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Autore: QueenOfEvil    08/08/2020    0 recensioni
Prima che Aa perdesse due dei suoi tre occhi. Prima dell'ultimo verobuio. Prima della Profezia.
Mia era senza alcun dubbio "una ragazza con una storia da raccontare".
Ma, vedete, gentili amici, quella definizione poteva benissimo valere anche per i suoi genitori.
"Julius non aveva mai visto qualcuno morire quando, a sei anni non ancora compiuti, Atticus aveva deciso che era il momento per lui di assistere al suo primo venatus magnii. Non conosceva l’odore ferroso del sangue, né il modo in cui la sabbia cambiava colore, mentre dai corpi caduti sbocciavano fiori vermigli. Non conosceva le urla estasiate della folla adorante, né tantomeno quelle agonizzanti degli schiavi che trovavano la morte per l’altrui divertimento.
Dopo averli conosciuti, non era riuscito a dormire per settimane.
La seconda volta, quando di anni ne aveva otto, era andata meglio: si era limitato a rimettere il suo ultimopasto, l’illuminotte seguente.
La terza, l’unica reazione che quello spettacolo gli aveva procurato era stata uno sbadiglio."
Genere: Avventura, Fantasy, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash | Personaggi: Alinne Corvere, Altri, Julius Scaeva, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Neh diis lus'a, lus diis'a'
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Malis mala succedunt




 

I lacci che gli legavano i polsi erano così stretti che Julius ormai faticava a sentirsi le dita.
Non sapeva quanto tempo fosse passato da quando il padre di Evenit fosse uscito -quanto tempo lui avesse aspettato lì, immobile, nel disperato tentativo di non attirare l’attenzione del cane accasciato sul pavimento-, ma la stanza era diventata sempre più calda, sentiva dei rivoli di sudore scendergli giù per il colletto della camicia ormai asciutta, e la sua gola era talmente secca da poter diventare il nuovo habitat naturale dei pulvispettri. 
E la cosa che più frustrante era comunque la progressiva insensibilità alle mani.
Il cane aveva gli occhi chiusi, sempre steso a fianco della sedia sghemba, ed Evenit sembrava anch’ella assopita, o forse solo persa in pensieri troppo cupi per una bambina della sua età. In ogni caso, nessuno dei due prestava attenzione a lui. E se fosse riuscito ad allentare le corde almeno un po’ forse avrebbe potuto…
Non si era reso conto di avere fatto rumore -aveva anche trattenuto il respiro, mentre torceva i polsi e tentava di ridare sensibilità a pollice ed indice-, ma i suoi vestiti dovevano avere frusciato nel modo scorretto -oppure aveva emesso un suono flebile, impercettibile all’orecchio umano, ma rivelatore delle sue intenzioni- perché Shiih aprì gli occhi di colpo, fissandolo con i suoi occhi color salmone avariato, un ringhio già incastrato nel fondo della sua gola. Julius si immobilizzò, ricambiando lo sguardo del mastino, e cercò di farsi più piccolo possibile, nella speranza che quella dimostrazione di sottomissione cancellasse i suoi movimenti inconsulti: aveva funzionato, la prima volta.
Sfortunatamente, sembrava che il cane si fosse svegliato di cattivo umore. Si alzò infatti dal suolo, la sua enorme mole che proiettava un’ombra lunga quasi fino ai piedi di Julius -e che il ragazzino avrebbe potuto utilizzare, se il sangue non avesse del tutto smesso di affluirgli alle mani-: tirò poi indietro le labbra, mostrando zanne da cui gocciolavano lunghe e dense strisce di bava, e mosse uno, due minacciosi passi nella sua direzione.
“D’accordo, d’accordo, mi sono mosso e tu l’hai sentito: ho capito la lezione. Ora puoi anche…” Il ringhio divenne più forte e le orecchie di Shiih si rizzarono nella sua direzione, in una posa che gli ricordò fin troppo bene il comportamento dei cavalli che aveva accudito nelle scuderie di Hëloise, un attimo prima che cercassero di calciarlo e morderlo. Non che gli importasse in modo particolare di essere destato dagli animali, ma avrebbe preferito non trovarsi legato alla mercé di un cane feroce che sembrava fin troppo desideroso di morderlo.
“Possiamo… possiamo parlarne?” ‘Bisso e sangue, aveva davvero chiesto ‘possiamo parlarne’ ad un cane? Il caldo stava iniziando a dargli seriamente alla testa.
Come era prevedibile che succedesse, la bestia non sembrava avere nessuna intenzione di prendere in considerazione la sua richiesta, perché continuò con la sua lenta avanzata, con un ritmo cadenzato che ricordò a Julius quello di un condannato a morte diretto alla forca. Solo che in questo caso il condannato era lui, e l’animale di fronte stava assumendo le parti del boia.
Sentiva le ombre tremare attorno a sé, alimentate dalla sua stessa paura, e per quanto si sforzasse di controllarle esse continuavano a sfuggirgli, scivolose e inconsistenti, tra le dita che non riusciva più a muovere. Le parole dell’uomo che lo aveva portato lì gli risuonarono nella mente -tu hai viso bello. Non molti servi hanno viso bello come tuo. Sarà piacere lo rovinare come tu rovinato quello di mia figlia- e si disse che sarebbe stato davvero ironico se il suo cane lo precedesse e gli rovinasse il divertimento.
Shiih abbaiò e poi riprese a ringhiare. Julius si guardò attorno, alla disperata ricerca di qualsiasi cosa che potesse distrarre l’attenzione del suo aggressore, ma la stanza era desolatamente spoglia: a parte il letto, la sedia e il secchio di ferro -un tempo contenente l’acqua che lo aveva svegliato- non c’era nulla di lontanamente simile a quello che gli serviva. 
Il cane era vicino, decisamente troppo vicino, e Julius poteva ormai sentire il suo alito fetido sul viso, talmente disgustoso che se avesse avuto qualcosa nello stomaco lo avrebbe quasi di sicuro rigettato, quando sentì Evenit pigolare, incerta: “Shiih? Dove sei, bello? Che succede?”
Al suono della sua voce la bestia si fermò, incerta, e spostò lo sguardo da lui alla bambina.
“C’è qualcosa che non va? Aspetta, io… ah!” Evenit scese dalla sedia e gli venne incontro a passi esitanti, solo per inciampare nei suoi stessi piedi e rovinare a terra, sul pavimento di legno. Shiih reagì immediatamente, già dimentico della sua faida con Julius: si precipitò da lei, spostando il suo peso così in fretta che il ragazzino percepì il parquet tremare sotto i suoi piedi, e accostò il naso alla sua guancia, dandole una piccola leccata proprio sopra una delle ferite che le deturpavano il viso. Ella emise una piccola risata -più simile a un singhiozzo- e poi gettò le braccia al collo del cane, immergendo il viso nella sua pelliccia folta e maleodorante.
“Sì, sì, ti voglio bene anche io!” 
Da parte sua, Julius sentì la propria paura venire gradualmente soppiantata dall’interesse: fino a quel momento, aveva creduto che il padre fosse l’unico a cui il cane ubbidiva e che potesse calmarlo. L’unico con qualche tipo di potere su di lui. Ma se invece era così affezionato alla bambina…
“Ti ringrazio,” le disse dunque, in Liisiano, ignorando il nuovo brontolio nella gola di Shiih “credo di stargli davvero poco simpatico”
Evenit si gelò sul posto, ancora seduta sul pavimento, ma con il viso rivolto nella sua direzione: “Papà ha detto che non devo parlare con te”
“Lo capisco. Vuole proteggerti,” Julius abbozzò un sorriso, ricordandosi solo dopo che la sua interlocutrice non poteva vederlo “immagino che sia la stessa cosa per Shiih. Lui si chiama Shiih, giusto?”
La bambina esitò, ma infine annuì.
“È un bel nome. Glielo hai dato tu?”
Un cenno negativo con il capo.
“Allora… allora tuo padre?”
Un altro ‘no’, quasi impercettibile. Poi, dopo un momento di silenzio, Evenit aggiunse: “La mia mamma”
“Shiih era suo?”
“Sì,” la bambina si portò una mano alla guancia, ma la ritirò quasi subito, affondando le dita nel pelo del cane ancora al suo fianco
“Dovevano essere molto legati, lui e lei”
Quella non era una domanda, ma un’affermazione. Julius trattenne il fiato, osservando la sua interlocutrice riflettere, ed emise un silenzioso sospiro di sollievo quando ella replicò, esitante: “Si è presa cura di lui quando era cucciolo. Adesso che è grande lui fa lo stesso con me, perché la mia mamma non c’è più”
“Mi dispiace”
Evenit si morse il labbro inferiore: “Mi piaceva, prima, quando eravamo tutti insieme. Adesso no. Per nulla”
“Ti capisco, sai? Anche mia madre è morta quando ero piccolo” Julius riconosceva che parlare di Cornelia, che lui non aveva mai conosciuto e di cui sapeva solo pochissimi dettagli, fosse una mossa azzardata. Ma costruire un ponte emotivo tra lui e la bambina che aveva davanti era la sua migliore chance di tirarsi fuori da quella situazione: le esperienze comuni gli avrebbero dato un enorme vantaggio. E se non ve ne fossero state, le avrebbe fabbricate. “Mi manca molto”
Evenit non replicò subito a quella sua confessione. Invece, raccolse le ginocchia al petto e poggiò il mento sopra di esse, in un gesto di conforto che Julius stesso conosceva fin troppo bene. Rimasero in silenzio per un po’, con Shiih nuovamente quieto, sdraiato sul pavimento, che si beava del modo in cui la sua padroncina lo accarezzava sulla testa e il loro prigioniero che, invece, resisteva a stento alla tentazione di riprendere le fila del discorso. Aveva ascoltato troppe volte i discorsi in Senato, e i sussurri nei centri del potere di Godsgrave, per non avere impresse sotto pelle alcune regole fondamentali della conversazione: una di queste, forse la più importante, era che i silenzi altrui erano altrettanto importanti delle parole. E rifiutarsi di ascoltarli poteva rivelarsi più dannoso che non prestare attenzione a un discorso espresso.
Il suo problema era, come sempre, da tre mesi a quella parte, la mancanza di tempo.
Tentò ancora di muovere le ombre senza usare le mani, ma non ricavò altro che un leggero tremolio: se solo avesse avuto più tempo per allenarsi e sperimentare…
“Te la ricordi bene?”
La domanda lo colse di sorpresa, ma al contempo fu sollevato che la bambina avesse ancora voglia di parlare con lui: “Mia madre, dici?”
Ella annuì.
“No. Purtroppo no,” e poi, rendendosi conto che, come risposta, era piuttosto insoddisfacente, aggiunse: “Ricordo che non si vestiva mai di nero, però. Lo odiava. Preferiva l’azzurro, come il cielo durante un’illuminotte: diceva che la rasserenava, la faceva sentire in contatto con il Semprevigile” Verità solo a metà: la sua vecchia balia gli aveva raccontato che Cornelia Scaeva davvero detestava quel colore, ma non aveva idea di quale fosse, invece, il suo preferito. Lui non l’aveva mai chiesto, e nessuno si era mai sentito in dovere di aggiungere dettagli sulla vita della sua defunta madre.
“Anche a mia mamma piaceva il cielo. Diceva che i soli volevano dire che Aa vegliava su di noi, e che se noi lo pregavamo e lo ringraziavamo lui ci proteggeva,” la bambina aggrottò la fronte, pensierosa “Forse l’ho fatto male e lui si è arrabbiato”
Julius si trattenne dal dire cosa pensava realmente -ovverosia che la benevolenza del Semprevigile era tanto rara quanto un pulvispettro esperto in aritmetica, mentre il suo odio veniva elargito gratuitamente- e cercò di indirizzare la conversazione verso il punto che gli interessava: “Non credo che sia per quello. A volte le cose brutte capitano e basta” Quasi sempre le cose brutte accadevano senza una ragione precisa. “Basta essere nel posto sbagliato al momento sbagliato”
“Io l’ho detto alla signora che quegli orecchini non li avevo visti e che avevo solo portato il vassoio di sopra come mi aveva detto papà, ma lei pensava che dicevo una bugia,” la voce le si incrinò e, malgrado la benda che le copriva il viso, Julius intuì che i suoi occhi dovevano essere colmi di lacrime “Sei stato tu a prenderli, vero?”
La voce rotta con cui era stata pronunciata la domanda le faceva perdere i toni dell’accusa, e Julius stesso si ritrovò grato del modo in cui essa era stata formulata, perché gli rendeva più facile spacciare una mezza verità per un fatto incontestabile: “Perché tu e tuo padre lo pensate? No, non sono stato io”
“C’era un ragazzino, io l’ho visto, ma non aveva il segno e credevo… credevo che era un ospite…” La mano di Evenit andò di nuovo alla sua guancia destra, ma, invece che tormentarsi le ferite, le sue dita passarono sul marchio arkemico, ancora ben visibile malgrado i colpi di frusta “Papà mi ha detto che tu sei come lui”
“Devo somigliargli molto,” Julius fece una pausa, lasciando alla sua interlocutrice il tempo per riflettere, per poi continuare a parlare in tono assorto, come se stesse dialogando ad alta voce con se stesso: “Certo che è stata proprio una bella sfortuna: per una volta che mi lasciano uscire per consegnare un messaggio, vengo subito scambiato per qualcun altro. Non vedo l’ora che questa storia finisca, così da poter tornare alla villa” 
La bambina strinse i pugni nella pelliccia di Shiih, facendo emettere al cane un guaito di soffocata sorpresa: “Papà ha detto che torna in fretta”
“Speriamo. La mia padrona non ama i ritardatari” Ed effettivamente il pensiero di Hëloise che lo faceva cercare e si rendeva conto che non era nella villa lo rendeva piuttosto nervoso. Non che quello fosse il maggiore dei suoi problemi al momento: “E sarà ancora più difficile spiegare perché non ho più né il messaggio né la borsa con cui mi ha fatto uscire”
“Credi… credi che si arrabbierà tanto?” 
“Probabile. Ma le passerà, suppongo. Forse non mangerò per qualche cambio, ma me la caverò” E poi, vedendo che la bambina non replicava, aggiunse, abbassando la voce: “Mi dispiace per quello che ti è successo, davvero. Non avrebbero dovuto trattati così”
“Ho chiesto a papà quando posso togliere la benda, ma non me l’ha detto. Quando glielo domandavo lui era triste, e non voglio che è triste, quindi ho smesso. Però il buio non mi piace: mi fa paura” Un’altra pausa “E anche a me dispiace che papà ti ha portato qui. Sei simpatico”
Julius abbozzò un sorriso, dimenticandosi una volta di più che ella non poteva vederlo: “Anche tu lo sei”
“E non preoccuparti per la borsa. Prima ero nella stanza a fianco e l’ho sentita sul tavolo: te la ridiamo non appena papà capisce che non sei tu ad avermi fatto male”
Quell’ultima frase, pronunciata come rassicurazione nel tono fiducioso di Evenit, suonò alle orecchie di Julius invece come una minaccia molto chiara: una volta che l’accompagnatore del padre fosse tornato, e lo avesse riconosciuto come il portatore della lettera senza marchio che già aveva bussato alla villa una volta, a nulla sarebbero valse le sue giustificazioni. Doveva trovare un modo di liberarsi e fuggire prima che ciò si verificasse.
“Adesso siamo amici, giusto?”
La domanda sembrò prenderla alla sprovvista, ma, dopo un momento di esitazione, la bambina distese le labbra in un sorriso luminoso: “Sì, giustissimo”
“Allora posso chiederti una cosa?”
“Cosa?”
“Sono legato. I lacci sono davvero troppo stretti e mi fanno male. Tanto male. Mi piacerebbe potermi muovere di nuovo, almeno per un poco”
Evenit si fece di nuovo pensierosa: “Non so… non so se… papà ha detto…”
“Tuo padre lo ha fatto per essere sicuro che non fuggissi, lo capisco. Ma anche volessi, non potrei andarmene: c’è Shiih, e ci sei tu”
La sua interlocutrice non rispose.
“Ti prego, non sento più neanche le mie mani. Ti giuro che non scapperò”
“Lo giuri davvero?”
“Assolutamente”
“Sul Semprevigile?”
“Giuro sui tre occhi di Aa che rimarrò qui fino all’arrivo di tuo padre”
Lei si limitò ad inclinare il capo, mordendosi appena il labbro inferiore, prima di annuire: “D’accordo, allora” 
Shiih scattò di lato quando Evenit si alzò in piedi, sorpreso e agitato da quel movimento repentino, e, non appena vide che ella si dirigeva, a passi esitanti e incerti, nella direzione da cui proveniva la voce di Julius, emise un ringhio basso e prolungato, prima di abbaiare.
“No, Shiih, è tutto a posto,” lo rassicurò lei, continuando a procedere nel medesimo modo “A cuccia!” La bestia non sembrò convinta -e lo sguardo che rivolse a suo prigioniero valse più di mille parole inespresse-, ma obbedì alla sua padroncina e si distese nella stessa identica posizione di poco prima. Nello stesso momento, ella si accovacciò davanti a Julius e iniziò a sciogliere i lacci che gli legavano polsi e caviglie. Egli emise un sospiro di sollievo, finalmente libero dal dolore sottile che gli aveva inciso la carne per ore, e portò le mani davanti al viso, facendo riprendere sensibilità alle dita con movimenti lenti e controllati: abbozzò un sorriso nel vedere che anche le ombre frusciavano e vibravano in corrispondenza dei suoi gesti, alle spalle di un’inconsapevole Evenit e di un sospettoso Shiih. Per le gambe ci volle più tempo perché, anche dopo essere stato liberato, i piedi continuarono a non rispondere ai suoi comandi per una buona manciata di minuti e i suoi primi tentativi di alzarsi in piedi -all’inizio esitanti, poi innervositi- si conclusero con una perdita di equilibrio che lo costrinse ad appoggiarsi al muro. 
“Stai bene?” gli chiese Evenit, un po’ preoccupata per quei movimenti a cui non riusciva a dare una certa collocazione spaziale. Julius le rispose con un sì secco, che mascherava a stento il fastidio che provava per l’essere ancora lì, e strinse i denti, ricordando a se stesso che il proprio orgoglio lo aveva già cacciato in quella situazione: non gli avrebbe permesso di peggiorarla. Nel frattempo, per respingere il caldo che continuava ad assalirlo prepotente e gli appannava la visuale, si tolse la giacca da servitore che aveva ancora addosso e se la legò attorno alla vita, notando con uno sbuffo che essa presentava un largo strappo proprio in fondo alla parte posteriore: non aveva dei ricambi -Hëloise risparmiava anche su quello-, il che avrebbe voluto dire una punizione aggiuntiva, una volta che fosse tornato alla villa.
Una preoccupazione per volta, Julius. Una preoccupazione per volta.
Sentì lo stomaco più leggero, sgravato almeno in parte dal peso che lo aveva afflitto dal momento in cui si era svegliato in quella stanza, quando riuscì a riprendere a camminare senza fatica, ma la sua piccola vittoria si tramutò presto in una nuova ragione di frustrazione, non appena si rese conto che Shiih lo aveva visto muoversi e si era spostato, sedendosi davanti alla porta con un’espressione stoica difficilmente replicabile. Julius non si era mai considerato una persona violenta, ma la scarica di rabbia che provò nei confronti dell’animale lo fece tentennare in quella sua convinzione. Scoraggiato, lanciò uno sguardo alla finestra dietro di sé, considerandola come una via di uscita secondaria, ma dovette ricredersi: era al secondo piano di un edificio, ad almeno quattro metri dal suolo, e non c’era nessun sostegno che avrebbe potuto usare per calarsi giù di lì. No, la sua migliore opzione era, purtroppo per lui, la porta, al momento sbarrata da una palla di pelo almeno tre volte più pesante di lui.
Doveva trovare un modo per allontanarla da quel punto e, di conseguenza, aprire la porta; prima di tutto, però, era essenziale recuperare la chiave. Chiave che era ancora appena al collo della bambina che lo attendeva, un po’ spaesata, all’angolo della stanza. 
Julius le lanciò un’occhiata veloce da sotto in su, dalla punta dei piedi alla sommità del capo, fece un rapido calcolo mentale e decise che poteva fare un tentativo.
“Hai dei bei capelli, sai?”
La bambina socchiuse la bocca, sorpresa da quel complimento: “Io?”
“Sì, hanno un bel colore”
“Anche alla mia mamma piacevano. Diceva che le ricordavo papà, perché sono quasi uguali”
“E sono molto lunghi! Dove sto io non permettono a nessuno di tenerli così, sciolti, perché la padrona dice che poi vanno sugli occhi e rallentano il lavoro”
Evenit si mise un dito sulle labbra, pensierosa: “A me non l’hanno mai detto. Spero che non me li tagliano, dopo quello che è successo”
“Non potresti legarli? Così risolvi il problema”
“Lo faceva la mamma, ma io da sola non riesco e papà non è capace”
Julius rifletté -o meglio, finse di riflettere- per qualche secondo: “Potrei aiutarti, se vuoi”
Il viso della sua interlocutrice si illuminò: “Davvero? Cioè, davvero ci riesci?”
“Sì, credo di sì. Ho visto spesso mia madre occuparsene lei stessa” In realtà, le volte in cui aveva osservato le domestiche pettinare i capelli alla sua matrigna si sarebbero potute contare sulla punta delle dita, ma questo era irrilevante.
Ella batté le mani e saltò sul posto, felice, poi si sedette a gambe incrociate sul pavimento ed intimò al suo aiutante di imitarla, con un tono lezioso che avrebbe fatto invidia alle migliori dominae midollane. Lui la accontentò, ignorando a bella posta lo sguardo fisso del cane su di lui, e iniziò a passare le dita attraverso i capelli di lei, dividendoli in ciocche e lasciando scoperto il collo: si accorse subito che non era un compito facile, perché essi erano sporchi ed annodati e più di una volta, tirando troppo forte, strappò un gemito di dolore ad Evenit e un ringhio sordo al suo guardiano, ma alla fine, dopo quella che sembrò un’eternità, riuscì ad avere una visione sgombra del filo di spago legato al suo collo. Notò, con un sospiro di sollievo, che il nodo che li fissava non era particolarmente stretto e per i minuti successivi si dedicò ad allentarne i capi con una mano, mentre con l’altra tentava di dare un intreccio decente alla chioma della bambina, in modo tale che ella non si insospettisse.
Uno dei due obiettivi venne raggiunto in modo molto più soddisfacente dell’altro.
Quando vide che solo un lieve strattone separava la chiave da una caduta sul pavimento, finì in fretta la pallida parodia di treccia che aveva messo insieme e annunciò alla bambina davanti a lui che il suo lavoro era terminato, chiedendole di pazientare ancora un attimo: la fece alzare e le si posizionò davanti, con la scusa di togliere dalle spalle alcuni capelli che le si erano staccati nel mentre. Sfiorarle l’abito e rubarle la chiave fu questione di un attimo. 
Ora veniva la parte spiacevole.
“Vieni più vicina alla finestra, così posso vedere meglio se ho fatto un buon lavoro,” le diede la mano, e la accompagnò proprio sotto al vetro, fingendo di esaminarle la pettinatura.
E poi, lanciando un’occhiata di traverso la cane, la spinse con tutte le sue forze contro il muro, facendole battere la testa.
La reazione di Shiih non si fece attendere: alla vista della sua padroncina distesa a terra, una mano alla testa mentre emetteva un gemito sorpreso, emise un ringhio e si gettò sull’assalitore, i canini ben visibili come evidenti messaggeri del suo intento. Julius tremò a quella vista, ma ingoiò la propria paura come uno di quei cibi disgustosi che aveva mangiato fin troppe volte nei suoi ultimi mesi a Godsgrave1 e con un movimento scattante della mano gettò un manto di tenebra sugli occhi del cane, disorientandolo. Poi, intrappolò le sue zampe nell’ombra sotto di lui, inchiodandolo sul posto a poco più di un pollice da lui. La bestia, ancora mezzo cieca, uggiolò di paura e di dolore, cercando senza risultato di liberarsi: il pugno chiuso che controllava la sua prigione, però, manteneva la presa.
“Cosa succede? Shiih, stai bene? Ti sei fatto male?” La voce di Evenit era pesante per le lacrime che le scorrevano giù per la gola e vibrava del terrore profondo proprio di chi non ha il controllo della situazione, né spera di poterlo ottenere: Julius lo riconobbe fin troppo bene, al punto da provarlo sulla sua stessa pelle. Eppure, lungi dall’empatia, sentì su per la schiena un brivido di disgusto.
Patetico.
Senza indugiare su queste considerazioni, evitò le fauci di Shiih che si aprivano e chiudevano con ferocia nel tentativo di azzannarlo e corse verso la porta, pugno sempre serrato e orecchie sorde ai lamenti della bambina alle sue spalle. Inserì la chiave nella serratura con dita tremanti e cercò di sbloccare la serratura.
Uno scatto, a cui non ne seguì un secondo.
Gli ingranaggi all’interno erano arrugginiti, e lui non stava girando la chiave con la sua mano dominante.
Mordendosi le labbra fino a sentire il sapore del sangue, lasciò la presa sulle ombre che tenevano Shiih incollato al pavimento e riprovò, questa volta con la mano destra.
La porta si aprì proprio nel momento in cui il cane, ripresosi dallo spavento e dal dolore, si volgeva nella sua direzione con i suoi occhi rossi carichi di furore: Julius lo vide correre verso di lui e, con uno scatto istintivo, raccolse il secchio accanto allo stipite e glielo lanciò, un piede già oltre l’uscio. Sentì un guaito che gli fece sperare sulla buona riuscita del suo tiro, ma non si fermò a controllare: sbatté la porta sul naso del mastino, facendo scattare la serratura due volte al contrario prima di tirare un sospiro di sollievo. 
Il corridoio in cui era si presentava vuoto, e abbastanza spoglio per appartenere al secondo piano di qualche taverna di terza categoria. Non sembrava esserci movimento, ma, se tendeva le orecchie ed escludeva i rumori ancora provenienti dalla stanza alle sue spalle -abbaiare di cane e pianto di bambina-, poteva percepire rumore di risate e piatti che sbattevano. Doveva essere pomeriggio inoltrato, ma non ancora illuminotte, il che era un bene, perché nessuno saliva al secondo piano di una stamberga di quel tipo durante il cambio: sarebbe potuto uscire di lì senza destare attenzione e perdersi nella folla delle strade. E, soprattutto, senza conseguenze.
Si avviò verso quella che supponeva essere l’uscita a passo deciso, solo per fermarsi dopo pochi istanti.
La borsa.
I documenti.
Tornare alla villa a mani vuote avrebbe voluto dire perdere ogni speranza di riscatto. Ogni speranza di libertà. 
D’altra parte, il padre di Evenit sarebbe potuto tornare da un momento all’altro e non avrebbe reagito bene vedendo il modo in cui lui aveva trattato sua figlia e il suo cane. Se prima aveva avuto dubbi sulla sua identità e coinvolgimento, con quelle sue ultime mosse Julius aveva abbandonato qualsiasi possibile difesa.
Era meglio salvare il salvabile, oppure rischiare per l’esigua possibilità di ottenere tutto?
Julius lanciò un’occhiata alle scale che si intravedevano, a pochi metri da dov’era, e poi diede loro le spalle, inoltrandosi le corridoio. Le ombre attorno a lui si torsero e attorcigliarono, riflesso incondizionato della sua stessa paura.


 

❊❊❊
 

Era quasi un'ora che seguivano i due uomini ed Alinne stava iniziando a perdere la pazienza.
Avevano preso stradine secondarie sempre meno trafficate, girato a destra e sinistra in vicoli dall’odore maleodorante e affondato i piedi in poltiglie di cui né lei né Lucius volevano sapere la composizione: anche se non aveva mai nutrito speranze consistenti che il loro nascondiglio fosse una casa di villeggiatura nel pieno centro di Elai, iniziava a domandarsi se quei due fossero pratici della città quanto lo era lei, o se semplicemente avessero meno fretta di quanto fosse traspirato dalle loro parole. Lucius camminava dietro di lei e la sua ombra -due volte più scura del normale- lasciava intendere che l’essere dalle sembianze di serpente avesse deciso di utilizzarlo come veicolo permanente. In tutto onestà, Alinne non poteva dire di essere dispiaciuta: avere quella cosa vicino -con quella lingua biforcuta, quegli occhi privi di pupille, quell’essenza sbagliata- continuava a darle i brividi. Senza contare che la sua presenza sembrava rendere il ragazzino meno spaventato ed agitato del solito. 
Avevano appena evitato per un soffio di essere bagnati da capo a piedi da una grondaia mezza rotta -il cui contenuto era un’acqua marrone e grumosa nella quale Alinne avrebbe potuto giurare di aver visto muoversi qualcosa-, quando i due uomini presero un’ultima svolta a destra, per poi fermarsi di fronte a quella che aveva l’aria di una stamberga mezza fatiscente. A dispetto dell’apparenza decrepita -e dei pezzi di mattoni e tegole che pendevano in posizioni pericolanti dalla facciata-, dalle finestre aperte del pianterreno arrivavano urla e schiamazzi e anche il lezzo di qualcosa che, con molta buona volontà, un avventore affamato avrebbe potuto quasi definire cibo. Alinne la riconobbe, con un sospiro e un sorriso insieme: era la stessa locanda in cui era entrata, settimane prima, per avere informazioni sull’omicidio.
Sembrava passata un’eternità da allora.
L’uomo dai capelli rossi e il suo amico si scambiarono qualche parola che nessuno dei due ragazzini riuscì a comprendere, ma che avevano tutta l’aria di essere rassicurazioni circa la sicurezza del posto, e poi entrarono, chiudendosi la porta alle spalle. Alinne si volse verso Lucius, notando con piacere che l’improvvisa vena di coraggio che aveva dimostrato accompagnandola fin lì non si era ancora esaurita: “Adesso entriamo. Di solito qui ci vengono gli schiavi -o comunque gente che ha molto poco da perdere-, quindi è possibile che daremo un po’ nell’occhio, ma è pomeriggio inoltrato e di solito gli avventori sono abbastanza sbronzi da fottersene altamente di quello che sta avvenendo attorno a loro. Quello che voglio dire è: fatti i fatti tuoi e gli altri faranno lo stesso, capito?”
Lucius annuì, fissandola negli occhi: “Capito”
“Eccellente. Direi che possiamo andare, quindi”
L’ambiente all’interno era rimasto immutato dall’ultima volta che Alinne vi era stata: a sinistra, tavoli sparsi dalle gambe sghembe e mezze mangiate dai tarli si accompagnavano a sedie che sembravano resistere per pura forza di volontà e magia arkemica, mentre a destra vi era il bancone dell’oste, ricoperto di tazze sporche e piatti sbeccati. Il legno che lo componeva poteva essere stato di buona qualità un tempo, e strizzando gli occhi un osservatore particolarmente acuto avrebbe potuto notare venature colorate che testimoniavano il passato nobile del materiale, ma anni di incuria, cibo raggrumato e qualche lancio poco felice con i coltelli da cucina lo avevano trasformato in un ammasso poco gradevole alla vista, al tatto e all’olfatto2. A questo, si aggiungevano gli scaffali subito dietro, straripanti di bottiglie di ogni forma e dimensione -dalle ampolle più piccole di una mano alle botti di vino annacquato grosse quanto il torace di un Luminatus medio- e sempre in procinto di staccarsi dal muro: più di una volta, quella minaccia si era tramutata in fatto, rovesciando il loro contenuto direttamente sulla testa degli avventori e del proprietario stesso, che si era ritrovato a vedere dimezzati i propri guadagni per l’intero mese seguente. Una porticina, subito dietro, portava alle cucine, che nessuno degli ospiti aveva mai visto e che, in tutta sincerità, nessuno desiderava particolarmente vedere: tralasciando le condizioni igieniche a dir poco carenti, era preferibile non ricevere informazioni dettagliate su cosa davvero contenesse la sbobba che veniva servita sui piatti di ceramica ingiallita. 
A dispetto di questa descrizione scoraggiante, credo vi farà piacere, gentili amici, che la Locanda Fortunata3 continuava imperterrita a fare ottimi affari, anche grazie al fumo -di pentole gorgoglianti e sigaretti insieme- che riempiva il locale malgrado le finestre senza vetri e donava contorni sfumati e rassicuranti a quell’insieme eterogeneo.
Lucius strizzò le palpebre e arricciò il naso una volta sulla soglia, piegando la bocca in una smorfia di disgustata sorpresa che gli valse una gomitata e un’occhiata furente da parte di Alinne: la puzza sotto il naso e l’ostentata superiorità erano esattamente il tipo di atteggiamenti che li avrebbero resi subito sospetti in un ambiente del genere. Chiunque fossero i clienti abituali di quel posto, di certo non erano abituati a venire serviti con cristalleria Dweymeri, oppure a lamentarsi perché avevano trovato un pezzo d’unghia nello stufato. L’imperturbabilità di fronte alla miseria era un altro dei vantaggi di essere cresciuti con niente: non pretendeva che il suo accompagnatore lo capisse, o arrivasse al suo livello, ma che almeno si sforzasse di imitarla.
Davanti a loro, oltre la calca e gli schiamazzi delle persone sedute ai tavoli, si intravedevano le scale che portavano verso l’alto: un guizzo rosso contro il legno dei gradini disse ad Alinne che i due uomini stavano salendo al piano superiore. Poteva solo sperare che i documenti -e Julius- fossero anche loro lì. Prese per il gomito Lucius e lo spinse da parte, lontano dalle orecchie degli avventori ai tavoli.
“Stammi vicino,” intimò all’orecchio “e non incrociare lo sguardo di nessuno”
Con i suoi capelli corti, la sua statura e il suo aspetto da ragazzina di strada -priva del marchio arkemico che invece segnava la pelle di quasi tutti lì dentro-, Alinne attirò qualche occhiata curiosa, ma la distaccata sicurezza con cui sembrava muoversi nell’ambiente -gli occhi fissi davanti a sé, le labbra piegate in una smorfia annoiata, neanche una goccia di sudore ad imperlarle la fronte- fece sì che presto le teste si voltassero dall’altra parte, di nuovo assorte nella contemplazione del proprio boccale di birra o del mazzo di carte truccate con cui stavano cercando di vincere la partita. Anche Lucius, decisamente più a disagio nell’ambiente, ma non per questo spaventato, riuscì a farsi notare il minimo indispensabile, nonostante i vestiti di buona fattura e l’espressione corrucciata.
Erano quasi sulle scale, piede già alzato per salire il primo gradino, quando una voce bassa e tonante li colse alle spalle, facendoli sobbalzare.
“Voi chi siete, mocciosetti? E dove pensate di andare?”
A costo di sconvolgervi con questa rivelazione, è bene che sappiate, gentili amici, che Bard il Brutto, proprietario della Locanda Fortunata, non era famoso per il suo bell’aspetto. Egli era, infatti, un omone grosso quanto quattro botti di aureovino e alto quasi il doppio: il viso, decorato da cicatrici di vario genere, colore e forma, era incorniciato da una zazzera di capelli sempre più rada con il passare dei verobui, che poco ormai poteva fare per nascondere la forma schiacciata della sua testa. Quest’ultima, più simile ad una teiera con due manici piuttosto sporgenti -le sue orecchie- che ad un cranio fatto di ossa e muscoli, era decorata da un paio di occhi porcini e un naso largo e schiacciato, rotto almeno in due punti e forse un terzo, da cui uscivano folti peli neri. Le mani, ruvide e coperte di calli, avevano delle unghie così sporche da non lasciare più intravedere né il bianco né il rosa e la camicia lasciava intravedere un petto villoso, del colore di un’aragosta bruciata. Non che lui, o qualcun altro in quel posto, avesse mai visto un’aragosta.
“Parlate con noi, mi domine?” rispose Alinne, imperturbabile malgrado la sua testa non arrivasse neanche a metà del petto di Bard.
“Cazzo di Aa, non mi sembra di vedere altri due mocciosetti qui, a parte voi due,” l’uomo si strofinò il naso con il dito indice, soffiando rumorosamente: “Allora? Parlate!”
“I nostri genitori hanno preso una stanza da lui, mi domine,” spiegò Alinne, marcando il suo accento liisiano e stringendo le mani in grembo, con un’espressione innocente in viso “stiamo solo andando nelle nostre camere a riposare”
“Fatemi indovinare… fratelli, eh?”
Alinne represse uno sbuffo: la credeva davvero così stupida da cercare di far passare lei e Lucius come parenti? 
“In realtà, figli di amici. Viaggiamo spesso insieme”
L’uomo alzò un sopracciglio, poi aprì le labbra in un sorriso ironicamente amichevole, che lasciò intravedere una fila di denti storti e gialli, simili ad uno xilofono a cui erano saltati vari tasti e rotti altrettanti: “E immagino che i vostri genitori abbiano pagato in anticipo, nevvero?”
“Assolutamente, mi domine,” replicò Lucius, incurante dello sguardo feroce che Alinne gli rivolse, non appena aperto bocca “Ma potrete di sicuro chiederglielo, non appena torneranno”
Il viso dell’uomo si adombrò e anche la finta espressione gentile che aveva disteso i suoi lineamenti -facendolo somigliare più ad un pomodoro raggrinzito, o a una teiera fischiante, che ad una zucca- venne rimpiazzata da uno sguardo gelido: “Non c’è nessuno di così sprovveduto, qui, che pagherebbe in anticipo. I vostri affari non mi riguardano né mi interessano, ma vi consiglio di andarvene in fretta: questo non è un posto per ragazzini, e ho già abbastanza problemi per la testa senza che vi ci mettiate anche voi”
Mi domine, noi…”
“Sparite. Subito. Oppure vedrò di prendere provvedimenti”
L’uomo li osservò varcare la soglia della locanda con un sopracciglio alzato e un grugnito, prima di dare loro le spalle e sbraitare un ordine ad un invisibile cameriere nelle cucine. Alinne gli fece la linguaccia, poi prese l’avambraccio di Lucius e lo spinse contro il muro, con abbastanza violenza da strappargli un gemito.
“Bravo idiota, hai rovinato tutto! Perché non hai tenuto chiusa la bocca?” aveva ringhiato quelle parole con una rabbia a stento repressa, ma se ne pentì una volta che i suoi occhi incontrarono quelli del suo compagno: lontano dalla decisione e dalla fermezza, il volto di Lucius esprimeva quell’eterno disagio attribuibile solo alla paura. Alinne gettò uno sguardo alla sua ombra ed arricciò un labbro, disgustata, quando si rese conto che essa era di nuovo scura quanto la sua. 
Perfettamente in linea con il suo padrone, il non-serpente li aveva abbandonati alla prima difficoltà. O forse aveva deciso di continuare la sua ricerca in solitario, reputandoli solo un peso morto. In ogni caso, avrebbero dovuto fare a meno di lui.
Malgrado un alleato aggiuntivo fosse sempre un vantaggio, in situazioni simili, Alinne non riuscì a provare dispiacere per la sua assenza.
“Io… m-mi dispiace, mi dispiace tanto. Davvero, io credevo… volevo aiutare” Il ragazzino si stropicciò il lembo inferiore della maglietta, mordendosi il labbro inferiore. 
Alinne alzò gli occhi al cielo, trovandosi -suo malgrado- a rimpiangere Julius come compagno. Era un figlio di puttana, e uno stronzo arrogante, ma almeno non si sarebbe messo a piagnucolare dopo aver rovinato la loro migliore opportunità di entrare: “Lascia perdere. Non ha senso piangere sull’aureovino versato” 
“Dici che riusciremo a farcela comunque? Ad aiutare Julius, intendo”
A recuperare i documenti, corresse Alinne nella sua testa: “Non abbiamo molta scelta. Ma il locandiere terrà d’occhio quelle scale, da adesso in poi. E non credo che ci converrebbe farlo arrabbiare, non se è tanto duro quanto è brutto”
“Quindi? Strada alternativa?”
Alinne alzò lo sguardo verso le finestre del secondo piano, le esaminò con occhi critico per qualche secondo e poi scosse la testa: “Non vedo quale. Potrei provare ad arrampicarmi, ma c’è il rischio che qualcuno da sotto mi veda e avverta Bard, senza contare che queste mura non mi sembrano solidissime: gradirei non spezzarmi la schiena perché i fabbricanti hanno usato sabbia per tenerle insieme. No,” aggiunse, sporgendosi verso le finestre vicino all’entrata “la nostra migliore opzione è dall’altro lato di questa stanza”
Squadrò l’insieme dell’interno -bancone, cucina, Bard a braccia incrociate vicino alle scale- fino a posarsi sui tavoli, quasi tutti occupati. Infine, qualcosa attirò la sua attenzione: strizzò gli occhi, appoggiandosi sul davanzale, e, una volta sicura di ciò che aveva visto, sorrise di calda soddisfazione.
“Seguimi,” intimò a Lucius, che la squadrava sospettoso e speranzoso insieme “non parlare, tieniti in disparte e, soprattutto, tieniti pronto a correre”
Approfittando di un attimo di distrazione di Bard, Alinne rientrò, tallonata da Lucius, e si diresse a passo sicuro verso l’ultimo tavolo nell’angolo, dove due uomini dai volti scavati e il colorito rubizzo stavano vuotando quella che sembrava l’ultima di una lunga serie di ente di birra. Dopo una breve deviazione per recuperare un piatto di spezzatino mezzo vuoto dalle mani di un uomo troppo ubriaco per accorgersene, ella fece segno a Lucius di aspettare contro il muro, poi alzò il mento e percorse di corsa i pochi metri che ancora le separavano dai suoi obiettivi.
E, proprio quando era davanti a loro, inciampò sui suoi stessi piedi, rovesciando il piatto sui vestiti di uno dei due avventori.
“Palle di Aa, cosa cazzo…!”
“Perdonatemi, mi domine, sono davvero desolata. Aspettate, lasciate che vi aiuti…” Alinne intinse un tovagliolo nella caraffa d’acqua sul tavolo e si avvicinò al malcapitato, facendo mostra di voler lavare via le macchie dalla sua camicia. Non appena i suoi occhi incrociarono quelli del suo interlocutore, però, quest’ultimo fece uno scatto all’indietro, il viso indurito da un’emozione improvvisa.
“Ma… ma io ti conosco!”
Mi domine, non ho idea di cosa…”
“Ehi, Cornelius, di’ un po’, non ti sembra di averla già vista?” L’uomo diede una scrollata al suo compare, che si girò anch’egli nella direzione di Alinne, palpebre gonfie e baffi sporchi di birra.
“Chi? Cosa?”
“Questa ragazzina,” ripeté lui, lanciandole un’occhiata in tralice “non so perché, ma qualcosa in lei non mi è nuovo”
Alinne abbassò lo sguardo e, pensierosa, si rimboccò i capelli dietro le orecchie, delineando meglio i contorni del proprio viso. Quel gesto, o forse solo il suo aspetto, sembrarono infine risvegliare in Cornelius un ricordo sopito.
“Sì, certo! Ora ricordo: è la piccola sgualdrina che è scappata prima di pagarci da bere!” sbatté un pugno sul tavolo “E come potrei dimenticare? Ho dovuto lavare i pavimento di questo schifo di posto per un’intera settimana, dopo”
“E io i piatti,” il primo uomo digrignò i denti, sporgendosi verso la diretta interessata e afferrandole il polso “Allora, puttanella, come pensi di ripagarci, eh? Con soldi? O magari con qualcosa di più… piacevole?”
Era la seconda volta in poco tempo che un estraneo dall’aspetto sgradevole e dal cattivo odore pretendeva da lei delle prestazioni sessuali come compenso per del denaro rubato e Alinne trovò la proposta, oltre che volgare, anche parecchio scontata. 
Così lo guardò negli occhi,
Accennò un ‘no’ con il capo
E gli pestò il piede con tutta la forza che aveva in corpo.
L’uomo emise un ululato di dolore e lasciò andare la presa sul suo braccio quel tanto che le bastò per divincolarsi ed allontanarsi di corsa, spintonando e calpestando quante più persone possibili lungo il tragitto. Sentì un urlo inarticolato provenire da dietro la sua schiena e sorrise -prevedibili, Figlie, davvero troppo prevedibili- quando un oggetto che per forma e colore ricordava molto una pinta di birra le volò a qualche pollice di distanza, finendo per schiantarsi sulla testa di un uomo dai capelli lunghi e dall’aspetto imponente che stava volgendo la schiena alla scena, giocando a carte4.
Seguì una serie di imprecazioni piuttosto colorite, il rumore di una sedia che si spostava all’indietro sul legno e un momentaneo silenzio, talmente pesante che anche un lottatore del Pandaemonium avrebbe avuto difficoltà a sollevarlo.
E, infine, la rissa ebbe inizio.
Alinne aveva passato gli ultimi quattro anni della sua vita in mezzo al fango e alla polvere, osservando il comportamento altrui con occhi avidi di esperienza, certa che un cambio quello che aveva imparato sulla natura umana -quella più istintiva, irrazionale e violenta- le sarebbe tornato utile. Conosceva le risse, come si sviluppavano, come finivano e, soprattutto, come cominciavano. La maggior parte delle volte, si trattava di una semplice questione di tempismo.
I due uomini che avevano tentato di afferrarla stavano cercando di difendersi senza molto successo dall’individuo che avevano involontariamente disturbato e che sembrava in egual misura indispettito sia dall’essere coperto di birra e cocci di ceramica sia dall’aver dovuto interrompere una mano particolarmente fortunata. Accanto a lui, i suoi compari, anche loro desiderosi di prendere parte al divertimento, stavano scrocchiando le nocche e lanciandosi l’un l’altro occhiate d’intesa che lasciavano molto poco spazio all’immaginazione. La gente attorno si fece più vicina, sia per condividere l’intento bellicoso, incurante degli schieramenti, sia per osservare meglio uno spettacolo a prima vista più promettente del menestrello stonato che di tanto in tanto si faceva vivo nei paraggi, e che se ne andava sempre con più lividi che monete.
Mentre i piatti iniziavano a volare, e gli insulti a diventare sempre più fantasiosi, Alinne fu grata di constatare che il fango e la polvere fossero serviti a qualcos’altro, oltre che a incrostarle la pelle.
Raggiunse Lucius sgusciando indisturbata tra i tavoli -ormai quasi tutti vuoti- e lo prese per un braccio: il ragazzino sussultò, occhi spalancanti e colorito cinereo di fronte a quello spettacolo, ma ricambiò la sua stretta e, quando parlò, la sua voce tremava meno di quanto lei si fosse aspettata.
“E… e adesso che facciamo?”
“Adesso,” rispose lei, leccandosi il labbro superiore “aspettiamo”
Ad onor del vero -e nel tentativo di spezzare una lancia in suo favore- Bard il Brutto non ci mise molto ad intervenire: dopo aver mandato due camerieri, tre sguatteri e il suo cane a controllare la situazione nella sala principale e non aver visto tornare indietro nessuno di loro, si decise ad uscire lui stesso dalla cucina. Le sue urla -e le sue mani, soprattutto le sue mani- si fusero presto con il resto della mischia, lasciando intendere una certa voluttà e divertimento nell’atto: Alinne si chiese se non gli avesse fatto un favore, dopotutto, a movimentare la sua illuminotte.
Ma la cosa importante era che, finalmente, la via delle scale era libera.
Con uno scatto e un’occhiata di intesa, Alinne prese Lucius per il polso e lo trascinò con sé dietro il bancone, ormai deserto. Poi, facendo attenzione ai cocci rotti di bottiglia e ai vari liquidi dispersi che impregnavano il pavimento, scivolarono lentamente verso la loro meta.
Erano già quasi sulle scale, quando due uomini li precedettero, avvinghiati l’un l’altro.

 


❊❊❊

 

Le cose non erano affatto andate come previsto.
A sua discolpa, Julius avrebbe potuto dire che non aveva perso tempo, né era stato incauto. La borsa era esattamente dove Evenit gli aveva detto che l’avrebbe trovata, sopra il tavolo della stanza accanto -ammobiliata, tra parentesi, con più gusto di quella dove era stato rinchiuso- e il suo contenuto era rimasto intatto: se all’inizio era stato Julius -e non quello che trasportava- l’obiettivo, quando il suo rapitore aveva realizzato che c’era la possibilità che il prigioniero fosse uno schiavo al servizio di una domina ricca, frugare tra i possibili possedimenti della donna era sembrata una mossa fin troppo azzardata. 
Julius aveva passato le dita sui bordi delle pagine, rassicurato dalla loro consistenza, e poi aveva inserito la mano nella sacca, alla ricerca dell’oggetto che Laurentia aveva mostrato allo schiavo. La sua curiosità venne accontentata quando tirò fuori, dalla tasca anteriore, quello che aveva tutta l’aria di essere una sfera dorata, grossa più o meno quanto metà del palmo della sua mano, vagamente somigliante al primo occhi di Aa: Julius li aveva spesso visti a ‘Grave, oggetti di culto con l’unica funzione di dimostrare in modo spicciolo la devozione del loro possessore, e ne aveva riso con suo padre, in un tempo talmente lontano da apparire un sogno, più che un ricordo. Si era chiesto, mentre richiudeva la bisaccia e la indossava a tracolla, quanto potesse valere un oggetto del genere -non abbastanza per ripagare i debiti di suo padre, questo era certo-, e dove Laurentia l’avesse rubato. Poi, scacciando quei pensieri irrilevanti dalla mente, si era accinto ad uscire dalla camera, impaziente di tornare alla villa -e stendersi sul suo pseudo-letto. E rivedere Sussurro. Soprattutto rivedere Sussurro-.
Era stato allora che aveva sentito le voci.
Anche se soffocato dagli ululati di Shiih -che non aveva smesso di abbaiare un momento da quando era stato richiuso a tradimento, insieme alla sua padroncina-, la voce del padre di Evenit era inconfondibile e fu sufficiente a far rabbrividire Julius per la paura: lui, e l’altro individuo che Julius poteva solo supporre essere l’amico che lo aveva visto, quel cambio alla villa, erano accorsi, una volta uditi i lamenti del cane e in quel momento erano intenti ad aprire la porta della camera. Il suo rapitore era entrato, mentre l’altro era rimasto fuori, in attesa. 
Il corridoio non era abbastanza largo per permettere a due persone di percorrerlo fianco a fianco senza scontrarsi: Julius riconosceva che quella sarebbe stata la soluzione migliore -strisciare schiena contro la parete, avvolto dalle ombre, e scapicollarsi giù per le scale prima che avessero il tempo di accorgersi della sua assenza-, ma le ginocchia gli tremavano troppo per tentare. Se fosse stato preso -se avesse emesso il minimo rumore, se le sue gambe non avessero retto- non avrebbe avuto un’altra possibilità di fuga. L’ultima volta che aveva abbassato la guardia, e aveva deciso di rischiare un approccio incauto, era stato ricompensato con una botta in testa e lacci ai polsi.
Così, maledicendo la propria paura, si era avvolto nelle ombre, si era ritirato in un angolo della stanza, subito a destra della porta e lì era rimasto, in attesa: se i due si fossero convinti che era già scappato -che erano arrivati troppo tardi e la loro preda era riuscita a liberarsi prima del previsto- forse sarebbero usciti a cercarlo nelle strade, oppure avrebbero rinunciato e sarebbero tornati alle loro mansioni di servitori. In ogni caso, sarebbe stato molto più facile e sicuro per lui dileguarsi, dopo.
Si sforzò di riprendere il controllo del proprio cuore, che batteva tanto forte da minacciare di sfondargli il petto, e costrinse se stesso a rimanere in piedi, pugni chiusi a tenere ferme le ombre e sguardo fisso in direzione dell’uscita. Ogni volta che perdeva la concentrazione, e la sua mente vagava in luoghi immaginari, si ritrovava davanti il ghigno che aveva spaccato le labbra del padre di Evenit quando gli aveva reso note le sue intenzioni e doveva trattenersi dal passarsi le mani sul viso. 
Figlie, quanto gli mancava la sua camera nelle Costole. Quanto gli mancava la sua vita.
Avvolto dall’oscurità opaca delle tenebre, strinse gli occhi a fessura e giurò a se stesso che, se mai fosse riuscito a tornare a ‘Grave, se per qualche miracolo quell’avventura si fosse conclusa con un successo, non avrebbe più lasciato che qualcuno minacciasse ciò che era suo di diritto. Mai più.
Sentì dei passi avvicinarsi e un uomo -che, dai capelli, Julius intuì essere il compagno del padre di Evenit- entrò nella stanza, guardandosi brevemente attorno prima di commentare, ad alta voce: “Qui non c’è nessuno, Anthelm. Quel ragazzino, chiunque fosse, se n’è già andato da un pezzo” Pausa “E si è anche ripreso la sua borsa”
La replica dell’individuo dai capelli rossi, che Julius aveva appena scoperto rispondere al nome di Anthelm, non si fece attendere, anche se venne preceduta da una serie di improperi in Liisiano talmente coloriti da fare arrossire perfino un deliziante di Godsgrave: “Sta’ pur certo che lo ritrovo, anche se si fosse andato a nascondere in mezzo alle gambe di Trelene in persona”
Si udirono dei passi e il padre di Evenit comparve, seguito da due macchie più basse, che Julius immaginò fossero la figlia e Shiih. Il pensiero del cane, e dello sguardo di pura malevolenza che gli aveva rivolto quando aveva spinto la sua padrona contro il muro, lo inchiodò sul posto, talmente spaventato da non riuscire quasi a respirare.
Calmo.
Doveva rimanere calmo.
Si ripeté quelle parole come un mantra, ma scoprì che non servivano quasi a nulla.
“Papà io… io mi dispiace… mi aveva detto…”
“So benissimo quello che ti ha detto. Quel-” parola che Julius non conosceva, ma di cui intuì fin troppo bene il significato “ha fatto male i suoi conti, però, se crede di poter far del male a mia figlia non una, ma due volte e uscirne tutto intero” Si udì un rumore frusciante di stoffa, e la figura indistinta rappresentante Anthelm si contorse in modo tale da far capire a Julius che stava cercando qualcosa nelle tasche dei vestiti. Poi, l’uomo si chinò vicino alla seconda macchia scura e tese un braccio davanti a lui.
“E ora, Shiih, annusa bene e portami da lui. Ovunque si trovi.”
La mano di Julius andò con uno scatto alla giacca che teneva in vita e con un senso crescente di nausea realizzò cosa significasse quello strappo che aveva visto sul retro dell’indumento. D’altronde, perché dare al proprio cane il nome dell’occhio sorvegliante di Aa senza addestrarlo a seguire le tracce?
Ci fu un momento in cui il tempo rallentò fino a fermarsi, raggelato dal terrore che Julius sentiva mordergli la pelle e il cervello. Un momento in cui il respiro pesante di Shiih, che inspirava l’odore della sua preda fino a memorizzarlo, fu l’unico rumore percepibile dai presenti. Un momento in cui i raggi di Saan e Saai sembrarono insufficienti ad illuminare quella piccola stanza.
Poi, all’improvviso come era iniziato, quel momento finì.
Ed accaddero due cose.
La prima fu il familiare vuoto che Julius sentì nel non-luogo dove, fino a un istante prima, aveva albergato la sua paura. Un vuoto che gli fece realizzare, dopo un rapido calcolo, che i suoi poteri non sarebbero stati abbastanza per tirarlo fuori da quella situazione: era stanco, i soli splendevano alti nel cielo, e non sarebbe mai riuscito a controllare le ombre di quattro individui diversi contemporaneamente.
La seconda, invece, fu in ringhio che Shiih emise in risposta alla richiesta di Anthelm, voltando la testa verso il punto esatto in cui la sua preda si era nascosta, in piena vista e allo stesso tempo invisibile agli occhi umani.
A quel punto, a Julius non rimase altra scelta.
Si liberò dal manto di tenebre, gettandolo negli occhi del cane, e scattò verso il corridoio con tutte le forze rimaste in corpo.
Le scale erano abbastanza vicine da essere visibili e, mentre si fiondava nella loro direzione, borsa stretta tra le mani e la sua ombra di nuovo scura due volte il normale, Julius osò sperare, ottimista ai limiti della presunzione, che avrebbe quasi potuto farcela.
Non riuscì neanche a finire di formulare quel pensiero, che un enorme peso lo spinse in avanti, facendolo cadere in avanti, contro il legno del pavimento.
Tentò di rialzarsi, rispondendo all’istinto che gli diceva di non perdere tempo e continuare a correre, ma Shiih lo tenne premuto a terra, premendo gli artigli affilati nella sua schiena così a fondo da lacerargli la carne e strappargli un gemito di dolore. Tuttavia, quando Julius sentì la bava del cane gocciolargli sui capelli e scivolargli sul collo, l’unica emozione che riuscì a provare fu il disgusto.
“Sussurro?” chiese flebilmente, quasi senza emettere un suono.
… Sono qui, Julius…” giunse la replica al suo orecchio.
“Bene bene, sembra proprio che la fuga del nostro ricercato sia arrivata alla fine” Anthelm scavalcò il suo cane e si inginocchiò davanti al prigioniero, lineamenti distorti nella brutta parodia di un sorriso “Che ne dici, Raban? Ti sembra lo stesso che è venuto a consegnare la lettera, quel cambio?”
Il suo interlocutore non rispose.
“Raban? Che c’è?”
“Quel ragazzino prima non c’era, Anthelm. Te lo giuro. Non so come sia potuto spuntare…”
“Era nascosto dietro la porta, cazzo di Aa, e tu non hai pensato di guardarci. Non mi sembra così difficile”
“Io l’ho chiusa quella dannata porta e l’ho anche riaperta. Lui non c’era. E il modo in cui ha reagito il tuo cane, quando è apparso come lo spieghi?”
“Che vuoi dire? Che è comparso dal nulla? Non vorrai mica farmi credere,” e qui il tono dell’uomo assunse una sfumatura canzonatoria “che è un Senzafuoco tornato dal regno dei morti?”
Quando risposte, la voce dell’altro era mortalmente seria: “Forse sì, o forse no, ma il Semprevigile sa che sono un suo servitore fedele e devoto e io so riconoscere chi invece non lo è. Non voglio avere più nulla a che fare con questa faccenda” Pausa “O con questa cosa
Julius si domandò, distaccato, se avrebbe dovuto offendersi per essere stato definito una ‘cosa’ con tanto evidente disgusto: tutto sommato, gli sembrava solo una perdita di tempo. E poi, iniziava a trovare quella superstizione piuttosto divertente.
“Non starai dicendo sul serio, spero”
“Sono serissimo. Ora levati di mezzo”
Anthlem si alzò in piedi, uno sguardo truce negli occhi, e non era difficile capire che la discussione sarebbe presto degenerata in uno scontro fisico se non fosse intervenuta una distrazione.
Distrazione che assunse la forma di due uomini sbucati dalle scale in fondo al corridoio, impegnati nella nobile arte del pestaggio a sangue. 
Dalla sua posizione schiacciata contro il pavimento, Julius non riusciva a vedere le loro fattezze, ma giudicò che, dalle dimensioni dei polpacci, uno fosse molto, molto più grosso dell’altro. E che non si stesse risparmiando nei colpi. 
Le due coppie di piedi danzarono in quel corridoio con più ferocia di quanto sarebbe dovuto essere possibile per uno spazio così angusto: Julius tese il collo e ruotò il viso, incurante dei ringhi poco rassicuranti di Shiih, e riuscì a cogliere una breve immagine dei due lottatori, proprio nel momento in cui il primo -quello dai polpacci grossi- assestava una forte ginocchiata nei gioielli di famiglia del secondo, facendolo barcollare all’indietro, le mani istintivamente andate a proteggere il proprio orgoglio ferito. Si udì poi un colpo sordo, seguito da uno scrocchio che causò a Julius un conato di vomito, e il lottatore battuto si accasciò a terra. Da dov’era, il ragazzino riuscì a vederlo in volto e le ombre attorno a lui si agitarono, mentre Sussurro si affrettava ad ingoiare un’enorme quantità di paura e disgusto: una poltiglia informe e viscosa aveva preso il posto del suo naso, lasciando solo alcuni muscoli sfilacciati a penzolare da rimasugli d’ossa, e il sangue raggrumato attorno alla bocca, che disegnava pigre scie lungo le guance e il collo, lo faceva sembrare più a una maschera di Carnivalé che ad una persona reale.
L’unica differenza tra una maschera e l’individuo in questione era che quest’ultimo si stava contorcendo sul pavimento.
L’uomo dai polpacci grossi fece scrocchiare le nocche delle dita e poi commentò, con una voce biascicante e un sorriso a cui mancavano parecchi denti: “Allora, chi è il prossimo?”
Raban fece un passo indietro. Anthlem non si mosse.
“Papà? Che succede? C’è qualcosa che non va?” Evenit fece capolino dalla stanza da cui erano appena usciti, sospetto e timore dipinti sulla fronte e sulle labbra.
“No, tranquilla tesoro: torna dentro e chiudi la porta, tra poco sono da te,” l’uomo poi si rivolse al lottatore “Ascolta, non cerchiamo guai. Tu per la tua strada e io per la mia”
L’altro lanciò un’occhiata al gruppo -due uomini, un cane ringhiante e un ragazzino pressato sotto le sue grinfie- ed emise una risata gutturale: “Non cercate guai? Non si direbbe”
“Questo non c’en…” Anthlem non riuscì a finire la frase, perché il colosso lo prese per la collottola e lo scaraventò alla sua sinistra, contro la sua precedente vittima, ancora accasciata per terra. Ci fu un inconfondibile rumore di ossa rotte, e il lottatore stava già dando le spalle alla scena, pronto a sferrare un attacco nei confronti del secondo malcapitato, quando il padre di Evenit si alzò da terra e, con uno scatto che stupì Julius sia per velocità che per forza, lo pugnalò alla spalla con un coltello corto e affilato. Il colosso si fermò, dita ancora protese verso Raban, che ne frattempo era rimasto immobile, troppo spaventato anche solo per respirare; poi, lentamente, afferrò il manico del coltello e lo estrasse dalla ferita con un movimento secco, tingendo la propria casacca di rosso e schizzando anche Julius stesso, che resistette a stento all’impulso di agitarsi per pulirsi il viso.
Anthlem non esitò, pugni serrati e mascella indurita, e riuscì ad evitare due colpi -alle gambe e al torace-, ma venne centrato in pieno dal seguente pugno allo stomaco: boccheggiò e fece due passi indietro, piegato in due, dando modo al suo avversario di farsi più vicino ed afferrarlo per i capelli rosso fuoco. Prima però di poter procedere con un’ulteriore mossa nel suo repertorio5, Anthlem lo colpì con una ginocchiata all’inguine: il colosso emise un gemito, alzando il braccio con tanta forza da strappare via una grossa ciocca di capelli al padre di Evenit, che a sua volta urlò di dolore.
Il peso che teneva Julius incollato al pavimento sparì, mentre Shiih spiccava un balzo in direzione dell’aggressione del suo padrone e lo azzannava, da dietro, al fianco sinistro: Julius si tirò su in piedi proprio nel momento in cui l’altro si girava e assestava un pugno sul muso dell’animale, che guaì e ringhiò, cercando di azzannarlo una seconda volta. L’uomo deviò il colpo e al medesimo tempo usò l’altra mano, che ancora stringeva il coltello di Anthlem, per ferire quest’ultimo sull’avambraccio.
Il padre di Evenit barcollò all’indietro, tanto ormai da essere vicino alle scale, e gettò un’occhiata alla taverna sotto di sé: quello che vide non dovette piacergli, perché il suo viso assunse un colorito pallido, in contrasto con il sangue incrostato che gli decorava il viso. Senza però perdersi d’animo, si gettò conto il suo aggressore proprio nel momento in cui questi assestava un grosso calcio all’animale davanti a lui, facendolo mugolare di dolore. Anthlem scelse quell’occasione per attaccare, aggrappandosi alle spalle dell’altro e cingendogli la vita con le gambe, mentre tentava di soffocarlo: il lottatore reagì con forza, scuotendosi a destra e a sinistra e sbattendo il padre di Evenit contro le pareti del corridoio, mentre al contempo retrocedeva verso l’estremità del corridoio.
Ci fu un movimento, troppo veloce perché Julius potesse capire cosa fosse successo, ma Anthlem doveva aver compresso la gola dell’altro con efficacia, perché quest’ultimo iniziò ad annaspare, portandosi le mani al collo nel tentativo di fargli mollare la presa. Tutto inutile.
Il colosso barcollò all’indietro, mentre in sottofondo si sentivano ancora i guaiti di Shiih. Continuò a dimenarsi, debolmente, sentendo in contrasto la stretta del suo avversario farsi sempre più serrata: ormai, erano entrambi a pochissima distanza dalle scale.
E a Julius venne un’idea.
Le ombre attorno ai loro piedi erano confuse e continuavano a muoversi, e gli ci vollero parecchi disperati secondi per riuscire ad assumerne il controllo, stanco com’era, ma infine, con un sorriso vittorioso ad illuminargli il volto, le ebbe in suo potere: in un gesto ormai ripetuto fino alla nausea, le incollò al pavimento per un breve secondo, proprio nell’istante in cui il loro proprietario cercava di spostarsi, e poi le lasciò libere nuovamente.
Il lottatore strabuzzò gli occhi e lasciò la presa sugli avambracci di Anthlem -tutt’ora impegnati a stringere- per tentare di riacquistare l’equilibrio: fece un passo, poi un altro…
E i suoi piedi incontrarono il vuoto delle scale.
Quando quei due corpi attorcigliati caddero insieme all’indietro, Julius si ritrovò suo malgrado a distogliere lo sguardo e strinse i denti nel sentire il rumore inconfondibile di ossa rotte. La risposta di Shiih non si fece attendere: ringhiò ed abbaio, dimentico del dolore al muso, e spiccò un balzo verso il punto in cui il suo padrone era caduto, scomparendo alla vista.
Al secondo piano, ormai, rimanevano solo Julius e Raban, che aveva osservato l’intera scena in silenzio, volto cinereo dal terrore e labbra tremanti. Sembrava sul punto di darsi alla fuga: gli serviva solo un incentivo.
… Devo dire che è stato un enorme colpo di fortuna…” Sussurro sembrò avere letto nel pensiero del compagno, perché uscì dalle ombre e si andò ad arrotolare attorno al suo collo, osservando la scena con sguardo critico.
L’uomo al loro fianco strabuzzò gli occhi e si portò una mano alla bocca: “Tu… tu… cosa…”
Julius scrollò le spalle e, senza interrompere il contatto visivo, fece un movimento secco con la mano: le ombre iniziarono a danzare attorno a loro, senza scopo, ma con una violenza che ne lasciava intendere uno: “Vi consiglio di andarvene, mi domine
E, con sua grande soddisfazione e gioia, Raban fece esattamente come gli era stato consigliato.
“Inizio a trovare questa faccenda dei tenebris parecchio comica, oltre che utile”
… Non mi sembra il caso di autoincensarsi troppo…” Il tono dell’ombravipera lasciava trasparire una traccia offesa. Julius sospirò, irritato.
“Vuoi che ti dia ragione e ti chieda scusa in ginocchio qui, adesso, oppure preferisci che ne riparliamo quando saremo di nuovo alla villa?”
Il suo interlocutore emise un sibilo, ma non replicò.
“Come pensavo. Dai, forza: andiamo”
… A questo proposito, credo che ti faccia piacere sapere che non sono venuto esattamente da solo…
“Che intendi?”
L’altro non ebbe tempo di replicare: si udirono dei passi rapidi e veloci e dalle scale spuntò Alinne, ancora intenta a rivolgere parole innervosite a un Lucius piuttosto confuso.
Non appena lo vide, sporco di sangue e polvere, con Sussurro attorcigliato al proprio collo, ella tacque e lasciò anche la presa sul braccio del compagno.
“I documenti?” chiese, infine, dopo averlo squadrato.
Julius batté due volte sulla borsa che portava a tracolla, in segno di risposta: “La tua felicità nei rivedermi è commovente”
Alinne alzò gli occhi al cielo, mentre Lucius continuò a fissare entrambi, senza dire una parola. Poi, con nulla di più di un cenno del capo, tutti e tre diedero la schiena al corridoio e si affrettarono giù per le scale.
“E quindi, sembra che non dovremo raccoglierti con un cucchiaio. Ti dirò, è un bene: l’argenteria qui dentro fa schifo”


 

❊❊❊

 

Smisero di correre solo quando le gambe di tutti e tre si rifiutarono di continuare a sostenerli. 
Fiato corto e petto che doleva per lo sforzo, entrarono in un vicolo laterale pieno di fango e rifiuti e si lasciarono cadere nel marcio che avevano sotto i piedi, troppo sfiniti per preoccuparsi dei loro abiti: solo Lucius mosse qualche debole resistenza -mio padre mi ucciderà quando vedrà in che condizioni mi sono ridotto!-, ma un’occhiata piuttosto eloquente di Alinne fu sufficiente per zittirlo.
Erano ancora all’interno dei bassifondi -case rette con la forza del pensiero piuttosto che da mattoni e pietre e strade a malapena percorribili- e Julius iniziava a sospettare che essi costituissero la stragrande maggioranza della città stessa: più osservava le vie e i suoi abitanti, e più ne condivideva le esperienze, più capiva che l’ostentata opulenza di abitazioni come quella di Hëloise, o del dominus che aveva derubato, svolgevano la funzione di una facciata di cartapesta, nascondendo tutto il marcio che ne costituiva, invece, le fondamenta. Sua zia lo aveva intuito anch’ella, nella sua giovinezza, e aveva cercato di porvi rimedio, seppur in modo infantile e confuso. Le era costato caro.
Si chiese, mentre le sue scarpe iniziavano ad impregnarsi della sostanza innominata che ricopriva il suolo, quale fosse la proporzione tra finzione e realtà a ‘Grave, con le Costole, il Senato, i candelabri di cristallo e i gioielli d’oro. E quanti dei midollani che si coricavano tra lenzuola di seta e indossavano vestiti di broccato sapessero che la distanza tra loro e il mendicante che chiedeva l’elemosina davanti all’imponente statua del Semprevigile nella piazza principale si poteva tradurre in una semplice questione di fortuna.
Non molti, altrimenti avrebbero fatto più attenzione.
Atticus di sicuro si era sentito intoccabile.
E stava facendo pagare a lui lo scotto di quell’errore.
“Bene, adesso che siamo tutti sani e salvi è il momento che regoliamo i conti, tu ed io”
Julius rivolse uno sguardo interrogativo ad Alinne, che si era avvicinata e lo stava guardando dall’alto in basso, braccia incrociate sul petto: “Che intendi dire?”
“Intendo dire,” alzò il mento “che gradirei avere il contenuto di quella borsa, se non ti spiace. E anche se ti spiace”
Julius si alzò in piedi, trattenendo una smorfia disgustata quando i propri vestiti produssero uno schiocco umido: “Non credo sia il caso di parlarne qui. Una volta che saremo tornati alla villa…”
“Oh no, io direi che è il momento perfetto per parlarne: ti ho appena salvato il culo dopo che tu hai cercato di fregarmi, direi che ho diritto ad un po’ di riconoscenza”
Il ragazzino strinse le labbra, sulla difensiva: “Non ho mai cercato di fregarti”
“Ah no? Allora cosa pensavi di fare andando in quella casa senza di me?”
… Ho cercato di dirle che l’hai fatto perché non credevi sarebbe stata d’accordo con la tua idea, ma non mi ha dato retta…
“Tu sta’ zitto. Non ti azzardare a dire un’altra parola: hai ottenuto quello che volevi, ovvero di recuperarlo sano e salvo. Adesso tocca a me!” Alinne fece un passo avanti, furiosa, e Julius si ritrovò suo malgrado a farne uno all’indietro, toccando con la schiena il muro del vicolo “Allora? Hai una spiegazione per quello che è successo, oppure accetti di ridarmi i documenti senza fare tante storie?”
“Io non devo spiegazioni a nessuno, e soprattutto non a te” Julius le diede una spinta, facendola arretrare e togliendosi da quella posizione scomoda: “E se sei così ansiosa di riavere questa,” la mano batté seccamente sulla sacca di cuoio e poi si mosse veloce, pizzicando le ombre attorno a loro, che iniziarono a tremare a loro volta “perché non cerchi di riprendertela da sola? Sempre che tu non abbia paura, è ovvio”
“Brutto figlio di-” Alinne strinse i pugni e avanzò, chiaramente intenzionata ad accogliere la provocazione, quando Lucius si frappose tra i due, entrambe le braccia distese per tenerli l’uno lontano dall’altra.
“Vi sembra questo il momento di litigare? Siamo ancora in mezzo alla strada: Julius ha ragione, torniamo a casa e poi ci penseremo insieme”
“Ma certo, facciamo come dice Julius, tanto non sei tu quello che lui stava tentato di fottere,” la ragazzina si passò una mano sulla bocca, gli occhi scuri ridotti a fessura “Levati dal cazzo, Lucius, e smettila di baciargli il culo”
“Io non… non bacio il…” Lucius arrossì furiosamente, la buona educazione impartitagli che combatteva con la propria frustrazione “Io non sono il leccapiedi di nessuno! Dico solo che dovremmo ragionare su quello che stiamo facendo, e non metterci a discutere” Dopodiché si rivolse in direzione del suo amico, implorandolo con gli occhi di dimostrare un po’ di buonsenso “Sarebbe tutto più facile, se dicessi ad Alinne la verità”
“Se lei continua a non fidarsi non vedo perché dovrei. Non mi crederebbe comunque”
“Non le stai dando molti motivi per farlo, ad essere sincero: cioè, io ti conosco, so che non saresti così scorretto, però…” il ragazzino alzò le spalle e abbassò gli occhi “… però dovresti darci una prova, ecco”
Negli anni a venire, malgrado non si reputasse un sentimentale, Julius ripensò spesso a quel momento, chiedendosi cosa sarebbe successo -cosa avrebbe detto e fatto- se gli fosse stata data la possibilità di spiegarsi. Quale scusa si sarebbe inventato? Sarebbe stata abbastanza buona da convincere Alinne?
Per fortuna -o sfortuna, dipende dai punti di vista-, non ebbe mai modo di scoprirlo.
Un ringhio basso e sordo li fece girare verso l’imboccatura del vicolo, tutti e tre improvvisamente dimentichi della lite in corso, e quello che videro avrebbe fatto mancare il terreno sotto i piedi a Julius, se Sussurro non fosse stato con lui.
Shiih, la lingua ancora penzoloni per la corsa, spiccò un balzo in avanti, spostandosi con una velocità e una leggiadria sorprendenti per la sua enorme mole, e spinse Julius a terra con le zampe anteriori. Il ragazzino avvertì una fitta di dolore alla testa, pericolosamente vicino a dove Anthlem l’aveva già colpito poche ore prima, e la vista gli si annebbiò, mentre la sua lingua assaggiava il sapore metallico e ormai familiare del sangue. 
Troppo rintronato dalla botta per reagire, Julius sentì in modo confuso e distante -come se la scena si stesse svolgendo su un palco teatrale e lui ne fosse mero spettatore- la bava del cane che gli gocciolava sulle guance e sulla fronte. Emise un gemito, soffocato dal ringhio della bestia, e tentò debolmente di divincolarsi, più per istinto che per reale presa di coscienza della situazione: l’ambiente faticava ad acquistare contorni distinti e il reale significato di quello che stava accadendo continuava a scivolargli tra le dita, come le ombre che non aveva possibilità di controllare.
“Lascialo andare!”
All’improvviso, la massa che lo teneva schiacciato contro il terreno guaì ed indietreggiò: Julius si tirò su a sedere, una mano sulla fonte e gli occhi chiusi, nel tentativo di riprendere coscienza di sé e di dove si trovava. Quando la sua mente si fu snebbiata a sufficienza, riuscì a socchiudere gli occhi e a mettere finalmente a fuoco il vicolo in cui si trovava: Lucius era schiacciato in un angolo, rannicchiato con la testa tra le ginocchia e i pugni chiusi, troppo spaventato anche solo per reagire, mentre Alinne… Alinne stava cercando di tenere a bada il cane, sventolandogli davanti al muso il pugnale di necrosso sottratto a Laurentia. Shiih la osservava, ruotando in lenti cerchi attorno a lei alla ricerca di un punto debole, e la ragazzina lo seguiva, assecondandone i movimenti con corpo e sguardo: Julius provò ad alzarsi in piedi e a fissare le ombre attorno al cane, per aiutarla, ma scoprì che anche solo muoversi gli faceva girare la testa e venire la nausea. Si morse il labbro inferiore e appoggiò il mento su un ginocchio, riprendendo fiato.
… Stai bene…?” Sussurro gli domandò, da sopra la sua spalla.
“Sì, io credo…” un conato di vomito gli impedì per un attimo di proseguire la frase “… diciamo che sono stato meglio, ecco”
… Dobbiamo andarcene in fretta…
Il ragazzino provò di nuovo a sollevarsi, ancora senza risultato.
Il cane ringhiò e scattò in avanti, e Alinne lo evitò un attimo prima di essere travolta dalla sua mole; nel retrocedere, però, mise un piede in fallo nella poltiglia scivolosa della strada e perse l’equilibrio, piegando male la caviglia. Cadde sul selciato di schiena, gomiti all’indietro per ridurre l’impatto e le labbra socchiuse in un silenzioso grido di dolore: il coltello era caduto nel fango, a poca distanza da lei, ma prima che potesse riprenderlo Shiih le affondò gli artigli nel braccio sinistro, continuando a ringhiare a pochi pollici di distanza dal suo viso.
A quella vista, Julius reagì ancora prima di pensare.
Con una smorfia disgustata, tastò il terreno attorno a sé fino a trovare un sasso sufficientemente grande e poi lo lanciò in direzione del cane, sollevato nel vedere la bestia guaire quando la pietra la colpì in testa.
Sollievo che, però, durò molto poco.
… Questa non è stata una mossa intelligente…” Sussurro scivolò dal suo collo e si frappose tra lui e Shiih, che nel frattempo si era girato nella loro direzione -già dimentico della sua preda precedente- e li osservava con occhi iniettati di sangue. Julius tentò di bloccare le ombre sotto le sue zampe, ma ancora esse sembravano sfuggirgli, mentre la soliluce, la stanchezza e il sapore metallico che ancora sentiva in bocca si mescolavano tra loro, impedendogli di concentrarsi.
Retrocedette, ancora seduto, e si guardò attorno alla disperata ricerca di qualcosa con cui distrarre il cane, mentre quest’ultimo annusava l’aria intorno all’ombravipera, dapprima esitante, poi più deciso quando si rese conto che essa non aveva alcun odore. 
Julius non aveva paura, ma sapeva comunque che c’erano poche possibilità di uscire integri da quella situazione, soprattutto perché la presenza del mastino implicava che da un momento all’altro…
“Shiih, seduto!”
Il cane rispose al comando con pronta obbedienza, sguardo diretto verso non più Julius, ma la voce che lo aveva apostrofato: Anthlem era in piedi, all’imboccatura del vicolo, il viso segnato da lividi e ferite, ma illuminato da uno sguardo feroce. Egli gettò uno sguardo alla scena davanti a sé -ai tre ragazzini a terra che lo osservavano con un misto di ansia, timore e rassegnazione- e il sorriso che già aleggiava sulle sue labbra si allargò ulteriormente.
“Finalmente ci ritroviamo,” l’uomo si inginocchiò davanti a Julius, che stava cercando di tirarsi in piedi con pessimi risultati, e gli mise una mano sulla spalla, costringendolo nella sua posizione seduta. Il ragazzino sentì Alinne lamentarsi, ma Anthlem gli impediva di vedere dove ella fosse e cosa stesse facendo: dal suono che Shiih emise, la sua figura solo parzialmente nascosta dal corpo del padrone, dedusse che non c’era molta probabilità di ricevere aiuto da lei.
Per quanto riguardava Lucius… non si era mosso dall’arrivo del cane e dubitava che avrebbe fatto qualcosa ora. Era terrorizzato.
“Devo essere sincero, non mi aspettavo che acchiapparti sarebbe stato così difficile. Sei pieno di risorse, o magari solo molto fortunato”
“Fortunato non è la parola che userei per definirmi”
L’altro alzò le spalle e poi rispose, in Liisiano, sapendo ormai che la sua vittima poteva comprenderlo: “Forse no, dopotutto. Altrimenti non saresti qui. Shiih ci ha messo un po’ a trovarvi, è vero, ma ti sorprenderebbe sapere cosa può fare un cane allenato a seguire le tracce”
Julius tentò di divincolarsi, ma la stretta dell’altro sulla sua spalla era troppo forte. Avrebbe dovuto distrarlo, o cercare di convincerlo a parole, ma non sapeva cosa…
Una sensazione di gelo si diffuse nel suo stomaco e il cuore prese a battergli più forte nel petto, sentendo la silenziosa non-presenza di Sussurro scivolare via dalla sua ombra e allontanarsi.
Cosa stava facendo?
Perché se n’era andato?
Lo stava… lo stava davvero lasciando lì? Da solo?
Il suo sguardo incrociò quello di Anthlem, che sorrise -le ferite sulle guance che facevano colare piccoli rivoletti rossi sulle sue labbra e lungo il suo collo- e tirò fuori il coltello dalla tasca della giacca. Julius notò, con un brivido, che era ancora macchiato di sangue: “È un peccato, sai?” disse, leccandosi le labbra “Credevo che avrei potuto fare un lavoro più pulito, ma… Non posso lamentarmi di averne almeno l’occasione”
Julius si dimenò, tentando di sfuggire alla presa dell’uomo, ma le gambe di quest’ultimo lo bloccavano al suolo e non aveva nulla con sé con cui contrattaccare. Se c’era un modo per ferire, o scappare, utilizzando le ombre, non lo aveva ancora scoperto5. E la paura non gli rendeva certo più facile pensare. Distolse lo sguardo e si morse le labbra, deciso almeno a non dare per nessuna ragione la soddisfazione all’altro di sentirlo implorare pietà, e già sentiva sulla sua pelle la fredda lama del coltello che lo avrebbe deturpato, con tutta probabilità per sempre, quando qualcosa si gettò contro Anthlem, togliendoglielo di dosso.
Fu con enorme sorpresa che Julius riconobbe in Lucius il qualcosa che si era gettato sull’uomo e lo stava fissando con uno sguardo determinato, così poco simile al ragazzino che conosceva: poi, però, gli occhi gli caddero sulla sua ombra, scura due volte più del normale, e un sorriso sollevato e consapevole insieme gli si delineò sulle labbra. 
Sussurro stava facendo un ottimo lavoro.
Purtroppo, la mancanza di paura non poteva compensare stazza ed esperienza. Anthlem si riprese in fretta dalla sorpresa e, mentre Julius si faceva forza, riuscendo a rimettersi in piedi a prezzo di un giramento di capo così forte da fargli pensare di trovarsi di nuovo su una nave, prese il braccio di Lucius e glielo torse dietro la schiena, con uno scatto così netto che il ragazzino urlò di dolore.
“Stanne fuori, moccioso. Non ho tempo per le sciocchezze”
Lo spinse a terra, con una smorfia di sufficienza e fece per rivolgersi di nuovo a Julius, ma Lucius non demorse: ancora sdraiato sul selciato umido, si aggrappò alla game destra dell’uomo, le unghie, corte e sporche, che affondavano nella stoffa e nella pelle della sua gamba.
Anthlem gli gettò un’occhiata dall’alto in basso e sospirò, rassegnato: “Quindi vuoi proprio complicarmi la vita, eh?” Girando su se stesso, diede un calcio nello stomaco a Lucius, facendolo accasciare a terra, il viso pallido per il dolore e un gemito strozzato in gola: poi, non contento, mentre ancora il ragazzino riprendeva fiato, gliene diede un altro e un altro ancora.
Julius cercò di fissare al suolo le ombre dell’uomo con un senso di disperazione crescente, ma venne distratto dal ringhiare di Shiih: la bestia, che sembrava percepire i suoi poteri utilizzando un senso addizionale rispetto a quelli umani, si rivolse verso di lui, voltando le spalle ad Alinne, ancora stesa al suolo e intontita dal dolore alla caviglia e all’avambraccio.
No, no, non di nuovo… pensò Julius, indietreggiando, solo per scoprire di avere le spalle al muro. Gli sembrava che il caldo e la soliluce stessero scavando un tunnel dentro la sua testa, e tutta la sua volontà era impiegata per costringersi a rimanere in piedi e non piangere: non avrebbe potuto correre via neanche se l’avesse voluto.
Anthlem diede un’occhiata a Lucius che, ancora sotto il suo stivale, ricambiò il suo sguardo, senza mostrare traccia di paura: “Dici che dovrei iniziare con te, quindi?” il coltello scattò di nuovo nella sua mano. Il ragazzino, ancora senza fiato, non rispose: “Molto bene, lo prendo come un ‘sì’”
“Sta’ lontano da mio figlio”
Nella lista di persone che Julius sperava sarebbero potute arrivare in loro soccorso, Oonan era solo di una posizione più in alto del Semprevigile, eppure non per questo egli si sentì meno sollevato quando vide il medico avanzare nel vicolo, con un passo deciso per lui inconsueto.
“P-papà?” Lucius boccheggiò e il suo viso perse colore nello stesso momento in cui la sua ombra divenne più chiara. Julius riaccolse Sussurro con una silenziosa gratitudine e un lieve cenno del capo.
“Vostro figlio si è impicciato in faccende che non lo riguardano, mi domine
Oonan lanciò un’occhiata alla guancia marchiata del suo interlocutore e distese le labbra in un sorriso di scherno: “Uno schiavo che dice parole simili ad un uomo libero. A chi pensate che la pattuglia di Luminatii in procinto di arrivare crederà, una volta visto lo stato in cui avete ridotto questi ragazzi?”
A Julius non sfuggì l’occhiata di fuoco che il medico gli riservò, quando i loro sguardi si incrociarono, ma non si sentì intimorito: qualsiasi cosa era meglio di quello a cui rischiavano di andare incontro, se Oonan non fosse arrivato.
Un’ombra passò nello sguardo di Anthlem: “Voi non…”
“Non mi credete? Allora aspettiamo insieme. Oppure, se siete ragionevole, andatevene e lasciate perdere questa vostra vendetta spicciola”
L’uomo spostò lo sguardo dal medico ai tre ragazzini. Rifletté. Ponderò. E, infine, lentamente, come se il gesto stesso lo disgustasse, annuì.
Oonan lo guardò allontanarsi nel vicolo, seguito da Shiih, e poi, senza dire una parola, si inginocchiò davanti a Lucius, tendendogli la mano: “Stai bene?” gli chiese, con un tono carico di preoccupazione che per un attimo -per meno di un attimo- fece sentire Julius stranamente irritato. Suo padre non gli aveva mai parlato così.
Il ragazzino annuì, sembrando all’improvviso più piccolo di quello che era in realtà, e prese la sua mano, tirandosi in piedi: “Come… come sapevi dov’eravamo? Dove… dov’ero?”
“Vi ho seguiti. Quando ti ho incrociato sulle scale, alla villa, era chiaro che mi stessi nascondendo qualcosa: volevo assicurarmi che non ti cacciassi nei guai” L’uomo strinse le labbra, calibrando le proprie parole “Dopo essere entrati alla taverna vi ho perso e ho continuato a girovagare nei dintorni per un po’: poi, poco fa, ti ho sentito gridare” E poi, con un tono pacato a cui Julius reagì con una nuova strana scarica di rabbia -suo padre non gli aveva mai parlato così-, aggiunse: “Tu stai bene?”
Lucius annuì e tirò su col naso. Poi, voltandosi prima verso Julius e poi verso Alinne, ripeté la domanda: “E voi?”
Julius si limitò ad un ‘’ sussurrato. Alinne, invece, si espresse con un ‘potrei stare meglio’ e domandò, anche se con meno arroganza del solito, se qualcuno poteva aiutarla ad alzarsi. Julius si offrì, anche se lui stesso si sentiva piuttosto malfermo, e recuperò anche il pugnale di necrosso ancora sepolto sotto il fango. La ragazzina non sembrava in grado di reggerlo, né tantomeno gli prestò la minima attenzione, così lo tenne lui in mano, mentre lei gli passava un braccio attorno al collo e saltellava su un piede solo verso l’imboccatura del vicolo.
“Dovrai farti un bel bagno,” stava dicendo Oonan a Lucius “se Hëloise ti vedesse in queste condizioni…”
“Oh certo,” replicò il figlio, sorridendo felice al genitore “e poi… è già stato servito l’ultimopasto alla villa? Sto morendo di fame”
Oonan rise e insieme svoltarono a sinistra.
Julius sospirò, continuando a sostenere la sua compagna: era finita. Non nel modo in cui sperava sarebbero andate le cose, ma era finita. E almeno erano tutti interi.
Restava solo da vedere come si sarebbero divisi quei dannati documenti, ma erano tutti troppo stanchi per pensarci. Ci avrebbero pensato il cambio seguente.
Potevano abbassare la guardia.
Fu allora che Lucius urlò.
Con nulla di più che un’occhiata d’intesa, Julius lasciò Alinne appoggiata al muro e corse nella direzione in cui erano scomparsi i due, fermandosi un attimo prima dell’angolo.
Quello che vide fu abbastanza da far agitare tutte le onde del vicolo.
Oonan giaceva per terra, viso contorto dal dolore, stringendosi una ferita al petto che sembrava non voler smettere di sanguinare. Lucius era in ginocchio al suo fianco, il petto scosso dai singhiozzi, e cercava anche lui di tamponare l’emorragia, continuando al contempo a stringere la mano del padre.
Sopra entrambi, un coltello cremisi nella mano e uno sguardo allucinato in viso, stava Anthlem.
“E così i Luminatii stavano arrivando, eh? Bella stronzata… se non fosse che non è così facile imbrogliarmi… Tu e tuo figlio dovevate stare fuori da questa faccenda: adesso ne state pagando entrambi il prezzo” 
Julius non ebbe il tempo di chiedersi se avrebbe abbassato di nuovo quel coltello su Lucius, oppure se lo avrebbe semplicemente lasciato lì, da solo, sporco di fango davanti al padre morente, mentre lo andava a cercare per prendersi la sua rivincita.
Non se lo chiese e, per la verità, non gli importava.
Era sufficiente la mera possibilità che succedesse.
Così, una volta di più senza pensare, raccolse tutta la forza che aveva e si avvolse nelle tenebre che circondavano il vicolo.
Corse nella direzione di Anthlem.
E, vista sfocata per via dell’oscurità e delle lacrime, gli conficcò una, due, tre volte il pugnale di necrosso nello stomaco.
Registrò con sorda indifferenza le ombre attorno a lui cadere mentre lo faceva, e allo stesso modo quasi non sentì il sangue caldo schizzargli sulle mani, polsi e vestiti. A malapena udì il grido strozzato di Lucius. 
Anthlem gli rivolse uno sguardo di sorda sorpresa, perdendo la presa sul coltello, e protese le mani nella sua direzione. Non fece in tempo a portare a termine il gesto: cadde in ginocchio con un gemito gorgogliante e poi di lato, viso sommerso dalla poltiglia fangosa che ricopriva tutto il selciato.
Emise un rantolo, nel quale Julius parve di riconoscere il nome di sua figlia ripetuto ancora e ancora e ancora e ancora, ed uno spasmo percorse il suo corpo per intero. I suoi movimenti si fecero gradualmente meno convulsi. E infine, cessarono del tutto.
Julius rimase a fissarlo -quel corpo che prima era un chi e adesso era diventato un cosa- come imbambolato, solo vagamente consapevole del pugnale che continuava a stringere nella mano destra, scivoloso per il sangue. 
Era stato lui.
La sua mano.
Il suo braccio.
Lui.
Il concetto faticava a prendere forma.
… Julius…” Sussurro si materializzò sulla sua spalla, capo rivolto all’indietro “… credo che Lucius abbia bisogno di te…
Con un grande sforzo, il ragazzino distolse lo sguardo dalla scena e si girò nella direzione indicata dall’ombravipera: Lucius continuava a premere una mano ormai completamente rossa sulla ferita del padre, il petto scosso da singhiozzi che non accennavano a calmarsi e incurante del fatto che quel suo gesto fosse ormai del tutto inutile.
Julius non era un medico, ma gli occhi aperti e fissi di Oonan non potevano che indicare una sola diagnosi.
E, anche se sapeva che non avrebbe dovuto, al pensiero che egli fosse morto l’unico sentimento che riuscì a provare fu un’enorme mole di sollievo.
Sollievo, e giusto un pizzico di disprezzo.
Oonan era l’unico che avrebbe potuto metterlo nei guai con Hëloise, una volta tornati alla villa. L’unico che conoscesse il suo segreto e che avesse interesse ad usarlo contro di lui. L’unico che sapesse l’effetto che aveva su un tenebris la Trinità del Semprevigile. E ora era scomparso, e si era portato quelle informazioni nella tomba.
C’era dell’ironia, nel considerare quanto egli avesse dato importanza alla sopravvivenza, nel discorso che gli aveva fatto solo pochi cambi prima. Evidentemente, non era stato in grado di seguire i suoi stessi consigli.
A quel pensiero, malgrado il sangue che gli macchiava le mani e i vestiti, Julius represse un sorriso: di certo non poteva lasciar trasparire il suo stato d’animo davanti a Lucius. E se gli sarebbe stato molto facile ridere in faccia al cadavere dell’uomo che lo aveva usato per mesi, non voleva ferire suo figlio più di quanto egli lo fosse già. Senza contare che, in caso contrario, non sarebbe riuscito a farlo comportare come desiderava: e in quel frangente aveva bisogno di assoluta collaborazione da parte sua.
Così lasciò che il suo viso assumesse un’espressione neutra, e poi si inginocchiò vicino a lui, sfiorandogli la mano con la sua.
L’altro non parve neanche accorgersi di quel contatto: “D-d-dobbiamo… dobbiamo aiutarlo!” disse a fatica, tra le lacrime “Dobbiamo… dobbiamo portarlo da un medico, fare qualcosa, se la ferita continua a sanguinare, lui… lui…”
“Lucius…”
“Stava guardando verso di me, non ha fatto attenzione, se avesse guardato davanti l’avrebbe visto io… non…” ingoiò pesantemente “e poi l’ha colpito ed è andato giù e io non sapevo cosa fare e lui sorrideva e…” il suo sguardo si sollevò dal corpo del padre e incontrò quello di Julius, che vi lesse dolore e terrore in egual misura. Lanciò un’occhiata alla sua ombra, e iniziò a riflettere.
“Lucius, ascoltami,” Julius lasciò la mano del compagno e gli mise entrambe le mani sulle spalle “adesso dobbiamo alzarci e andarcene, il più in fretta possibile. Prendiamo Alinne, e torniamo alla villa”
L’altro scosse la testa, mordendosi il labbro inferiore: “Ma non possiamo! Papà ha bisogno di cure e se lo spostiamo…”
“No,” detestava doverlo fare, lo detestava davvero, ma non aveva altra scelta “non possiamo fare più nulla per tuo padre. E trascinarlo con noi attirerebbe solo sospetti. È infattibile. Sarà già complicato trasportare Alinne, dato che non può muovere la caviglia” Sospirò, e distolse lo sguardo “So… so che è difficile, ma cerca di…”
Lucius si divincolò dalla sua stretta e gli rivolse uno sguardo furioso: “A te importa solo di non finire nei guai: non ti importa nulla di noi, né di mio padre né tantomeno di me!”
Ti ho appena salvato la vita,” controbatté, freddo, pensando che la prima parte della sua accusa non poteva comunque essere definita falsa “Su una cosa però hai ragione: non voglio che qualcuno ci veda in queste condizioni. Siamo tutti e tre sporchi di sangue, in pessime condizioni e in una parte malfamata della città: cosa credi che penseranno quando ci troveranno? Tu potresti cavartela, Hëloise ti conosce e conosce…va tuo padre, ma Alinne ed io? Perciò sì, sto cercando di fare la cosa giusta e proteggere entrambi”
Lucius scosse la testa, guance rosse e occhi lucidi, ma Julius capì che molta della sua reticenza era causata dalla paura. Paura di rimanere solo. Paura di quello che sarebbe successo dopo. Paura dell’enorme voragine che si era aperta sotto i suoi piedi e rischiava di divorarlo. Ricordava di essersi sentito in modo molto simile, quando aveva scoperto perché Atticus lo avesse spedito ad Elai, mesi prima.
Ma almeno a quello poteva porre rimedio.
“Sussurro,” chiamò quindi, occhi rivolti all’ombra sotto di sé “dagli una mano”
… Sei sicuro…?” arrivò la risposta al suo orecchio. 
Sei sicuro di poter reggere il peso di quello che hai fatto da solo?
“Sì”
L’ombravipera rispose alla sua richiesta scivolando verso Lucius, che la accolse un singhiozzo e lo sguardo basso. Non appena lo ebbe lasciato, Julius sentì che un gran macigno opprimergli il petto e riuscì a visualizzare con chiarezza -una chiarezza abbagliante, eccessiva- quanto appena successo.
Il sangue sulle sue mani.
Il coltello posato al suo fianco.
L’uomo che giaceva a terra con lo stomaco aperto, appena dietro di lui.
Ho ucciso un uomo, realizzò, mentre il respiro accelerava e le ombre rispondevano al suo improvviso cambiamento emotivo.
Eppure, no.
Doveva rimanere freddo, o almeno fingere una freddezza che non provava.
Non avrebbe potuto occuparsi di Lucius altrimenti.
Ci avrebbe pensato dopo, nella tranquillità della villa.
Dopo, un dopo talmente lontano da sembrare irreale.
Forse era proprio quell’irrealtà a tranquillizzarlo.
“Ora capisci?” chiese all’amico, non appena lo vide abbastanza calmo “Capisci perché è necessario fare come dico?”
Lucius lo guardò fisso negli occhi per un tempo che gli parve infinito. Ma poi, lentamente, annuì. E scoppiò nuovamente a piangere, abbracciandolo.
Julius rimase raggelato, incerto su come reagire a quell’improvviso contatto fisico, per poi ricambiare la stretta dell’altro, sentendosi fuori posto e sciocco al tempo stesso. 
Fu in quella posizione che Alinne li trovò, saltellando su una gamba sola fin oltre l’angolo del vicolo: alla vista della scena -di Oonan, di Anthlem, del pugnale sporco di sangue e delle mani di entrambi i suoi compagni- il suo viso perse quel po’ di colore che ancora possedeva ed ella dovette appoggiarsi al muro, riprendendo fiato.
“Il cane?” chiese, infine, con voce atona.
Julius realizzò di non essersi minimamente posto il problema.
“Non c’era quando sono arrivato,” rispose “credo che lo avesse mandato via, prima di…” Cercò le parole, senza trovarle “Prima”
Sarà tornato da Evenit? Rifletté, quasi distaccato. Cosa farà lei una volta capito che il padre non tornerà a casa?
Scacciò anche quei pensieri dalla mente: non era un suo problema. E non lo avrebbe fatto diventare tale.
“Dobbiamo andarcene. Non possiamo rimanere qui a lungo: se qualcuno ci vedesse…”
“È quello che stavo dicendo anche io. Se ci mettiamo in cammino forse riusciremo ad arrivare alla villa prima dell’illuminotte”
“Alla villa? No, non pensarci neanche: conciati come siamo, il primo Luminatii che passa ci arresterebbe”
“Quindi?”
“Quindi…” Alinne abbassò il mento, poco felice della sua stessa idea “Forse so dove possiamo andare. Un luogo abbastanza sicuro dove passare le prossime ore”
Un luogo abbastanza sicuro dove passare le prossime ore’ era una descrizione fin troppo vaga per i suoi gusti, e in circostanze normali avrebbe fatto domande mirate, ma quelle erano tutto tranne che circostanze normali.
“D’accordo. Mi fido”
Alinne zoppicò verso Julius e passò nuovamente il braccio attorno alle sue spalle: Julius, per tutta risposta, pulì il pugnale di necrosso sul muro e glielo porse.
Tregua? 
Lei spostò lo sguardo dal suo compagno alla lama, ancora sporca di sangue incrostato, ne afferrò l’impugnatura e la ripose in una tasca nascosta dei suoi abiti.
Tregua. 
Rimisero in piedi Lucius con qualche difficoltà -indirizzando i suoi occhi in ogni direzione che non fosse il basso- e poi si avviarono verso la loro meta.
L’ultima cosa che Julius fece, quando fu sicuro che Lucius non lo stesse osservando, fu gettare una manciata di fango sul viso di Oonan con il tacco della scarpa, la bocca tirata nel pallido fantasma di un sorriso.
Se anche Alinne lo notò, ritenne saggio astenersi dal commentare.







 

[1] Gli ultimi cambi prima della sua partenza per Elai, in particolare, erano stati costretti a fare a meno della cuoca e suo padre e la sua matrigna avevano provato a cucinare. Julius, con il passare degli anni, si sarebbe riferito a quella settimana come al primo tentativo di avvelenamento a cui fosse mai sopravvissuto.
[2] Anche all’udito, se si possedevano orecchie sufficientemente buone.
[3] L’appellativo ‘Fortunata’ dipendeva con tutta probabilità dal fatto che, nonostante molteplici invasioni di scarafaggi, topi e pipistrelli, nessuno fosse ancora riuscito a fare chiudere quella baracca.
[4] Mai lanciare stoviglie da ubriachi, gentili amici. Errore da principiante.
[5] Lo avrebbe fatto, col tempo. Ma ricordate ciò che vi ho detto sul tempo e sulle latrine? Ecco, vale anche in questo caso.




Note conclusive: ed eccoci qui! Alla fine di questo capitolo lungherrimo... spero che 1) non vi abbia annoiato 2) abbiate trovato gli sviluppi al suo interno interessanti. La morte di Oonan era un'altra di quelle cose che sapevo sarebbe accaduta in questo contesto, ma per tutta la durata del capitolo sono stata indecisa sul come... devo dire che, malgrado io non mi reputi ferratissima nelle scene d'azione, sono abbastanza soddisfatta di questo capitolo. È di sicuro un passo importante, per Julius, e in generale segna un po' tutti i presenti (e questo, così come l'uccisione di Bert, avrà dei risvolti nelle parti successive): ci stiamo avvicinando sempre di più alla conclusione, io sto finendo di scrivere il penultimo capitolo in questi giorni e a voi rimangono, non contando questo, solo più altri quattro capitoli da leggere, prima che si concluda la prima parte. Non ho mai portato a termine qualcosa di così lungo (si aggira sulle 150mila parole ormai) e devo ammettere di essere piuttosto emozionata :)
Grazie di cuore come sempre anche solo a chi legge (ma se volete darmi un parere sulla storia non potrò che esservene grata),
Al prossimo sabato!
QueenOfEvil

   
 
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