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Autore: Ramalilith    11/08/2020    0 recensioni
Questa è una trasposizione a romanzo del videogioco "The Witcher 3 - Wild Hunt", completa di missioni secondarie, cacce al tesoro e contratti.
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ciri, Geralt di Rivia, Triss Merigold, Yennefer
Note: nessuna | Avvertimenti: Non-con, Violenza
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Elsa riempì di birra quattro boccali – i più eleganti che avesse, di metallo, con decorazioni floreali incise tutto intorno –, li mise su un vassoio e lo sollevò per portarlo al tavolo. Lungo il tragitto un altro avventore, distratto, la urtò, rischiando di far rovesciare tutto, ma lei riuscì a mantenere l’equilibrio. Erano parecchi anni che lavorava in quella taverna, e non l’aveva mai vista così piena di primo mattino.

Doveva essere per via della guerra. Soldati, gente in fuga, banditi e attaccabrighe, tutti in cerca di alcol, gioco d’azzardo e scuse per fare a botte fra di loro. Elsa rimpiangeva la tranquillità agreste dei vecchi tempi, in cui il massimo dello scompiglio era una disputa riguardo una compravendita di bestiame, e l’argomento di conversazione preferito la siccità o le gelate. Adesso un giorno intero senza tafferugli era una rarità.

Al tavolo erano seduti quattro uomini, e due di essi erano soldati. Elsa posò i boccali e fece per andarsene, ma sentì una mano trattenerla per un braccio. Si voltò. “Che c’è?”

Uno dei soldati stava indicando lo scudo blu appeso a una delle travi. “Toglilo subito, prima che ci siano problemi” le intimò minacciosamente. Come previsto.

L’uomo seduto accanto, un vecchio in abiti civili, afferrò il soldato per la spalla. “Quello è uno stemma araldico!” protestò. “I Gigli di Temeria! Hanno tutto il diritto di stare lì”.

Il soldato si divincolò dalla sua stretta, lasciando nel frattempo andare Elsa, che indietreggiò guardinga. La faccenda non prometteva bene.

“Questa non è più Temeria, vecchio. Ora è Nilfgaard”.

Il vecchio sbuffò, digrignò i denti, e infine saltò in piedi, battendo le mani sul tavolo e sbottando “Col cazzo che lo è!”. Poi, come rendendosi conto di quanto poco fosse stato saggio, si risedette lentamente, prendendosi la testa fra le mani tremanti.

Elsa riprese a respirare. Per lo meno non ci era scappato il morto. Soffocando un sospiro, andò a togliere il vecchio scudo polveroso dalla trave. Un piccolo prezzo da pagare per mantenere la pace. Forse il resto della giornata sarebbe stato più Tranquillo.

In quel momento, la porta della taverna si aprì ed entrarono due witcher.

 

Geralt lasciò che Vesemir lo precedesse nella taverna. Il locale era buio e soffocante dopo l’aria frizzante del mattino, ma riuscì lo stesso a notare una quantità di avventori che li sbirciavano con aria curiosa e ostile, borbottando fra di loro. Mentre passavano accanto a un tavolo, un uomo baffuto e vestito di pelliccia, seduto insieme ad alcuni soldati nilfgaardiani ancora con l’elmo calcato in testa, si sporse verso di loro fissandoli con malignità. “Non ho intenzione di bere insieme a dei dannati mostri”, sibilò in modo ben udibile. Geralt si fermò per un istante, poi decise di ignorarlo. Innescare una rissa non lo avrebbe aiutato a ritrovare Yen.

Nonostante l’evidente ostilità di alcuni dei suoi frequentatori, il locale aveva una certa grazia patetica. Dal soffitto pendevano collane di fiori e nastri colorati che sfioravano le loro teste mentre passavano, e sulle pareti di legno annerite dal fumo erano dipinte rose e peonie in colori vivaci.

A tenere il bancone in mezzo alla stanza c’era una donna bionda di mezz’età. Poteva essere stata graziosa in gioventù, ma ora la stanchezza le segnava il volto, e la treccia di capelli sulla spalla stava abbandonando l’oro per il grigio. Tuttavia sembrava più bendisposta dei suoi clienti.

“Vi chiedo scusa per quei bifolchi” esordì, quando i due witcher si furono avvicinati abbastanza.

“Nessun problema. Ci siamo abituati” rispose Vesemir. Geralt gli scoccò un’occhiata (non era da lui essere così diplomatico), poi si voltò a guardarsi intorno. I quattro al tavolo stavano ancora confabulando.

La donna scosse la testa. “La gente qui è nervosa. Con gli eserciti passati di recente e ora un grifone nei paraggi…”

“Mmh. Abbiamo già avuto il piacere” replicò Geralt. “Una brutta bestia”. Lei spalancò gli occhi, sorpresa. La luce delle candele sul bancone li fece scintillare. “Brutta? È dire poco per quel predatore! Ha artigliato Lena con tale forza che la poverina è con un piede nella fossa… Ma non serve rimuginare sulle sfortune”.

“C’è un contratto per il grifone?” chiese Geralt.

“No, al momento no. Un tempo, non appena una bestia si stabiliva nei paraggi, l’aldermanno dava inizio a una raccolta, o si recava dal lord per chiedere aiuto”. Parlando, la donna continuava a lavorare, pulendo i boccali e controllando il fuoco nel focolare alle sue spalle. “Ora l’aldermanno non va neanche alla latrina senza prima chiedere il permesso agli Oscuri. E pare che abbiano impiccato il lord… quindi niente contratto”.

“Peccato. Avremmo potuto fare qualcosa, ma non senza ricompensa” disse Vesemir.

“Abbiamo incontrato un tuo parente”, aggiunse Geralt. Ripescò il nome dalla memoria. “Bram”.

“Bram? Come sta?”

“Vivo. Ti manda i suoi saluti” intervenne Vesemir. La donna, che evidentemente si stava già preparando ad aggiungere il nome di suo cugino accanto a quello di Lena nella lista delle vittime del mostro, si illuminò visibilmente.

“Mastri witcher, la casa vi offre cibo e bevande! Cosa posso portarvi?”

“Vodka, per me” rispose Vesemir. Geralt si chiese se intendesse usarla sia come bevanda che come disinfettante per la ferita. La vodka era piuttosto forte da quelle parti, di solito.

La donna annuì e si rivolse a Geralt. “E tu? Qualcosa per bagnarti il palato?”

Geralt liquidò la domanda con un leggero cenno del capo. “Hai un locale piuttosto affollato” osservò invece.

La donna annuì senza particolare entusiasmo. “Tutta la nazione è in viaggio. Alcuni cercano i propri parenti, altri vogliono solo allontanarsi dagli eserciti. Hanno tutti bisogno di cibo, bevande e una notte di riposo al caldo”.

“Quindi, la guerra fa bene agli affari?”

Lei scrollò le spalle. “Finora sì… ma sarebbe meglio tornare alla pace. Di questi tempi, non puoi mai sapere cosa succederà domani”.

Vesemir spostò il peso da un piede all’altro, cercando di nascondere la propria impazienza. Evidentemente non riusciva a capire perché il suo compagno, generalmente taciturno, avesse scelto proprio quel giorno in cui lui era ferito e bisognoso di un drink per scambiare convenevoli con le locandiere. Accorgendosene, Geralt si decise ad affrontare l’argomento che gli stava a cuore.

“Stiamo cercando una donna. Capelli neri, occhi viola. Vestita di nero e bianco… veniva a cavallo da Willoughby. E…ehm… per quanto possa suonare strano, forse profumava di lillà e uva spina”.

Si aspettava una reazione da parte della donna, magari una risatina ironica, ma quella non sorrise neppure. “Non ho visto né sentito niente di simile” disse semplicemente, dopo aver riflettuto un attimo. “Me la ricorderei”.

“Già”, annuì Vesemir. “È particolarmente difficile da dimenticare”.

Geralt gli lanciò un’occhiataccia, mentre la donna continuava: “Tuttavia ci sono parecchi viandanti…gente da varie regioni. Potrebbe valere la pena chiedere a loro”.

Era una buona idea, pensò Geralt. Ammesso che avessero voglia di rispondergli.

“Grazie. Di tutto”. Lei rispose con un cenno del capo, e i due witcher si diressero verso un tavolo d’angolo, schivando nel tragitto un paio di gatti scuri che giravano per il locale confondendosi con le ombre.

Lì Vesemir si sedette con le spalle alla finestra, mentre Geralt esitò. “Ti aiuto con la fasciatura?” chiese, osservando il modo rigido in cui muoveva la spalla, ma Vesemir scosse la testa, quasi offeso. “Ti prego… non sono ancora così decrepito”. Geralt si guardò intorno. La taverna si stava riempiendo ancora di più. Al bancone, la proprietaria stava riempiendo un vassoio con cibo e bevande.

“In tal caso, andrò a chiedere di Yennefer”.

Vesemir annuì. “Ma ricorda, non vogliamo attirare l’attenzione”.

Attirare l’attenzione. Come se non sapesse che due witcher in mezzo ai contadini risaltano come due volpi in un branco di oche, anche se tengono il profilo più basso possibile.

Al tavolo accanto al loro erano seduti due uomini impegnati in una discussione a voce alta.

“…lascia che misurino. Sempre meglio che bruciare i raccolti!”

Il più anziano dei due, che indossava un lussuoso berretto verde e rosso, scosse la testa con compatimento. “Oh, Dromle, Dromle, sei più stupido di un gallo decapitato! Perché credi che traccino le loro linee, eh? Per ridistribuire il nostro patrimonio tra loro!”

Geralt si fermò di fianco ai due, che ammutolirono all’istante. “Sto cercando una persona”.

L’uomo col berretto lo squadrò con disprezzo. “E noi cerchiamo pace e tranquillità” ribatté. L’altro, un uomo barbuto con un orecchino, fece un gesto come per scacciare un insetto molesto. “Sparisci dalla mia vista, mostro, prima che il tuo fiato mi inacidisca la birra”.

Geralt respirò a fondo. Non attirare l’attenzione. Anche se non facevano un cervello in due, valeva lo stesso la pena di cercare di farli ragionare. O almeno lo sperava.

“Voglio soltanto parlare”.

Il barbuto, Dromle, face una smorfia. “Sei sordo, randagio? Qui nessuno parlerà con te”.

“Se è compagnia che cerchi, vai a cacciare quel tuo grugno in una mangiatoia, insieme ai maiali” rincarò l’altro, in tono falsamente cordiale, facendo ridere il suo compare. “Hai dato una bella lezione a quel mangiamerda, Mikah!”

Fu la risata sguaiata e volgare, più che gli insulti, a dare sui nervi a Geralt.

“La mia pazienza è agli sgoccioli” li avvertì con voce sepolcrale. “Quando la perderò del tutto, le vostre teste cadranno”.

La minaccia parve sortire un certo effetto. I due smisero di ridere e fecero marcia indietro immediatamente. “Stavamo scherzando, non c’è bisogno di arrabbiarsi”.

La ritirata improvvisa sarebbe potuta sembrare quasi comica, ma Geralt non sorrise. “Avete visto una donna dai capelli scuri? Vestita di bianco e nero?”

Ma evidentemente aveva esagerato con l’intimidazione. “Non sappiamo niente” piagnucolò infatti il più giovane. “Lasciaci in pace!”

Geralt decise che aveva aspettato anche troppo. Sollevò la mano chiusa a pugno e tracciò con il mignolo il segno triangolare dell’Axii, fissando l’uomo col berretto. “Parla”.

Le pupille dell’uomo si annebbiarono, e abbassò lo sguardo sul tavolo.

“Dicono che sia passata dal villaggio qualche giorno fa” disse lentamente, la voce vagamente impastata, come uno che parli nel sonno. “Galoppava così veloce che ha quasi gettato Radobor in un fosso”.

“Da che parte è andata?”

“Non lo so… Ci sono molti sentieri che partono dalla strada principale. Potrebbe essere andata ovunque”.

L’uomo tacque. Il suo compagno fece scorrere uno sguardo spaventato da lui a Geralt, poi balzò in piedi. “Ehi, gente!” strillò. “Il mostro ha dominato la mente di Mikah!”

Geralt lo guardò, poco impressionato. “Ah-ah… e io ti strapperò quella lingua, se non fai silenzio”. L’uomo deglutì e si risedette al suo posto, proprio mentre il suo compagno iniziava a riprendersi.

“Ho… ho bevuto troppo” borbottò, strofinandosi la faccia.

Un totale spreco di tempo, pensò Geralt allontanandosi. Speriamo che il resto della clientela non sia altrettanto inutile.

A qualche tavolo di distanza due uomini stavano giocando a carte. O meglio, osservò avvicinandosi, non stavano giocando. Uno dei due, vestito da contadino, si stava infatti alzando con aria offesa, mentre l’altro, che aveva un aspetto più distinto, scuoteva la testa.

“Che spreco di tempo” esclamò, riecheggiando senza saperlo i pensieri del witcher. “Ci sono più probabilità che la Terra ruoti intorno al sole che tu comprenda le regole!”

Appena fu rimasto solo col suo mazzo di carte, Geralt gli si avvicinò. “Hai un minuto?”

L’altro indicò teatralmente il posto vuoto davanti a sé. “Perché no? Aldert Geert, assistente professore di storia contemporanea all’Accademia di Oxenfurt”.

Geralt si sedette. Un chiacchierone vanaglorioso pensò. Ma sempre meglio di quei rozzi vigliacchi di prima.  

“Geralt di Rivia, cattedra in witcher” si presentò, con appena un’ombra di malizia. “Sto cercando una donna… capelli lunghi, vestita di nero e bianco. L’hai vista?”

L’uomo ridacchiò. “Certo che no. Contrariamente alla gente del popolo, io so bene che l’Amazzone della Guerra è pura invenzione!”

Geralt si trattenne a stento dall’alzare gli occhi al cielo. Come immaginava, l’accademico non aspettava altro che sfoggiare un po’ della sua cultura. Tuttavia non era escluso che sapesse davvero qualcosa. Poteva valere la pena dargli corda.

“L’Amazzone della Guerra… di che si tratta?”

Aldert si sporse verso di lui. “La gente dice che è un presagio. Un bellissimo fantasma che cavalca nei campi di notte… simile a come l’hai descritta. Le armate la seguono e la sfortuna perseguita chiunque la incontri”.

“Posso confermare l’ultima parte” disse Geralt. “Sai dove è stata vista?”

“No. Mi interesso ai fatti, non alle fiabe”.

Geralt lo squadrò per un attimo. “Non mi aspettavo di trovare uno studioso qui… ne deduco che stai fuggendo dalla guerra, eh?”

“Al contrario” ribatté l’uomo, apparentemente offeso dalla sola idea. “La sto seguendo. Sono diretto al fronte”.

Geralt sollevò un sopracciglio. “Stanco di vivere?”

“Cerco la conoscenza, che reputo superiore alla vita stessa. La mia sete non può essere placata da vecchi tomi impolverati”. L’uomo allargò le braccia, poi si sporse di nuovo verso il witcher. “Desidero vedere l’invasione nilfgaardiana con i miei stessi occhi, comprenderla e registrarla nelle mie cronache… nel mio magnum opus”.

Suo malgrado, Geralt era vagamente colpito. Forse l’accademico non era solo un pallone gonfiato, dopo tutto.

“Interessante. C’è bisogno di qualcuno che descriva la guerra… com’è davvero. Niente stendardi colorati e generali con discorsi commoventi, ma stupri, violenze e crudeltà disumane”.

Aldert scrollò la testa, deluso. “Ah, vedo che ti manca la raffinatezza dell’Accademia” commentò. Nella sua mente, Geralt tornò immediatamente alla sua valutazione originaria dell’uomo. Devo imparare a fidarmi della prima impressione.

L’altro stava continuando. “Gli stupri e le crudeltà sono dettagli ininfluenti per il corso della guerra. Decorazioni sull’abito del conflitto, potremmo dire”.

Geralt ricordò il villaggio bruciato a poche miglia da lì, con la sua atmosfera spettrale. “Mmh. Dillo alle persone a cui hanno bruciato la casa”. Poi gli venne in mente un’altra cosa. “La guerra dunque ha già raggiunto Novigrad?”

Per la prima volta sul volto dell’uomo comparve una traccia di tristezza. “No, ma è solo questione di tempo. Nilfgaard da una parte e la Redania dall’altra… a sbavare sulla città come cani davanti a un osso succulento”.

“Molti sovrani si sono strozzati con quell’osso”.

“Vero. A Novigrad abbiamo a cuore la nostra libertà e sappiamo combattere per difenderla”.

Geralt sorrise con un angolo della bocca. “Specialmente gli studiosi”.

L’accademico parve punto sul vivo. “La spada non è l’unica arma” ribatté. “Non dimenticare che sono stati gli architetti della nostra accademia a progettare le mura cittadine… mura che nessuna macchina da guerra ha mai scalfito!”

Non disse, però, come uno storico avrebbe potuto aiutare a sconfiggere l’esercito nilfgaardiano. Geralt provò un po’ di pietà per lui.

“Dammi ascolto, torna ai tuoi libri finché puoi. La guerra non è un gioco. Niente riunioni di facoltà, cattedre da ottenere, note da compilare. Il primo soldato che incontri ti ucciderà.”

Aldert sbuffò incredulo. “Perché dovrebbe? Me, un civile neutrale, uno studioso…”

“Stivali”.

“Scusa?”

“Ti ucciderà per i tuoi stivali”.

L’uomo sgranò gli occhi, stupito, e Geralt ne approfittò per alzarsi. “Devo andare. Arrivederci”.

Ma con sua sorpresa, Aldert lo trattenne.

“Un momento, witcher… mi sembri un uomo di mondo” esclamò. “Conosci il gwent?”

Geralt lanciò un’occhiata al mazzo di carte dal dorso decorato.

“No” mentì. “E non ho tempo per impararlo”.

“Ma le regole sono semplici. Forza, giochiamo!”

Geralt sospirò. Presuntuoso e anche maniaco delle carte. Brutta combinazione.

“No, grazie. Ho altro per la testa”.

L’uomo parve molto deluso, e riappoggiò sul tavolo il mazzo che aveva speranzosamente afferrato. “Peccato. Chiederei alla gente del posto, ma dato che non sanno contare fino a dieci, le regole per loro sono un completo mistero”. Schioccò la lingua con compatimento.  “Non è un gioco per tutti. Richiede una mente analitica… Be’, magari prima o poi cambierai idea. Se mai dovessi passare da Oxenfurt e volessi sfidare un vero maestro, chiedi di Stjepan. Di lavoro fa l’oste, ma è un vero maestro del gwent”.

“Me ne ricorderò, grazie” tagliò corto Geralt, congedandosi.

Per un attimo sostò, guardandosi intorno nella locanda e valutando gli avventori. Il gruppetto di soldati dall’aria ostile non c’era più. Meglio così.

In un angolo, vicino a una finestrella quadrata, sedeva un uomo solo. Indossava una tunica arancione, era calvo e i suoi occhi brillavano di intelligenza.

Geralt si sedette di fronte a lui. “Sto cercando una donna”.

L’uomo non si scompose. “Come tutti”.

“Non come tutti, e non una donna qualsiasi. La mia profuma di lillà e uva spina, veste di nero e bianco”. Cominciava a stancarsi di ripetere quella descrizione, soprattutto considerati i magri risultati delle sue indagini.

L’uomo fece cenno alla donna al bancone. “Due liquori!” E poi, rivolgendosi a Geralt: “Ti tirerà su di morale”.

Prima il giocatore d’azzardo, ora l’ubriacone che cerca un compagno di bevute. Di bene in meglio.

“Trovarla, questo mi tirerà su di morale”.

 Ma l’altro non si faceva scoraggiare facilmente. “Sembri stanco… solo due gocce per risollevarti il morale” insistette. “Un po’ di liquore non ha mai fatto male a nessuno”.

Geralt cedette e acconsentì con un cenno, ma senza lasciarsi distrarre.

“Possiamo venire al punto? L’hai vista o no?”

Con sua sorpresa, l’uomo annuì. “Yennefer di Vengerberg”.

Geralt spalancò gli occhi da serpente, stupefatto. Stava per replicare, ma in quel moemnto arrivarono i loro liquori al limone all’interno di rozzi boccali di metallo, e decise di tacere finché la donna non si fosse allontanata.

“Non ti ho mai detto il suo nome” disse, non appena non fu più a portata d’orecchio.

“Ma l’hai descritta perfettamente” rispose l’altro. “E quando sento una cosa, non la dimenticò mai. Non posso farci nulla”.

Geralt lo scrutò negli occhi scuri. “Come fai a conoscere Yennefer?”

“Che domande… dalle ballate di Mastro Dandelion, naturalmente. L’unico modo che un umile mercante ha di conoscere figure così importanti… a meno che non sia fortunato come me”.

“A incappare in un witcher molto paziente?”

“In Geralt di Rivia in persona” lo corresse l’altro, e si sporse verso di lui per aggiungere in un sussurro: “…il Macellaio di Blaviken”.

“Hai riconosciuto anche me dalle ballate di Mastro Dandelion?”

L’uomo sorrise enigmatico, e sollevò il boccale. “Alla tua salute”.

Geralt era colpito suo malgrado. Altro che umile mercante. C’era qualcosa di più in quell’uomo.

“Di cosa ti occupi? Chi sei?”

“Un logoro vagabondo… Gaunter O’Dim, al tuo servizio”.

“Vagabondo…” ripeté Geralt lentamente. “È una professione, ora?”

L’uomo alzò le spalle. “Un tempo ero un mercante di specchi. La folla infuriata mi ha marchiato come il Signore degli Specchi, o anche l’Uomo di Vetro”.

Dalla finestra al suo fianco, Geralt intravvide gli uomini di Nilfgaard radunati nel cortile della locanda, ma non si fece distrarre. Era sicuro che l’Uomo di Vetro avesse delle informazioni interessanti da dargli.

“Hai visto Yennefer?” chiese.

O’Dim bevve un sorso di liquore, poi lo guardò sorridendo.  “Sentite scuse, ma devo chiedertelo… è una faccenda d’amore?”

Preso in contropiede dalla sfrontatezza della domanda, Geralt si accigliò. “Non sono affari tuoi”.

“Certo, un vagabondo come me non merita spiegazioni…”

Il witcher iniziava a stancarsi delle chiacchiere di quell’individuo, che si divertiva a tergiversare per tenerlo sulla corda.

“Che cosa sai? Dimmelo”.

“Prima del tuo arrivo, non avrei mai pensato che fosse Yennefer. Chi l’avrebbe mai detto...?”

“Vieni al punto” ringhiò Geralt. Il sole fuori era già alto e ogni minuto che passava, Yen poteva essere più lontana.

“Un esploratore nilfgaardiano della guarnigione locale l’ha vista”.

“Dove?”

“Nel loro campo. Era a cavallo… scura come la notte, nera e bianca, lillà e…” intercettò lo sguardo irritato di Geralt e tagliò corto “…sì, ho capito. Ha parlato brevemente con il comandante della guarnigione ed è ripartita di fretta”.

“Per dove?”

O’Dim sorrise di nuovo. “Non sono onnisciente. Chiedilo alla guarnigione”.

Geralt annuì. Per quanto bizzarro e irritante, l’uomo era stato l’unico a fornirgli un aiuto concreto. “Grazie”.

O’Dim si alzò. “Noi uomini della strada dobbiamo aiutarci a vicenda” proclamò, con tono tra il serio e lo scherzoso. “Forse un giorno sarò io ad essere nei guai, e tu sarai nei paraggi per aiutarmi”. E senza ulteriori convenevoli si allontanò rapidamente.

Anche Geralt si alzò, con l’intenzione di dirigersi subito verso la guarnigione; ma non poteva andarsene senza salutare Vesemir. Lo trovò ancora al tavolo, intento a mangiare quelle che sembravano cosce di pollo arrostite. La cugina di Bram si era davvero sdebitata, allora.

Vedendolo, Vesemir abbandonò il pasto e si alzò in piedi. “Sì?” E, dato che Geralt non parlava, “Che c’è, Lupo?”

Geralt sospirò. “Ti rendi conto che sono passati sei mesi da che abbiamo dato la caccia al quel demone a Vorune?”

“Già, ma non era un normale demone. Come si chiamava quel bastardo? Drugon? Possa sprofondare sottoterra”. Vesemir scosse la testa. “Un tempo le cose erano più facili. I mostri erano cattivi, gli umani buoni. Ora è tutto confuso”.

Geralt sorrise. “Era lo stesso anche prima. Te ne sei dimenticato, vecchio mio”.

“Ah! Non ti conviene punzecchiarmi sull’età!” ribatté Vesemir. “Tu ne hai quasi cento!”

Era vero, anche se entrambi ormai avevano perso il conto della cifra esatta. E nonostante le mutazioni, pian piano gli anni cominciavano a pesargli sulle spalle.

“A più tardi, Vesemir”.

Ripassando accanto al bancone in mezzo al locale, Geralt notò uno scudo appoggiato a terra, mezzo nascosto dai cavalletti che reggevano il tavolo. Guardandolo meglio si accorse che era dipinto con lo stemma araldico di Temeria – tre gigli d’argento in campo blu. Sollevando lo sguardo si accorse che la proprietaria della taverna lo stava fissando in modo interrogativo.

“Ti serve qualcos’altro?”

“Vi piace il govermno dei nilfgaardiani?” le chiese senza riflettere.

Lei scrollò le spalle. “Non ci trovo nulla di piacevole. È uguale a quello di tutti gli altri. Ci tassano, requisiscono questo o quello… Ma mantengono la pace nel villaggio, questo bisogna riconoscerglielo”.

“Non piangi la fine di Temeria?”

“L’ho pianta sei mesi fa, quando Re Foltest è stato ucciso”. La voce della donna era incolore. “Ora… ora voglio solo la pace”.

Geralt annuì. “Arrivederci”.

 

All’esterno, il sole del mattino era quasi accecante dopo la taverna fumosa. Tuttavia il witcher non ebbe tempo per apprezzare l’aria tersa e il cielo azzurro. Nel cortile c’erano i due soldati che aveva visto confabulare nella locanda – apparentemente in attesa di lui. Appena lo videro, si fecero avanti con aria minacciosa. “Hai finito di bere?”

Geralt rispose con un “Mmh”, mentre un terzo uomo – il tatuato vestito di pelliccia – si staccava dalla staccionata a cui era appoggiato per venire a dare manforte al gruppo.

“Allora sparisci. Non vogliamo quelli come te qui”.

Con la coda dell’occhio, Geralt notò la proprietaria della taverna che li fissava da una delle finestre, le mani premute sulla bocca e la paura negli occhi. 

Si rivolse ai tre attaccabrighe. "Fareste meglio a cercare altri uomini. Voi tre non avete speranze contro di me". 

Il tatuato fece una smorfia di disprezzo. "Cosa? Potrei fotterti anche da solo". 

Geralt li stava valutando con attenzione. Non credeva che costituissero una vera minaccia - non per lui almeno, che era abituato ad affrontare ben altro. Si avvicinò. 

"Se avessi un sacco in testa e le mani legate dietro la schiena... Ma no, neanche allora". 

Questo fece davvero arrabbiare l'uomo, che fece cenno ai suoi. "Chet, Lesh... State indietro. Darò una lezione a questo vagabondo... Da uomo a mostro". 

Diede un pugno a Geralt, che lo schivò senza difficoltà e lo colpì a sua volta, atterrandolo. Immediatamente i due soldati si fecero sotto. Geralt avrebbe potuto stordirne uno con l'Axii, ma decise che non ne valeva la pena. Una sana scazzottata era quello che gli ci voleva per scaricare un po' di tensione. 

Sferrò un pugno nello stomaco a uno dei due - se avesse mirato alla testa avrebbe rischiato di ferirsi con l'elmo -, facendolo piegare in due, e l'altro ne approfittò per colpirlo, ma fu un colpo debole e impreciso. 

Innervosita dal tafferuglio, Rutilia si avvicinò scalciando e scrollando la testa, spaventando un branco di anatre che stavano pascolando lì accanto, e che cominciarono a starnazzare correndo fra i piedi dei combattenti. Geralt ne approfittò per stendere l'altro soldato. 

Poi andò dal suo cavallo e ne afferrò le redini, tranquillizzandola. I tre uomini erano ancora a terra e gemevano piano, tenendosi la testa o la pancia. 

"È stato un piacere" li salutò, prima di salire in sella a Rutilia e di uscire dal cortile, galoppando via in direzione della guarnigione. 

 

 

   
 
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