5.
Gli
uffici e, più in generale, i luoghi di lavoro, erano lo
specchio di coloro che
vi lavoravano all’interno, almeno agli occhi di Diana.
Nello
specifico, l’ufficio di Devereux Saint Clair poteva essere un
buon viatico per
conoscere il carattere del suo utilizzatore che, tra le altre cose, era
anche
il proprietario della ditta per cui, forse,
avrebbe lavorato come designer d’interni.
Ordinato
e luminoso – ampie vetrate si aprivano sul piazzale
dell’azienda – l’ufficio
era semplice nelle linee e dai colori tenui, con piccole fotografie di
famiglia
sulla scrivania e alcuni prospetti di ville appesi ai muri.
La
documentazione era ben sistemata in semplici scaffalature di legno
tinto di
bianco, mentre le sedie per i clienti erano comode e moderne,
apparentemente
acquistate con il preciso scopo di far stare a proprio agio gli
utilizzatori.
Ciò
che invece sorprese un poco Diana fu scoprire i gusti
dell’uomo per cui avrebbe
lavorato da lì in poi, se tutto fosse andato secondo i suoi
piani.
Quando
lo vide entrare in ufficio con una tazza fumante di cioccolata calda,
l’aria
compiaciuta e un sorriso di benvenuto stampato sul bel volto, Diana
sorrise
sorpresa e dichiarò: «La cioccolata non me
l’aspettavo, lo ammetto.»
Bloccandosi
a metà di un passo, Devereux ammiccò divertito,
si affacciò sulla porta
dell’ufficio per chiederne una seconda tazza e,
nell’accomodarsi dopo averle
stretto la mano, dichiarò: «E’ un vizio
che mi ha passato la mia fidanzata, lo
ammetto. Indipendentemente dal caldo o dal freddo, la cioccolata mi
piace un
sacco. Sono lieto di sapere che piaccia anche a lei.»
«Adoro
tutto ciò che è dolce, e infatti devo stare
attenta a quanto mangio, per non
incorrere in adipe in eccesso o nel diabete» ammise con
candore la donna.
«Allora
ci capiamo, così come capirà più che
bene il mio cliente, visto che ama
cucinare e ha richiesto una cucina dalle dimensioni imbarazzanti, che
lei dovrà
arredare di tutto punto, oltre al resto della casa»
ammiccò Devereux, portando
Diana a sorridere complice.
Dagli
SMS che Chelsey gli aveva mandato soltanto venti minuti addietro,
Devereux si
era figurato una donna intelligente e piacevole, e non poteva che dare
ragione
alla figlia. Diana Sullivan-Scott sembrava essere entrambe le cose.
Al
momento, però, non poteva occuparsi delle faccende del
branco, ma solo di
lavoro perciò, mentre Suzanne consegnava a Diana una tazza
di cioccolata calda,
Dev estrasse il progetto della casa e iniziò a elencarle i
vari punti in
questione.
La
donna annuì più volte, consigliò
alcune migliorie da apportare all’impianto
elettrico e chiese di poter avere accesso alla segheria per visionare
alcuni
campioni di legno da usare per le scaffalature.
A
tutto ciò, Devereux si ritrovò ad assentire con
vigore, trovando le soluzioni
ideate da Diana assai innovative e molto adatte al tipo di prodotto
finale che
avrebbero desiderato raggiungere. Non gli dispiacque per nulla trovarsi
così in
sintonia con quella donna, anche se dover tenerla d’occhio
per conto del branco
lo disturbava un po’.
Se
poteva lavorare bene e avere a che
fare con una persona simpatica, era sempre preferibile.
Sperò quindi con tutto
il cuore che non dovesse risultare un pericolo per tutti loro,
perché gli
sarebbe assai spiaciuto doverla considerare una nemica.
Quando
infine ogni punto venne vagliato, Devereux le lasciò una
copia della
planimetria perché potesse usarla per creare i suoi progetti
in 3D dopodiché,
nel terminare la sua cioccolata, disse con casualità:
«Mia figlia mi ha
chiamato per dirmi di aver mangiato da lei dei biscotti buonissimi.
Temo vorrà
la ricetta, visto quanto ne era entusiasta.»
Scoppiando
in una risatina allegra, Diana asserì: «Ammetto di
aver fatto la parte
dell’impicciona, con sua figlia e la sua amica. Mi sono
appostata in giardino
per veder tornare mio figlio e capire
con chi si accompagnasse ogni giorno. Un po’ dozzinale, come
tecnica, ma ha
funzionato.»
«Spero
non mi debba vergognare per quelle due» chiosò
Dev, vedendola scuotere il capo
con aria simpatica.
«No,
affatto. Sono adorabili entrambe e, per me, è stato un
sollievo conoscerle e
scoprire che mio figlio aveva fatto amicizia con qualcuno»
ammise la donna, tornando
seria. «Trasferendoci spesso, abbiamo messo Mark nella
scomoda situazione di
non poter fare molte amicizie, perciò sono stata felice di
saperlo in compagnia
di qualcuno… ma credo che lui non abbia apprezzato il mio
interesse.»
Devereux
annuì comprensivo, dichiarando: «Io ho sempre
vissuto qui, perciò non so cosa
voglia dire essere sbalestrati da un posto all’altro, ma la
mia fidanzata ne sa
qualcosa, invece, visto ciò che passò prima di
raggiungere Clearwater.»
Diana
assentì, mormorando turbata: «Chelsey mi ha
accennato a un terribile lutto.»
L’uomo
annuì debolmente. «Dopo la morte dei genitori,
Iris cercò di ritrovare se
stessa e la sua identità. La fortuna volle che il suo camper
ebbe un problema
che la obbligò a fermarsi a Clearwater, e questo ci permise
di fare la sua
conoscenza. Grazie al cielo, inoltre, lei volle subito bene alla mia
Chelsey.»
Ridendo
di se stesso, aggiunse dopo un attimo di smarrimento: «Anzi,
oserei dire che è
merito di mia figlia, se ho potuto conquistarla. Fosse stato solo per
il mio
caratteraccio, l’avrei fatta scappare a gambe
levate.»
Ricordava
ancora bene la prima volta in cui aveva incontrato Iris, e sapeva bene
che, se
non fosse stato per la lingua lunga di Chelsey, probabilmente lui non
avrebbe
avuto neppure mezza possibilità di rivedere la donna di cui,
poi, si era
innamorato.
Sorridendo
comprensiva, Diana replicò: «I lutti ci possono
spezzare, così come renderci
assai determinati ma è bello sapere che, alla fine, la sua
fidanzata abbia
trovato un porto in cui approdare. Spero che sia così anche
per noi. Questo
posto è davvero molto bello, e mi spiacerebbe
andarmene.»
«Vi
auguro di poter rimanere» dichiarò Dev, prima di
scusarsi quando il telefono
squillò.
Presa
la chiamata, ascoltò con aria esasperata le lagnanze di uno
dei suoi
dipendenti, alle prese con le richieste assurde di un cliente che, di
punto in
bianco, desiderava apportare modifiche alla casa già
montata.
Dev
assentì più e più volte
finché, con un sospiro, disse: «Fred, è
molto semplice;
digli che, se vuole un balcone laddove c’è un
muro, dovrà pagare un
sovrapprezzo del dieci percento sul costo della casa. Quei tronchi
costano una
fortuna, ed è da pazzi pensare di tagliarli per infilarci
una finestra col
balcone. Dovremmo rinforzare la struttura portante e
quant’altro, perciò sarebbe
un lavoraccio. Dieci percento, o niente. Si tiene la parete.»
«La
prossima volta, ci andrai tu a lavorare per i Becker, poco ma
sicuro» brontolò
Fred, chiudendo la chiamata con un ciao
smozzicato tra i denti.
Dev
sorrise esasperato nel poggiare la cornetta del telefono e
chiosò: «Il guaio
dei clienti che ci fanno visita in
cantiere. Hanno sempre troppe idee e, spesso e volentieri,
troppe idee sbagliate.»
«Per
curiosità… a quanto ammonterebbe quel dieci
percento?» domandò Diana con
curiosità.
«Centotrentamila
dollari circa. I Becker hanno voluto una casa enorme
in stile country canadese, ma bucare una parete portante non
è come carotare un muro qualsiasi. Comporta una
redistribuzione dei pesi,
portanze da ricalcolare e tutta una serie di permessi da richiedere per
variazioni in corso d’opera che i signori in questione non
tengono conto nel
loro folle piano di apportare modifiche random, oltre
all’innegabile danno
estetico che comporterebbe distruggere la parete di cui
parliamo.»
Sospirando,
Devereux scosse il capo, disgustato al solo pensiero di dover
danneggiare una
simile opera, e tutto per accontentare le follie di un cliente.
«Quei
tronchi sono meravigliosi, e il solo pensiero di tagliarli mi fa
accapponare la
pelle. Spero che la cifra li spaventi a sufficienza per far loro capire
che, A,
non hanno bisogno di un balcone proprio lì, e B, deturpare
la casa per delle
fisse assurde costerà loro in termini di salute mentale,
oltre che di danno
economico, quando si accorgeranno dell’errore.»
Annuendo
di fronte alla disamina del problema, Diana assentì,
più che d’accordo. «Non è
un muro di mattoni che, eventualmente, può essere tappato e
intonacato. Il
legno è una creatura a sé stante e ne vanno
seguite le venature, le pieghe e i
disegni.»
«Esattamente.
Ma alcuni, purtroppo, non lo capiscono, e nascono situazioni
simili» scrollò le
spalle Dev, levandosi dalla poltroncina per poi indicarle la porta.
«La
accompagno nel reparto legname per mostrarle i tronchi e le assi che
avremmo
intenzione di usare, così mi dirà se vede
qualcosa di suo gradimento.»
«La
ringrazio, signor Saint Clair.»
«Devereux,
la prego, o anche Dev. Siamo tutti piuttosto informali, qui»
le sorrise lui,
accompagnandola all’esterno dell’ufficio, dove
Suzanne ammiccò loro con aria
cordiale.
«Iris
ha chiamato per dire che tarderà un po’, stasera,
e di non preoccuparsi» lo
informò la segretaria. «Poi è passato
George e mi ha detto di dirti, testuali
parole, che il tuo cavolo di
pick-up
dovrebbe finire i suoi giorni in un burrone, per quanto è
inguidabile. Ti ordina di fargli
bilanciare le gomme.»
«Ordina?»
ripeté ironico Dev, levando un sopracciglio con ironia.
«Ehi,
Dev, io ripeto a pappagallo ma, secondo me, è colpa della
protesi. Cigolava
talmente tanto da farmi accorgere del problema, quindi ci
può stare che guidi
male per quel motivo. Ma non sono un medico» gli fece notare
lei, ammiccando
divertita.
Sbuffando,
Devereux scosse il capo nell’uscire dalla casamatta assieme a
Diana e,
borbottando, le spiegò: «George Sanders
è uno dei nostri boscaioli migliori ma,
alcuni anni addietro, ebbe un bruttissimo incidente in cui perse tibia
e
perone. Gli innestarono una protesi e tornò a lavorare per
noi ma, da quel che
può aver compreso, non se ne prende molta cura e, ogni
tanto, devo fare la voce
grossa perché vada dal suo ortopedico per una revisione, per
così dire.»
La
donna assentì comprensiva e replicò:
«Oh, lo capisco bene. Il primo anno, per
me, fu assai difficile accettare di avere un moncherino sotto il
ginocchio ma,
col tempo, la sensazione di stranezza è passata.»
Dev
levò un sopracciglio con interesse, replicando:
«Non si direbbe. Cammina
speditamente.»
«Mi
sono allenata molto» ammise lei.
Sorridendo,
l’uomo replicò: «Il punto è
che lui non ha problemi ad avere il moncherino, però
dimentica che non è una gamba di carne e sangue, ma
meccanica, e che ha bisogno
di manutenzione. Dare calci a un tronco perché vada in sede,
non aiuta le
giunture metalliche, a mio parere.»
Diana
fece tanto d’occhi, a quel commento, ed esalò:
«Oh, cielo. No davvero!»
«Ecco,
si è figurata che tipo sia George e… parlando del
diavolo…» chiosò Dev
indicando un uomo che, caracollante, li stava raggiungendo col volto
ombroso e
pronto a dar battaglia. «… da quando in qua mi dai
degli ordini, George?»
«Da
quando mi fai guidare quella baracca del tuo pick-up!»
sbraitò l’uomo,
raggiungendoli con andatura incerta e fissando per un istante la nuova
venuta
con aria curiosa. «Signora…»
«Signor
George…» replicò divertita Diana,
studiando l’uomo che, dopo quel saluto grossolano,
tornò ad attaccare il suo datore di lavoro.
«Quell’aggeggio
infernale farebbe finire all’ospedale chiunque! Devi farlo
aggiustare!» sbraitò
George, sbracciandosi con veemenza per rendere il suo dire
più chiaro e
lampante.
Imperturbabile,
Dev si piegò su un ginocchio, sollevò i pantaloni
da lavoro del suo dipendente
per mettere in mostra la protesi metallica e, replicando burbero,
disse:
«George, ti sei accorto che hai perso qualche
bullone?»
«Che
cavolo stai dicendo?» brontolò l’uomo,
strattonando i pantaloni per coprire la
protesi.
Dev
lo fissò con aria di sufficienza e replicò:
«Vai da Cole, fatti rimettere in
sesto e poi riparliamone. Se non lo fai, ti corro dietro con la ruspa,
così
vedremo se sei tu che procedi storto, o se è la mia auto a
farlo.»
«Sei
il solito bifolco… e poi non si parla così
davanti a una signora» sbuffò
George, guardando dubbioso Diana.
«Sono
abituata a ben di peggio… e mi creda, il suo titolare ha
ragione. Un bullone fa
molta differenza» chiosò Diana, sollevando appena
il proprio pantalone per
mostrare la caviglia in metallo.
Subito,
George sgranò gli occhi per la sorpresa e la comprensione e,
meno burbero,
dichiarò: «Eeeh, mi sa che ha ragione lei. Ma
è questo cavernicolo che non sa
dire le cose nel modo giusto.»
Dev
soprassedette e, dopo la promessa di George di recarsi da Cole Webber
– il suo
ortopedico – lo guardò allontanarsi con passo
ciondolante fino a raggiungere la
sua jeep.
Con
una sgommata sul terreno soffice del cortile, l’auto si
infilò
sull’interstatale per poi scomparire alla loro vista e
Devereux, sorridendo a
Diana, chiosò: «Le sfuriate le farò
fare a lei. Poco ma sicuro.»
«Nessun
problema. So trattare con gli zucconi» ammiccò la
donna, sorridendo.
A
Dev quel sorriso piacque molto e, tra sé,
cominciò a pregare un Dio a cui
solitamente ben di rado si rivolgeva per chiedergli di non annoverare
Diana tra
i loro nemici. Sarebbe stato davvero un brutto colpo, per lui.
***
«…e
così, Diana è piaciuta anche a te. Liza e Chelsey
ne sono entusiaste» chiosò
Iris, finendo di darsi la crema sulla pelle prima di raggiungere Dev
nel letto
matrimoniale.
«A
livello umano, la trovo davvero piacevole. Vorrei sottolinearlo,
perché non
voglio creare dubbi nella tua testolina» sorrise Dev, intento
a leggere una
rivista sportiva.
Tra
l’arrivo a tarda ora di Iris e i molteplici impegni di Dev, i
due avevano
cenato tardissimo, quando Liza e Chelsey avevano già
terminato di mangiare e si
erano spaparanzate sul divano del salotto per guardare la TV.
Alla
coppia non era rimasto che mangiare in cucina da soli, ragguagliandosi
su ciò
che avevano scoperto quel giorno e sulle rispettive giornate lavorative.
Iris
aveva avuto meno fortuna, rispetto agli altri, poiché il
professor Sullivan non
era ciarliero come la moglie, perciò aveva potuto soltanto
sapere dei suoi
molteplici viaggi e poco altro.
Dev,
allora, le aveva riferito dei frequenti spostamenti della famiglia
Sullivan e
dello strano incidente che aveva fatto perdere la gamba a Diana. Da
quel che la
donna gli aveva raccontato, aveva perso l’arto a causa
dell’aggressione di un
lupo in un bosco, alcuni anni prima.
«Curtis
è stato avvertito di tutto?» domandò
torva Iris, scivolando tra le coperte per
poi poggiarsi contro il petto del compagno.
«Sa
tutto, e sta incrociando i dati che gli abbiamo fornito con gli
spostamenti dei
Sullivan. Visto che Diana non è la vera madre di Mark,
è possibile che loro si
siano conosciuti durante uno dei loro trasferimenti, e Donovan sia
stato
testimone del fatto, o abbia capito la vera natura delle ferite della
sua
attuale moglie» le spiegò Dev, lasciando da parte
la rivista per darle un
bacetto sui capelli.
«Sai
cosa c’è, Dev? Donovan non mi è parso
un uomo cattivo, ma ha come un demone che
lo divora dall’interno. I suoi occhi sembrano sempre ardere,
quando non crede
di essere osservato, anche se è molto abile a
mascherarlo» sospirò Iris,
meditabonda.
«Beh,
non credo che si possa ottenere una buona pubblicità, se
parli a vanvera di
mostri che attaccano le persone per ucciderle, ti pare?»
ironizzò fiaccamente Dev.
«Comunque ti capisco. Neppure Diana sembra una cattiva
persona, e mi dà un
fastidio tremendo ficcare il naso a sproposito.»
«Pensi
sia stato un licantropo, a uccidere la famiglia di Donovan e a ferire
Diana?»
«Tutto
è possibile. Tu sei stata ferita a tua volta e, per grazia
di Dio, non è
successo il peggio. Se però pensiamo a gentaglia come Logan
e Julia, non mi
posso stupire più di tanto, se qualcuno afferma che un lupo
ha attaccato un
uomo con l’intento di uccidere» ammise Dev,
scuotendo un poco le spalle.
«Lei,
quindi, ha sangue di neutro nelle vene, per non aver subito la
mutazione» gli
fece notare Iris.
«Non
so. Non mi sembrava avere l’odore di un neutro. Inoltre,
c’è una cosa che non
mi torna; anche i lupi più piccoli del branco, tolti i
cuccioli, hanno
dimensioni di molto superiori a quelle di un lupo naturale,
perciò Diana
avrebbe avuto dei dubbi, in merito alla reale natura
dell’animale che la
attaccò, se si fosse trattato di un mannaro.»
«Oppure,
ha omesso qualcosa nel racconto perché, come dicevamo prima,
parlare di mostri
a dei perfetti sconosciuti non aiuta a farsi
pubblicità» gli fece notare Iris.
Dev
assentì e Iris, con lo sguardo, tornò alla sua
ferita da artiglio, ferita che
le aveva permesso di conoscere un mondo a lei sconosciuto e che aveva
condotto
nella sua vita la dolce Chelsey e il suo futuro marito.
Lì
a Clearwater aveva ritrovato se stessa, aveva fatto pace con la sua
parte
animale e scoperto come convivere con essa e, anche grazie a uno
stupido
pneumatico forato, aveva trovato l’amore. Non poteva certo
dire di essere
scontenta di come erano andate le cose, ma avrebbe preferito
condividere quella
gioia con i suoi genitori.
“Spiace
anche a
me di non averli conosciuti, ma Richard e Rachel sono davvero degli zii
eccezionali, non ti pare?”, le trasmise mentalmente Dev,
spegnendo la luce per
poi lasciarsi andare contro i cuscini.
“Se
non ci
fossero stati loro, sarei davvero morta di paura. Devo moltissimo a
tutti loro,
ma ogni tanto ci ripenso e mi intristisco. Scusa.”
“Non
scusarti.
Hai voluto loro un bene dell’anima, e sarebbe sciocco non
provare nostalgia.
Ora, però, sai che sono da qualche parte assieme a Madre e,
se sono le persone
eccezionali che mi hai descritto, avranno mantenuto la loro
corporeità
spirituale e i loro ricordi, e potranno cercarti nelle polle che ci
sono su
Helheimr.”
Iris
gli sorrise nell’oscurità, replicando divertita: “Hai imparato bene la lezioncina,
eh?”
“Quando
parli
con un dio come Fenrir, ne impari molte, di cose, e ne credi molte di
più” ammiccò Dev,
dandole un bacio sulla fronte. “Ora
dormiamo, però. Domani tu hai scuola, e io devo andare
presto in cantiere.”
Lei
assentì e, nel chiudere gli occhi, ripensò allo
sguardo d’acciaio di Donovan e
al dolore che vi aveva visto bruciare dentro. Non aveva davvero idea di
cosa
avessero scorto quegli occhi color del mare, ma doveva essere stato uno
spettacolo davvero raccapricciante.
***
La
visita a sorpresa a casa di Mark le aveva lasciato un retrogusto amaro
in bocca
e, al solo ripensarci, Liza si sentì sporca ed egoista.
Non
le piaceva affatto quella situazione, e il solo pensiero di dover
continuare
quella sorta di recita fino alla scoperta del segreto della famiglia
Sullivan,
le faceva sorgere in seno un orribile sentimento; il disgusto.
Si
sentiva nauseata da se stessa ma, al tempo stesso, riconosceva la
necessità di
venire a capo di quel problema, che avrebbe potuto seriamente
minacciare
l’incolumità di ogni membro del suo clan.
“Non
dormi
neppure stasera, mamma?”
“Muninn?
E tu,
allora? Cosa dovrei dire, di te?”
“Sono
un corvo,
mamma.”
“E
questo cosa
vorrebbe dire?”
“Avevo
fame,
perciò sono andato a caccia, e ora sto mangiando un pezzo di
carne”
dichiarò con
naturalezza Muninn, quasi fosse superfluo spiegare.
Liza
rimuginò qualche istante su quell’affermazione
prima di rammentare che, in
effetti, i corvi erano dei pozzi senza fondo e, spesso e volentieri,
mangiavano
a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Non
fosse stato che Huginn e Muninn predavano in libertà e non
disdegnavano
praticamente nulla, sul loro menù, Dev avrebbe speso follie
per il loro
mantenimento.
Il
solo pensiero la portò a sorridere e, nel rigirarsi nel
letto al fine di
trovare una posizione migliore per appisolarsi, mormorò: “Mangia e poi mettiti a dormire. Vedrai
che succederà anche a me.”
“Huginn
dice di
non essere tranquillo. Qualcosa lo turba. Dice di stare attenti,
perché il
pericolo è vicino.”
“Pericolo?
Sa
anche di che genere?”
“No.
Ma dice che
sa di animale, non di uomo.”
Liza
preferì non indagare oltre. Se Huginn non osava aggiungere
altro, in merito
alle sue visioni, stava a significare che null’altro
poteva essere detto. Huginn non lesinava mai sulle parole, se aveva
qualcosa da
dire perciò, molto semplicemente, non c’era
nient’altro che potesse aggiungere.
Solo,
l’idea che vi fosse un pericolo proveniente da un animale,
non la confortava.
Era mai possibile che l’essere che Donovan Sullivan cercava
da dieci anni,
fosse infine giunto lì?
***
Il
vento portava con sé un profumo dolce, di sangue giovane e
forte, aroma di cibo
fresco e di un cuore indomito.
La
foresta era cupa, oscura e fredda, attorno a lui, ma non ne aveva
timore. Lui e
la foresta erano l’uno la continuazione dell’altra.
Lui apparteneva alla
foresta, come la foresta apparteneva a lui.
Perciò,
aveva tutto il diritto di predarvi all’interno e,
all’occorrenza, di divorarne
gli intrusi. Lui era all’apice della catena alimentare, era
come un dio sceso
in terra per fare fiero pasto degli incivili che calpestavano la madre
Terra
senza alcun ritegno.
Dopotutto,
era un Salvatore, no? Puniva i miscredenti!
“Non
darti tutte
queste arie. In te non c’è niente del Salvatore.
Sei solo un predatore, e come
tale devi vederti”
replicò la voce di Lei, che sempre lo teneva al guinzaglio
perché non
commettesse errori.
Senza
di Lei, lui sarebbe stato perso.
Era Lei che lo guidava verso le
Luci del
Nord, poiché Lei era il
suo sprone a
vivere. Lei lo aveva reso tale,
forte
e imbattibile, e lui le doveva obbedienza cieca. Per Lei
avrebbe ucciso e ucciso ancora, così come si sarebbe ucciso,
se
Lei glielo avesse chiesto.
Lei era tutto, come
se essa stessa fosse le Luci del Nord, che Lei gli aveva detto essere
legate a
lui e al suo ciclo vitale.
“Non
posso
predarlo, quindi?”
“Non
ho detto
questo”
sottolineò lei, nella mente il pensiero della caccia e della
morte si
intervallavano con velocità sempre crescente.
Il
ghigno di lui si fece feroce, a quell’ammissione e, mentre il
vento portava con
sempre maggiore forza l’aroma di un uomo solitario e dei suoi
cani nel bel
mezzo della foresta ai piedi del Denali, lei disse: “A
tempo debito caccerai. Ora osservalo, studia le sue mosse, fallo
sentire predato. Instilla in lui la paura finché non si
sentirà così in
pericolo da voler scappare. Solo allora, uccidilo. La sua carne
sarà più
buona.”
“Come
desideri” mormorò lui,
obbediente. Lei sapeva sempre come fargli apprezzare appieno la caccia.
Così
avrebbe fatto e, quando il suo cuore pulsante si fosse ritrovato sotto
i suoi
artigli, lo avrebbe offerto a Lei,
come
sempre.