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Autore: MaxB    06/09/2020    3 recensioni
Ossessionata dalla saga de La Passe-Miroir, non riesco a pensare ad altro da settimane.
E ho bisogno di approfondire alcune scene dei primi tre (e spoiler del quarto) volumi.
Ci saranno missing moments, scene descrittive relative a Thorn, soprattutto alla sua infanzia, e immersioni nei dialoghi tra Ofelia e Thorn, per come me li immagino io. Ed eventuali scene mancanti che ci starebbero bene.
Per possibili spoiler sul quarto volume verranno dati avvisi in cima alla pagina.
Aggiornamento irregolare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Questi capitoli diventano sempre più lunghi ma almeno giustificano l'attesa (no... va be', ci ho provato xD).
Ho finito Echi in tempesta. So che molti di voi l'hanno finito in uno o due giorni, ma io ho impiegato quasi quasi due settimane a leggerlo. Avevo paura. Tanta. E ne ho ancora. Nonostante le parti che avevo letto in francese e la fine che mi ero spoilerata, non era pronta a tutte le rivelazioni, ai pensieri stessi di Thorn in quelle due piccole parentesi che mi hanno aperto un mondo di comprensione su di lui. Wow. Ho così tanto da scrivere, per liberarmi di questo groppone che ho sul petto. Tanto.
Quindi vi dico questo: non scriverò un post libro, un epilogo, un sequel o un finale alternativo, chiamatelo come volete. Ne scriverò circa... tre. Che poi saranno più di tre, ma i dettagli ve li spiegherò più avanti. Il fatto è che... non può esserci un unico finale. E' talmente aperto che ognuno ha il diritto di pensare al proprio, e sicuramente lo avete già fatto. Io ne scriverò tre che spero possano in qualche modo essere coerenti e, perché no, magari concordi con la vostra idea. Io ne ho già uno preferito, ma ho bisogno di scriverli tutti. Non li posterò come capitoli qui, su Into the Deep, ma su un'altra raccolta di One shot che pubblicherò come opera separata. Questa raccolta è nata come un approfondimento dei libri, a volte anche di missing moments, ma un epilogo esula dal senso di Into the deep. E' una mia concezione personale che non potrà mai essere confermata o smentita, quindi se vorrete, sappiate che la troverete nella lista delle storie della sezione Attraversaspecchi, come Ingranaggi. E spero vogliate leggere anche quelle. Non so quando le pubblicherò, devo ancora cominciare a scriverle (e ho pure Ingranaggi da continuare *impreca come Gaela e si dispera*). Sono masochista. Sono già indietro con queste due ff e ne aggiungo una terza... va be' dovrebbe essere più breve, no?
OK scusate la mega digressione.
Oh, e c'è uno scambio di POV: Thorn, Ofelia, e infine Thorn.
Grazie a tutti per l'attenzione♥
L’Attraversaspecchi IV, Echi in tempesta, Il vuoto e La Messaggera, pagine 42-43 e 69-85



16. Je suis déjà heureuse

- Io vado – annunciò, orologio in mano, conscio di tutto il tempo che stava perdendo. E tuttavia restio ad allontanarsi, suo malgrado. – Ho un altro incontro con i Genealogisti. Conoscendoli, la prossima missione che mi affideranno avrà direttamente a che fare con la faccenda che ci riguarda. A stasera.
Si allontanò senza aggiungere altro, con l’armatura che cigolava ad ogni passo. Nel silenzio di quel luogo, ammantato della nebbia del mare di nuvole, lo scricchiolio metallico del tutto innaturale del suo esoscheletro gli appariva ancora più grottesco, innaturale. Faceva pendant con il vuoto che sembrava voler inghiottire tutto, eppure gli era estraneo. Era tutta una contraddizione, in quel momento, sia lui che il tempo che stava vivendo. Voleva andare dai Genealogisti per riprendere le ricerche, ma allo stesso tempo paventava l’incontro con loro per la ripugnanza che gli avrebbe suscitato e desiderava ardentemente rimanere accanto ad Ofelia. Voleva metterla in salvo, tenerla al sicuro, eppure voleva anche che collaborasse con lui.
- Sii prudente.
Le parole gli trafissero la schiena, mandandogli una scarica elettrica in tutto il corpo e boccandolo sul posto. Gli artigli si agitarono convulsamente, animanti dalla sua irrequietezza, e più che mai Thorn fu felice di essersi allontanato da Ofelia. L’avrebbe sicuramente ferita, nel suo stato attuale.
Sii prudente. Gli faceva uno strano effetto sapere che c’era qualcuno che lo attendeva e che ci teneva alla sua salute. Alla sua vita. E non per un tornaconto personale. Nonostante quello che lui e Ofelia avevano condiviso il giorno prima, che ancora lo faceva rabbrividire di piacere al solo pensiero, gli appariva innaturale essere considerato così importante. Essere tenuto in considerazione. Essere atteso.
Essere amato.
Perché se c’era una certezza in quella situazione paradossale e caotica, del tutto illogica, era che Ofelia lo amava. Non nutriva più alcun dubbio al riguardo. Quella consapevolezza lo elettrizzava, ma in modo diverso. Non lo disgustava come gli artigli. Lo rinvigoriva, lo esaltava.
- Pure tu – replicò. Fece una smorfia che nessuno vide. Quelle due misere parole non esprimevano tutta la convinzione con cui le sentiva dentro. Ofelia non doveva essere prudente. Ofelia doveva assolutamente stare attenta, al sicuro, protetta. Ma non poteva esprimere a voce quello che sentiva. L’unica cosa che poteva fare era rafforzare la loro profondità in qualche modo. – Anche un po’ di più.
In quelle parole, invece, c’erano talmente tanti concetti inespressi che sarebbe stato impossibile per Ofelia coglierli tutti. Si augurò che almeno in parte ne afferrasse qualcuno. Si allontanò nella nebbia, diretto verso il Memoriale, dove si trovavano i Genealogisti.
Cercò di concentrarsi sul compito che doveva… che dovevano portare a termine. Rendersi conto di non essere solo era talmente inusuale che doveva ancora farci l’abitudine, a non parlare più di sé ma di loro. Di lui e Ofelia, che aveva letteralmente attraversato il mare di nuvole pur di trovarlo. Nessuno aveva mai fatto tanto per lui, Ofelia meritava il meglio.
Una cosa che lui, nella sua condizione di fuggiasco e fasullo membro di LUX piegato sotto la volontà di due Tattili ricoperti d’oro e troppo inclini alle effusioni, non poteva offrirle. Si augurava ogni giorno, anche un po’ di più dopo la giornata precedente, di poterle offrire una vita degna di quel nome. Agiata, possibilmente senza problemi, dato che al momento stavano già affrontando la loro sfilza di grattacapi, zeppa di quello che Ofelia desiderava di più, che fossero soldi, anche se ne dubitava, libri, cibo, qualsiasi cosa.
Anche figli, se lei un giorno avesse cambiato idea e ne avesse voluti. Il suo cervello gli inviò una fitta di protesta, mentre i ricordi rischiavano di sommergerlo, sbloccati dalla contraddizione appena pensata. Lui non voleva figli, ma voleva darle qualsiasi cosa avesse chiesto. Odiava quel genere di infondate dicotomie.
Mentre camminava per le strade di Babel, lontano dal mare di nuvole, la nebbia si diradò, mettendo in mostra in maniera più che lampante l’importanza dell’uniforme che portava. Nonostante l’armatura producesse un baccano infernale, almeno per lui, le persone terrorizzate si fermavano a guardarlo con deferenza e sussiego, smettevano di parlare, alcuni uomini si toglievano persino il cappello. Thorn sperò che non lo fermassero: non aveva risposte o consolazione da offrire loro in seguito a quello che era successo. Era un membro di LUX solo per la giacca. Tolta quella, rimaneva lui, un bastardo fuggiasco e ricercato nella sua arca natia, che non aveva fissa dimora, possedimenti o lavoro.
Aveva talmente tante cose a cui pensare, da pianificare… Anche se non sapeva cosa gli avrebbero chiesto i Genealogisti, in circostanze normali avrebbe almeno immaginato decine di diversi scenari possibili. Le statistiche erano dalla sua parte: più teorie formulava, per quanto strampalate e diversificate fossero, più alta era la probabilità che la richiesta dei Genealogisti combaciasse con almeno una di esse.
Un angolo della bocca si increspò: Ofelia sarebbe riuscita a dipingere un solo scenario e azzeccarlo, con la sua tendenza a demolire i calcoli probatori.
E di nuovo il pensiero tornò a lei, invece di concentrarsi sul suo futuro. Sul loro futuro.
Prima fossero usciti da quel ginepraio, restituendo al mondo i suoi dadi, prima avrebbero potuto pensare a loro, a cosa fare in seguito. Ma era un pensiero talmente lontano, talmente impalpabile e inimmaginabile, così pieno di variabili, che decise di non soffermarcisi troppo. Era meglio pensare ad una cosa alla volta.
Mentre una parte della sua mente era concentrata su quelle macchinazioni inutili, un’altra parte scandagliava le viuzze della città alla ricerca di quelle meno trafficate da attraversare, per attirare meno sguardi possibili; la parte che cercava di ignorare con più forza, invece, si soffermava su qualsiasi difetto simmetrico dall’ambiente: una mattonella più alta di un’altra, un muro sbeccato, una difformità del terreno. Un’altra ancora calcolava impercettibilmente i secondi, i minuti, che gli ci erano voluti per compiere quel tragitto. E i minuti che mancavano alla sera, quando avrebbe rivisto Ofelia. Quelli non avrebbe potuto calcolarli, ma si augurò che fossero pochi. Il meno possibile.
Ne erano già trascorsi millecentoquindici quando raggiunse lo specchio che gli interessava. Era uno specchio a muro all’interno di una sartoria perennemente vuota e con la porta aperta. Nessuno lo vedeva mai entrare, e dunque nessuno lo vedeva mai sparire all’interno dello specchio. Non amava servirsi del potere di Ofelia, sebbene dopo la cerimonia del dono fosse diventato il suo potere a tutti gli effetti, ma non vedeva alternative: salire su un trenuccello gremito era fuori discussione, con i suoi artigli che saggiavano l’aria, famelici più che mai. Tra la scarica di energia che gli aveva dato Ofelia il giorno prima e la tensione che gli irrigidiva il corpo all’idea di rivedere i Genealogisti erano più nervosi che mai, pronti ad attaccare non solo chi si avvicinava ai suoi angoli ciechi, ma chiunque, indistintamente. Non avevano nemmeno bisogno di un pretesto.
Si immerse di testa, titubante, nella superficie riflettente, concentrando lo sguardo sull’armatura che gli avviluppava la gamba, ma si scontrò con il vetro dello specchio. Trattenne a malapena un sospiro. Ofelia gli aveva spiegato, tempo prima, che la lettura e l’attraversamento degli specchi funzionavano un po’ alla stessa maniera, ed erano allo stesso tempo diametralmente opposti, come due poli con la stessa carica. Entrambe le capacità erano permeate dall’individualità della persona che le adoperava, basate sull’io; ma, mentre la lettura presupponeva il dimenticarsi di se stessi per poter accogliere meglio le percezioni altrui, l’attraversare gli specchi richiedeva trasparenza, onestà con la propria persona. Chi attraversava uno specchio non doveva scordarsi di sé. Doveva accettarsi o, quanto meno, riconoscere ciò che era, senza indulgenza, con l’intera gamma di errori, vergogna, sensi di colpa e difetti che ne seguivano.
Fronteggiare se stessi senza giustificarsi, giudicandosi nella propria interezza, non era una cosa che tutti riuscivano a fare.
E Thorn non si scusava di nulla. Sapeva esattamente chi fosse, non aveva difficoltà ad ammetterlo. Sapeva di essere pedante talvolta, maniacale, ossessivo, asociale, poco loquace, anaffettivo, calcolatore, logico oltre ogni limite, senza senso dell’umorismo, inflessibile, stakanovista, rigido, privo di tatto, e non cercava scuse. Sapeva di esserlo.
Il fatto che lo sapesse, però, non gli rendeva quelle caratteristiche più digeribili. Allo stesso tempo, non trovava motivi per modificarle. Dell’opinione altrui aveva una più che bassa considerazione.
Sollevò la testa, affrontando la vista di se stesso.
La fronte era corrugata, leggermente stempiata, anche se non eccessivamente. Non ricordava di averla mai vista distesa. Il naso era lungo e affilato, sicuramente non uno di quei nasi che la gente avrebbe invidiato. Il volto era scavato, sbarbato, squadrato. Gli occhi erano due lame che scintillavano sotto le palpebre, minacciosi; non cercò nemmeno di addolcire lo sguardo che rivolgeva al mondo, non gli sarebbe stato di nessuna utilità. Le labbra erano una riga sottile e perennemente tesa. E poi, le cicatrici… una gli attraversava la tempia, come uno squarcio nel terreno, una gli tagliava il sopracciglio e l’altra gli solcava l’intera guancia sulla faccia lunga.
Ciò che vedeva… non gli faceva né caldo né freddo. In ogni caso, si rendeva conto di avere un aspetto diverso dagli altri, ed era certo di non rientrare nei canoni di bellezza universalmente conosciuti, eppure… Ofelia…
Scosse impercettibilmente la testa e si immerse nello specchio guardandosi negli occhi.
Si disprezzava, ma sapeva chi era. Per questo riusciva ad affrontare il suo riflesso e ad immergervisi. Non era necessario amarsi per poter usufruire di quel potere. Bastava essere onesti.
Si disprezzava, da tutta una vita, e la cosa non sarebbe probabilmente mai cambiata.
Si disprezzava, ma finché Ofelia non lo avesse fatto, poteva convivere con il suo corpo, con la sua mente, con la sua individualità. Ofelia non gli avrebbe mai chiesto di diventare qualcun altro, di cambiare radicalmente.
Ofelia, chissà come, si era innamorata di lui.
Thorn emerse dallo specchio sentendosi quasi liquido, come ogni volta che ne attraversava uno. Non aveva paura di rimanervi incastrato, com’era accaduto ad Ofelia, però gli faceva uno strano effetto vedere le sue lunghe membra emergere da una superficie che doveva essere solida. Quando tirava fuori le braccia le guardava uscire centimetro dopo centimetro, materializzarsi di fronte a lui nonostante dietro lo specchio non si vedesse nulla.
Doveva concentrarsi.
Era uscito in una parte del Memoriale che era sempre vuota: i bagni del personale di servizio della biblioteca, nella sezione meno visitata in assoluto secondo le statistiche degli ultimi cinque anni. Uscì senza guardarsi indietro, disinfettandosi le mani mentre attraversava le librerie. Vide un certo trambusto sopra di sé, o sotto di sé, dato che era sbucato sul soffitto del Memoriale, anche se in quel luogo sopra e sotto perdevano di significato. Aveva lottato ferocemente con quelle concezioni agli inizi del suo impiego lì, perché la mancanza di una direzione definita, di un sopra e sotto chiaramente identificabili, generava solo caos. Dal momento che non poteva cambiare quella situazione, aveva deciso di non concentrarcisi troppo. In ogni caso, sopra di lui il fermento era palese: file di persone si dirigevano verso impiegati seduti dietro piccoli tavoli, a quanto pareva.
Non poté impedirsi di corrugare la fronte. Cosa stava succedendo? Era solo una pedina dei Genealogisti, lo sapeva, ma avrebbe apprezzato qualche informazione in più. Rallentò leggermente il passo quando passò alle spalle di due commessi che confabulavano proprio di ciò che accadeva sopra di loro.
- Censimento di cosa? – chiese uno, di cui Thorn non si prese la briga di guardare nemmeno le scarpe.
- Dei babeliani che risiedono qui da meno di dieci anni. Anzi, probabilmente non possono nemmeno essere definiti babeliani. Forestieri, forse potremmo defin…
Thorn riprese il passo abituale mentre si allontanava. Aveva sentito il necessario: censimento di chi era in città da meno di dieci anni. Ofelia era probabilmente una delle ultimissime arrivate a Babel, se non l’ultima. Era scontato che avrebbero avuto bisogno di censire anche lei, quindi. Sentì le sopracciglia indolenzirsi, costrette come le aveva ad accartocciarsi su loro stesse, ma non poteva farci nulla. Ofelia sembrava sempre attirata dagli eventi verso il luogo dove si svolgeva l’azione principale. Avrebbe dovuto considerarlo un bene per le loro ricerche, ma la verità era che Ofelia aveva la grandissima e ormai assodata tendenza a scatenare disastri su scala arcale.
Non gli piaceva quel censimento, per quanto fosse sinonimo di ordine.
Arrivò al club di genealogia in trecentosessantanove secondi. Se l’era presa comoda. Ma il suo ritardo di cinquantanove secondi non servì a farlo arrivare insieme ai Genealogisti. Come al solito, attese per altri millesettecentoquarantacinque secondi in quella stanza opulenta e di dubbio gusto, talmente pacchiana con i suoi rivestimenti in oro che Thorn si sentiva a disagio anche solo a guardarli, prima che i Genealogisti arrivassero. Meno di mezz’ora. Un record, per loro.
- Welcome, sir Henry – dissero all’unisono appena entrati, aggiungendo oro all’oro con la loro presenza.
Gli diedero il benvenuto, sì, ma non lo fecero sentire tale. Fermo sulla solita sedia di cui sapeva le misure a memoria, li osservò prendersi da bere con tutta calma da un piccolo carrello ricolmo di dolci e bevande. A quando pareva i più importanti rappresentanti di LUX si erano alzati da poco.
Thorn non poté evitare di dare un’occhiata all’orologio da taschino, che come al solito lo assecondò senza bisogno che lui lo aprisse: era mattina inoltrata. Trattenne a stento una smorfia: non aveva molto in simpatia chi perdeva così tanto tempo. Non aveva molto in simpatia nessuno, a dire il vero, ma quella coppia ancora meno.
Tornò a fissarli trucemente, cercando di mettere loro una certa fretta, ma loro continuarono a fare colazione in silenzio e con estrema flemma, imboccandosi a vicenda, bevendosi le loro carezze e mangiandosi con gli occhi in un modo che avrebbero dovuto adoperare per il cibo, invece che per loro stessi. In quei casi Thorn distoglieva lo sguardo nauseato. La sua mente correva inevitabilmente a Ofelia, sovrapponendo alle loro carezze quelle che lei gli aveva dedicato solo il giorno prima. Se prima che lei arrivasse a Babel riusciva a tenere a bada i propri pensieri sul fatto che lei fosse l’unica eccezione al senso di disgusto onnipresente che lo pervadeva quando vedeva qualcuno toccarsi o qualcuno lo toccava, da quando l’aveva baciata e aveva condiviso con lei…
Deglutì a vuoto. Immaginarsi le mani di Ofelia al posto di quelle di chiunque altro non lo disgustava affatto. Semmai, il contrario.
Passarono altri millesettantasette esasperanti secondi prima che loro prendessero posto sul divano di fronte a lui. Quasi una sopra l’altro. Si stavano già tenendo le mani. Thorn si ritrovò a chiedersi quante volte al giorno quei due…
Scacciò il pensiero con violenza, infuriandosi con se stesso. Non erano pensieri da fare, né su lui e Ofelia, né su quei due individui spregevoli. Come unica reazione ottenne uno scatto a stento trattenuto degli artigli. Doveva controllarsi. Se la miglior difesa era l’attacco…
- Sono pronto per ricevere i nuovi ordini – tagliò corto, desiderando porre fine quanto prima a quell’incontro. Dubitava che Ofelia fosse già a casa di Lazarus ad attenderlo, visto il censimento e la mole di persone da registrare, ma qualsiasi posto sarebbe stato meglio di quello.
La donna gli sorrise con indulgenza. In pratica, piegò gli angoli della bocca all’insù, ma gli occhi rimasero calcolatori e attenti, privi di qualsiasi empatia.
- Ma certo, dear friend – commentò lei, posando una mano sulla coscia dell’uomo.
- Siamo certi che il vostro aiuto ci tornerà utile anche questa volta – ribadì lui, con un movimento gemello che lo portò ad incrociare il braccio con quello della moglie.
Thorn attese. I modi in cui i Genealogisti gli consegnavano i dettagli della nuova missione erano sempre diversi, ma solitamente si servivano di qualche bambola di porcellana dalle fattezze umane raccapriccianti. Troppo simili a persone vere perché lui potesse apprezzarne i lineamenti, troppo inutili perché potesse trovarvi un qualsivoglia interesse. In ogni caso, quelle bambole inanimate e grottesche erano di gran lunga più umane dei due individui che le adoperavano come messaggere.
Gli occhi dei Genealogisti, come se appartenessero ad uno unico corpo, lo fissavano immobili, battendo le palpebre all’unisono.
Passarono altri centoventi secondi precisi a scrutarlo prima di chiedere: - Andrete fino in fondo alla vostra missione?
- Sì.
Come sempre.
- Good boy.
La donna riprese la parola da sola. - Fuori dalla porta vi aspetta la nostra… aiutante. Vi consegnerà il vostro nuovo ordine di lavoro. Fatela entrare non appena sarete usci…
Senza mezzi termini, l’uomo le infilò la lingua in bocca in un modo viscido che questa volta fece rimestare le viscere a Thorn dalla repulsione. I corpi d’oro sul divano erano talmente intrecciati in un groviglio luccicante che persino Thorn ebbe difficoltà a capire cosa appartenesse a chi.
La donna si staccò sospirando.
- Ditele di aspettare la nostra uscita – rettificò l’uomo, prima di dedicarsi nuovamente alla moglie.
Thorn se ne andò senza salutare, e loro si dimostrarono troppo impegnati per ricordargli che, come al solito, avrebbero atteso con impazienza la sua prossima visita.
Si chiuse la porta alle spalle con forse troppa forza, e strinse con stizza il pomello prima di lasciarlo andare e incontrare gli occhi spaventati di una giovane Pharaon. Era nuova nell’entourage dei Genealogisti. Thorn sapeva che non sarebbe durata molto.
- Buo-buongiorno sir Henry – balbettò, incapace di modulare sia le proprie emozioni che le sue. – La conoscenza è al servizio della pace.
Lui non rispose al saluto, ma fissò subito la bambola che la ragazza teneva con esitazione tra le mani.
- E-ecco, i lord mi hanno chiesto di farvi avere questa – mormorò porgendogli la bambola, arrossendo.
Era logico chiedersi cosa ci facesse un uomo come lui con una bambola, ma non avrebbe dato alcuna spiegazione.
Sentì un pizzico di pena per quella ragazza e l’ingrato ruolo che la obbligavano a ricoprire. – Grazie. I lord vi attendono qui fuori, saranno loro ad uscire.
La giovane fece un cenno affermativo con la nuca, e Thorn si allontanò senza congedarsi.
Ripercorse i suoi passi a ritroso fino a tornare nel bagno vuoto da cui era arrivato, stringendo la bambola con una tale forza da temere di crepare la fine porcellana. Fortunatamente gli artigli non avevano effetto sugli oggetti, dato che erano privi di sistema nervoso, ma le sue dita potevano essere ugualmente pericolose.
Si specchiò nuovamente, provando un intenso raccapriccio per ciò che era diventato: una marionetta. Allo stesso tempo era grato di esserlo, perché quel ruolo gli permetteva di dare ad Ofelia una scelta. Anzi, più d’una. Potevano sembrare sentimenti contraddittori, ma erano strettamente collegati e imprescindibili. Certo di chi fosse e di chi sarebbe stato, si immerse nel proprio riflesso senza tentennare.
 
Sbucò dallo specchio del grande bagno padronale adiacente alla camera di Ofelia. Alla loro camera… La sera prima lo aveva usato per darsi una bella ripulita dopo che le sirene erano scattate. Erano rimasti alzati fino a tardi cercando di carpire più informazioni possibili su quanto accaduto, e alla fine Ofelia si era addormentata sul divano del salotto, con Ambroise che le ronzava attorno aggiungendole ora una coperta, ora un cuscino. Quando Thorn aveva capito che l’unica cosa da fare era attendere l’indomani per svolgere qualche ricerca sul campo, aveva svegliato Ofelia perché andasse a riposarsi come doveva a letto. L’aveva accompagnata in camera e, preda del sonno, lei si era sdraiata senza quasi spogliarsi, a parte gli occhiali.
Thorn si era lavato, notando per la prima volta lo specchio del bagno, senza soffermarsi a guardarsi, però, e poi era tornato in camera quando mancavano ancora tre ore e quarantaquattro minuti all’alba. Come ogni cosa, anche lo spuntare del sole sembrava estremamente puntuale a Babel. Ofelia aveva il sonno pesante, non aveva cambiato posizione, inducendolo a chiedersi quante ne avesse passate per essere così stanca. Tutte quelle cicatrici sorte in seguito al suo soggiorno alla Buona Famiglia… Aveva lottato per trattenere gli artigli, seduto sul bordo del letto, mentre le dava le spalle. In riflessione.
Con la bambola ancora in mano, si diresse verso il salotto, scrutando con sguardo torvo gli automi che saltuariamente gli si avvicinavano scodellandogli qualche proverbio dalla dubbia logica come UN OMBRELLO SERVE ANCHE COL SOLE o FORCHETTA E COLTELLO RENDONO IL PASTO PIU’ BELLO. Era quasi ora di pranzo, e Ambroise si stava facendo preparare qualcosa dall’automa della cucina. Thorn aveva già di suo poco appetito, l’idea di mangiare qualcosa cucinato da una macchina non gli faceva venire certo l’acquolina in bocca.
Cercò un luogo appartato per poter riflettere in pace, e alla fine optò per la sala dell’impluvium, con il soffitto aperto che lasciava entrare le piogge per riempire la vasca sottostante. Thorn aggrottò le sopracciglia, chiedendosi di quale utilità potesse essere un luogo del genere, ma almeno lì non gironzolavano tanti automi e c’era un divanetto per sedersi di fronte all’impluvium. Non vi prese posto lui, ma vi sistemò la bambola, mentre lui le si metteva di fronte. Passò i successivi ventisettemilasettecentoquarantacinque secondi, quasi otto ore, a scrutare la messaggera di porcellana dei Genealogisti, chiedendosi cosa avrebbe potuto dirgli, quale missione affidargli, quale ruolo avrebbe svolto; e come avrebbe potuto includere Ofelia in quel piano, se lei lo avesse voluto. Ofelia, che era la ragione per la quale lui stava attenendo invece di ascoltare seduta stante il messaggio che avrebbe dato una direzione alle sue ricerche, che avrebbe plasmato il suo futuro. Se solo qualche anno prima gli avessero detto che avrebbe atteso di propria spontanea volontà tutte quelle ore solo per condividere con una donna i propri pensieri e progetti… lo avrebbe considerato il parossismo dell’assurdità. Un evento inverificabile. Invece eccolo lì, orologio alla mano, ad attendere con pazienza il suo ritorno, per ascoltare il messaggio insieme.
Si tolse la giacca da Lord di LUX, si arrotolò le maniche fino a lasciar scoperti gli avambracci e cinque cicatrici. Formulò settantanove teorie con altrettante linee d’azione per sé e Ofelia, ben più delle trentaquattro pronunciate da Ambroise, che a metà pomeriggio lo aveva raggiunto adducendo la scusa che un buon padrone di casa non lascia mai soli i propri ospiti. Thorn lo guardò torvo per pochi istanti, malcelando la sfiducia che nutriva nei confronti di quello strano invalido invertito. Figlio di Lazarus, per giunta. Più fastidioso ancora della sua presenza fu il suo soliloquio, che durò ben settantuno minuti. E quarantanove secondi. Se li sorbì tutti, cercando di trattenere gli artigli che sentiva di secondo in secondo più acuminati, pronti ad attaccare. Non era conveniente dargli sui nervi, e un modo per farlo benissimo era sproloquiare senza bisogno alcuno di farlo. Come Ambroise.
Riuscì a non ferirlo, in ogni caso, e quando gli portò del riso decise di mangiare, se non altro per mantenersi in forze. Aveva saltato il pranzo, non poteva permettersi di saltare anche la cena. Mangiò per senso del dovere, non certo perché il riso fosse buono, anzi, o perché avesse appetito. Ofelia arrivò duemilacinquecentoventotto secondi dopo, sbucando dal cassettone del salone.
Lui non distolse gli occhi dalla bambola, ma non poté impedirsi di ascoltare la sua voce, che gli entrò nelle orecchie facendogli vibrare i timpani solo per raggiungere il suo stomaco e scorrergli nel sangue. Gli artigli parvero placarsi leggermente. Era fuori da ogni logica il modo in cui il suo corpo reagiva a lei, che fosse la sua voce, il suo sguardo o il suo tocco, mentre la sua mente veniva calamitata con prepotenza; come se durante il giorno non dovesse sforzarsi di relegare in un angolo il pensiero di lei, costante e talvolta fastidioso come una mancanza di controllo. Eppure, si sentiva così sollevato quando Ofelia era vicina a lui…
Ascoltò con attenzione il suo dialogo con Ambroise, notando come fosse gentile, empatica e riconoscente nei confronti di quel giovane. Ormai aveva capito che era una caratteristica intrinseca del suo carattere: Ofelia era buona, apertamente buona; più si fidava di qualcuno, più offriva. Lui ne era l’esempio per antonomasia: quando Ofelia aveva capito che poteva fidarsi, gli aveva dato tutto, ogni parte di sé, ogni gesto e pensiero.
Attese che mangiasse senza metterle fretta: doveva essere stanca dopo il censimento e non voleva metterle fretta. Commentò sbuffando alcuni punti del loro dialogo, specialmente la parte riguardante Ambroise e le sue teorie. Ora che Ofelia era arrivata, la presenza del giovane gli dava ancora più sui nervi, come se fosse un intruso, e non il contrario. Di sicuro era un intruso in quella vicenda tra lui e… sua moglie.
- Posso? – sentì chiedersi poco dopo.
L’aveva percepita avvicinarsi, ma non si era mosso in alcun modo. Aveva solo spostato gli occhi, osservandola. Era accaldata e impolverata, provata dalla giornata, con un timbro sotto la frangetta disordinata e una macchia di curry gialla che lo attraversava.
Annuì, lieto del fatto che avesse preso sul serio il suo avvertimento di non compiere mai gesti bruschi o alle sue spalle, di avvisarlo preventivamente. I suoi artigli, agitati dalla sua comparsa improvvisa, si calmarono quando Thorn riuscì a convincerli del fatto che andava tutto bene, che Ofelia poteva fare ciò che voleva, che non era di sicuro un nemico. L’opera di persuasione del proprio sistema nervoso non fu né lungo né complesso, forse perché i suoi nervi erano intrisi anche del piacere che aveva provato il giorno precedente, una sensazione mai sperimentata prima di allora… e dovuta ad Ofelia. Era logico che non la considerassero una minaccia, ma era decisamente meglio prendere le dovute precauzioni.
Ofelia lo interrogò circa la provenienza della bambola, a cui Thorn rispose con alcune ulteriori intromissioni da parte di Ambroise. Trattenere gli artigli stizziti fu più facile con Ofelia accanto, ma non vedeva l’ora che il padrone di casa togliesse il disturbo. Non aveva alcuna intenzione di fargli ascoltare il messaggio dei Genealogisti, e a dirla tutta desiderava anche stare da solo con Ofelia, dopo un’intera giornata passata lontani. Lei bevve del tè caldo senza fretta, a suo agio vicino a lui come non l’aveva mai vista. Quando erano al Polo cercava sempre la distanza, a Babel sembrava essere dilaniata dall’incertezza, non aveva compiuto un solo passo per avvicinarglisi per troppi giorni prima di dichiararsi a sorpresa e ora sembrava addirittura attirata da lui.
Attratta. Era un pensiero paradossale, ma i suoi occhi non lo ingannavano. Prese la bambola e la rivoltò, mostrando il meccanismo vocale sulla schiena di fredda porcellana.
- Aspettavo che tornassi per sentirla insieme – ammise, trovando più facile dire certe cose quando di mezzo c’era anche una componente di lavoro.
Aveva atteso il suo ritorno anche per sentirla finalmente accanto, per averla sott’occhio, per sincerarsi che stesse bene, ma attribuire quel motivo alla loro missione gli rendeva più facile esprimere il concetto.
Non ottenendo risposta, guardò Ofelia con la coda dell’occhio, notando come il suo sguardo si fosse soffermato sulle sue mani. No, non sulle sue mani o sulla bambola, ma sugli avambracci, sulle cicatrici che li solcavano, come se il giorno prima non le avesse toccate… baciate tutte. Sul suo viso traspariva tenerezza, non pietà, quasi orgoglio. Talvolta le espressioni di Ofelia erano davvero imperscrutabili.
In imbarazzo senza motivo, fu costretto a schiarirsi la voce prima di decretare: - Insieme.
Insieme, sotto ogni punto di vista.
Ofelia annuì, sicura. – Insieme.
Finalmente Ambroise si congedò. Sarebbe stato scortese dire a chi li ospitava che era il caso che togliesse il disturbo. Non che Thorn avesse qualche remora a farlo presente, ma forse Ofelia non avrebbe gradito. E a proposito della fiducia che Ofelia sembrava nutrire verso quel ragazzo, e verso un sacco di altre persone di cui lui avrebbe diffidato senza pensarci due volte, la mise in guardia. Le loro questioni erano solo loro, a prescindere dall’argomento trattato.
Thorn cercò di convincersi che non fosse la gelosia a parlare al posto suo, ma gli artigli gli dissero il contrario, guizzando nervosamente.
Ascoltarono il messaggio della bambola. Come al solito, Thorn si concentrò solo sul suono delle parole, sulla loro successione, sul discorso in generale e non sul significato e sulle implicazioni, così da poterlo memorizzare perfettamente. Come una specie di lettura. Quando la bambola tacque, si ripeté per filo e per segno il discorso, cominciando a districare le decine di scenari che si presentavano loro davanti.
Discusse con Ofelia del piano, dei significati reconditi delle rivelazioni e del come la cosa li riguardasse. Si accigliò quando lei disse che aveva incontrato i Genealogisti quella mattina, rispondendo abbastanza evasivamente da fargli temere che avessero interagito. Ovviamente, Ofelia si attirava addosso le sciagure peggiori, come insetti sulla carta moschicida. Una carta moschicida enorme e parecchio appiccicosa. La portata della rivelazione del progetto Cornucopiando era così vasta da non poterla abbracciare tutta in una sola notte e con un solo pensiero, ma parlarne con Ofelia era… interessante.
Quella era la prima volta che sviscerava un argomento dall’inizio alla fine con qualcuno, che non contava solo su se stesso, che includeva un’altra persona nel suo piano e non solo perché gli era utile, ma anche perché, in parte, lo voleva. Era talmente abituato a fidarsi unicamente di sé, a lavorare da solo, ad usare solo le proprie forze e il proprio cervello che gli era ancora difficile mettere a parte Ofelia di ogni suo pensiero. Eppure, mano a mano che la discussione procedeva si ritrovò a farlo con sempre più facilità, come se Ofelia fosse diventata una propagazione di sé, come gli artigli, una parte di lui.
E forse lo era davvero. Nessuno era mai entrato così dentro di lui, e nessuno lo avrebbe mai rifatto. Solo lei, che buttava giù qualsiasi statistica come se la matematica fosse un’opinione. Si incollerì, odiava quella situazione, il fatto che lui e Ofelia non potessero parlare di… case, o mobili, o di qualsiasi altra cosa parlasse una coppia appena sposata. Odiava dover stare lì, accanto a lei, a parlare del crollo delle arche, di distruzione, di progetti che non riguardavano la loro vita insieme ma il dover sventare una donna ambiziosa e ossessionata dall’onnipotenza e un’entità non identificata che distruggeva il suolo su cui poggiavano i piedi, tutto ciò che conoscevano.
I suoi occhi incontrarono un’asimmetria non trascurabile sulla pavimentazione, e fu costretto a chiudere gli occhi per non notarla più, per ignorarla e concentrarsi sulla questione fondamentale. Cercò di rievocare quella memoria tramandata da generazioni, la memoria di Faruk, ma gli sembrava di cercare una chiave in una pozzanghera fangosa, farsi torbido lui stesso. Finché Ofelia non lo aiutò, come un’estensione di quella memoria che però non aveva ereditato. Come lei aveva ascoltato lui, Thorn si fece attento quando gli parlò di quel riflesso che aveva liberato, dell’Altro, di come secondo lei non fosse che il riflesso di Eulalia Diyoh. Erano tutte teorie interessanti, su cui meditare, su cui programmare, ma all’improvviso si sentì stanco, svuotato.
Non voleva passare l’intera serata a parlare con Ofelia di certi argomenti. Pensiero che lo contrariò. Era in gioco il destino del mondo, eppure lui… voleva passare del tempo con lei. Guardò infatti l’orologio da taschino, per constatare con precisione che ore fossero e quanto gli rimanesse prima dell’alba.
Perché all’alba, lo disse ad Ofelia, sarebbe andato all’osservatorio. Prima avessero risolto l’equazione e prima… avrebbero potuto condurre una vita normale, e se non normale, quando meno una vita che potevano decidere da soli, che nessuno avrebbe imposto loro.
Aveva chiuso l’argomento così, ma vide Ofelia stringere i pugni, esitare. Che volesse dirgli altro? Che volesse continuare la discussione? Non gli passò minimamente per la testa che potesse nascondergli qualcosa, qualcosa di doloroso da dire, di grave. Ofelia era sincera, non gli occultava più nulla, non glielo aveva mai nascosto a dire il vero. Ricordava ancora quanto si fosse infuriata quando lui non era stato del tutto trasparente circa il motivo del matrimonio combinato, e ancora lo rimpiangeva. Eppure, eccoli lì, sposati, insieme, pronti ad affrontare una minaccia più grande di loro per riprendersi le loro esistenze e le loro scelte.
- Vengo con te – sbottò allora Ofelia, accorata. Decisa.
Quelle parole lo fecero contrarre, del tutto inaspettate. Erano così… insolite. Pericolose.
- Non posso portarti con me.
Avrebbe voluto, l’avrebbe portata con sé ovunque pur di non separarsi mai da lei, ma condurla all’osservatorio avrebbe smascherato il suo inganno, costringendoli a cambiare i loro piani completamente.
Ofelia gli disse esattamente le stesse cose che aveva pensato, aggiungendone però una che lui non aveva nemmeno contemplato: si sarebbe offerta volontaria. Thorn cercò di farla desistere, sia perché sarebbe stato compromettente, sia perché quel luogo gli pareva tutto fuorché sicuro. L’osservatorio delle Deviazioni era ammantato di mistero, il posto di cui aveva fatto più fatica in assoluto a sondare i segreti, senza oltretutto riuscirci. L’idea che Ofelia ci andasse spontaneamente per sottoporsi agli esperimenti… no, se avesse potuto, lo avrebbe impedito. Anche se impedire una cosa ad Ofelia, lo sapeva bene, era come cercare di fermare un treno in corsa. Ofelia non rispondeva a nessuno se non alla propria volontà e, sebbene fosse una delle cose che lo avevano più colpito di lei, lo spaventava.
Osservando meglio il suo timbro, visibile sotto la frangetta, pensò che non era di buon auspicio che i Lord di LUX avessero i suoi dati, per quanto falsi. Le consigliò di stare nascosta, ma sapeva che sarebbe valso a poco come avvertimento.
- Non basterà tutta la burocrazia di Babel a impedirmi di raggiungerti.
Quelle parole ebbero uno strano effetto su di lui. Lo raggiunsero con la forza di un’onda d’urto, ma lo rammollirono come una carezza.
Erano tra le parole più belle che qualcuno gli avesse mai rivolto, quasi più belle della dichiarazione che Ofelia gli aveva confessato solo due giorni prima. Era una frase che esprimeva attività, non era passiva quanto un “ti amo”, statico. Ofelia, lo sapeva bene, avrebbe fatto carte false per stargli a fianco, e quella consapevolezza accrebbe l’amore che provava per lei, insieme alla convinzione che Ofelia lo amava davvero.
La guardò con perplessità, cercando di mascherare le emozioni che gli stavano attraversando mente e corpo. Era talmente inverosimile che lei fosse lì, che fosse bastata una semplice confessione perché lasciasse cadere anche l’ultimo muro che aveva eretto contro di lui… perché lo includesse in tutti i suoi piani, appoggiandosi a lui con fiducia cieca. Sentì un’esplosione di desiderio partirgli dallo stomaco e diffondersi fino alla punta degli artigli, che sguazzarono trepidanti.
La represse. Distolse lo sguardo, incapace di sostenere ancora quello longanime di Ofelia. Così sincero e trasparente. Era… nessuno lo aveva mai guardato in quel modo. Sembrava che ai suoi occhi fosse in grado di compiere miracoli, di non sbagliare mai. Infallibile, invincibile. Perché lo guardava con quella fermezza? Perché non aveva dubbi su di lui? Aveva passato una vita intera a non valere nulla agli occhi degli altri, e ora arrivava lei, piccola donna convinta come poche, che lo scrutava dentro, oltre le cicatrici, oltre il sangue, oltre la nomea di bastardo. Lo guardava come se fosse pronta ad affidargli se stessa, la sua vita, e non avesse paura perché sapeva che lui poteva tutto. Lo guardava come se lui fosse il suo mondo.
Dovette schiarirsi la gola per riuscire a parlare, e per trovare il coraggio di farlo. – Ti aspetterò.
Non solo in quel frangente, ma sempre, qualunque cosa fosse accaduta. La sua vita le apparteneva, non aveva più alcun senso se lei non c’era. Del resto, chi altri lo attendeva, altrove? Non aveva più un solo parente vivo, se non Berenilde, che aveva già la figlia di cui occuparsi. Nessun amico. Solo Ofelia, sua moglie, che era disposta a seguirlo fin dentro quel ginepraio pur di stare con lui.
Il suo cuore accelerò di fronte alla portata di quelle rivelazioni nuove. Non sapeva bene come comportarsi, nonostante tutto quello che avevano passato insieme, nonostante la distanza temporale e spaziale, l’inizio a dir poco burrascoso e l’epilogo roseo. Nonostante il giorno prima…
Alla fine, lasciandosi guidare da ciò che il corpo gli suggeriva di fare già da diversi minuti, e che gli aveva suggerito in tutti quegli anni, l’abbracciò stretta appena un secondo dopo che lei ebbe chiesto: - Devo disinfettarmi?
Disinfettarsi per cosa? La sua sporcizia era superficiale, non intrinseca come la sua, insidiosa. Lei era pura, pulita.
La strinse forte, come temendo che potesse scomparire o scappare se avesse allentato la presa.
- No – rispose in seguito, ricordandosi della domanda.
Finalmente la sentì sciogliere la propria rigidità, abbandonarsi a lui senza rispondere all’abbraccio, ma accoccolandosi dentro la gabbia delle sue braccia, che la circondavano strettamente. Si chiese se sentisse il modo in cui il suo cuore si agitava in petto. Era… così bella, quella sensazione. Aveva i capelli che portavano ancora un lievissimo sentore di sapone, anche se gli odori della città lo avevano quasi fatto sbiadire. Non gli importava, quello era l’odore di Ofelia, e lo avrebbe tollerato a prescindere.
Dopo diciassette lunghi secondi allentò la stretta, quantomeno per permetterle di respirare. Ofelia aveva gli occhi spalancati, forse la collisione contro il suo corpo era stata troppo brusca. Imbarazzato, si sentì arrossire, e non solo perché era stato impulsivo: lo sguardo di Ofelia, con gli occhi aperti e limpidi, era terribilmente conturbante. Si costrinse a voltare lo sguardo pizzicandosi la radice del naso, con forza, come per impedire al sangue di sgorgare, bloccando il passaggio.
- Non sono abituato a essere guardato in questo modo – ammise, vergognandosi.
- In che modo? – domandò Ofelia. Non si era mossa di un millimetro.
Era un territorio spinoso, quello in cui si era addentrato. Come poteva esprimere con facilità quei concetti, del tutto estranei a uno come lui? Si schiarì la gola nuovamente per prendere tempo e coraggio, per mandar giù quel groppo di reticenza che gliela serrava. I sentimenti non erano come la matematica, non rispondevano a nessuna legge. Erano imprevedibili. E Thorn odiava le cose imprevedibili, incalcolabili. Come l’amore.
- Come se fossi incapace di commettere errori. Invece alcuni ne commetto. Anche un po’ di più.
Innamorarsi di lei era stato un errore. Enorme. La cosa più bella che gli fosse mai capitata.
Si chinò su di lei, perché vedesse la serietà con cui le parlava. Non sapeva come fare in quella situazione, in generale, come marito. Non aveva mai letto manuali che trattavano l’argomento, sia perché non esistevano sia perché non gli era mai interessato, prima di allora. Non ne aveva mai avuto bisogno. Ma più impellente di qualsiasi altra cosa c’era la necessità, in quel momento, di sapere che Ofelia avrebbe continuato a guardarlo in quel modo. Per tutta la vita, se fosse stato possibile. Non voleva deluderla, ma non sapeva come fare. Aveva bisogno che lei lo guidasse. E non se ne vergognava. Non era orgoglioso fino al punto di non chiedere aiuto. Anzi, non era proprio orgoglioso.
- Se ogni tanto c’è qualcosa che non ti va a genio… - mormorò, mentre l’uso del tu lo colpiva con forza, facendogli provare un senso di intimità ancora più profondo rispetto al giorno prima, a quando l’aveva toccata… - un gesto che faccio, una parola che non dico… devi dirmelo. Non voglio dover stare a chiedermi perché non riesco a rendere felice mia moglie.
Un gesto che faceva… se fosse stato necessario, non l’avrebbe più abbracciata. Bastava che lei ordinasse. Una parola che non diceva… se lei glielo avesse chiesto, le avrebbe detto “ti amo” mattina e sera, tutte le volte che avesse voluto. Non erano cose che gli facevano piacere, andavano letteralmente contro la sua indole, ma per lei avrebbe fatto qualsiasi cosa. Solo per continuare a vedere quegli occhi pieni di calore e confidenza.
La vide mordersi una guancia. Stava per propinargli una sfilza di cose da fare e non fare? Non si sarebbe sorpreso, data la sua scarsa esperienza nel campo. Chissà quante cose aveva sbagliato finora…
- Sono già felice – ammise lei, senza esitazione. – Anche un po’ di più.
Quelle parole lo colpirono più di qualsiasi altra pronunciata fino a quel momento. Ofelia non aveva la minima idea di cosa volesse dire quel “anche un po’ di più” per uno come lui. Lo diceva spesso, qualcuno avrebbe potuto considerarlo un manierismo, ma non era altro che il suo modo per rendere il concetto astratto di infinità. Lui si affidava solo e unicamente ai numeri; nelle questioni quotidiane, al lavoro, nella vita, tuttavia, il concetto di eternità o infinito non c’erano.  Ogni cosa che esulasse l’algebra era quantificabile, materiale, fissa. Lui non amava “da morire” qualcosa. Non desiderava “infinitamente” qualcos’altro. Erano illogici. Se aveva fame, lo sapeva determinare in una scala calcolabile da zero a dieci. Così valeva per tutto.
Quel “anche un po’ di più” era il suo undici nella scala.
Il suo sovrappiù. L’incalcolabile che si verifica in condizioni estreme. Il suo per sempre. L’eccesso inquantificabile.
Con quella semplice frase, che Ofelia forse gli aveva rivolto quasi per scherzo, lei non aveva fatto altro che dirgli che era felice fuori misura, in una scala che nemmeno esisteva, oltre il lecito.
Thorn l’amò prepotentemente. Anche un po’ di più.
Si chinò su di lei senza esitare, certo del fatto che fossero sulla stessa linea di pensiero, nello stesso universo sensoriale. Voleva annullare qualsiasi distanza, baciarla, sentire le sue labbra calde e morbide sulle proprie, bruciare di un calore che non veniva dall’alta temperatura, ma dal contatto con la sua pelle.
E chissenefrega se erano sporchi e sudati.
Un rumore stridente. Si bloccò. L’armatura si era inceppata.
Quello era un tempismo decisamente pessimo.
Anche un po’ di più.
Trattenne a stento la furia degli artigli, sperando che non rivolgessero il loro fastidio contro di lui. Aveva un tale nervoso addosso che se avesse potuto li avrebbe lasciati scatenare per un secondo, il tempo di scaricare i nervi. Dannata armatura, dannata zoppia.
Ofelia rideva della grossa, per nulla imbarazzata dal momento intimo andato in frantumi. Se possibile, si sentì ancora più in imbarazzo.
Sistemò l’esoscheletro con gesti più affettati e brutali del normale, indirizzando a quei bulloni e a quel metallo la sua stizza. Quando fu sicuro di averlo stabilizzato, si raddrizzò lentamente. Cosa avrebbe dovuto fare? Cercare di baciarla nuovamente? Non ci sarebbe stato nulla di male, lo desiderava ancora, ma… non sarebbe stato strano? Artificioso?
Ofelia lo tolse dall’indecisione allungando la mano lentamente, affinché lui la vedesse. Gli prese la sua tra le piccole dita, accarezzandogli il dorso col pollice. – Andiamo in camera? – mormorò.
Thorn non se lo fece ripetere due volte, con il cuore in gola e l’intestino che bruciava, la lava nelle vene. Rischiò quasi di scordarsi la bambola sul divanetto.
Quasi.
 
*
 
Era vero che Thorn non si era dimostrato troppo turbato dal suo stato pietoso, piena di polvere incollata ai capelli dal sudore e della sabbia sulla pelle, ma Ofelia aveva davvero bisogno di lavarsi via di dosso quella giornata eufemisticamente spiacevole. Tanto più se voleva… stare con Thorn. Voleva godersi il momento, non stare a pensare alla propria sporcizia.
Esitò quando entrarono in camera, quella che avevano condiviso il giorno prima e la notte. Era vero che lei e Thorn erano entrambi nella stessa barca, entrambi incerti mentre prendevano coscienza delle esigenze e dei desideri dell’altro, ma… era difficile il preambolo. Paradossalmente, era più naturale farsi guidare dall’istinto una volta preso il via, che chiedersi come farlo accadere. Sentiva la presenza torreggiante di Thorn dietro di sé, ma nemmeno lui fece una mossa per spronarla. Forse, se lui l’avesse abbracciata e baciata, la sua volontà di lavarsi sarebbe venuta meno. Ma così non fu.
- Io… ho davvero bisogno di una doccia – mormorò, odiando il flebile sussurro della sua voce. Era un’adulta ormai, non poteva più mostrarsi debole. Prese coraggio. – Vieni con me?
Non ottenendo risposta, si voltò verso Thorn, che la fissava con le sopracciglia inarcate fino al punto di spalancargli gli occhi. Non se l’aspettava, era ovvio. Si schiarì la gola, in imbarazzo, capì Ofelia, ma non distolse lo sguardo.
- Sì – disse laconicamente, riprendendo il controllo di sé, come se lei gli avesse in realtà offerto una tazza di tè.
Anzi, no: quella l’avrebbe rifiutata.
Con un po’ di imbarazzo e diverse cadute mancate per un soffio da parte di Ofelia riuscirono ad infilarsi in doccia insieme, grati del fatto che Lazarus fosse abbastanza ricco da non lesinare sulla grandezza dei bagni.
Da lì, come aveva ipotizzato Ofelia, fu tutto in discesa. Riuscì ad insaponarsi e sciacquarsi i capelli prima che Thorn si chinasse su di lei cominciando quel bacio che era rimasto in sospeso da prima, sull’impluvium. Più in confidenza con i loro corpi rispetto al giorno precedente, Ofelia accolse con trasporto le mani di Thorn sul corpo, che vagavano sulla sua schiena, scendevano sulle natiche e sulle cosce e le accarezzavano le braccia strette al suo busto, se non altro per stabilizzarsi. Ormai sapevano cosa aspettarsi dall’altro, e Thorn le parve decisamente più sicuro, meno a disagio, meno… spaventato. Sapeva che la colpa del suo timore era da attribuirsi all’impatto visivo delle cicatrici, ma quel timore non aveva motivo di esistere. Anzi, il fatto che lei fosse l’unica testimone di quei tagli, di quei marchi sul corpo di Thorn, la rendeva insensatamente fiera di essere la sola a poterle vedere. Si sentiva privilegiata, e glielo fece capire ripassandogliele con tenerezza non appena ne incontrava una.
Fu anche grata all’impetuoso scroscio dell’acqua, che coprì i suoi gemiti sempre più profondi mano a mano che Thorn si prendeva più spazio e la spingeva contro il muro freddo e umido di vapore. Non si poteva dire che lei, da parte sua, fosse meno spudorata, comunque. Thorn parve in seria difficoltà più di una volta, e Ofelia si sentiva vibrare fino al midollo quando lui apriva gli occhi e li incatenava ai suoi; duro metallo che ardeva sotto le palpebre, che osservava solo lei, che voleva solo lei. Poi era lui quello che non era abituato ad essere guardato in un certo modo…
Dovettero interrompersi per forza quando Ofelia rischiò di scivolare per la quarta volta, dando una testata allo stomaco esposto di Thorn. Non che lui fosse molto più stabile, con la gamba storpia che ogni tanto faceva fatica a trovare una presa solida sulle piastrelle scivolose di acqua e sapone.
Ofelia non perse quasi tempo ad asciugarsi, di sicuro non si preoccupò dei capelli, e quando raggiunsero il letto le erano già scivolate delle tiepide goccioline d’acqua giù per la schiena. Rabbrividì di aspettativa. Thorn si sedette sul letto, anche lui con i capelli umidi e scarmigliati. Era raro vederlo disordinato, con ciuffi ribelli sparati in tutte le direzioni. Notando la direzione del suo sguardo sembrò intuire i suoi pensieri, e cercò di rassettarsi come meglio poteva.
Ofelia sorrise intenerita, lanciò uno sguardo ai guanti posati sui vestiti abbandonati sul pavimento del bagno e decise che nemmeno quella notte le sarebbero serviti. O almeno, lanciò uno sguardo dove pensava ci fossore i guanti e i vestiti: senza occhiali, avrebbe benissimo potuto scambiarli con un tappeto. Neanche quelli le sarebbero serviti, dato che Thorn era di fronte a lei, vicino. Ma non ancora abbastanza. Prese posto sulle sue gambe, con le ginocchia posate sul materasso attorno ai suoi fianchi. Con le mani sulle sue spalle ampie, fece leva per essere più in alto di lui. Fu esaltante vederlo reclinare la testa per riuscire a guardarla, per una volta a ruoli invertiti. Ofelia si strinse a lui quanto era fisicamente possibile, cerando di non perdersi una sola reazione di Thorn: preda più che mai delle forze contraddittorie che spesso lo animavano, sembrava agonizzare e bearsi allo stesso tempo.
Mentre gli baciava la fronte, le sopracciglia, le guance e infine le labbra sottili, che l’assalirono voraci, si chiese se la sua lotta interna non fosse dovuta agli artigli. Non poteva nemmeno immaginare quanta fatica gli costasse trattenerli, soprattutto da quando erano diventati incontrollabili in seguito all’inoculazione del suo animismo, come se anche il sistema nervoso di Thorn fosse un oggetto, eppure, in quel momento, non si sentiva la pelle elettrizzata dalla corrente dei suoi artigli. Stargli vicino aveva cominciato a procurarle sempre un certo dolore latente, che non si manifestava nella testa, come quando stava al cospetto di Faruk, ma direttamente nel corpo. Eppure, in quell’istante realizzò che l’elettricità crepitante degli artigli, simile ad un elettroshock, la stava… accarezzando. Sentiva la sua pelle farsi sensibile mano a mano che il sistema nervoso di Thorn la circondava, e forse lui non se ne rendeva nemmeno conto, preda com’era dell’eccitazione, ma non le dava fastidio. Era piacevole.
Sia la mente che il corpo che i nervi di Thorn la stavano amando in quel momento.
Ofelia si sentì andare a fuoco.
Si sedette su di lui senza preavviso, trovandosi a malapena alla sua altezza, e lui sembrò davvero soffrire. Quando la guardò negli occhi, quegli occhi da predatore in cui lampeggiavano solo desiderio e necessità, Ofelia percepì tutta la sua impazienza, e credette di sciogliersi. Ora capiva, capiva perché, come aveva detto la zia Roseline, Agata si “dava tanto da fare” e “non perdeva tempo”. Capiva come mai sua mamma, sua sorella, tutti su Anima avessero tanti figli. Capiva anche, in un certo senso, come mai Archibald, che era tanto sregolato, non si facesse problemi ad andare con chiunque.
Si vergognò quando le sovvennero le parole che aveva rivolto a Thorn tempo prima. Parole dure, cattive… e intrise d’ignoranza. Che non avrebbe mai condiviso il letto con lui e non gli avrebbe mai dato figli. Per lo meno, una delle due affermazioni si era dimostrata vera. Una piccola parte del suo cervello si chiese come mai, se non si era mai immaginata madre di famiglia, ora che quella possibilità le era preclusa l’idea di avere figli non sembrasse più così lontana dalla sua personalità. Avrebbe voluto figli? E Thorn, che aveva detto che detestava i marmocchi, avrebbe potuto cambiare opinione?
Le mani di Thorn, d’un tratto strette attorno alle sue natiche, la riportarono al presente con un gemito strozzato.
Accantonò il pensiero, non era il momento di rifletterci su, e non sarebbe cambiato nulla incaponendosi su quello che non poteva essere cambiato. Né lei né Thorn volevano figli, e non avrebbero effettivamente potuto averne. La questione era risolta e chiusa. Per lo meno, data la sua impossibilità di concepirne, non avrebbero avuto problemi di gravidanze indesiderate. Chissà se Thorn si era posto il problema, il giorno prima… dubitava che non sapesse una cosa del genere lui, che era un’enciclopedia umana. Avrebbe dovuto dirglielo.
La mano di Thorn risalì sul suo fianco e virò sul suo petto, facendole prendere nuovamente coscienza di dove fosse e cosa stesse facendo.
Un’altra volta. Presto. Ma non in quel momento. Non in quel momento perfetto che non voleva guastare. Anche gli occhi famelici di Thorn le suggerirono di rimandare, di vivere solo in quel presente, loro due.
Rispose all’occhiata interrogativa di Thorn, che si chiedeva come mai lei fosse così poco partecipativa, sistemandosi meglio sul suo grembo, mozzandogli rumorosamente il respiro. Con una mano gli spinse il petto indietro, finché lui non fu sdraiato sotto di sé, alla sua mercé. Aveva amato il modo in cui la sua mole imponente l’aveva circondata, il giorno prima, inchiodandola tra lui e il materasso, chiusa in quello spazio angusto in cui desiderava ardentemente tornare. Ma voleva anche dimostrare a Thorn quanto lo amasse, voleva eliminare quel piccolo divario rimasto tra di loro, quell’insicurezza che lo permeava da troppi anni ormai, se non da sempre.
Lo amava. Profondamente. Ad un livello che non avrebbe mai immaginato. Prima piano, timidamente, poi quel sentimento era sbocciato come un fiore, travolgente come un fiume in piena, e lui era diventato il suo punto fisso, la sua àncora, il suo “noi”. Voleva mostrargli quanto avesse bisogno di lui, quanto lo desiderasse.
Era giusto che qualcuno lo guardasse come meritava di essere guardato.
Fece tutto da sola, senza mai staccare gli occhi dai suoi, passandogli le mani su petto e addome sia per accarezzarlo che per stabilizzare se stessa. Si sentiva un po’ imbarazzata, a dire il vero, ma l’esaltazione prevaleva. Il giorno prima aveva fatto tutto Thorn, ora era il suo turno. Se lui, così amante della pulizia, così reticente ai contatti, era riuscito a fare una cosa simile, ci sarebbe riuscita anche lei. Poco importava che Thorn fosse infallibile in tutto, sempre certo nei movimenti, una freccia ben puntata contro l’obiettivo, mentre lei era goffa e scoordinata.
Cercò di mantenere il volto rilassato anche quando sentì bruciare. Era solo la seconda volta che lo facevano, non si poteva certo dire che fosse pratica, o… abituata, a quella presenza. Thorn non la mollava un secondo, quasi non batteva le palpebre. Aveva in volto un’espressione talmente intensa che Ofelia si sentì cedere le gambe, e ringraziò di essere a cavalcioni su di lui: se fosse stata in piedi, non era sicura che i muscoli le avrebbero retto.
Esalò un lungo sospiro tremante quando finalmente sì unì a lui del tutto, godendosi quella sensazione strana e nuova che era un misto di fastidio, calore, completezza e desiderio. Thorn aveva chiuso gli occhi, come se fosse in agonia. Quando Ofelia cominciò, piano, a muoversi, quasi con cautela, li aprì di scatto, inchiodandola. Erano gli occhi di un predatore, freddi, intensi, profondi, decisi. Fu tentata di chinarsi su di lui e baciarlo, in parte per soffocare anche i gemiti che le risalivano in gola a tradimento, ma attese. Chiuse gli occhi al posto suo, felice, e gli accarezzò le mani posate sui suoi fianchi. Quelle mani che la toccavano con così tanta precisione e cura…
Quando riaprì gli occhi scoprì che Thorn la stava ancora fissando, ipnotizzato, quasi sconvolto, con la mascella serrata come se in realtà stesse trattenendo una furia cieca. No, non era arrabbiato: gli artigli non le stavano facendo alcun male, ma lui fremeva sotto di sé. Talvolta le emozioni di Thorn erano talmente intense da rendere difficile la loro distinzione.
Quando sentì di essere ormai al limite si chinò su di lui, baciandolo lentamente, soffocando tra le sue labbra i suoi mormorii di piacere. Le piacque quasi di più la sensazione delle sue mani che la accarezzavano senza riserve, senza censure e zone vietate, di quello che venne dopo.
Quasi.
Alla fine giacque su di lui, col fiato grosso, con la testa posata sul suo petto. Il cuore gli batteva all’impazzata, il più potente tamburo che avesse mai sentito. Ondeggiava a ritmo dei suoi grandi polmoni, che si gonfiavano e sgonfiavano facendole quasi immaginare di essere in balìa del mare. Le sue mani affusolate erano posate sulla sua schiena, possessive.
Non avrebbe saputo dire quanto tempo passarono così, ma quando alzò la testa Thorn sembrava più vigile che mai. Energico. Lei, da parte sua, si sentiva scivolare sempre più lontano. La giornata era stata lunga e pesante, non priva di paura, come quando aveva incontrato i Genealogisti, non priva di sorprese, come quando aveva fatto la visita medica, e non priva di cattivi presagi, come alla Vetreria-Specchi.
Si scoprì stanca morta, con le membra di gelatina. Quell’intenso momento con Thorn le aveva dato il colpo di grazia, e sentiva il sonno alle porte. Doveva dirgli… avrebbe dovuto dirgli della sua impossibilità… della loro impossibilità di…
In un altro momento. Non in quello.
Con le palpebre pesanti, gli baciò la pelle proprio sopra il cuore, l’incavo del collo, che lo fece irrigidire come uno spaventapasseri, gli circondò il volto con la mano e gli baciò la guancia, per poi dargliene uno lungo e tenero sulle labbra.
Thorn le scostò con gentilezza la frangia dalla fronte, baciandogliela come lei aveva fatto con lui. Le passò un pollice sulla gota, infilandole l’altra mano tra i capelli umidi. Come quando erano nella prigione del Polo, prima che lui scappasse per quasi tre anni, la strinse a sé quanto era fisicamente possibile, come se non la sentisse ancora abbastanza vicina, nonostante fosse letteralmente entrato dentro di lei poco prima, non solo mentalmente e sentimentalmente.
Poi la lasciò. La sua barba corta, ricresciuta da quella mattina, le scorticò piacevolmente il mento.
- Dovresti dormire.
- Pure tu – mormorò lei. Non aveva le forze per alzarsi.
Thorn parve intuirlo, e si raddrizzò senza sforzo portandola con sé. Ofelia appoggiò la testa sulla sua spalla, abbandonandosi contro di lui.
 
*
 
Per quanto Thorn desiderasse rimanere così… anche un po’ di più, sapeva che più avesse aspettato, più sarebbe stato difficile separarsi. Si crogiolò ancora qualche istante nel tepore del corpo di Ofelia che, premuto contro il proprio, lo avvolgeva come una coperta. In quei milletrecentotredici secondi erano riusciti a vanificare la loro doccia, tra sudore, saliva e… altro. Aveva sulle labbra il sapore speziato del curry.
Le accarezzò la schiena, deciso a farla alzare perché dormisse, ma si fermò chiedendosi come dovesse essere toccare una schiena tutta solchi e rilievi come la sua; quella di Ofelia era liscia e morbida, serica al tatto. Dubitava che la sua fosse altrettanto piacevole da toccare, eppure a lei non sembrava dare fastidio.
Gli artigli languivano attorno a lui, sempre leggermente più docili quando Ofelia era presente. Con le difese mentali abbassate e il corpo che non gli doleva in ogni singola giuntura come ogni secondo della sua vita, un turbine di pensieri e sentimenti, per lo più negativi, lo pervase. Si chiese, in un moto di cattiveria inaspettata, per quale motivo una donna che era stata una sconosciuta per gran parte della sua vita lo amasse più delle madri che aveva avuto: la sua, Berenilde…
Rifiutato per tutti i secondi di tutti quegli anni dalla sua famiglia, dalle persone che avrebbero dovuto amarlo, si era visto spalancare una porta da Ofelia, quella piccola donna piena di determinazione e sincerità, così poco avvezza alla malvagità da essere rimasta marchiata dall’insensibilità del Polo. Ofelia lo aveva accettato per com’era persino nonostante l’inizio burrascoso, quando lui aveva sentito nascere in sé un sentimento nuovo che aveva scambiato per l’ennesimo tentativo della sua parte irrazionale di trovare qualcuno che mettesse lui al primo posto. L’aveva allontanata temendo di ricevere un ulteriore, scontato rifiuto. Eppure da Ofelia si sentiva… compreso in modo profondo. Non si illudeva che lei non conoscesse il suo passato. Una volta che gli aveva detto che aveva visto il modo in cui era cresciuto, alludendo velatamente ad una lettura che probabilmente aveva effettuato involontariamente. Non aveva nulla da nasconderle. Ma allora perché lei riusciva ad accettarlo e sua mamma invece… e Berenilde, con i suoi figli…
Sentì gli artigli agitarsi e si contrasse in tutto il corpo per timore di far male ad Ofelia. La costante tensione che imponeva al suo corpo per trattenere il suo potere familiare deleterio era nociva per il suo fisico, lo sentiva in ogni fibra muscolare distrutta, in quel dolore latente alle tempie che spesso ignorava e a volte lo trafiggeva come una spina di ghiaccio. Rancore verso le donne che avrebbero dovuto amarlo, paura di non bastare nemmeno a quella che era invece stata disposta a legarsi a lui lealmente, odio verso se stesso per non essere riuscito a farsi benvolere. Finché Ofelia non era arrivata nella sua vita, Thorn era rimasto fermamente convinto di avere un problema che non riusciva a identificare, che lo rendeva in qualche modo non abbastanza per chiunque.
Cercò di arginare quella marea di pensieri che gli agitavano il sistema nervoso concentrandosi sulla morbidezza della pelle di Ofelia, di sua moglie, ribadì, che lo aveva voluto sposare nonostante lui l’avesse liberata dal contratto che avevano stipulato per interesse, in una prigione, senza quelle cose che interessavano tanto le donne come abiti bianchi di pizzo e ricevimenti.
Aveva giurato che non si sarebbe mai abbassato al livello di nessuno, ma Ofelia era stata disposta a scalare il suo muro di intransigenza, per essere lei alla sua stessa altezza. E l’aveva superato. Era migliore di lui, era migliore di chiunque, ma quando lo guardava in quel modo, come se guardasse una cosa bella, una cosa che valeva la pena di guardare, Thorn si sentiva un pochino migliore.
Poi si guardava allo specchio, e quella percezione si sgretolava.
Un chiodo fisso gli trafisse il cranio, una domanda che archiviava costantemente dentro una scatola chiusa nell’angolo più remoto della sua mente dentro altre quattro scatole: Ofelia si sarebbe stancata? Se non era mai stato sufficiente a Berenilde e a sua madre, se entrambe avevano sentito il bisogno di qualcosa di più, l’avrebbe sentito anche Ofelia, prima o dopo? Quando, perché non era questione di se, ma di quando, avesse voluto dei figli, avrebbe anteposto loro a lui?
Come a rispondergli, Ofelia lo strinse più forte, strofinando la fronte contro la sua spalla, dolcemente.
Si costrinse a cancellare ogni cosa dalla sua testa. Impossibile.
Si costrinse allora a vivere in quel momento. In quel momento in cui per Ofelia lui era, se non fondamentale, quanto meno importante. Visse per un istante nel suo calore, nel suo abbraccio disinteressato, nella consapevolezza che lei era lì per lui. Non gli serviva altro.
Thorn si mosse sotto di lei, cercando di non toccare e farsi toccare qualche parte del corpo troppo sensibile per evitare situazioni incresciose di cui non si era mai dovuto preoccupare. Ofelia sospirò, se di serenità, stanchezza o tristezza Thorn non avrebbe saputo dirlo. Si allontanò da lui e, dopo avergli dato un altro bacio, si distese a letto senza nemmeno lavarsi i denti o rivestirsi, e Thorn non batté ciglio. Con sua sorpresa, la mancanza di igiene in quel frangente non lo infastidì. Poche delle cose che riguardavano Ofelia lo infastidivano, si rese conto. Doveva essere davvero sfinita.
E non era l’unica. Ma la stanchezza ormai era implementata nelle sue membra come una giuntura, non se ne sarebbe mai andata.
Raccolse i loro vestiti e li piegò con cura, ripulendo il bagno disseminato di pozze d’acqua e dandosi una rinfrescata. Non gli andava di rimettersi i vestiti stretti e fastidiosi da Lord di LUX, ma non aveva altro. Alla fine optò per indossare solo la biancheria, l’aria di Babel era ancora terribilmente calma. Infilò ad Ofelia i guanti senza che lei nemmeno si svegliasse, per permetterle di dormire serenamente e non leggere le lenzuola. Prese posto sulla sedia vicino alla radio, spenta, e si arcuò posando i gomiti sulle ginocchia, con il mento sulle mani giunte.
La stanchezza, appunto, era parte di lui. Con i suoi artigli fuori controllo avrebbe rischiato di fare male a Ofelia, e non solo. Quando dormiva e il suo subconscio andava alla deriva i suoi artigli, i suoi nervi, rimanevano comunque vigili, troppo, preda di impulsi dettati da una parte del cervello che sfuggiva al suo dominio.
Non dormiva da troppo tempo ormai, semmai sonnecchiava, ma per poco tempo e mai completamente abbandonato all’oblio.
Passò la notte, secondo dopo secondo, immobile come una statua, a contemplare Ofelia che dormiva un sonno talvolta placido e talvolta agitato. L’orologio si apriva e chiudeva nella tasca della camicia a intermittenza, come una pendola, scandendo con lui lo scorrere del tempo. Calcolò ogni centimetro e circonferenza del corpo di Ofelia, testa, caviglia, fianchi, vita, petto, coscia, polpaccio, gamba, braccio, avambraccio, collo, come se già non li conoscesse, fino a che lei non sentì freddo e si coprì con un lenzuolo.
Allora cercò un senso a tutto quello, al perché il corpo di Ofelia, tutto ciò che riguardava Ofelia, non lo disgustasse, ma anzi lo elettrizzasse di una forza nuova, che lo rendeva insaziabile, ricettivo, umano. Un suo tocco, un suo bacio, un suo sguardo, una sua carezza… tutto gli faceva aumentare le palpitazioni, contrarre i muscoli, anelare ad altro, a qualcosa di maggiore, sempre di più, come se già non lo avessero raggiunto.
Aveva davvero la capacità di demolire ogni statistica, di far crollare ogni certezza. Con lei in giro, tutto era possibile.
Mancavano duemilacinquecento minuti all’alba quando si lavò, si vestì, si pettinò, si rasò. Si disinfettò, perché ancora si considerava sporco nonostante ad Ofelia sembrasse non dare fastidio… lui, tutto ciò che era.
Le diede un’altra occhiata, imprimendosela volontariamente nella mente come se non fosse una cosa automatica, prima di uscire. Non badò nemmeno agli automi di Lazarus che lo seguivano con teiere di tè bollente e proverbi insensati.
In tutta sincerità non sapeva cosa aspettarsi dall’osservatorio, cosa avrebbe trovato o quando avrebbe rivisto Ofelia. Tutto era un’incognita, cosa che lui detestava, maniaco del controllo com’era, ma di quelle tre cose era certo che una avrebbe presto avuto risposta: l’ultima.
Quando Ofelia si metteva in testa una cosa era quasi impossibile dissuaderla. Lui stesso aveva fallito numerose volte, riuscendo a farle fare ciò che voleva, anzi, impedendole di fare ciò che lui non voleva solo ricorrendo allo stratagemma della richiesta, del favore personale.
Se Ofelia aveva detto che non lo avrebbe abbandonato, che niente avrebbe potuto impedirle di raggiungerlo… rabbrividì di calore al solo pensiero.
L’avrebbe rivista presto, e sarebbe andata lei da lui, ne era certo.
Insieme avrebbero affrontato qualsiasi ostacolo.
  
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