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Autore: paige95    13/09/2020    5 recensioni
La guerra in Afghanistan è il filo rosso che lega il destino di due uomini e due famiglie, due mondi distanti che non sanno di essere molto vicini tra loro.
Nell'estate del 2018, in pieno conflitto, il tenente comandante dei Navy SEALs Christian Richardson e l'inviato speciale del Los Angeles Times Samuel Clark verranno chiamati al fronte, lasciandosi alle spalle vissuti, affetti e i vasti territori californiani.
[Questa storia partecipa al contest "Chi ben comincia è a metà del prologo" indetto da BessieB sul forum di EFP]
Genere: Angst, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Destino'
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La morte è solo un'incognita
 
 

Ospedale da campo – Kabul, 11 settembre 2018

 

Gwendoline stava rispecchiando la sua immagine disordinata in un bacile di acqua fredda, gelida come l’atmosfera che la circondava e come il sangue nelle sue vene. I capelli dorati - che era solita raccogliere in una coda di cavallo o in un morbido chignon - ricadevano a ciocche sparse sulle spalle minute. Il volto della ragazza era coperto di fuliggine, fregava la pelle con entrambi i palmi per liberarsi dal nero della combustione, ma si sentiva sempre macchiata, come se le ultime ore della sua vita fossero destinate a stamparsi per sempre sulla sua anima. La carnagione chiara era marchiata dagli evidenti segni di ciò che aveva vissuto, a partire da una stretta fasciatura all’altezza del ginocchio sinistro. Era pallida e infreddolita. Christian si era premurato di avvolgerle le spalle con la giacca della sua divisa, di cui era tornato in possesso svestendo i panni dell'infiltrato; la ragazza si stringeva dentro la stoffa pesante dell’uniforme, si faceva piccola piccola per cercare calore umano e conforto. L’emorragia aveva causato alla recluta una leggera ipotermia, erano stati scongiurati lo stato più grave e le possibili conseguenze grazie alla prontezza dei medici, i quali l’avevano presa in carico con un codice rosso. La ragazza stava ancora male, era reduce dall’operazione, era scossa per l’esperienza di morte e devastazione a cui era stata costretta ad assistere, aveva visto un uomo morire, la sua anima era ferita, ma soprattutto era in soggezione al cospetto del silenzio del suo superiore. Si stava sciogliendo dal torpore dell’anestesia, le doleva ogni parte del corpo, ma il cuore in particolare non aveva smesso di fremere; sgorgavano lacrime dai suoi occhi e lei non sapeva come controllare un pianto sopito, un semplice sfogo di nervi che non deformava la sua espressione impassibile, severa eredità dell’addestramento in caserma. L’acqua scioglieva il sale sulle guance, purificava la pelle, camuffava i sentimenti del soldato Ward.
Lo sguardo più attento del tenente avrebbe colto gli occhi arrossati della ragazza, avrebbe accolto lo stato emotivo del sottoposto; nella medesima stanza in cui entrambi si trovavano, l'aveva lasciata da sola a ricomporre i pezzi della sua coscienza, frantumata a seguito dell'ultima esplosione. Non vi erano cattive intenzioni nella mente del seal, la riflessione aveva avuto il sopravvento dopo essersi preso cura del risveglio tormentato della giovane e averle fornito tutto l’occorrente per farla sentire a suo agio. Christian era appoggiato a braccia conserte allo stipite della porta del capanno nel quale era stato insediato l’ospedale da campo; il petto era scoperto, sotto la divisa che aveva offerto a Gwendoline non indossava altri indumenti, nonostante ciò sudava, dopo il calore provato tra le fiamme della moschea non riusciva a trovare refrigerio. Ammirava il cielo con disincanto, le nuvole stavano diventando minacciose, erano gonfie di scariche elettriche e di pianto per le nuove anime che avevano attraversato di recente la volta celeste per non fare più ritorno. L’estate stava lasciando il posto a correnti più fresche; anche in Afghanistan, dove la vita sembrava avere ogni giorno un arresto violento, le stagioni si susseguivano con naturalezza, esattamente come nella sua amata San Diego, un pensiero che lo trasportò tra i lidi familiari dell’Oceano Pacifico. Benché fosse un veterano, le immagini dell’ultimo attentato tornarono vivide nella sua mente; l’ennesima carneficina si era consumata e aveva sterminato un numero indefinito di civili, le autorità locali erano ancora impegnate nella conta delle vittime. Se si fosse fermato a pensare più del necessario, la testa sarebbe scoppiata. Era stata una magra consolazione salvare un piccolo orfanello strappato dalle grinfie di una violenza cieca; era certo che si trovasse al sicuro, si era premurato lui stesso di fornirgli un alloggio più sereno. Dopo aver scorto gli occhi smorti del bambino - uno sguardo che avrebbe dovuto essere vivace e gioioso -, l’idea di poter accostare l’arrivo di un nuovo membro nella sua famiglia con la salvezza di quel bambino lo abbagliò di speranza; si ripromise di proporre a sua moglie l'adozione di un piccolo bisognoso di affetto, se mai un giorno avesse avuto l'occasione di scrutare i suoi occhi smeraldini, quello stesso giorno avrebbe rappresentato per loro e per lui un nuovo inizio.
Un palmo morbido e delicato sfiorò la spalla nuda di Christian alla ricerca di un appoggio. Gwendoline aveva raggiunto il superiore, zoppicando e sfruttando qualsiasi appiglio si trovasse sulla sua strada, ma il suo equilibrio continuava ad essere precario, era impensabile fare pressione sulla gamba ferita. I riflessi lucidi del seal la ressero appena in tempo, l’uomo la trattenne afferrandola per le spalle, in caso contrario avrebbe rischiato una rovinosa caduta. La recluta aveva riportato il tenente alla realtà in modo brusco.
«Ehi. Non dovresti alzarti, i medici hanno raccomandato riposo»
Le venne quasi da ridere, in Afghanistan non c’era tempo per il riposo, lui avrebbe dovuto ben saperlo; le poche ore di sonno notturno erano un evento raro tra il turno di guardie, le emergenze e l’anima costantemente scossa e altalenante tra timori ed esperienze al limite dell'umanità. La recluta si divincolò dalla presa dell'ufficiale e sfruttò lo stipite opposto della porta per sorreggersi; fece scivolare la divisa graduata dalle sue spalle - non le apparteneva - e la porse all'uomo con gratitudine.
«Si copra, capitano, rischia un raffreddore a causa mia. Io sto bene»
«Non stai affatto bene, Gwen»
Il tenente non accolse la premura del sottoposto. Ogni volta che i loro sguardi si sfioravano, racchiudevano tutto tranne l’immagine dell’altro, quanto piuttosto i ricordi che condividevano da poco meno di un mese, il rapporto con il sergente Ward, gli ideali che attraversavano i loro cuori, mai scontati tra i soldati. Christian non conosceva il motivo che vi era stato alla base dell’ordine del generale Flores, non riusciva a spiegarsi per quale ragione avesse ordinato ai suoi uomini di gettarsi alla caccia della bomba; era sicuro del fatto che, al pari di Gwendoline, non desiderasse più perdere persone care, il destino aveva remato contro di lui per troppe lune. Aveva riflettuto con attenzione per ore ed era giunto alla conclusione più logica e meno dolorosa per ognuno di loro; non fu in grado di incrociare lo sguardo della giovane, l'idea di separarsi da colei che era diventata, oltre ogni formalismo, un'amica - nonostante entrambi celassero nel cuore quel legame - non lo lasciava indifferente, eppure era consapevole del fatto che fosse un passo necessario. Non era certo che Flores fosse orgoglioso di lui, non riusciva a comprendere se, anche in quell'occasione, i sentimenti gli avessero giocato un brutto tiro.
«Il fronte non è il luogo per una donna»
«Capitano …»
«No, lasciami finire. Ti sto dicendo che la sensibilità femminile soffre troppo davanti a questa violenza inaudita. Gwen, ti hanno operata quattro ore fa e hai avuto un sonno molto agitato, lo so, sono stato per buona parte del tempo al tuo fianco. Io non voglio che tu stia male e non voglio più rischiare che tu muoia»
Gwen non riusciva ad interpretare le parole del capitano, era indecisa sulla reazione; confusione, gratitudine, delusione e onore si frapposero nel suo petto. Christian aveva rivolto lo sguardo al cielo; non era facile proporre un congedo ad una donna tenace e coraggiosa, al soldato più valoroso che lui avesse mai conosciuto.
«Mio padre aveva ragione, il suo cuore è nobile. Ma è anche un po’ ingenuo, capitano, se pensa che io mi arrenderò alla prima difficoltà»
Il tenente abbassò lo sguardo sul sorriso beffardo della ragazza; non vi era stupore nel seal, anzi una parte della sua coscienza lo aveva anche previsto, sperarlo sarebbe stato da egoista. Gwendoline si avvicinò a fatica e gli posò lei stessa la divisa sulle spalle; i loro sguardi si incatenarono per una frazione di secondo, le iridi del sergente Ward fiammeggiavano di determinazione sul viso della figlia. Christian la sentiva vicina come mai prima, percepiva che il loro rapporto stava diventando unico nel suo genere; era una complice in campo, un'anima nella quale cercare conforto quando la malinconia di casa risuonava più forte e la resa incombeva sulle loro teste. Aveva creduto che un animo fine avrebbe potuto spezzarsi più facilmente ai limiti della crudeltà, invece era proprio nella fragilità femminile a risiedere la vera forza dello spirito. Lei stava guidando lui e non il contrario, non era certo che lei lo avesse capito, ma non si sarebbe sognato di rivelarlo, avrebbe colto l'occasione di prendersi gioco di lui, esattamente come durante il loro primo incontro.

 
“Barkclay, saresti stato orgoglioso di lei”
 
Christian sorrise fiero e preoccupato, era diventato veicolo degli stessi sentimenti che avrebbe provato il padre nei confronti della recluta se fosse stato ancora tra loro; in fondo il tenente era padre e poteva condividere buona parte dei sentimenti di un genitore. Seguiva i passi del giovane soldato in silenzio, mentre si avviava verso il letto sopportando con dignità il dolore all'arto ferito; a metà strada l'ufficiale si decise a raggiungerla; la aiutò invitandola a circondare il suo collo con il braccio, la accompagnò fino al bordo del letto dove poté tornare ad accomodarsi riscoprendo un po' di sollievo dalla sofferenza fisica. Era ancora a pochi centimetri dal viso della ragazza, riuscivano a percepire i loro reciproci respiri, affannati dall’adrenalina della giornata. Fu in quel piccolo angolo di riservatezza tra superiore e sottoposto che Gwendoline rivolse una promessa al seal, dal quale prendeva con fierezza ordini, e a se stessa.
«Non la abbandonerò, capitano. Non lascerò Alex nelle loro mani. Vivo o morto lo voglio rivedere»
Il tenente lasciò che il braccio della ragazza scivolasse piano dal suo collo. Riprese possesso della sua divisa, la infilò e si premurò di allacciare ogni singolo bottone con un sorriso malinconico sul volto.
«Ti ho sottovalutata»
«Mi ha salvata, la ringrazio. L’imam è morto, vero? Stavo parlando con lui, poi credo di essere svenuta. Ricordo solo le sue braccia che mi sorreggevano»
La imbarazzava pensare ad una certa promiscuità tra loro, a quel tipo di vicinanza, eppure era consapevole che senza il suo tempestivo intervento sarebbe morta con ogni probabilità.
«Hanno spento l’incendio. Ho preferito occuparmi della tua ferita, l’ho fasciata con ciò che avevo a disposizione e ti ho accompagnata in ospedale»
«Le devo la vita»
«Non mi devi nulla»
Christian infilò una mano nella tasca alta dell'uniforme ormai del tutto chiusa sul petto ed estrasse un oggetto: era un semplice sasso, liscio e piatto al tatto. Appena Gwen lo vide, sorrise commossa, era quasi divertita; sul viso della recluta si scavarono un paio di fossette ai lati della bocca per la prima volta dopo diverso tempo. Il tenente rivide in lei l'espressione della giovane innamorata e inesperta della vita.
«Ti è caduto dalla tasca. Immagino abbia un valore affettivo»
«È di Alexander. Mi ha promesso che tornati in America mi avrebbe insegnato rimbalzello sull’Hudson. È stupido, lo so»
Lei lo recuperò dalle mani dell'uomo e lo strinse nel suo palmo, come se fosse in grado di infonderle coraggio, le parve così di sentire più vicino quel ragazzo; ricordare i loro ultimi dialoghi, le promesse di felicità e di serenità avevano un profumo di normalità.
«No, non lo è. Ti prendo un po’ d’acqua per sciacquarti la gola, sarà secca dopo tutte queste ore»
Rimase sola e gettò uno sguardo verso il cielo, stringendo più forte il sassolino; una lacrima tornò a percorrere il suo viso, ma stavolta l’acqua non la fermò. Si chiese se lei e Alex si trovassero ancora sotto la stessa volta celeste o se lui fosse passato ad una vita migliore; in quel caso, immersa nello squallore dell’Afghanistan, un po’ lo avrebbe invidiato.


 

Periferia Ovest di Kabul, 11 settembre 2018

 
Karim era a disagio, non ricordava l’ultima volta che qualcuno si fosse preso cura di lui; era un'abitudine che non era solito vivere, era molto più facile il contrario, anzi il medico di Herat lo apprezzava maggiormente. Era nato e cresciuto in una famiglia molto numerosa, prendersi cura del prossimo era una vocazione, una predisposizione maturata fin dalla più tenera età. Per compensare il dolore provocato dall'improvvisa solitudine, si era imposto di non inaridire la sua anima, gli era stato insegnato a non lasciarsi trascinare dall'odio che il cuore umano talvolta generava; aveva perso buona parte della sua famiglia, la guerra in corso aveva disperso i sopravvissuti, ma lui non si era mai arreso alla vita e aveva sempre cercato di strappare quante più anime possibili alla morte. Aveva sempre riscoperto un atteggiamento ottimista, anche il più flebile alito di vita era sinonimo di speranza e lui non si arrendeva prima che l'evidenza dichiarasse il decesso più veloce di quanto avrebbe potuto fare lui.
Samuel non lo aveva abbandonato, aveva rischiato al suo fianco e da buon amico aveva mosso le redini della sua situazione sanitaria - nonostante la sua inesperienza - , molto difficile da gestire in territori bellici; da medico conosceva il valore dei farmaci, la carenza di essi li aveva resi molto più preziosi e introvabili. Il dottore del piccolo e sperduto villaggio sentiva di aver sacrificato un’anima bisognosa per salvare la propria vita; il giovane reporter lo aveva rassicurato, avrebbe potuto salvare molte più vite in salute, senza di lui la sua gente non avrebbe avuto alcuna speranza di sopravvivenza, gli ospedali erano distanti e inagibili, spesso impreparati, lui era necessario per un primo soccorso che avrebbe potuto fare la differenza tra la vita e un'atroce morte. Dopo diverso tempo, il giornalista americano era stato il primo a farlo sentire meno solo, aveva scoperto una spalla su cui contare e non era una sensazione così spiacevole; di norma era lui un valido sostegno per gli altri. Samuel era un dono che il cielo aveva deciso di mandare loro, un segno, la conferma che l'umanità non aveva del tutto abbandonato Kabul e il giovane era la differenza necessaria per continuare a credere nella bontà del genere umano.
Era ancora convalescente, ma sentiva che le forze si stavano rigenerando velocemente nei muscoli e nelle vene; non era mai stato privo di tenacia, se così non fosse stato non avrebbe mai potuto attraversare indenne - nel corpo, meno nel cuore - diciassette anni di conflitto. Era vivo, respirava ancora, qualcuno oltre la volta celeste gli aveva concesso una seconda possibilità, aveva deciso che dovesse continuare il servizio presso la sua popolazione; era convinto che Dio avesse posto una mano sul suo capo e lo avesse protetto, unico effimero appiglio quando ogni bene materiale e spirituale veniva a mancare e persino la speranza minacciava di abbandonarli. 
A fatica si diede la spinta per sollevarsi dalla posizione supina dopo un lungo riposo, da tempo non toccava il suolo freddo con i piedi scalzi; sentì la colonna vertebrale scricchiolare leggermente, fu una sensazione piacevole, sinonimo di rinascita, qualcosa dopo giorni difficili stava cambiando, avvertiva chiaro un miglioramento nel suo fisico, il peggio era passato. Da medico era consapevole che qualche ulteriore giorno avrebbe giovato alla sua ripresa; era ancora molto debole, l'equilibrio non era stabile, rischiava una ricaduta, eppure accantonò le sue stesse raccomandazioni, la sua impotenza era durata fin troppo.
«Karim!»
La voce affannata di Maryam interruppe la sua concentrazione e catturò la sua attenzione. La ragazza si era affacciata con furia alla porta mezza diroccata, lasciata spalancata da Samuel; aveva il niqāb slacciato all’altezza delle labbra e lacrime cariche di dolore che sgorgavano senza alcun freno. Non era solita mostrarsi in quello stato; dava l'impressione di aver corso, scoprire le vie aree era stata per lei una questione di sopravvivenza preda dell'affanno e del pianto sconsolato. Karim riusciva a scorgere il volto arrossato dell'amica; qualcosa non andava e iniziava ad essere coinvolto nella medesima ansia dipinta nello sguardo innocente della giovane.
«L’imam è morto. Karim, c'è stato un attentato in moschea»
«Maryam, calmati»
Si alzò per raggiungerla con grande fatica; dimostrava molto più della sua età in quelle condizioni fisiche, necessitava di sorreggersi ovunque per compiere il breve tragitto. La figura della ragazza era illuminata da una luce insolita; l'azzurro del cielo era coperto da nubi compatte e il leggero chiarore era dovuto alle ore di un metà pomeriggio ancora estivo. Era certo di non contagiarla con la loro vicinanza, gli antibiotici che Samuel si era premurato di somministrargli lo avrebbero impedito, era sicuro che i farmaci avrebbero svolto il loro lavoro, avevano ormai dissolto la carica attiva dell'infezione.
«Non troviamo Hassan. Temiamo sia rimasto coinvolto»
Aveva il fiato mozzato, non respirava, un attacco di panico la stava catturando; si portò la mano al petto e alla base del collo. Il medico si stava allarmando, erano chiari sintomi di un disagio fisico e psichico.
«Maryam, respira»
Provò a calmarla con affetto, le porse una carezza sul viso raccogliendo in parte lo sfogo della sua frustrazione, fece scivolare il palmo sulla sua spalla; stava davvero male, fu tentato di abbracciarla, ma non si spinse oltre, non violò anche quel divieto. Karim temeva un arresto respiratorio, era molto agitata, troppo, serviva un tranquillante di cui lui non era munito.
«Non lo aiuti così»
«S-Samuel lo sta cercando insieme a mio padre. E se … non voglio perderlo»
Piangeva disperata con il volto scoperto; l'amico non scorgeva i suoi lineamenti sotto il velo da quando era diventata una donna e aveva iniziato a perdere le fattezze più infantili.
«Sono certo stia bene. È un bambino in gamba. Maryam, rischi di sentirti male ed io non voglio, non darci altri pensieri»
Era troppo tardi per chiedere al cuore di placarsi, era entrata in un tornado di malessere e da sola non sarebbe stata in grado di vincere. Maryam non era abbastanza forte per lottare contro i tormenti, era debole, possedeva un'anima fragile, crepata da continue sofferenze, ogni parte del suo corpo dichiarò la sconfitta; si accasciò al suolo grezzo, svenne senza preavviso, eppure Karim aveva previsto un simile epilogo. La caduta per la giovane non fu così violenta, l'uomo la attenuò, lasciando che lei scivolasse tra le braccia e si accostasse al pavimento; il medico si era premurato di sorreggere la testa e di soccorrerla con tempestività con le poche forze rimaste in circolo. Samuel li raggiunse nel momento più opportuno.
«Maryam. Cos’ha?»
Karim mantenne il sangue freddo, era una dote che oltrepassava ogni possibile coinvolgimento emotivo.
«Un calo di pressione. Per favore, adagiala sul mio letto, provo a controllare i suoi parametri»
L'americano accolse preoccupato la sua richiesta. Era appena rientrato nel villaggio per comunicare il fallimento delle ricerche; era demoralizzato per la notizia nefasta che avrebbe dovuto comunicare a malincuore alla sorella del piccolo scomparso; credeva ci fosse un limite alla sofferenza e invece in Afghanistan non vi era alcun confine, la sofferenza era sempre dietro l'angolo pronta a svelarsi.
«Tu dovresti riposare, Karim»
«Ti sembra il momento di riposare?»
Non era il tempo di adagiarsi, non lo era da anni. Con cautela Samuel aveva scortato la ragazza nell'abitazione e l'aveva accomodata tra le lenzuola disfatte. Non avrebbe potuto visitarla, era un compito riservato alle donne, ma si avvalse del giuramento che ogni buon medico avrebbe dovuto pronunciare, non poteva e non voleva negare le cure ad alcun essere umano. Il dottore le ascoltò il cuore dal polso e dalla carotide, era flebile, ma non minacciava di abbandonare il suo corpo; era concentrato, ma si rivolse comunque serio a Samuel che era rimasto accanto a loro. 
«Avete trovato il bambino? Temo che Hassan sia la sua migliore cura»
Le controllò le pupille senza il favore della luce, le alzò leggermente le palpebre; era assente e non era certo che svegliarla fosse la soluzione. Le porse una carezza sulla fronte imperlata di sudore, non serviva ad alleviare il malessere, ma le infondeva la vicinanza di un uomo che le voleva davvero bene.
«Non ancora. Non è tubercolosi, vero?»
«No. È colpa delle condizioni in cui viviamo. Ha bisogno di qualche flebo, ma io non ne ho a disposizione»
«Come posso aiutarla?»
Il giornalista sentiva viva sul petto la pressione della giornata, l'impotenza lo stava attanagliando, in poche ore la situazione precaria in cui riversavano era precipitata. Piangere era l'unico modo per sfogarsi, non vedeva altre vie, stavano affondando nelle sabbie mobili e non vi erano appigli.
«Karim, come posso aiutarvi!»
Il medico gli rivolse un dolce e commosso sorriso, scostando per un momento lo sguardo dalla giovane donna.
«Samuel, stai facendo abbastanza per noi. Non puoi sfidare il destino e fermare la guerra»
Quando Karim si voltò di nuovo verso di lei, un dubbio si insinuò nella sua mente. Pronunciò lo stupore tra i denti, la tenerezza lo aveva abbandonato; sperò di sbagliarsi, ma vi erano pochi margini di errore per un uomo che negli anni aveva dovuto soccorre ogni genere di paziente ed era dovuto diventare per necessità qualsiasi specialista nel campo medico, pur di salvare una vita e in molti casi due con lo stesso intervento.
«Non può essere»
Alzò l’orlo laterale del vestito; non si premurò di violare l'intimità della ragazza. Lo vide con orrore; le mura e il soffitto della casa in cui si trovavano si erano avvicinate così tanto a lui, offrendogli la drammatica e soffocante percezione di schiacciarlo, in quel caso sarebbe stato meno doloroso.
«Karim, cosa ti prende?»
Il medico non gli rispose, lo shock si era impossessato di lui, non appena scorse il ventre leggermente gonfio.
«È incinta … Maryam aspetta un bambino»
La sua voce risultò sottile; era preoccupato, rassegnato, scosso. L'incredulità e la delusione vincevano su ogni emozione. Non si era accorto di nulla, eppure si erano incrociati ogni singolo giorno per strada, si confidavano, si confrontavano, parlavano dei timori e delle sofferenze reciproche. Non era deluso da lei, solo da se stesso per non aver capito; era lui l'adulto, era lui il medico, lui avrebbe sempre e solo voluto proteggerla dal mondo in cui vivevano, ma non aveva mai saputo come fare. Era arrivato tardi.
«Non sapevo che avesse una relazione con qualcuno»
Si voltò esasperato verso Samuel, ma era l’ultima persona su cui vomitare ogni genere di frustrazione.
«È una bambina! Era solo una bambina, Samuel, qualche bastardo l’ha … è colpa mia, non ho saputo proteggerla. Non si è confidata con me ed io non l’ho capito»
«Karim, ti sei ammalato gravemente e poi la gravidanza non sembra avanzata, o lo è?»
Il medico negò con un lieve cenno, rassegnato.
«Cosa succede se suo padre lo scopre?»
«Lei è promessa, non decide chi amare. Non capisco per quanto credeva ancora di nasconderlo»
Karim non gli stava dicendo nulla di nuovo. Il fatto di non essere stato in grado di aiutarla e confortarla in un momento drammatico della sua vita feriva l'afghano; era una figlia per lui, qualcuno da difendere, anche a costo di costruire intorno a lei una campana di vetro, finché tutto quell'orrore non fosse cessato. Aveva promesso a lei e a se stesso di farlo, ma aveva miseramente fallito.
«Suo padre la ripudierà, non sono ammesse relazioni prematrimoniali. Questi sono i vostri soldati, pensano di poter fare ciò che vogliono sulle nostre donne. Devono trovare una valvola di sfogo e decidono di sfogarsi su di noi»
Samuel non seppe cosa rispondere. Succedeva anche quello in Afghanistan, ogni giorno scopriva un lato oscuro e terribile di quei luoghi così lontani dalla sua coscienza. L'ufficiale che aveva avuto modo di conoscere non avrebbe mai commesso un crimine così vile e barbaro, non avrebbe mai alzato un dito su una donna; non potevano essere tutti nobili al pari di lui, non tutti gli uomini erano buoni in fondo, la guerra era una prova sufficiente. Ora capiva la poca fiducia di Maryam verso i soldati, capiva le sue parole sulla poca fede nel genere umano. La determinazione di Karim lo riportò al presente; la debolezza fisica aveva in parte abbandonato l'infermo, nel dramma della scoperta fu piacevole leggere tanto ardimento nell'espressione del medico.
«Non mi resta che sposarla prima che la gravidanza si noti, non so in quale altro modo aiutarla. Dirò che il bambino è mio. Avevo già pensato di chiedere la sua mano al padre per salvarla da quell’uomo, così non avrebbe dovuto sopportare un matrimonio poligamo. Con me sarebbe libera, libera di scegliere chi amare, non le rimprovererei nulla»
Era assurdo per Samuel, per proteggere una giovane la soluzione migliore era prenderla in moglie, acquisire ogni diritto su di lei e lasciarla libera di violarli, perché nel caso con il nobile medico di Herat non avrebbe subìto alcuna punizione.


 

Boschi di platano - periferia settentrionale di Kabul, 11 settembre 2018


Il profumo di vegetazione inondava le narici del generale, offriva a Flores la possibilità di sentirsi più uomo e meno soldato. Nessuno dei suoi commilitoni avrebbe sospettato che anche il comandante dell'efficiente unità militare statunitense sentisse la necessità di altro rispetto alla ruvida terra scavata dalle bombe. Indossava gli abiti militari, ma non bruciavano sulla pelle; il sole si era nascosto oltre le nubi. Tutto faceva presagire ad una tormenta: la luce tetra, la brezza fresca, le foglie quasi ingiallite di piante più fragili del platano iniziavano a posarsi leggere al suolo. Non temeva la pioggia, non temeva la tempesta, era stato trapassato da parte a parte dalla peggiore furia che avrebbe potuto vivere, una pallottola gli avrebbe provocato meno cicatrici.
Con l'ausilio di un cortellino svizzero stava incidendo un pezzo di legno; era pervaso da una foga irrazionale e inedita per chiunque lo conoscesse - manteneva i nervi saldi in qualsiasi occasione -, ma non per lui, non in quel giorno. La lama gli scivolò e percorse il suo palmo, recidendo la pelle e incidendo una profonda linea obliqua; non avvertì dolore, vide il sangue macchiare il legno e l'erba sul suolo, ma non se ne curò.

 

Berlino Ovest, 3 gennaio 1985

Sotto la soffitta il vociare persistente di una festa era sfumato dal rintocco dei tasti di un pianoforte, antico ma ancora funzionante. Mark Flores, un giovane appena trentenne di buona famiglia, produceva una lenta melodia seguendo con rigore il pentagramma di un vecchio spartito impolverato, di cui si serviva durante le sue lezioni di musica all’Istituto Julius Stern che aveva frequentato fino al termine dell'adolescenza. Aveva smesso di suonare almeno dieci anni prima, in occasione dell’ultimo anno di guerra in Vietnam; aveva combattuto come soldato tra le fila tedesche e aveva affiancato e supportato gli americani, connazionali della sua famiglia prima del loro trasferimento in Germania negli anni '50. Non andava fiero dei suoi vent'anni e di tutto ciò che aveva compiuto nei dodici mesi del suo arruolamento; era stato consolante tornare in Patria, ma lo sarebbe stato ancor più se ad attenderlo non fosse stato ancora presente lo stato di assedio che si era lasciato alle spalle all'atto della partenza.
Era lieto di festeggiare la mezza età di sua madre, ma necessitava di qualche minuto di pace, lontano dalla folla di amici e parenti. Era diventato un uomo piuttosto solitario dalla sua prima e unica esperienza bellica al fronte; non riusciva a godersi i piaceri della vita come forse avrebbe dovuto. La guerra aveva lasciato ricordi difficili da rimuovere che emergevano nelle giornate meno opportune, in quelle rare occasioni di pace in cui la gioia avrebbe dovuto celare per qualche istante la desolazione che si respirava all'esterno delle abitazioni, specie nella stagione più fredda dell'anno; la coltre bianca al suolo e su ogni tetto attutiva rumori e suoni. Il calore dei cari era l'unica àncora di salvezza, la presenza della famiglia era una fortuna che smorzava malinconia e nostalgia.
Erano in piena Guerra Fredda, la zona occidentale della città era ben distinta da quella orientale attraverso un muro in calcestruzzo, alto nemmeno quattro metri, ma con un grande impatto emotivo sui cittadini. Lui per primo subiva l’influenza della recinzione; dall’altra parte viveva la donna che amava e che non perdeva mai occasione per trasgredire le severe leggi della polizia di frontiera. 

Sapeva di avere lo sguardo della ragazza addosso, proveniva dalla porta, i suoi sensi di militare non lo stavano tradendo. Dopo pochi secondi si avvicinò a lui per affiancarlo sulla panca e sfiorare le dita dell’uomo prima ancora che i tasti bianchi e neri. La giovane conosceva il bisogno di solitudine del fidanzato, ma non poteva lasciare che si abbandonasse a sentimenti grigi. 
«Dovrai insegnarmi prima o poi. E la scusa di aver smesso di suonare non regge con me»
Gli rivolse un dolce sorriso senza smettere di contemplare con aria sognante la lunga tastiera; amava ascoltare le melodie prodotte dal ragazzo, non si sarebbe mai stancata, si lasciava cullare e inabissare dalla delicatezza delle vibrazioni che le mani di lui sapevano infondere nell'atmosfera. Mark non riusciva a togliere gli occhi da lei, dal suo vestito lungo ed elegante, candido come lei. Una ciocca di capelli minacciava di oscurarle il viso; il ragazzo la scostò con dolcezza provocando alla ragazza un brivido e facendola voltare nella sua direzione.
«Te lo insegnerò … ma prima sposami, Isabel»
«Cosa?»
«Ti farebbe piacere essere mia moglie? Mi faresti questo onore? Non ho anelli, nulla, spero tu possa accettare comunque»
Non aveva alcun senso, a loro, che vivevano separati da un muro di cemento, non era consentito unirsi in matrimonio. A lei piaceva sognare, credere che il loro amore fosse sufficiente; lui era felice di assecondarla, accendere uno sguardo sognante sul suo viso perfetto.
«Quando?»
«Domani»
Era la loro promessa di felicità, l'idea che un "domani" per loro ci sarebbe stato davvero, un futuro che avrebbe dato una svolta definitiva alla loro relazione, ad un rapporto solido, a un amore incancellabile. Isabel catturò le labbra del fidanzato in compagnia di scie salmastre che avrebbero offuscato la vista se non avesse abbassato le palpebre per assaporare al meglio quei pochi attimi di spensieratezza. Il loro desiderio non si sarebbe mai realizzato, ma non volevano pensarci, si imponevano di non farlo. Mark aveva combattuto in Vietnam, in un anno di servizio aveva assistito ai peggiori orrori; credeva che il peggio fosse passato e invece era solo ingenuo; aveva lasciato un conflitto per viverne un ennesimo, una guerra silenziosa, bianca, fatta di ribellioni più che di armi, era il desiderio di libertà a spingere al sacrificio, alla lotta, non vi erano ideologie per i cittadini, a scontrarsi per la supremazia erano solo i capi delle nazioni. Era un malessere psicologico più che fisico, era un'agonia che cessava solo con la morte o se si aveva la fortuna di spegnerla tra le braccia della persona amata. 
«Ci sposiamo e scappiamo»
La fece sorridere; non mancava mai di ricordarle che prima o poi sarebbero insieme saliti su un volo con destinazione America, la nazione che era stata la terra promessa per i suoi antenati. Erano soliti ammirare Berlino dal cornicione della soffitta, guardare oltre il muro, sognare la libertà. Quella sera così fredda non ispirava stare seduti fuori a rischiare di infreddolirsi, piuttosto perdersi l’uno tra le braccia dell’altra. La sollevò cingendole le gambe e la schiena, la attirò contro il suo petto e la scortò verso il letto spoglio su cui erano soliti consumare il loro amore; in pochi minuti la solitudine non era più tra i suoi primi desideri, chiedeva una sola e unica compagnia, strappata ad ogni possibile destino funesto. Su quel giaciglio la sovrastò dolcemente con l’unico pensiero di proteggerla, amarla e viverla ancora per una sera che era stata regalata a loro dal fato.

Per colpa dei sentimentalismi aveva perso Isabel. Il cuore si stringeva, la testa girava e la vista si oscurava quando il ricordo del giorno più tragico della sua vita tornava alla memoria; riemergeva come uno tsunami indelebile, un dolore che provocava lacrime ad un uomo che raramente ne conosceva il sapore. Un paio di giorni dopo la proposta di Flores, la ragazza venne fucilata nel tentativo di raggiungere la sua famiglia nella Germania Est; le avevano sparano sotto gli occhi del fidanzato inerme. Ricordava di aver gridato al vento, ricordava il sangue che macchiava la neve candida, i vestiti pesanti non erano riusciti ad attutire i tre colpi di fucile Mondragon che lui riconobbe subito e che rimbombavano ancora nitidi nei timpani dopo trent'anni. L'ultimo ricordo era di una giovane quasi esanime in preda alle convulsioni per un'emorragia inarrestabile. Era corso da lei, l'aveva stretta a sé nel disperato tentativo di strapparla alla morte, ma le sue braccia non erano riuscite a proteggerla. Lui, un soldato, non l'aveva salvata. Prima di spirare in un'ultima nuvola di vapore freddo, gli aveva ricordato quanto lo amasse; lei era sua moglie a tutti gli effetti, non aveva mai voluto vedere in vita sua altre donne. I sentimentalismi in guerra erano nocivi, pericolosi, lei aveva seguito i sentimenti ed era morta. Flores aveva sempre creduto, fin dal Vietnam, che sarebbe morto prima lui, col senno di poi se lo sarebbe augurato, pur di non vivere un lutto così lancinante. Era morta con il sorriso sulle labbra, convinta di morire per amore, ma l'amore non aveva vinto, la Guerra Fredda si era portata via la sua esistenza, la loro vita. Era scoppiato a piangere solo quando lei non avrebbe ormai più potuto sentirlo, non serviva più infondere coraggio durante l'estremo saluto, nel momento del trapasso, lei non respirava più, gli era stata strappata da ideali di potere che non riguardavano i cittadini, loro subivano ignari e impotenti; le aveva sfiorato le guance prima che esse potessero ghiacciarsi, voleva sentire un'ultima volta il calore del suo corpo, bearsi della forza di una donna, senza la quale non avrebbe saputo come proseguire e vivere i giorni a venire.
Quattro anni dopo, il muro era stato abbattuto, ma per Flores non vi era alcun motivo di gioia, lei era morta prima di poter godere della libertà e di poter coronare il loro sogno. Aveva lasciato la Germania, era tornato nella terra d'origine della sua famiglia, con la speranza di alleviare il dolore e di coronare il sogno che condivideva con l'amata. Aveva lasciato la tomba di Isabel a Berlino presso la famiglia, non erano sposati, non aveva alcun diritto sulle sue spoglie. Prima di partire per l'Afghanistan era tornato nella capitale federale tedesca - ormai così diversa nelle fattezze rispetto a ciò che aveva vissuto lui a suo tempo - per un saluto alla promessa. Da trent'anni l'anello di fidanzamento che il giorno successivo alla proposta le aveva regalato lo aveva accompagnato nei suoi viaggi, lo aveva voluto tenere per conservare l'esistenza di quella donna, non era riuscito a lasciarlo al suo anulare durante il riposo eterno. 
Flores scivolò dal tronco mozzato su cui si era accomodato per meditare, si accasciò sulle ginocchia e pianse nel gomito per non macchiare il viso basso con il suo stesso sangue; non si vergognava, nessuno lo vedeva e anche se fosse stato, non riusciva più a trattenere il dolore di quella giornata così cupa nel suo cuore. Era stato privato di lei e dei figli che avrebbero potuto avere. Avrebbe dovuto puntarsi la pistola contro anni prima, non sapeva più vivere senza di lei e con il rimorso di non aver saputo proteggerla.

"Isabel, ti prego, aiutami. Ovunque tu sia, restami accanto"

La sognava ancora, sognava i loro ultimi momenti. Il rimpianto era un tormento, come il rimorso di non aver saputo vincere contro le severe leggi e portarla al sicuro molto prima che fosse per lei e per loro troppo tardi. I passi incerti di un compagno d'armi, un alleato, si stavano avvicinando a lui; un uomo zoppicava a pochi metri da lui, fu facile riconoscerlo. Mark non si scompose, scoprì il volto, ma non si preoccupò di rimuovere dalle guance i segni della sua debolezza; l'ultimo arrivato era in confidenza con l'ufficiale.
«Generale Flores, non la vedevo piangere da un po'»
«Colonnello, non stavo piangendo»
«Sicuro, Mark? Sono già trentatré anni»
Era il fratello della ragazza che aveva amato; anch'egli portava i segni della guerra, aveva lasciato una parte del suo femore in Vietnam e da un occhio aveva perso metà diottrie. Avevano combattuto spalla contro spalla fin dalla gioventù e continuavano a farlo in qualsiasi territorio bellico venisse richiesto loro di portare l'esperienza maturata nel corso degli anni.
«È colpa mia se lei è morta. Pensare il contrario non mi aiuta. Ha sfidato quella gente per me»
«Isabel ti amava, se non avesse lottato per te la sua vita non avrebbe avuto alcun senso»
«E la sua morte lo ha? Avrei preferito sapere che fosse tra le braccia di un altro, purché viva»
«Lei non sarebbe stata dello stesso avviso. Sono passato al campo santo prima di tornare al fronte. Sarebbe fiera di te»
«Non lo sarebbe. Le avevo promesso che non avrei più combattuto, dopo il Vietnam avevo chiuso con il servizio attivo»
«Le sei rimasto fedele tutti questi anni»
Un misto di sorpresa, ammirazione e rimprovero si dipinse sul volto del colonnello tedesco; voleva bene a Flores come se fosse un fratello di sangue diverso, erano accomunati da una grande perdita. Non aveva mai rimproverato nulla al cognato, anzi gli era grato per aver dato modo alla sorella di vivere l'amore, che in caso contrario non avrebbe mai conosciuto.
«La amo troppo per pensare ad un'altra donna. Sarei dovuto morire io, lei avrebbe trovato il modo di andare avanti, era molto più forte di me. Era così pura. Ogni volta che penso a lei mi manca il respiro»
«Penso che il respiro ti mancherà anche dopo la notizia che ti avrò dato oggi»


 


Ciao ragazzi!
Sono ritardo di almeno una settimana, ma è stato molto più semplice realizzare nella mente questo capitolo piuttosto che scriverlo.
Sono davvero capace di ogni malvagità. ^^" Io spero che tutto ciò sia almeno verosimile, altrimenti sarebbe una sofferenza mia e vostra totalmente inutile.

Ringrazio Bloody Wolf per l'aiuto e il prezioso suggerimento e tutti coloro che supportano questa storia con grande affetto <3
Alla prossima!
Un grande abbraccio
-Vale

   
 
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