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Autore: Eneri_Mess    10/09/2020    1 recensioni
FINE (Prima parte)
Con il segreto che nasconde, Yokohama è una città dove non si possono dormire sonni tranquilli.
Dal Preludio:
Una mano di Dazai gli strinse il braccio, mentre le dita dell’altra si aggrapparono alla sua camicia sgualcita sul petto. Il nemico barcollò, ma si rimise in piedi, recuperando una delle proprie pistole.
«Chuuya...» ridacchiò Dazai, fuori luogo. «Di nuovo: ho mai sbagliato nel formulare un piano?»
«Smettila!» e la prima nota di supplica si mischiò alla richiesta. «Non sei lucido!»
Genere: Azione, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Chuuya Nakahara, Osamu Dazai, Sakunosuke Oda
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Capitolo 1

Falling Camellia Blues




 

I feel like throwing up... everything's so out of place in this world!
Not to mention this foolish addiction to fantasy!
Imagine living in this world, free of delusion -
It's boring, isn't it? So how do you like this wild world we have now?
[Trash Candy - Granrodeo]






 

Diverse settimane prima della Notte Nera.

 

Per la seconda volta, la chiamata fu interrotto dalla segreteria telefonica. 

Hirotsu lasciò cadere in terra la sigaretta consumata e la schiacciò con la suola, osservando lo schermo del cellulare oscurarsi. C’erano solo due motivi per cui un agente della Port Mafia non rispondeva al telefono: o aveva tradito, o era morto. 

Accompagnato da un sospiro, Hirotsu fece un cenno a uno dei propri uomini. Un semplice gesto del capo. Questi entrò nel locale chiassoso davanti cui sostavano per avvertire gli altri membri della loro unità. Lo scompiglio provocato da una decina di uomini che si alzavano dai tavoli, lasciando birre e stuzzichini, non passò del tutto inosservato, nonostante fosse un locale appartenente alla mafia con un gran via vai.

«Ohi vecchio, che accidenti succede?» 

Tachihara uscì per ultimo, portandosi dietro il bicchiere di birra, chiudendo la fila di agenti che si rimettevano la giacca e sistemavano la cravatta. 

Hirotsu rimase in silenzio, contemplando il proprio portasigarette, ma lo ripose in tasca invece di accendersene un’altra. Constatò che la propria unità fosse al completo e iniziò ad avviarsi, rispondendo solo all’ultimo. 

«C’è un lavoro che necessita di essere concluso.»

«Eh?» Tachihara non capì e aggrottò la fronte. «Problemi? Serve-»

Hirotsu lo interruppe con il gesto indolente di una mano e il giovane tornò con un Bah nel locale, ordinando a gran voce una porzione di calamari fritti. 



 

La luna piena dominava la volta notturna. Una sera da whiskey e blues, pensò Hirotsu, fermandosi a osservare la porta chiusa della struttura a cui giunsero. Era uno di quei magazzini da cui si poteva godere la vista della baia, e dove la Port Mafia stava concludendo una vendita minore di armi a una seconda organizzazione. Tuttavia, dall’interno non proveniva nessun suono. 

Sempre tramite gesti misurati, Hirotsu fece in modo di disporre i propri uomini, per poi essere lui stesso ad appoggiare la mano sulla porta. Falling Camellia esplose all’istante in una luce violacea. La porta fu divelta e scagliata all’interno con un fracasso metallico. Gli uomini dell’unità della Black Lizard entrarono con le pistole spianate, puntate a coprire a raggiera tutte le direzioni. 

Non c’era nessuno da cui difendersi. L’attenzione dei presenti cadde sulla decina di uomini a terra, morti. Uomini sia della Port Mafia sia dell’organizzazione alleata, con le espressioni congelate dall’inaspettata ombra della morte, e il cui sangue si mescolava sul pavimento senza distinzioni.

La sorpresa di Hirotsu fu percepibile da appena un lampo nello sguardo. Anni in cui scene simili erano all’ordine del giorno gli avevano insegnato a trattenere per sé le emozioni. I suoi occhi si misero in cerca del minimo movimento, il più flebile respiro, ma sapeva bene che i morti non restituivano speranza. 

Un rumore, troppo netto per essere accidentale, attirò la sua attenzione e quella dei suoi uomini; le canne delle pistole scattarono come segugi che scovano la preda, puntate verso la cima di un container in fondo alla stanza. 

C’erano solo un paio di lampadine esauste che gettavano una luce calda nella zona dove sarebbe dovuto avvenire lo scambio e dove si trovavano loro; il resto del magazzino erano spigoli di casse e carcasse di container che sagomavano l’oscurità circostante. Da questo buio emerse la figura di un uomo. 

Ancora una volta, Hirotsu comunicò coi propri uomini con un gesto, ordinando loro di non sparare, ma restare allerta. In pochi passi si portò in testa, osservando il profilo dell’uomo. 

Era alto, fermo in una postura solo all’apparenza rigida, statuaria, in una sorta di riposo militare. Il viso era coperto da una maschera senza tratti che ne caratterizzassero l’espessione. La sua verniciatura vermiglia e opaca era una macchia di colore che si armonizzava con i toni di quella notte. 

«Rivendichi questo massacro?» chiese Hirotsu pacato, con una sorta di educazione nella voce che celava l’intento omicida, promettendo che qualsiasi fosse stata la risposta, quell’uomo mascherato non sarebbe uscito da quel luogo sulle proprie gambe. 

La replica fu un lento assenso col capo. Senza esitazioni o fronzoli, diretto, arrogante, tendente a una beffa. 

Hirotsu assottigliò lo sguardo e la sua mano alta, che teneva pronti i propri sottoposti, calò come una ghigliottina in un verdetto senza appello. Diede ordine di aprire il fuoco e il magazzino assistette all’ennesima sparatoria. 

All’ennesimo massacro. 

In pochi secondi, senza alcuna poesia, sotto una luna che osservava la scena dalle vetrate rotte sul tetto del magazzino, la prima avanguardia della Port Mafia cadde a terra come le tessere di un domino, uno dopo l’altro, avendo appena il tempo di contrarre i muscoli del viso in un’ultima maschera di stupore e terrore. 

Neanche Hirotsu poté nulla. Pochi, inarrestabili istanti, e fu messo in ginocchio, sconfitto, ma consapevole di essere ancora vivo, di non aver ricevuto lo stesso trattamento dei propri sottoposti. L’uomo con la maschera rossa troneggiò davanti davanti a lui, silenzioso quanto rapida e mortale era stata la sua offensiva. 

«Cosa… vuoi?» 

Le parole uscirono con difficoltà da Hirotsu. Non sarebbe morto, non se avesse avvertito qualcuno di lì a manciate di secondi. Osservare il proprio avversario gli fece capire che quello sarebbe stato il suo compito. Consegnare un messaggio.

Muovendosi senza alcun interesse tra i corpi esamini in terra, come fossero stati giocattoli abbandonati da un bambino, l’uomo con la maschera raggiunse una parete del magazzino e raccolse qualcosa da terra: una bomboletta spray che aveva l’aria di essere stata sistemata lì dall’inizio, passata inosservata rispetto ai cadaveri. Sull’intonaco scrostato del muro, usurato dal tempo e da fori di proiettile di altre trattative finite male, lo sconosciuto tracciò due tratti. Una diagonale dall’alto verso il basso e una dal basso verso l’alto. 

Quando si allontanò, uscendo dal magazzino senza voltarsi, Hirotsu mise a fuoco il messaggio che aveva lasciato. Rivoletti di vernice rossa scendevano lenti verso il basso, due tratti formavano una grossa V. Un’unica lettera come spiegazione a due dozzine di morti in terra. 

Hirotsu si portò tremante il cellulare all’orecchio. Non ascoltò chi gli rispose, ma fece solo quello per cui gli era stato lasciato fiato in corpo. 

«Abbiamo un problema.»



 

* * *



 

«Ahiahiahiahiahi

«Smettila di lamentarti!»

«Come posso se mi stai tirando un ore- AHIA!»

Atsushi si sentiva il solito, silenzioso e imbarazzato spettatore dell’ennesimo siparietto tra Dazai e Kunikida. Fermo con le mani a mezz’aria sulla tastiera del portatile, la giovane Tigre Mannara assistette al teatrino con un sorriso di circostanza e la voglia di alzarsi e uscire, ma sapeva che di lì a poco il tutto sarebbe tornato alla calma e avrebbe dovuto concludere il proprio rapporto. 

Kunikida aveva afferrato Dazai per l’orecchio dopo il suo terzo tentativo di fuga. Tentativo di fuga tramite la finestra del quarto piano. La giustificazione di Dazai era stata Guardate che magnifico pomeriggio di inizio primavera! Il sole è caldo, gli uccellini cantano, sarebbe un peccato non tentare di suicidarsi in questa atmosfera paradisiaca! 

Il tutto era finito con Dazai ributtato a sedere sulla sedia della sua scrivania, le mani a tenersi l’orecchio offeso e un labbro inferiore sporto in avanti come un bambino messo in punizione. Nulla mosse a compassione Kunikida; Atsushi lo osservò con un vago senso di turbamento quando abbatté sulla scrivania del partner una pila di fascicoli alta un metro. 

«Lavora.»

Diretto e conciso. 

«Sei un dittatore, Kunikida-kuuuuun!» si lamentò Dazai un’ultima volta, facendo capolino dal lato libero della pila che ostruiva la vista. Kunikida era già rientrato nella modalità lavoro frenetico e non gli prestò alcuna attenzione.

Anche se Atsushi aveva sulla punta della lingua la voglia di dire qualcosa, se la tenne per sé: avrebbe potuto dare un nuovo appiglio a Dazai per distrarsi e Kunikida se la sarebbe presa anche con lui. Fece quindi finta di nulla, anche se gettò un paio di occhiate curiose mentre il mentore iniziava ad aprire i fascicoli, dava loro una letta e poi li buttava di lato. 

La scrivania divenne presto un casino di fogli sparsi, cartelline reimpilate alla peggio, ma da Dazai non si sentì proferire parola per diversi minuti. A parlare sembrava essere il continuo aggrottarsi della sua fronte ogni tot documenti. 

«Atsushi-kuuuun~» esordì allegro col suo tono stucchevole, facendo trasalire il ragazzo. Aveva diviso dalla pila principale una più piccola, che continuava a risfogliare disordinatamente. «Mi porteresti una cartina di Yokohama?» 

Dopo l’iniziale disorientamento, Atsushi assentì e si alzò. 

Con la cartina spianata sulla scrivania, quello che Dazai iniziò a fare attirò più di uno sguardo. Atsushi era tornato seguito da Kyouka e dai Tanizaki. Kunikida non fu da meno a interessarsi alla situazione, anche se il suo cipiglio settico avanzava un chiaro Smettila di perdere tempo.  

«Kunikida-kun non ti impicciare! Sicuramente avrai cose più importanti a cui badare» cantilenò Dazai, pennarello in una mano, mentre con le dita dell’altra prendeva alcuni dei rapporti. Ricevette uno sbuffo alterato, ma questo non distolse il partner dall’osservarlo a braccia conserte e un’occhiata comunque curiosa, per quanto severa.

Il risultato fu una serie di luoghi cerchiati sulla cartina di Yokohama. Tutti in periferia, tutti distanti tra loro, che scendevano dalla parte Nord, passando ai moli a Est, poi a Sud, fino a risalire dalla zona Ovest. L’ultimo tratto che mise Dazai, però, fu la figura che se ne ricavava: tracciò una curva, unendo tra loro tutti quei posti fino a formare un cerchio. 

«Che cosa significa?» 

Kunikida fu il primo a esprimersi nel silenzio contemplativo generale. Dazai fece spallucce. 

«Immagino nulla, se a uno non piacciono le coincidenze.» 

Il guizzo degli occhi chiari di Kunikida lo esortò a continuare. «Che intendi?»

Con uno dei suoi sorrisetti divertiti dalla situazione, Dazai picchiettò con un dito sui fascicoli che aveva estratto dalla pila principale. «Vorrei sottolineare prima di tutto lo spreco di carta. Dovremmo convertire tutto al digitale. Ma prima che ti alteri» riprese, stirando ancora di più le labbra all’espressione contrita del partner. «Sono per lo più segnalazioni innocue.» 

Dazai prese in mano i fogli, si schiarì la voce e iniziò a leggere scimmiottando un tono serio che ricordava vagamente Kunikida, e che fece scappare un inizio di risata agli altri. 

«Appartamento disabitato con porta sfondata, mobili a soqquadro e distrutti, ma non manca nulla. Atto di vandalismo in un magazzino vuoto e principio di incendio sventato prima di danni seri, nessun ferito. Effrazione in un negozio chiuso da qualche anno… eccetera eccetera.»

«Quale dovrebbe essere la coincidenza?» incalzò Kunikida, col tono di qualcuno che pensa di aver perso tempo. 

Dazai sorrise, anche troppo allegro, abbandonando i fogli e puntando il dito su uno dei cerchietti segnati sulla cartina. Il suo tono cambiò in uno più dolce, sporcato di malizia. 

«Casa sicura per i gradi inferiori della Port Mafia, in caso di problemi con organizzazioni minori» iniziò, per poi spostare il dito al cerchietto successivo. «Magazzino con sotterraneo segreto adibito ad armeria. Non ha mai avuto una gran sicurezza perché lo si usa per lo più come deposito temporaneo per lo stoccaggio di armi di basso-medio valore e trattative veloci.» Di nuovo, seguendo la curva del cerchio più grande si spostò su un altro luogo. «Questo negozio è un avamposto di comodo per scambio di merci dal mercato nero, ma sempre di piccoli affari.»

Una serie di fronti aggrottate stavano fissando Dazai e il suo dito muoversi sulla cartina. Kunikida lo interruppe di nuovo, abbandonando lo scetticismo. «Stai dicendo che sono tutti posti legati alla mafia?»

«Aha. Per lo più di poco utilizzo e valore.»

Il partner afferrò i fogli dei fascicoli, dando loro una sfogliata veloce. «La polizia non ha trovato nulla, nessuna rivendicazioni, nessun oggetto mancante, tracce o...»

«La Port Mafia starà insabbiando gli accaduti. Queste rappresaglie non gli fanno una pubblicità positiva.»

«Dobbiamo andare a controllare.»

Dazai sbuffò, buttandosi contro lo schienale della sedia. «Sarebbe inutile, stancante e tremendamente noioso! La Port Mafia starà usando gli Spazzini, la sua unità per la pulizia profonda dopo casini o omicidi… dovresti chiedere alla polizia di prestarti la scientifica… altre scartoffie!»

«Dazai ha ragione.» 

Sorprendendo tutti, a parlare fu Kyouka, gli occhi fissi sui cerchietti della cartina. «Se la Port Mafia usa gli Spazzini non troveremo nulla. La tattica migliore è aspettare che facciano un passo falso, e allora...» 

Il suo discorso si concluse con un gesto secco: estrasse il proprio pugnale e simulò di conficcarlo in qualcosa. Al suo fianco, Atsushi trasalì, per poi pregarla di mettere via l’arma. 

«A volte dimentico che sei stata nella Mafia anche tu» ridacchia Dazai, per poi tornare a fissare il partner. «Dai retta almeno a lei, visto che non ti fidi di me!» e nel dirlo, fece tornare il suo labbro sporto e imbronciato. Durò il tempo di ricevere uno sbuffante «Va bene. Hai qualche idea in merito?» e Dazai si fece serio, contemplando la cartina. «Potrebbero essere atti di intimidazione di una qualche organizzazione periferica, non sarebbe la prima volta. Sono stati scelti tutti punti distanti dal centro dei traffici veri e più fruttuosi. Oppure...»

La frase, lasciata volutamente in sospeso, e l’espressione meditabonda di Dazai fecero cadere il piccolo pubblico di detective nella trappola del volerne sapere di più. «Oppure…?»

«Guardate meglio! È un cerchio! Potrebbe essere l’inizio di un pentacolo e di sacrifici umani!» 

Kunikida lo zittì con un pugno in testa, riprendendo subito dopo il proprio contegno e dando un’altra occhiata ai fascicoli, in cerca di qualcos’altro. 

«Se non ci sono stati morti non sarà nulla di grave, no…?» intervenne Atsushi, guardando gli altri. 

«Lavare il sangue non è facile» asserì Kyouka. 

«Ma fattibile» rincarò Dazai, picchiettandosi il mento col pollice. «Va bene, ho un’idea. Faccio una telefonata.»

«A chi?» Kunikida lo guardò senza capire, mentre Dazai aveva già incastrato la cornetta del telefono tra l’orecchio e la spalla e digitava un numero a memoria. 

«Alla Port Mafia, no? Chiediamo direttamente a loro se è solo una svista tra bande o se si stanno preparando a un rito satanico.»

Come il pomeriggio era iniziato con un siparietto nella norma tra Kunikida e Dazai, così finì allo stesso modo, con le mani del primo strette intorno al collo del secondo. 

«Come ti viene in mente di chiamare la Port Mafia dal telefono dell’Agenzia!?»




 

Dazai uscì dall’Agenzia con un lungo sospiro di stanchezza, stiracchiandosi in più movimenti che lo fecero scricchiolare. Dietro di lui, Atsushi e Kyouka lo seguivano in un silenzio altrettanto provato dalla giornata. 

Il sole era basso sull’orizzonte, irradiando Yokohama con gli ultimi raggi tiepidi e aranciati del giorno. Nell’aria si respirava già la frescura della sera e della notte in arrivo. Era una delle prime giornate primaverili di quell’anno e il tepore aveva coccolato i sensi intorpiditi dall’inverno uscente. Esclusa la parentesi sui casi sospetti scovati da Dazai, la giornata lavorativa era stata estenuante e ripetitiva nel compilare verbali, e il risultato erano due assonnati Atsushi e Kyouka che discutevano sulla cosa più veloce da cucinare per andare poi a dormire. 

«E chi ha voglia di cucinare» mugugnò Dazai, cercando di rilassare i muscoli del collo, muovendo la testa da un lato all’altro. «Il bello di essere adulti è fermarsi a mangiare in un posto qualsiasi e farsi servire tutto quello che non si ha voglia di cucinare!» E nel dirlo, indicò l’insegna di un locale su uno dei palazzi vicini. La sua espressione furba da piano geniale andò a cozzare con il viso statico di Kyouka e il sospiro sconsolato di Atsushi. 

«Quello è un locale dove si beve...» disse smorzato quest’ultimo, abituato anche a quelle uscite di Dazai sulla via del ritorno. «Kyouka non può entrarci.»

«Non è un problema» disse subito lei, alzando lo sguardo impassibile. «Quando ero nella Port Mafia lavoravo in un bordello nei weekend.»

«Che cosa!?» sbottò sconvolto Atsushi, arrossendo furiosamente. «In un… in un...»

Kyouka alzò le spalle con nonchalance. «Aiutavo al bar riempiendo le lavastogli e ritiravo il bucato.»

«Al Golden Pavillion o al Blue Fox?» chiese Dazai, curioso. 

«Al Rouge.»

«Ah, era ancora in costruzione quando me ne sono andato io, ma lo gestiva sempre Ane-san, quindi immagino che i comfort e gli standard siano gli stessi degli altri due. Sempre divani comodi per dormire?» 

Kyouka annuì. 

«Cucina giapponese e francese?»

Kyouka annuì di nuovo. 

«Sigh… mi è quasi venuta voglia di camuffarmi e imbucarmi, magari una delle ragazze vorrà suicidarsi con me, dopo avermi servito sake e granchio...»

«Basta così!» si intromise Atsushi, poggiando le mani sulle spalle di Kyouka e starnazzando come una chioccia, ancora rosso in faccia. «N-non si parla più di bordelli! Andiamo a casa!» E spinse Kyouka finché non superarono Dazai, che li salutò con la mano. 

Appena i due furono spariti alla vista, Dazai tenne fede alla propria idea ed entrò nel locale che aveva indicato. Si scelse un posto tranquillo, con una finestra da cui si vedeva il mare, e ordinò sia sake sia granchio, facendo due moine alla cameriera, che gli schiacciò le dita col vassoio. Quando fu solo tirò fuori il cellulare. 

Digitò di nuovo un numero a memoria, lo stesso che Kunikida gli aveva impedito di fare in Agenzia. Gli squilli si susseguirono tra di loro, ma nessuno rispose e questo insospettì Dazai. Se un agente della mafia non risponde, o ha tradito, o… pensò, fissando la linea dell’orizzonte dove mare e cielo si incontravano. 

Al secondo tentativo, la chiamata fu accettata. 

«Ehi, Hi-» tentò di dire Dazai nel suo tono gioviale, ma il suo interlocutore lo interruppe sul nascere. 

«Non so chi sei o dove tu abbia preso questo numero, ma dimenticalo e non ti succederà niente.»

La perplessità sbocciò sul viso di Dazai prima che il suo cervello elaborasse. 

«… Chuuya?»

«… aha? Dazai!?»

«Cos’è successo a Hirotsu?» 

Se per un attimo Dazai era rimasto interdetto, la sua postura si raddrizzò e il tono si fece più basso e serio. Il numero che aveva chiamato era di Hirotsu. Se non era lui a rispondere, doveva essere successo qualcosa. 

«Non sono affari tuoi» tagliò corto il suo ex partner.

«È vivo?»

«Sì. Non è messo bene, ma vivrà» sbuffò Chuuya in tono spazientito, senza alcuna voglia di sostenere una conversazione del genere. 

Dazai non lo lasciò continuare. «Qualcuno sta attaccando luoghi minori appartenenti alla Port Mafia. Ho contato dieci incursioni, ma probabilmente qualcuna siete riusciti a coprirla prima, ho ragione?»

«...»

Alla mancanza di replica del proprio ex partner, Dazai stirò le labbra, ma con scarsa soddisfazione. «Cosa sta succedendo?»

Dal ricevitore del telefono, Dazai avvertì Chuuya prendere un lungo respiro. «Sai stronzo, a me è chiaro da quattro anni che tu sei fuori dalla Port Mafia. Mi hai fatto saltare per aria la macchina, hai fatto in modo che nessuno potesse anche solo pensare di prendere il tuo posto e ti sei rifatto una vita all’Agenzia. A te invece è chiaro che non. Sono. Più. Affari. Tuoi?»

«Quando inizi a scandire le cose significa che la faccenda ti sta irritando e non ne hai il controllo. Che significa finirà col peggiorare. È uno scontro tra organizzazioni? Un’altra Testa di Drago nell’aria e Hirotsu ne è stato il messaggero?»

«Fottiti Dazai! Ma perché sto ancora parlando con te!?»

«Ci saranno dei morti.»

«Ci sono dei morti.»

Dazai chiuse gli occhi. Come lui e Kyouka avevano ipotizzato. Spazzini

«Capisco. Mi dispiace» disse ed era sincero. 

«Risparmiatelo e falla finita.» 

Chuuya imprecò di nuovo. Da come la sua voce giunse lontana, Dazai non faticò a immaginarlo sul punto di lanciare il cellulare di Hirotsu contro una parete. «Tra qualche giorno sarà tutto dimenticato» aggiunse alla fine, tra i denti. 

Dazai fece due più due. «Avete sguinzagliato Akutagawa.»

Chuuya riattaccò.



 

To be continued



 

Spazio autore 

 

Hello hello hello. 

Meditavo dall’inizio di aggiornare col capitolo uno presto e non aspettare una settimana e oggi è stata una giornatina importante, quindi festeggiamo! 

Questo è in assoluto il primo capitolo della storia che ho scritto - e si sente XD 

Un po’ il C’era una volta… di questa fanfic. Solo il primo pezzo del puzzle. Probabilmente anche uno dei capitoli più lentini perché è l’inizio. La storia in sé avrà dei ritmi abbastanza spediti.

Nota importante, perché me sa che l’altra volta mi sono scordata XD 

Questa fanfiction si svolge dopo la S3, ma è una sorta di alternativa all’arco narrativo attualmente on going. Ci saranno comunque molti dei personaggi spoiler (per chi segue solo l’anime) e riferimenti a quello che sta succedendo ora nel manga. 

 

Poche noie UU/

 

A presto!

Pagina autore su FB: Nefelibata ~ @EneriMess




Prossimo capitolo → The Lawbringer
   
 
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