemico: con un gesto che sperò sembrasse abbastanza casuale, si stronfiò la guancia destra con la spalla, scostando al contempo i riccioli che la ricoprivano. Poi, con un sospiro, abbassò lo sguardo e inclinò il capo a sinistra “Sono sicuro che potet… puoi capire perché io stia dicendo questo”
L’uomo socchiuse gli occhi e gli si accovacciò di nuovo di fronte, lasciando la figlia accanto alla sedia. Poi, con un gesto che a Julius ricordò Oonan e le loro chiacchierate nei mesi passati e che lo fece rabbrividire di disgusto, gli mise una mano sulla spalla e gli sfiorò il cerchio scuro con le dita dell’altra.
“Questo non è un-” parola incomprensibile in Liisiano che doveva indicare i tatuaggi degli schiavi.
“Vorrei anche io che non lo fosse, credimi”
“I contorni non sono giusti. Troppo grande, poco spesso. Visto molti marchi, questo è diverso” Il che aveva senso, dato che la cosa più simile ad un cerchio che Julius era riuscito a trovare nella casa era stata l’anello di una catena arrugginita e spezzata in una delle cellette della cantina, ma per ovvie ragioni quella era un’informazione che non poteva dargli. E, anche se l’aspetto non era dei migliori, ricordava, da piccolo, la consistenza che aveva un marchio arkemico sulla pelle di uno schiavo: la sua imitazione non avrebbe mai retto all’ispezione di un administratii, o di un padrone attento, ma poteva instillare il dubbio in uno schiavo che fosse diventato tale da poco tempo.
“Non ricordo molto del momento in cui me l’hanno fatto, per ovvie ragioni” Sospirò, appoggiando la testa contro il muro e cercando di ignorare il contatto della pelle dell’uomo con la sua “Magari c’è stato un problema con la procedura e nessuno me l’ha mai detto. Io non ho fatto domande: ero piccolo, e volevo solo che finisse. Desiderio sprecato” Osservò con la coda dell’occhio il suo interlocutore vacillare nella sua sicurezza e seppe di avere impostato il dialogo nel modo giusto: innocuo, spaventato e rassegnato. Se fosse riuscito a fare leva sui -pochi- dubbi che ancora covava circa la sua identità e al contempo stabilire un contatto emotivo attraverso la figlia…
“Tu venuto altra volta in casa,” riprese l’altro, con una ferocia che Julius trovò meno genuina che in precedenza “A portare una lettera. Non aveva il cerchio su guancia: fatto dopo”
Doveva riferirsi al momento in cui aveva portato la lettera di Hëloise, in cui ella accettava l’invito a cena della domina: sapeva di non essere stato sufficientemente attento in quell’occasione, e che quella sua mancanza era stata la spinta che aveva dato inizio a una catena di eventi troppo lunga, ma era anche certo di non aver visto nessuno con i capelli rossi nei paraggi quel cambio. La logica conclusione era, dunque, che una terza persona avesse riferito al suo rapitore il suo aspetto e i suoi movimenti.
Dunque, c’era speranza.
“Non so a cosa ti riferisci. Davvero. Chiunque tu stia cercando mi deve assomigliare in modo impressionante ma…” Lasciò cadere la frase, cercando parole abbastanza neutre da non suonare come una minaccia “… ho paura. Se non torno in fretta penseranno che io sia scappato e quando mi ritroveranno sarò punito. Se invece scoprissero che sono stato trattenuto…” si morse il labbro “… ai miei padroni non piace chi danneggiare la loro proprietà”
L’uomo alzò il braccio e Julius scattò all’indietro, temendo di non essere stato abbastanza convincente, ma il colpo non arrivò mai: invece, il suo interlocutore si alzò in piedi, labbra serrate e dubbio negli occhi, e gli diede la schiena. Julius non poteva leggergli la mente, ma non ebbe difficoltà ad intuire quali fossero le problematiche su cui stava ragionando. 
Quel piccolo cerchio sulla guancia, anche se mal fatto, sembrava indelebile, ergo c’era la possibilità che lui non stesse mentendo. Se era uno schiavo e non un piccolo ladro di strada, questo significava che apparteneva a qualcuno, e che quel qualcuno avrebbe potuto reagire in modo violento scoprendo di avere perso dei soldi per via di una mera ripicca personale. In più, l’unica descrizione del suo aspetto fisico gli era stata fornita dalla figlia, che in quel momento -e con tutta probabilità anche in futuro- non poteva dargli la conferma necessaria. Certo, era probabile che sapere con certezza che lui era il diretto responsabile sarebbe stato sufficiente per fargli correre il rischio ed attuare la sua vendetta, anche a costo di entrare in collisione con qualcuno di molto più potente di lui: Julius non aveva mai visto negli occhi di suo padre la scintilla con cui il suo rapitore guardava la propria figlia, ma non gli era difficile sapere cosa essa significasse. 
Questo però non era il caso. 
E non lo sarebbe stato ancora per un po’, qualora fosse riuscito a giocare bene le poche carte che gli rimanevano in mano.
“Perché eri in quella casa?”
L’immagine di Laurentia che mostrava qualcosa al servo, nei sotterranei gli fornì l’appiglio perfetto per rispondere: “Sono stato incaricato di riportare indietro un oggetto. Ho bussato alla porta e mi hanno fatto entrare, ma poi…” aggrottò la fronte, simulando incertezza “… è successo qualcosa. C’era confusione, e ho sentito qualcuno gridare, e ho creduto che avrei potuto cacciarmi nei guai se fossi rimasto” Non che abbia fatto molta differenza, pensò, ma preferì non aggiungere un commento sarcastico ad una frase nata per intenerire il suo ascoltatore.
“Che oggetto?”
“Non lo so. Religioso, credo. Quando me lo hanno affidato non hanno specificato e io non ho osato…” si interruppe a metà frase, mentre un vero dubbio si faceva strada nei suoi polmoni, togliendogli l’aria “Dov’è la borsa? Avevo… avevo una borsa con me quando sono uscito, l’avete presa, vero? Non l’avete lasciata per strada…” Cercò di non pensare alla possibilità che la sacca fosse rimasta nel vicolo, che un estraneo l’avesse vista e se ne fosse impossessato. A cosa sarebbe successo se fosse uscito di lì senza i documenti, se si fosse ripresentato alla villa senza nulla in mano e tutte le sue speranze di libertà dissolte al vento come ceneri di carta bruciata.
Alla decisione di Hëloise in merito al secondo debito, e al piccolo cerchio arkemico che, in caso di una sua risposta affermativa, avrebbe marchiato la sua guancia per un tempo indeterminato.
Il suo interlocutore abbozzò un ghigno: “Forse sì. Forse no. Non credo tu hai bisogno di borsa molto presto, però” Julius cercò di riprendere la parola, ma venne interrotto da un cenno stizzito “Io so persona che ha visto te -o tuo sosia- al cambio della lettera. Evenit no sicura, ma lui sì. Io porto lui qui, e mi dice se sei tu o altro, e se tu avevi cerchio su guancia. E se sì…” Fece scrocchiare le nocche “… tu hai viso bello. Non molti servi hanno viso bello come tuo. Sarà piacere lo rovinare come tu rovinato quello di mia figlia” Poi si rivolse alla bambina, ancora appoggiata alla sedia come se tutto il suo universo si fosse ridotto a quei pochi pollici di legno e suolo “Tu resta qui, tranquilla. Stenditi sul letto e cerca di riposare: io torno presto. Chiudo la porta a chiave, ma se avessi bisogno di uscire, prendi questa” Si frugò nella tasca dei pantaloni e ne tirò fuori una chiave, attaccata a un filo di spago; poi, con delicatezza, la infilò al collo della figlia, che la strinse in mano e annuì, seria, dimostrando di avere capito quello che il padre aveva voluto dirle con quel gesto. Anche se cieca, era importante che avesse la possibilità di uscire in caso di pericolo.
L’uomo si diresse verso l’uscita e stava già per sparire in corridoio, lasciando Julius con la speranza che il suo unico guardiano per le prossime ore sarebbe stata una bambina piccola e cieca, quando si fermò, mise il pollice e l’indice della mano destra in bocca e fischiò: si udirono dei passi, pesanti a tal punto da far tremare il pavimento della camera stessa, e sulla porta apparve il cane più grande che Julius avesse mai visto. Era alto almeno quanto lui -e non era il caso di valutare cosa sarebbe diventato se avesse deciso di alzarsi sulle zampe posteriori-, largo come un maiale allevato alla Porcheria, e il colore marrone del suo pelofaceva risaltare ancora di più i suoi occhi, di un rosso che gli ricordò il salmone andato a male al mercato del pesce di Godsgrave. La bestia sbadigliò, tirando fuori a lingua, e Julius vide che i suoi canini avrebbero potuto gareggiare in lunghezza con il suo dito indice. Non aveva intenzione di verificare quanto potessero essere affilati.
“Shiih, fa’ la guardia finché non torno” L’uomo indicò l’altro lato della stanza, dove Julius era ancora rannicchiato “Lui cattivo. Non farlo uscire” E anche se il diretto interessato non aveva mai avuto grande fede nell’intelligenza animale, il ringhio che uscì dalla bocca del mastino gli diede la sensazione che quella cosa avesse capito fin troppo bene quale fosse il suo compito. Fosse stato in un’altra situazione, avrebbe potuto trovare quasi ironico che il padrone avesse dato al suo cane il nome di uno degli occhi del Semprevigile, e che fosse proprio quel cane adesso a controllarlo. 
“Non ci metterò molto” Chiuse la porta dietro di lui, lasciando quelle parole -più simili a una minaccia che a una promessa- aleggiare nella stanza.
La bambina mosse la testa da una parte all’altra della stanza, spaesata, e dopo un momento di esitazione raccolse le ginocchia sulla sedia e vi appoggiò il mento. Anche senza poter vedere i suoi occhi, non era difficile immaginare che espressione ella dovesse avere, al di sotto della benda. Il cane si accucciò ai suoi piedi, coda adagiata sul pavimento, e muso raccolto tra le zampe.
Julius provò a scivolare di lato e allentare i lacci che gli stringevano polsi e caviglie, ma, appena si mosse, Shiih alzò il capo e punto le orecchie nella sua direzione, emettendo un suono basso e vibrato che aveva tutta l’aria di un avvertimento. Il ragazzino si fermò sul posto e cercò di farsi più piccolo possibile: smise di tremare solo quando l’animale ritornò alla sua posizione originale.  Quando fu sicuro che non ci sarebbero state ripercussioni fischi per quel suo tentativo, emise un sospiro, sconfortato.
Non aveva idea di cosa fare.
Il padre di Evenit sarebbe rimasto fuori di lì per poco, giusto il tempo di trovare l’altro servitore e portarlo in quel loro rifugio improvvisato: una volta che lo avesse identificato -e avesse anche confermato che, al tempo in cui aveva consegnato la lettera, nessun marchio arkemico decorava la sua guancia- non avrebbe avuto più senso continuare a mentire. Non gli avrebbero creduto. Le sue opportunità di fuga gli sembravano basse, per non dire inesistenti, e non aveva neanche la speranza di riuscire a mandare un messaggio perché qualcuno lo venisse a cercare: Sussurro era alla villa, a tenere d’occhio Alinne e Lucius, esattamente come lui gli aveva chiesto, e anche lo avesse contattato in qualche modo non avrebbe saputo dirgli dove si trovasse, dato che era rimasto incosciente durante tutto il tragitto.
Era stato stupido a volersi privare del suo supporto solo per una mera questione di orgoglio personale.
L’ombravipera aveva avuto ragione, e lui torto.
E ne avrebbe pagato le conseguenze di lì a breve.
Non era mai stato eccessivamente ossessionato dal suo aspetto, ma il pensiero di venire sfigurato, di subire la stessa sorte di Evenit, e poi di essere gettato in strada in quelle condizioni -sotto gli occhi di tutti, ridotto ad affidarsi alla pietà dei passanti che con tutta probabilità lo avrebbero preso a calci- gli fece rimpiangere di non essere morto, quel cambio in cui erano venuti a prenderlo nelle cantine. Qualsiasi tipo di violenza era preferibile al ridicolo.
Sentì il respiro mancargli e la vista divenirgli sfocata, ma, per una volta, non lottò per ricacciare indietro le lacrime.
D’altronde, non c’era nessuno in quella stanza che potesse vederle.


 

❊❊❊

 

Se l’incarnazione materiale dell’ottimismo si fosse manifestata nel mondo sotto forma di animale, Alinne avrebbe scommesso che essa avrebbe preso la forma di un topo, e che l’avventura di quel roditore si sarebbe conclusa neanche due illuminotti dopo la sua apparizione, per colpa di un pezzo di formaggio avvelenato.
Erano sei cambi che vagava per i bassifondi di Elai -parti della città dove suo fratello le aveva intimato di non mettere mai piede, e che lei aveva imparato a conoscere per puro spirito di contraddizione, anche a costo di qualche imprevisto poco piacevole3- alla disperata ricerca dell’uomo che aveva commesso l’omicidio per conto del dominus e tutto quello che era riuscita a rimediare erano un numero indefinito di minacce, tre scrollate di spalle e due cavoli marci che un venditore dell'aria equivoca le aveva tirato dietro, quando aveva rifiutato di togliersi di torno. A dire la verità, la possibilità di cacciarsi nei guai non la preoccupava: se c’era qualcosa che gli ultimi quattro anni della sua vita le avevano insegnato era che tirarsi indietro di fronte al pericolo non era un’opzione, e che le possibilità andavano colte quando si presentavano, con poco riguardo per le conseguenze. Il vero problema era che nulla di quanto aveva fatto sin a quel momento l’aveva portata a fare passi avanti nella sua ricerca: nessun banco dei pegni aveva sentito parlare di un anello d’argento dalla provenienza sospetta -o, perlomeno, nessun banco dei pegni disposto a rivelare le sue informazioni- e anche i pochi a cui sembrava di avere visto un uomo Dweymeri gironzolare da quelle parti non erano stati in grado di darle altre informazioni a riguardo. D’altronde, molti stranieri dalla pelle scura e il volto tatuato transitavano in quelle zone -troppo poveri o troppo isolati per potersi permettere una taverna dalla buona reputazione- e senza altri dettagli da aggiungere alla descrizione era difficile che la sua ricerca facesse passi avanti.
In un momento di disperazione, era stata tentata di rivolgersi all’amante di suo fratello, Distillaluce, nella speranza che stesse darle qualche dritta in merito, ma questo avrebbe voluto dire coinvolgerlo nella faccenda ancora più di quanto già non fosse: dopo quanto successo nelle cantine della villa, non si sentiva nella posizione di chiedergli un altro favore. Non erano mai stati in un buoni rapporti, lei e Distillaluce, e anche se l’aveva ospitata per quei primi cambi, e aveva risposto alla sua richiesta d’aiuto, non voleva dire che la sua lealtà non potesse cambiare al primo segno di pericolo. Le aveva accennato, quando lei aveva deciso di recarsi alla villa per trovare un altro posto sicuro dove stare, al fatto di essere in debito con suo fratello, per un grande favore che quest’ultimo gli aveva fatto, tempo prima e che aiutarla in questo frangente sarebbe stato il suo modo per ripagare Jonnen, eppure Alinne non riusciva comunque a credere al buon cuore di chicchessia, e specialmente di qualcuno che era coinvolto nello stesso dannato traffico di suo fratello.
Quindi, si era rassegnata a procedere con i suoi soli mezzi.
Mancavano quattro cambi al processo di Jonnen -un processo di forma, che era già finito ancora prima di cominciare- e se non avesse trovato le prove che le servivano…
No.
Alinne scosse la testa, allontanando quell’eventualità dalla sua mente, e si sedette sul ciglio della strada, ad un isolato di distanza dal suo rifugio: doveva cambiare tattica. Andare alla cieca, nella speranza che Aa acconsentisse alla sua silenziosa richiesta e la ricompensasse per la sua pazienza, le sembrava un’utopia difficilmente realizzabile: il Semprevigile non le aveva mai mostrato segni di particolare benevolenza, né di particolare astio, e a quella sottile indifferenza lei aveva sempre risposto con una fede tiepida, sufficiente per portare rispetto e pregare, ma non per affidarsi completamente al suo arbitrio.
Certo, credere era risultato molto più facile da quando aveva conosciuto il nipote della padrona della villa.
A distanza di un mese dal loro primo incontro, Alinne continuava a provare sentimenti contrastanti nei confronti di Julius. Non le piaceva, questo era un dato di fatto: il suo comportamento le aveva dato sui nervi sin da quel cambio al mercato, quando l’unica cosa che era riuscita a strappargli di bocca era stato un insulto piuttosto gratuito. Aveva un’opinione troppo alta di se stesso -di sicuro troppo alta per qualcuno povero in canna costretto a ripagare un debito con il proprio lavoro- e la brutta abitudine di squadrare il proprio interlocutore con i suoi occhi eccessivamente scuri, come se lo stesse sezionando e al contempo giudicando di scarsa importanza. Era anche vero, però, aveva dovuto ammettere, infastidita dal suo stesso pensiero, che si era rivelato un ottimo alleato temporaneo: era sveglio, pensava in fretta, ed era più determinato della maggior parte dei ragazzini della sua età. Questo, però, voleva anche dire che era pericoloso fidarsi: non sapeva con esattezza cosa l’avesse spinto ad aiutarla -anche se poteva immaginarlo. Aveva bisogno di denaro per andarsene di lì, e di sicuro recuperare i documenti chiusi in quello studio gli avrebbe dato un vantaggio non indifferente-, ma lo conosceva abbastanza da poter scartare il buon cuore e il sincero altruismo. Lo avrebbe rispettato di meno, se non avesse avuto secondi fini, ma sarebbe anche stato più comodo per lei. Senza contare che la sua vera natura, particolare di non secondaria importanza,  non aiutava affatto a stabilire un rapporto di fiducia, per quanto apparente: il proprio disagio a riguardo la infastidiva -e la infastidiva che lui sapesse che la infastidiva, e non per un unico motivo-, ma le era difficile nascondere repulsione ogni volta che vedeva quella… cosa strisciare fuori dalla sua ombra. E il pensiero che essa potesse nascondersi negli anfratti della villa, e spiare lei e i suoi abitanti senza che nessuno si accorgesse di niente, era un motivo in più per passare meno tempo possibile tra quelle mura.
Era primo pomeriggio, comunque, e, dopo aver passato l’intera mattina a girovagare, iniziava ad essere stanca ed affamata: era Lucius che di solito le portava un pezzo di pane o un frutto, ma aveva saltato quel primopasto nella speranza di guadagnare tempo, e sentiva che tra la soliluce, la sete e lo stomaco vuoto non sarebbe riuscita a rimanere vigile e scattante per tutto il resto del cambio. Se si fosse riposata, almeno per qualche minuto, forse sarebbe riuscita a farsi venire in mente un piano d’azione migliore, che non comprendesse chiedere aiuto né a Distillaluce né a Julius.
Le celle della cantina erano buie, e l’umidità che traspariva dai muri le rendeva difficile dormire, ma riconosceva, con il senno di poi, che si erano rivelate un ottimo nascondiglio: Lucius non aveva mentito quando le aveva detto che quasi nessuno scendeva in quegli ambienti, e che anche quando questo succedeva i servitori vi si fermavano il meno possibile. Non che Alinne potesse, in tutta sincerità, biasimarli: quegli ambienti, così spogli e sporchi, le ricordavano le stamberghe dove sua madre si andava a rintanare, quando riusciva a trovare qualcosa da vendere in casa, e lei, suo fratello e suo padre la ritrovavano semi-cosciente, troppo stordita anche solo per riconoscerli. Avrebbe preferito morire, che ridursi in quel modo4. Ma non era il caso di fare troppo la schizzinosa, né la sentimentale: considerava già una fortuna insperata l’aver trovato una base più o meno sicura dove poter pensare senza la paura dei Luminatii. Probabilmente nessuno dei soldati si interessava più alla sua sorte, ma era meglio non rischiare.
Era seduta in un angolo della celletta, giocherellando con la stoffa del suo vestito e lanciando occhiate svogliate alla piccola finestra sopra di lei, quando udì un rumore di passi familiare. Anni di vita raminga le avevano insegnato a basarsi sugli altri suoi sensi -tatto, olfatto e udito- tanto quanto alla vista e una delle prime cose che aveva fatto, una volta stabilitasi alla villa, era stato imparare il suono che i suoi abitanti producevano, scendendo le scale e poi percorrendo il corridoio. Le donne procedevano esitanti, e accompagnavano i propri piedi con un leggero strofinio della mano, che procedeva di pari passo sul muro. Gli uomini avevano un incedere più deciso e pesante, ma anche veloce, sintomo di un’insicurezza che cercavano di mascherare con la tracotanza. Il passo di Julius era soffuso e deciso allo stesso tempo, e Alinne non aveva potuto fare a meno di notare quanto a suo agio egli sembrasse, tra l’oscurità di quegli ambienti, a confronto con tutti gli altri. E infine…
Ad Alinne, Lucius dava l’idea di qualcuno che avesse la percezione di essere nato al posto sbagliato al momento sbagliato, e che avesse passato i primi dodici anni della sua vita a cercare di porre rimedio alla sua situazione: non poteva esserci un’altra spiegazione a quella strana mescolanza di ottimismo, incertezza e disponibilità che componeva il suo carattere e che si trasmetteva -in modi a lei occulti- anche al suono dei suoi piedi sul pavimento.
Era fondamentalmente innocuo e perciò le era indifferente.
“Come va?” le chiese il ragazzino, entrando nella stanza con la schiena curva e l’andatura un po’ esitante.
“Non peggio di ieri,” rispose, storcendo la bocca “ma neanche meglio”
“Bene. Cioè… cioè non bene davvero, bene che non vada peggio, non che non vada meglio, insomma…” prese un bel respiro, poi scosse la testa “hai capito”
“Sei venuto qui solo per chiedermi come sto? Grazie del pensiero, ma hai sprecato del tempo”
“In realtà, sono preoccupato”
Alinne alzò un sopracciglio, e non poté trattenersi dal modulare il tono di voce in una sfumatura sarcastica: “Notizia inaspettata”
Un lampo irritato illuminò gli occhi del suo interlocutore: “Non per la situazione in generale, e neanche per mio padre. Sembra che ci siano stati dei… problemi, alla villa in cui vi siete introdotti qualche cambio fa”
Alinne raddrizzò la schiena e lo squadrò, con la fronte aggrottata: “Che tipo di problemi?”
“Mio padre non mi ha voluto dare i particolari -‘Resta fuori da questa faccenda, non ti riguarda’-, ma mi sono informato un po’ in giro e credo che riguardi la falsa suora. Sai, oggi i padroni di casa erano qui a pranzo da noi e sembra che lei abbia colto l’occasione per farsi aprire dai servitori con una scusa…”
“Aspetta aspetta, fammi capire bene: il dominus in possesso dei documenti è stato qui? Insieme a sua moglie? Per delle ore?
“Sì, sono cambi che stavano organizzando: Hëloise ha deciso di ricambiare la cortesia che le era stata fatta e… pensavo che Julius te l’avesse detto, però”
“Julius non mi ha detto proprio un bel niente” E poi, dopo un momento di silenzio, aggiunse “E, adesso che lo so, vorrei sentire quello che ha da dire a riguardo” Non che anche lei gli avesse detto delle sue escursioni, ma quello era un altro discorso. Era luiche si era offerto di aiutare lei, non viceversa.
Lucius si strofinò il naso con l’indice destro, poi prese a stropicciarsi il lembo inferiore della maglia: “Ecco, questo è un altro problema. Nel senso che l’ho cercato -sembrava un’informazione utile, anche se non so bene in che modo-, ma non l’ho trovato in casa: ho provato a chiedere a qualche servitore, ma nessuno mi ha saputo dire nulla. Sai, avevo paura di metterlo nei guai: non è che stia molto simpatico agli altri”
“Non ho davvero idea del perché, sai?”
Lucius non diede segno di avere colto il sarcasmo: “Beh, ogni tanto è un po’ supponente, credo sia per quello. Comunque non è questo il punto: sono quasi del tutto certo che non sia in casa, e non capisco… cioè, avevamo parlato, ieri, e non mi sembrava che ci fosse nulla di strano”
Alinne si trattenne dal dirgli che, tra tutte le qualità che gli avevano fatto guadagnare la fiducia di Julius, lo spirito di osservazione di certo non era la più prominente. Che, anzi, probabilmente era il contrario.
“Dimmi esattamente cosa sai su quello che è successo”
Lucius le raccontò delle chiacchiere della cuoca e di Forgiacatene, la capo-domestica: sembrava che fosse stato ritrovato qualcosa di fuori posto nella camera di Sorella Claudia, qualcosa che aveva fatto dubitare Hëloise della sua vera identità, e che si era venuto a sapere solo dopo che la ragazza si era allontanata dal pranzo con un pretesto, solo per essere arrestata nella casa degli altri domini, mentre tentata di introdursi in una camera da letto. Non si sapeva con esattezza se qualcosa era stato trafugato -e di certo non era un’informazione, quella, che i padroni avrebbero divulgato con leggerezza-, ma Hëloise si era rinchiusa in biblioteca a pregare, rifiutando qualsiasi interazione con il mondo esterno, e nessuno sapeva cosa ne fosse stato della sua ex-ospite. Nulla di positivo, questo era certo.
Alinne abbassò mento e sguardo, pensierosa: sapevano che la ragazza aveva mostrato un interesse analogo al loro per i documenti -anzi, era stata proprio lei ad indirizzarli verso quella direzione- e che se avesse saputo dove essi si trovavano non avrebbe avuto difficoltà ad entrare nella villa, sfruttando il proprio travestimento e credibilità per avere accesso alle stanze che le interessavano. Quello che non capiva era come ella fosse arrivata ad identificarne non solo il possessore, ma addirittura l’esatta ubicazione: non avrebbe avuto senso -ragionò, innervosita- introdursi in un’abitazione altrui, alla cieca, con la certezza che se non avesse trovato quello che cercava la sua copertura sarebbe comunque saltata. O ella era più furba di quanto le avessero dato credito oppure qualcuno le aveva passato quelle informazioni.
E c’era una sola persona che avrebbe potuto farlo.
Alinne si alzò in piedi di scatto, pugni chiusi e labbra serrate in una linea dritta: “Figlio di puttana5
“Chi?”
“Vorrei avercelo davanti, qui, adesso: al Focolare il pugno, scommetto che riuscirei a fargli rimpiangere di avermi lasciato tenere quel cazzo di pugnale”
“Di chi… cosa stai parlando? Che significa?”
Alinne diede le spalle e a Lucius, e poi gli scoccò un’occhiata in tralice: “Julius, genio. Ha avvertito la falsa suora, si è fatto pagare per le informazioni e poi è scappato, lasciandomi nella merda” 
“Non lo farebbe mai!” Il suo interlocutore scosse la testa, incredulo “Non è quel tipo di persona”
“Ah no? E cosa ti sembra che sia accaduto, invece?”
… Qualcosa di un po’ diverso, in realtà…
Alinne e Lucius si voltarono entrambi verso il punto della stanza da cui era arrivata la voce e fecero uno scatto all’indietro quando dall’oscurità proiettata dalla porta uscì un serpente fatto di ombre, la sua non-lingua che sibilava nella loro direzione. Guardando il viso del suo compagno, e notandone il colorito cinereo, Alinne si rese conto di non essere l’unica a provare nausea e diffidenza nei confronti di quel lato della loro comune conoscenza. Ciò la rassicurò ed irritò al tempo stesso.
“Cosa… cosa intendi?”
Il rettile si arrotolò ai loro piedi, assolutamente indifferente al loro disagio: “… Intendo che le tue conclusioni sono giuste solo fino ad un certo punto, ragazzina…” E, prima che Alinne potesse ribattere -‘Non chiamarmi ragazzina’- egli ricominciò a parlare, descrivendo per sommi capi come si erano svolti gli eventi, da quel mattino sino ad allora.
Lucius fu, stranamente, il primo a parlare, una volta che ebbe finito: “Quindi il piano di Julius era introdursi nella casa con Sorella Claudia, prendere i documenti e farla arrestare subito dopo, ho capito bene?”
Il serpente annuì: “… Sì…
“E ha usato il foglietto che avete trovato nella sua camera per incastrarla…”
“Questo non è possibile,” lo interruppe Alinne “quel pezzo di carta ce l’ho io. Julius me lo ha dato quando…” La realizzazione la colpì in testa come un ramo d’albero staccatosi durante una tempesta e le fece altrettanto male: come aveva potuto essere così stupida?
… Vedo che hai capito da sola… A sua discolpa, credeva che ti saresti fidata di più di lui se avessi creduto di avere la sua principale assicurazione sulla vita…
“E poi se n’è servito per fottermi meglio. Mi sembra giusto”
Il suo interlocutore sembrò rimanere per un attimo senza parole, poi scosse la testa, in segno di diniego: “… Sapeva che non saresti stata d’accordo sul suo voler recuperare i documenti, per questo non ti ha detto nulla… La sua idea in realtà era di usarli per ricattare il dominus e incastrare l’esecutore dell’omicidio… Non ha mai avuto intenzione di voltarti la schiena, Alinne…
“Visto? Che ti avevo detto?” C’era talmente tanto sollievo nella voce di Lucius che Alinne credette di essere sul punto di dare di stomaco.
“Tu credi seriamente a quest’affare?”
… Potrei offendermi…
“E comunque, anche se ti dessi fiducia -cosa che non sto facendo-, questo non spiega perché tu ce lo stia dicendo adesso: se Julius davvero era interessato a mantenere il segreto, perché gli disobbediresti?”
… Disobbedire implica che io sia il suo animale domestico: non sono sicuro di gradire il paragone…” Il serpente fece ondeggiare la coda in quello che era l’equivalente di una scrollata di spalle … Il motivo comunque è molto semplice: è passato troppo tempo… Julius sarebbe dovuto tornare, ormai: lo avete detto anche voi che la suora è stata arrestata… E l’unica ragione per una sua assenza così prolungata…
“… È che gli sia capitato qualcosa” Concluse Lucius, in un sussurro.
“E tu sei preoccupato”
Il rettile fece guizzare la non-lingua, irritato: “… Tu dovresti esserlo più di tutti, ragazzina: senza quei documenti puoi dire addio alla possibilità di liberare tuo fratello…
“È una minaccia?”
… Più una constatazione…
“Beh, io ‘constato’ che non sei molto d’aiuto, in ogni caso”
… Più di te di sicuro…
“D’accordo, basta così,” Lucius si strofinò il naso, riflettendo “Sappiamo che Julius era con la suora, giusto? E che sono andati insieme alla villa”
… Sì…
“Quindi, se vogliamo capire cosa sia successo, la nostra migliore opportunità è quella di andarci anche noi e controllare”
“Sarebbe anche una buona idea,” ammise Alinne, scettica “se non ci fosse un problema: dubito che dopo quello che è successo i servitori ci faranno entrare. Saranno terrorizzati all’idea di commettere un altro sbaglio del genere. Qualche idea su come eludere i loro controlli?”
Lucius distolse lo sguardo e ricominciò a spiegazzare il lembo inferiore della sua camicia: “Forse… forse un modo c’è, però…”
“Però cosa?”
“Non so se… se io…”
Interruppe la frase a metà, senza avere il coraggio di esporre il suo pensiero più nei dettagli. Alinne sospirò, scoraggiata, e si girò verso il non-serpente: esso, però, non diede segno di voler prendere la parola. Invece, ondeggiando piano e con solo un momento di esitazione, scivolò lentamente nella direzione di Lucius, fino a toccare la sua ombra. Il cambiamento fu lieve, ma non così lieve da rimanere ignorato: Alinne vide le spalle di Lucius farsi più dritte, la postura più rilassata e anche il viso, fino ad un attimo prima dall’espressione incerta, assumere un’espressione volitiva. 
Fece un passo indietro, spostando lo sguardo dal compagno al rettile ai suoi piedi.
“A-… Allora? Hai detto di… di avere un’idea su come fare”
Quando Lucius parlò, la sua voce era dura e fredda come l’acciaio: “Diciamo che è alquanto improbabile che non ci facciano entrare, se portassimo con noi una lettera scritta da Hëloise in persona” Sorrise “Oppure da qualcun altro con la sua stessa calligrafia”


 

❊❊❊

 

Alinne si fidava di quell’essere che aveva assunto le sembianze di un serpente anche meno di quanto si fidasse di Julius, e di certo non aveva creduto ad una sola parola di quello che aveva detto -non era un’idiota, al contrario di Lucius-, ma su una cosa entrambi erano d’accordo: trovare Julius significava trovare i documenti. E l’idea che il rettile aveva avuto, di ricattare il dominus per estorcergli l’identità del misterioso assassino, anche se detta con l’ovvia intenzione di convincerla a prestargli il suo aiuto, non era del tutto da buttare. Di sicuro le offriva qualche opportunità in più piuttosto che continuare a girare in circolo nella speranza di una grazia divina che dubitava sarebbe arrivata. Per questo, quando Lucius le mostrò quella che aveva tutta l’aria di essere una lettera scritta con carta costosa, e su cui era impressa un’imitazione eccellente della scrittura della padrona di casa, osò pensare che il piano potesse quasi funzionare.
E, anche se ciò non fosse accaduto, era difficile che la situazione potesse peggiorare ancora
Si ritrovarono davanti al casa in questione neanche un’ora dopo, e anche se non vi erano segni evidenti di quanto avvenuto, nell’aria si poteva respirare una tensione confusa non attribuibile a nient’altro. Nessun segno di Luminatii, però, né di Sorella Claudia. E neanche di Julius.
“Bene, siamo qui. Adesso dammi la lettera”
Lucius si tirò indietro, mano alla tasca della giacca dove aveva nascosto l’involucro: “Perché?”
“Perché per ovvie ragioni non lasceranno entrare tutti e due. E io ci sono già stata, il che vuol dire che so meglio come orientarmi e perderò meno tempo”
“L’idea della lettera è stata mia, però. Mio padre mi ha quasi beccato, quando sono andato nel suo studio per prendere l’inchiostro: mi sono inventato una storia su due piedi, ma non sono sicuro che ci abbia creduto del tutto”
“O poverino, ma guardatelo, ha dovuto addirittura mentire a suo padre. Ascolta, stiamo parlando di essere efficienti e io sono la persona più adatta. So che non ti fidi di me,” d’altronde, nessuno si fidava di nessuno in quella situazione “ma ho interesse a risolvere il nostro problema tanto quanto te. E poi,” aggiunse, aggrottando la fronte “da dove viene questo tuo improvviso coraggio?”
Lucius aprì la bocca per rispondere, ma la richiuse quasi subito: abbassò lo sguardo, incurvò le spalle e riprese a strofinarsi il bordo inferiore della camicia: “Credo… credo che tu abbia ragione, in realtà. Io non riuscirei mai a fare qualcosa del genere senza farmi prendere dal panico. Non so cosa mi fosse preso… ti chiedo scusa”
Alinne finse di non notare l’improvvisa modifica nel comportamento del suo compagno, e di certo non si soffermò sul colore della sua ombra che, dopo quell’ultima frase, sembrava meno scura di quanto lo fosse stata fino a un attimo prima: “Scuse… scuse accettate”. Poi, prese la lettera in mano e si avviò verso la porta d’ingresso, più calma di quanto pensava che si sarebbe sentita.
Il non-serpente non si vedeva da nessuna parte e, in tutta onestà, ne era grata.
Come previsto, il servitore che le venne ad aprire la squadrò da capo a piedi con un’espressione di ostentata sufficienza e si premurò di farle notare -con un sopracciglio alzato a cui lei avrebbe volentieri dato un pugno- come il suo abbigliamento non fosse esattamente appropriato per una portalettere. Alinne si divertì ad osservare l’espressione dell’uomo cambiare colore vedendo il sigillo di Hëloise e quella che era senza alcuna possibilità di errore la sua firma subito sotto: doveva essere piacevole, rifletté, mentre il suo interlocutore si faceva da parte, ricevere quel tipo di trattamento tutti i cambi dell’anno. E doveva essere ancora più piacevole imporre i propri desideri con la propria posizione sociale, invece che con sotterfugi come quello.
Per un attimo, temette -o meglio, provò quella che quello che sarebbe potuto passare come il fantasma della propria paura- che il servitore volesse accompagnarla dalla padrona. Poi però si accorse della tensione nelle sue spalle e sul suo viso e realizzò, con un sorriso sottile sulle labbra, che egli avrebbe probabilmente preferito venire marchiato per una seconda volta che bussare allo studio della propria domina. Dopo ciò che era accaduto, quel cambio, non se la sentiva neanche di biasimarlo.
“Non dovete scomodarvi,” commentò quindi, modellando il proprio viso in un’espressione gentile “non è la prima volta che porto messaggi a questo domicilio: conosco la strada”
L’altro annuì e Alinne ebbe l’impressione che stesse reprimendo l’impulso di ringraziarla: ironico, considerato che se lei si fosse fatta scoprire la prima persona che avrebbero incolpato sarebbe stata lui. Non sapeva cosa fosse successo al servo che aveva fatto entrare Sorella Claudia e non desiderava informarsi a proposito.
Aspettò di rimanere sola e poi, invece di prendere la scala di servizio, si incamminò lungo il corridoio dei sotterranei, lettera in mano e bene in mostra onde dissuadere eventuali ficcanaso dal fare domande: lei e Lucius avevano concordato sul suo contenuto, in modo tale da rendere la bugia più convincente -aveva senso, dopotutto, che Hëloise mandasse una lettera di scuse visto e considerato che era stata lei ad ospitare la suora-, ma dubitava che avrebbe retto ad uno scrutinio attento. In ogni caso, fingere sicurezza era il modo migliore per possederla davvero e la sua strana mancanza di nervosismo costituiva un aiuto provvidenziale.
Non trovò traccia di Julius, né dei documenti, in nessuna delle stanze in cui sbirciò e anche le chiacchiere delle serve impegnate a rinfrescare la biancheria delle camere da letto vertevano su tutt’altro: conscia di non avere tutto il tempo del mondo a sua disposizione -e anzi, preferendo una visione sommaria della casa piuttosto che una ricerca approfondita in un numero di ambienti ridotto- Alinne salì al pianterreno, dirigendosi a passo svelto per il corridoio che lei e Julius avevano già percorso più di una settimana prima. Sembrava che fosse passata un’eternità e al contempo la loro chiacchierata nel pollaio le risuonava nelle orecchie con inaspettata chiarezza. Non che avesse cambiato idea sul suo conto, dopo quel breve scambio di opinioni, ma…
Era quasi giunta alla fine del corridoio e, alla sua destra, si trovava la porta della cucina, da cui veniva un sottile profumo che le stuzzicò l’appetito. All’interno, poteva sentire due uomini discutere tra loro in dialetto liisiano stretto: anni ad assistere ai commerci di suo fratello, e qualche incontro troppo ravvicinato con i mozzi delle navi, le avevano fornito un vocabolario sufficientemente ampio per comprenderli, almeno per la maggior parte.
“… lasciare il posto, dopo quello che è successo oggi, non è…”
“… vorrà molto, te lo assicuro. E me lo devi, dopo…”
“… della sua comparsa alla porta e questo non sono la stessa…”
“… di dirmi se è lui. Niente di più, poi potrai…”
Alinne era intenta ad ascoltare, orecchio appoggiato vicino alla porta, quando sentì un improvviso vuoto allo stomaco e il suo cuore accelerò, battendole nel petto ad un ritmo sempre più serrato. Una scheggia di paura le si infila sotto pelle, facendola tremare e sanguinare, ed ella si ritrasse istintivamente dalla sua postazione, dubbiosa su quello che sarebbe successo se l’avessero scoperta.
Valeva davvero la pena rischiare di ascoltare una conversazione che non era sicura essere collegata a quello che stava cercando?
Si morse il labbro, un piede già diretto verso l’uscita, ma rimase bloccata sul posto fino a quando -veloce come era arrivata- la sua angoscia sparì, sostituita da una sicurezza ferrea.
… Sono loro…
Il sibilo la fece sussultare, sorpresa: si guardò attorno, cercando di identificare il serpente, ma tutto quello che riuscì a vedere fu la propria ombra. La propria ombra che, notò, con una punta di disgusto, era molto più scura del normale.
“Chi?” domandò al vuoto, articolando a malapena la parola.
Nessuna risposta. 
Da dietro la porta si udirono dei passi e lei si affrettò a spostarsi, nascondendosi dietro un mobile di legno a sinistra della stanza. I due uomini che comparvero in corridoio dovevano essere, per forza di cose, le due voci che aveva sentito discutere: uno dei due era basso e secco, un ciuffo di capelli castani a coprirgli il lato destro del viso; Alinne non aveva idea di chi potesse essere.
Il secondo, invece…
I capelli rossi non erano qualcosa che si vedesse tutti i cambi, ad Elai, specialmente se associati ad un marchio da schiavo: Alinne ricordava fin troppo bene il loro incontro ravvicinato con quell’individuo, che aveva quasi scoperto lei e Julius dietro la tenda del corridoio e che aveva incoraggiato sua figlia a svolgere i suoi compiti il più in fretta possibile. E ricordava anche quello che era successo dopo, dello spettacolo che si era ritrovata davanti una volta tornata dalle cantine, e della spiegazione che Julius le aveva offerto per il cadavere del servitore riverso sul pavimento.
E se aveva interpretato bene le due parole che il non-serpente le aveva sussurrato, poco prima…
Quante probabilità c’erano che si trattasse solo di una coincidenza?
Molto poche.
E anche se lo fosse stata, quella sembrava la traccia più promettente.
Avrebbe trovato quei documenti -e Julius, ma quello era un pensiero secondario- e tirato fuori suo fratello dalla cella in cui era rinchiuso da settimane.
Fosse stata l’ultima cosa che faceva.
“Sussurro,” chiamò sottovoce, quando i suoi bersagli furono abbastanza distanti da non poterla sentire “va’ ad avvertire Lucius il più in fretta che puoi. Io inizio subito a seguirli”
Sentì le sue ginocchia diventare molli, mentre l’angoscia ricominciava a divorarle lo stomaco, e seppe che quell’essere aveva seguito il suo consiglio.








[1] Beh, non alla lettera. Julius dubitava che morsicarsi una gamba e fingere di stare morendo dissanguato gli sarebbe stato d’aiuto nella presente situazione.
[2] Un marrone che sarebbe stato di certo meno marrone fosse stato lavato almeno una volta all’anno.
[3] Ultimo dei quali aveva riguardato due bottiglie di vino, una stradina più in discesa del normale e quattro pirati piuttosto ubriachi. Alinne non aveva mai saputo cosa ne fosse stato di loro, ma l’aneddoto le aveva permesso di conoscere, per la prima volta, il suono che faceva un osso quando si rompeva.
[4] Odio ripetermi, ma a volte sembra davvero che il destino abbia un senso dell’umorismo perverso. O forse è solo sfiga.
[5] Se fosse stato presente, Julius avrebbe probabilmente apprezzato la varietà di insulti con cui Alinne lo aveva ricoperto, con il passare delle settimane. Da ‘coglione’ a ‘figlio di puttana’ converrete con me, gentili amici, che il miglioramento è piuttosto significativo.




Note finali: ed eccoci qui, un altro capitolo concluso! Spero che si sia rivelato di vostro gradimento :). Un avviso: il prossimo sarà... parecchio movimentato, nel senso che accardanno MOLTE cose in rapida successione, ma sarà anche piuttosto lunghetto (si parla di 14mila parole). Avevo pensato di spezzarlo ulteriormente, ma mi sembrava che altrimenti si perdesse troppo il filo della narrazione -insomma, un po' di suspence va bene, ma senza esagerare-. Che ne pensate del punto di vista di Alinne? Ho cercato di sviluppare la sua voce dandole molti punti in comune con Julius (perché io li vedo un po' come due facce della stessa medaglia, ecco, e quindi anche il loro rapporto adulto si basa abbastanza su questa loro 'somiglianza' nel carattere), ma con delle fondamentali differenze (esempio: è abbastanza implicito nel testo originale ella sia credente, il che crea... un contrasto interessante con la natura di tenebris di Scaeva). In tutto questo, spero che la trama vi stai sembrando comunque credibile: la storia del finto marchio potrebbe avervi fatto storcere il naso, ma c'è un precedente canonico che indica che si possa effettivamente fare (parlo di Mercurio e del modo in cui si è avvicinato a Leona, alla fine del venatus magni): diciamo che lì non viene specificato il modo in cui Mercurio riesce a farsi passare come un servo (e l'imitazione non è perfetta), ma a parte questo dovrebbe essere tutto in linea con la narrazione di Kristoff.
Al prossimo sabato e un ringraziamento di cuore anche solo a chi legge, come sempre,
QueenOfEvil

   
 
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