6.
Curtis
lanciò sul tavolo della cucina di Dev un plico giallognolo
ricolmo di fogli e,
torvo in viso, scrutò la Triade di Potere e Freki prima di
dire: «Manderei
altrove i minori. Non sono cose piacevoli da vedere, né da
sentire.»
Chelsey
e Liza misero immediatamente il broncio ma, preferendo non discutere
con Curtis
in merito a cose ‘da
poliziotti’, si
presero per mano con espressione offesa e se ne andarono al piano
superiore.
La
sentinella le seguì con lo sguardo e, finché non
udì la porta della stanza di
Chelsey chiudersi, non aprì bocca. Al suono del battente che
arrestava la sua
corsa contro il cordolo della porta, tornò a volgersi verso
il suo uditorio e,
aperto il plico per mostrarlo a tutti loro, disse: «Famiglia
Sullivan. New
York. Gennaio duemilaotto. Vittime; Derek Sullivan, Lacey Sullivan e
Melanie
Sullivan-Winchester.»
«Derek…
Sullivan?» ripeté cupo Dev. «Era
fratello del professore, per caso?»
Annuendo,
Curtis mormorò atono: «Il fratello maggiore, di
tre anni più grande. Il referto
è spietato, ma preciso. Le due donne, rispettivamente la
figlia e la moglie, furono
uccise a colpi di staffilate e colpi da arma contundente, nello
specifico un
frustino da equitazione. Vennero inoltre trovati segni di dentatura di
un canis lupus, che fecero risalire
a uno
scheletro di lupo che il dottor Sullivan aveva nel seminterrato. Lui si
sparò
un colpo in bocca, dopo la carneficina. O così dice
l’analisi della scena del
crimine.»
Lucas,
Rock, Dev e Iris rimasero ammutoliti, gli occhi colmi di sgomento e
incredulità
di fronte alle scarne fotografie in alta risoluzione che il poliziotto
aveva
sparso sul tavolo, così da rendere al meglio la
gravità del fatto.
Curtis,
comunque, proseguì nella spiegazione dei fatti.
«I
morsi, come vi ho detto, vennero ricondotti alla mandibola proveniente
dallo
scheletro di un lupo, che si trovava nello scantinato. Il signor
Sullivan era
un dottore in biologia, e pare che stesse sistemando dei reperti al
fine di
portarli allo Smithsonian per una mostra. Questo, almeno, fu quello che
dissero
i colleghi. Aveva regolare permesso per svolgere quel genere di lavoro
a casa,
perciò non venne ritenuto strano trovare quelle ossa nel
seminterrato.»
Ciò
detto, iniziò a scostare alcuni fogli per trovarne uno in
particolare e
aggiungere: «Da quello che ipotizzarono all’epoca
gli investigatori, il dottor
Sullivan venne preso da un raptus, staccò la mandibola dello
scheletro per
colpire dapprima la moglie al fianco, e in seguito la figlia a una
gamba
dopodiché, in una sorta di Arancia Meccanica in salsa
newyorkese, fece una
strage familiare.»
«Cosa
vuoi dire?» esalò Iris, sentendosi obbligata a
sedersi, le gambe troppo deboli
per reggerla.
Dev
le avvolse immediatamente le spalle con un braccio e, torvo,
scrutò Curtis
mentre, scorrendo un altro foglio, aggiungeva laconico: «Il
tutto cominciò
nello scantinato, dove il dottor Sullivan stava lavorando.
Lì, furono trovate
le prime tracce ematiche appartenenti a Melanie, riconducibili alla
ferita al
fianco. In seguito, la donna corse al piano superiore per sfuggire,
sempre
presumibilmente, alla follia del marito. A quel punto intervenne anche
Lacey,
che venne colpita alla gamba dalla mandibola del lupo, usata dal
dottore a mo’
di clava. Il colpo inferto alla figlia spezzò la mandibola,
che venne quindi
gettata a terra, ormai inutilizzabile. Da qui in poi vennero
riscontrati i
colpi più duri, prodotti con un’arma contundente
indefinita, stando alla
ricostruzione.»
Lucas
deglutì a fatica, passandosi una mano sul volto pallido e
Dev, nello stringere
a sé Iris, mormorò roco: «Le
staffilate?»
«Sono
le ferite più recenti, stando al rapporto. Presentavano le
tracce di sangue
meno coagulate, e vennero inflitte con il frustino di Lacey, che era
una
cavallerizza» spiegò loro Curtis. «A
quel punto, si pensa che il dottore si sia
reso conto del disastro compiuto, perché si
ammazzò facendosi saltare le
cervella con un colpo di pistola, regolarmente detenuta.»
«Cielo!»
ansimò spaventata Iris, coprendosi il capo con le mani per
poi poggiarlo, senza
forze, sul tavolo della cucina.
Raccolte
foto e documentazione, Curtis chiuse il rapporto e terminò
di dire: «Sulla
carta fila tutto, ma ci sono alcune incongruenze che non hanno convinto
un paio
di detective e, a quanto pare, neppure Donovan Sullivan. Per inciso, la
mandibola del lupo e i segni sui corpi, non corrispondono. La mancanza
di DNA
estraneo all’interno della casa, fece però
propendere il procuratore
distrettuale per un caso di omicidio-suicidio, avvalorato dai debiti di
gioco
che il dottor Sullivan aveva accumulato in una locale bisca
clandestina, ben
nota alle forze di polizia.»
«Avrebbe
ammazzato la famiglia perché colto da un raptus?»
borbottò Lucas, incredulo.
«Se
ti dicessi quanti americani muoiono per questo motivo, ti
stupiresti» replicò
con triste ironia Curtis. «Di per sé, non
è più o meno cruento rispetto ad
altre stragi che siano state compiute in ambito familiare ma, nel caso
specifico, il fatto che i morsi non combacino perfettamente con quello
che è
stato rinvenuto dai poliziotti come una delle armi del delitto, lascia
perplessi.»
«Il
procuratore non se ne curò?»
«Non
proprio. Non c’erano prove che portassero ad altre piste da
seguire, se non per
l’appunto l’omicidio-suicidio e, per questo motivo,
il tutto venne archiviato.
Ufficialmente, è catalogato come cold
case, visto che ci sono delle discrepanze tra le prove, tali
da non poter
permettere la chiusura definitiva del caso, ma non vi sono ulteriori
informazioni
utili per poter riaprire le indagini.»
«Naturalmente,
il professor Sullivan non accettò la tesi
dell’omicidio-suicidio» ipotizzò
Lucas.
Curtis
annuì, asserendo: «Stando a quello che ho
scoperto, cercò di rintracciare una
potenziale teste nei pressi di Boston e, incrociando le mie
informazioni con
una fonte piuttosto autorevole, pare che il professore ci avesse visto
giusto.»
«Che
intendi dire?» domandò Iris, stringendosi a Dev.
«Brianna
mi ha dato i numeri di telefono di alcuni lupi che si trovano sulla
costa Est
degli Stati Uniti e, facendo un paio di domande qua e là,
è saltato fuori il
nome di una studentessa della Columbia che, all’epoca dei
fatti, aveva attirato
l’attenzione dei curiosi proprio
a
causa della sua licantropia» spiegò loro Curtis.
«Donovan,
però, non riuscì a trovarla, a quanto pare,
né si avvicinò più di tanto neppure
agli altri licantropi. Diversamente, avrebbe terminato la sua ricerca
molto
tempo addietro» chiosò Lucas.
«Infatti.
Perse le tracce della ragazza – Sondra Johnson, per la
cronaca – perciò si
appoggiò al dark web e iniziò a scandagliare i
siti più controversi e le
dicerie più assurde legate ai lupi»
scrollò le spalle il poliziotto. «Devo dire
che è stato piuttosto bravo, ma ha lasciato dietro di
sé un sacco di tracce,
tracce che solo per puro caso non lo hanno portato in conflitto con dei
veri licantropi. Ha rischiato di
farsi
ammazzare.»
«Dici
che possa aver incrociato anche Logan e Julia?» si
informò Dev.
«E’
possibile. Forse, si trovano qui proprio per
questo. Dopotutto, in Columbia Britannica, vi furono diverse sparizioni
di
bambini, a causa di Logan e Julia e forse questo li ha incuriositi,
portandoli
a venire qui» spiegò loro Curtis, mostrando al
quartetto una mappa della zona
ovest del Canada, dove aveva evidenziato le città e i paesi
in cui i bambini
erano stati portati via con la forza dalle loro famiglie.
«Con
la riapparizione dei bambini, la pista si è raffreddata, e
perciò Donovan non
ha più potuto procedere con ulteriori indagini. Il fatto che
nessuno sappia dei
quattro giorni in cui Chelsey è mancata da casa, ci aiuta a
rimanere
nell’anonimato e a non attirare la sua attenzione, ma questo
non ci mette del
tutto al riparo dalla sua morbosa curiosità»
chiosò Curtis, ritirando la mappa
e sistemando tutta la sua documentazione all’interno di una
ventiquattr’ore di
pelle nera.
«Quei
due idioti riescono a fare dei danni anche da sotto terra»
ringhiò disgustato
Devereux.
«Hai
scoperto se ci sono casi simili? Se qualche altra famiglia è
stata sterminata
in modo non del tutto chiaro?» si informò a quel
punto Lucas.
Curtis
levò impotente le spalle, replicando: «La fantasia
omicida non conosce limiti,
Lucas, e potrei citarti decine, per non dire centinaia di casi di cui
dubiteresti la veridicità. Anche la faccenda del DNA
mancante non mi sorprende.
Se davvero fosse stato un licantropo impazzito, la sua traccia genetica
sarebbe
scomparsa nel giro di pochi minuti. E’ così che
funziona, con noi, ma non posso
sapere se la stessa cosa può accadere anche per altre
creature mistiche, se è
di questo che stiamo parlando. Però posso dirti qualcosa su
Diana Sullivan,
all’epoca dei fatti, Scott.»
Estratta
una nuova carpetta gialla e oblunga, Curtis mostrò loro un
referto medico
piuttosto crudo e schematico, ove veniva evidenziato sul disegno
stilizzato di
un corpo umano il punto esatto delle ferite inferte alla donna.
«Diana
Scott, originaria di Charlotte, Carolina del Nord. Studi alla Columbia,
si è
poi trasferita a Wichita per seguire il fidanzato dell’epoca.
Durante un
viaggio nella Cherokee
National Forest, venne
aggredita lungo un sentiero. Fu trovata per puro caso da un paio di
escursionisti, attirati dalle grida di lei, e trasportata nel
più vicino
ospedale della zona con una parziale amputazione dell’arto
inferiore destro e
diverse ferite sull’addome e le braccia, riconducibili a
ferite da difesa.»
«Tracce
di morsi?» domandò Lucas.
«Sul
moncherino» assentì Curtis, torvo in viso.
«Ma qui viene il bello o, nel nostro
caso, l’assurdo. La mandibola di ciò che la morse
è quasi identica a quella di
un lupo e, rullo di tamburi, a un lupo in
particolare.»
Ciò
detto, mostrò loro le fotografie dei morsi inferti a Diana e
quelle del caso
Sullivan. Le due immagini mostravano lo stesso schema dentale.
I
tre Gerarchi e Freki si guardarono in viso più che mai
meravigliati, ma solo
Lucas domandò: «E’ mai possibile che sia
sempre lo stesso lupo?»
«Se
la dentatura dei lupi segue la regola delle impronte digitali o del
DNA, allora
siamo di fronte allo stesso assassino» scrollò le
spalle Curtis. «Dovremmo
chiedere a Chuck o al dottor Cooper. Loro sono sicuramente
più esperti in materia,
rispetto a me.»
Freki
imprecò tra i denti al pari di Dev mentre Lucas, ombroso, in
viso, mormorava:
«La cosa si sta complicando.»
«Sono
rarissimi i casi in cui un lupo abbia aggredito volontariamente un
essere umano
e, di sicuro, non si prenderebbe la
briga
di maciullare arti per diletto. Un lupo punterebbe alla gola per
soffocare la
preda, oppure azzannerebbe i tendini della caviglia per azzoppare la
sua
vittima, ma non avrebbe senso strappare a morsi un arto. Richiederebbe
troppo
tempo, esponendolo al rischio di essere colpito, o attaccato da qualche
altro
predatore» scosse pensieroso il capo Curtis. «No,
non è l’azione deliberata di
un lupo naturale. Non rientra in nessuno schema comportamentale logico.
Inoltre, quella dentatura mi fa pensare al medesimo killer.»
«Noi
siamo molto più grandi di un lupo. A parte Chelsey, che
è un cucciolo, la media
dei licantropi è più importante di quella di un
lupo naturale» sottolineò
ombroso Dev. «Non può
essere stato un
licantropo. Quindi, con cosa abbiamo a che fare? Dubito che un
qualsiasi lupo
naturale faccia strage in una casa della periferia di New York e poi,
dopo
anni, si accanisca su una persona a caso nel bel mezzo di una
foresta.»
«No,
non è un mannaro, questo mi sembra assodato. Ma a questo
punto, di che lupo
stiamo parlando? Esiste qualche altro essere mistico, oltre a noi, ad
avere le
sembianze di un lupo? Inoltre, qualche evento precedente
all’aggressione di
Diana, deve aver spinto Donovan Sullivan a raggiungere
Wichita» ammise Curtis,
gesticolando debolmente con una mano.
«Immagino
che sia una città più o meno violenta al pari di
altre cittadine americane»
sbuffò Lucas, contrariato.
Curtis
assentì. «Scandaglierò ancora e
vedrò se salta fuori qualcosa. Comunque, i
tempi non tornano. Diana fu ferita dopo
l’arrivo di Donovan a Wichita, perciò lui non
può essere stato spinto lì a
causa del suo ferimento, ma può averla contattata proprio a causa di
ciò.»
Lucas
si passò le mani sul viso, sospirò e ammise:
«So che è terribile da dire, ma
sono contento che non sia stato un licantropo a fare tutto
ciò. Il problema che
si pone, però, è un altro. Se non siamo stati
noi… chi altro c’è, là
fuori, che
agisce come un lupo dagli istinti incontrollati?»
Nessuno
osò parlare e, con quel silenzio carico di domande, la
riunione fu sciolta.
***
«Un
altro genere di lupi, dici?» mormorò Brianna dopo
aver ascoltato la lunga e
inquietante dissertazione di Iris.
«Così
pare. Si comporta in modo diverso da un lupo naturale e, a quanto pare,
ama
predare gli umani, e in modo piuttosto sadico» ammise
disgustata Iris. «Però la
sua mandibola è come quella di un lupo vero, non di un
licantropo, e questo ci
ha portati a credere che ci sia qualcosa di diverso, che gironzola per
il nord
America in cerca di prede sempre nuove.»
«Chiedo
lumi» la informò allora Brianna, prima di
azzittirsi. “Fenrir, tu che ne
dici?”
Dico
che la cosa
è assai strana. Tendenzialmente, la carne umana non piace a
nessun lupo perché
non ha un buon sapore. Figurarsi a un licantropo. Quanto alla
possibilità che
esista un’altra razza senziente, non posso dire di no.
Sappiamo già che
esistono berserkir e fomoriani e, qualche secolo addietro, fauni ed
elfi
silvestri abitavano ancora le foreste di molte zone del nord europeo,
perciò
non mi stupirei se vi fosse altro, in giro per Manheimr.
“Quindi,
brancoliamo nel buio?”
Quasi.
L’unica
cosa che mi sento di dire è di cominciare a spulciare nelle
credenze del posto,
o ascoltare i canti delle tribù. Potrebbe venir fuori
qualcosa di interessante.
Dopotutto, anche voi discendete da un mito, anche se esso è
ben diverso da come
è stato raccontato ai posteri.
“E’
scomodo
dover ricorrere sempre alle credenze popolari. Non sono mai
precise”, brontolò
Brianna, indispettita.
Fenrir
rise dolcemente nella sua testa, replicando: Questa
è la tua parte analitica che parla. Ma a cosa potresti
affidarti, se non al mito, visto che non compariamo esattamente
sull’elenco
telefonico, o su Google Maps?
Sospirando,
Brianna tornò a rivolgersi a Iris, mormorando:
«Fenrir pensa che possa
trattarsi di un’altra specie di lupo, simile alla nostra ma
non appartenente al
suo sangue. Questo spiegherebbe i comportamenti anomali e la forma
simile a
quella di un lupo naturale.»
«Quindi,
non ne ha mai sentito parlare neppure lui» sospirò
afflitta Iris, scuotendo il capo.
«Chiederemo alla nonna di Rock se sa qualcosa in merito.
Magari, in qualche
mito dei Piedi Neri, si parla di un lupo mangia-uomini.»
«Lo
ha suggerito anche Fenrir. Dopotutto, le credenze tribali sono le
uniche cose
che assomigliano a un’enciclopedia, per quanto ci riguarda,
anche se sono tutto
fuorché precise» convenne Brianna. «Mi
spiace. Non siamo stati di grande
aiuto.»
«Grazie
comunque. E’ bello anche solo parlarne e scambiare idee in
proposito» replicò
Iris con un sorriso.
«Questo
guaio proprio non ci voleva… e in prossimità del
vostro matrimonio, poi…»
sospirò Brianna, infastidita.
Le
sembrava sempre che i grandi disegni del Cosmo si incrociassero
costantemente
coi momenti più delicati per le persone, e guarda caso per
guastare le feste a
tutti.
«Mancano
ancora diverse settimane, perciò speriamo non succeda nulla
nel frattempo»
ammise Iris, con un risolino. «Sarà un piacere
rivedervi, dopo tanto tempo.»
«Credimi,
è reciproco. Non vedo l’ora di indossare il mio
abito da damigella d’onore…
adoro il vestito che hai scelto» sorrise eccitata Brianna
prima di ridere e
aggiungere: «Temo, però, che ne parleremo
un’altra volta. Nathan mi richiede
con insistenza.»
Scoppiando
a ridere a sua volta, Iris assentì e disse: «Ti
lascio a lui. Ci vediamo a
Calgary il ventinove settembre, allora.»
«A
presto, cara.»
Nel
chiudere la chiamata, Iris scosse il capo in direzione di Dev,
accomodato sul
divano del salotto e, poggiato che ebbe il cordless sulla tavola della
cucina,
mormorò: «Niente da fare. Dobbiamo provare a
chiedere a nonnina.»
«Sarà
felicissima di darci una mano, ma non so se stavolta potrà
risolvere il nostro
problema. Se avesse conosciuto delle storie su lupi un po’
speciali, ce le
avrebbe raccontate già al vostro primo incontro, ti
pare?»
«Sì,
è vero» storse il naso Iris, ammettendo quella
lieve pecca nel loro piano.
«Tentar non nuoce, comunque.»
«Le
proveremo tutte, questo è certo perché, se
c’è un assassino in giro che può
crearci dei problemi, dobbiamo fermarlo a tutti i costi»
assentì lui, levandosi
in piedi per abbracciarla. «Inoltre, non possiamo
permettergli di rovinarci il
matrimonio, ti pare?»
«Lo
farò a fettine, se solo ci prova»
mugugnò Iris, reclinando il capo contro il
torace di Dev.
«La
mia dolce Terminator» ridacchiò lui, baciandole il
capo con tenerezza.
Iris
rimase rannicchiata contro il torace di Dev ancora qualche attimo prima
di
scivolare via da lui, sorridergli maliziosa e mormorare:
«Visto che le ragazze
sono a Clearwater, che ne diresti se tu e io…»
Devereux
non la lasciò terminare. La sollevò a sorpresa
tra le braccia, portandola a
lanciare uno strillo pieno di sorpresa e aspettativa e, senza attendere
oltre,
si lanciò al piano superiore saltando i gradini a due a due.
Era
raro che potessero concedersi il lusso di fare tutto il baccano che
volevano,
perciò valeva la pena sfruttare l’occasione fino
in fondo.
***
Camminando
pacificamente lungo il marciapiede, dirette entrambe verso lo
Strawberry Moose
per incontrarsi con i reciproci amici, Liza borbottò
all’indirizzo di Chelsey:
«Certo che Curtis deve aver detto delle cose terribili, ieri
sera. Iris era
ancora pallida e scioccata, stamattina a colazione.»
«Puoi
dirlo forte! Penso di non averla mai vista così
sconvolta» assentì Chelsey. «Ma
con quelle cavolo di pareti insonorizzate, non sono riuscita a sentire
nulla.»
«Forse
è meglio, o noi rischieremmo di avere gli incubi notte e
giorno per mesi»
sottolineò per contro Liza,
pur domandandosi se lei, in qualità di Geri, non avesse il
diritto di sapere
almeno qualcosa in merito a
ciò che
si erano detti.
Dopotutto,
lei era un sicario del branco, e se c’era qualcosa di
importante da sapere – o
un potenziale pericolo da tenere d’occhio – forse
avrebbe dovuto essere
informata.
“Non
preoccuparti, mamma… ho ascoltato io per te, ma credo
davvero che ti farò un
riassunto edulcorato, o ti verranno davvero
gli incubi” intervenne Muninn con tono cupo.
“E’
davvero così
brutta?” esalò
Liza, sgomenta.
“Sì” si limitò a
dire il corvo prima di involarsi verso un vicino abete sitka per
posizionarsi
tra i suoi rami.
Huginn
si involò verso il campeggio, invece, mentre le due giovani
raggiungevano
infine il bar. Lì, si salutarono per raggiungere i
rispettivi gruppi e Liza,
nel vedere Mark da solo e in un angolo del locale, gli si
approcciò prima di
esalare: «Ma allora lo fai apposta a nasconderti. Se non
fossi una ficcanaso
professionista, non ti avrei mai visto, qui rintanato in un angolino, e
avrei
dedotto che non volevi uscire con me, Sasha e gli altri.»
Mark
si levò il cappuccio dell’onnipresente felpa
– quella domenica era verde scuro
con areografie astratte sul torace – e, con una scrollatina
di spalle, replicò:
«Non ci ho pensato. Di solito, mi metto in un angolo e me ne
sto per i fatti
miei. E’ più… sicuro.»
«Beh,
non qui a Clearwater» brontolò Liza, afferrandolo
a una mano per trascinarlo
via e condurlo sul lato opposto del locale, dove Sasha era
già arrivata e stava
ultimando di inviare degli SMS.
Nel
vederli, la licantropa sollevò una mano per salutarli,
infilò il cellulare
nella tasca anteriore dello zaino e, pratica, disse: «Chanel
e Fergus ci
aspettano all’entrata del campeggio, così
imbocchiamo il sentiero per il lago
direttamente da lì.»
Liza
assentì e Sasha, nel ghignare all’indirizzo di
Mark, chiosò: «Prima della fine
te lo staccherà, il braccio, se non ti fai un po’
sentire, Sullivan.»
I
due ragazzi abbassarono lo sguardo verso le loro due mani ancora
intrecciate e,
come se si fossero entrambi ustionati, si scostarono di colpo e Mark
divenne
come di consueto di un imbarazzante rosso vermiglio.
Liza,
invece, fissò malamente Sasha che, però, se ne
infischiò a bella posta e
aggiunse: «Tendi a essere un po’ prevaricatrice,
ragazza mia. Forse sarà il tuo
essere di L.A.»
Il
commento venne seguito da una strizzatina d’occhio e Liza,
con uno sbuffo,
borbottò: «Non è un caso se ero il capo
della banda della scuola. Sapevo farmi
valere.»
«Banda?
Di teppisti?» ironizzò allegra Sasha, uscendo dal
locale assieme a loro,
accompagnati dalla risata di Liza e dal sorrisino divertito di Mark.
«Musicale»
sottolineò Liza,
sorprendendola un po’. «Iris mi ha insegnato a
suonare quando avevo dodici anni
e, da quel momento, non ho più smesso. Naturalmente,
però, non mi sono limitata
a imparare… sono diventata la
migliore.»
«Che
strumento?» si intromise per la prima volta Mark,
sinceramente incuriosito.
Liza
gli tributò un mezzo sorriso e ammise: «Chitarra e
clarinetto. Fui io a
insistere perché in scuola ci fosse una banda musicale con
tutti gli strumenti.
Mi piaceva troppo, quando lo facevano i ragazzi che seguiva Iris nei
centri
sociali, così ho pestato i piedi perché ci fosse
anche nella mia scuola.»
«E
tu sei brava a pestare i piedi, no?» ironizzò
Sasha, dandole un colpetto con la
spalla.
Liza
levò il mento con fare fintamente presuntuoso e
replicò: «Ma certo. Io sono una
maestra di pestaggio di piedi.»
Il
trio rise di quel suo ultimo commento e, mentre si approcciavano
all’ingresso
del campeggio, Liza registrò la presenza di Huginn sul tetto
della casa dei
Johnson. Con tutta probabilità, li avrebbe seguiti anche nel
loro percorso
all’interno del bosco e, da lì, sulle sponde del
lago, ma non era certa di come
si fossero divisi i compiti i due fratelli.
Era
però curioso che Muninn avesse lasciato a Huginn il compito
di seguirla, visto
che loro due non potevano parlarsi mentalmente a grandi distanze.
Forse,
desiderava che sfruttasse la sua preveggenza mentre lei e Mark erano
assieme.
Chissà.
Era difficile capire come ragionava un corvo, anche se era senziente
come erano
quei due.
Salutato
con un cenno Lucas – che li stava osservando dalla veranda
del suo ufficio –
Liza si volse a mezzo per incrociare lo sguardo di Mark e
domandò: «I tuoi ti
hanno fatto dei problemi, per uscire?»
«No,
affatto. Anzi, mia madre ha minacciato di venire ad abbracciarvi,
però l’ho
convinta a non farlo» brontolò il giovane,
spingendo Sasha a sorridere
comprensiva.
«Credimi,
Mark… non sei l’unico ad avere una madre
apprensiva» chiosò la giovane,
sollevando nel frattempo un braccio per farsi notare da Chanel e
Fergus, che li
attendevano a poca distanza. «Se non mi credi, ti
presenterò la mia. Fino ai
tredici anni, ha creduto che avrei vissuto per sempre nella mia stanza,
di
fronte a un computer e con le cuffie nelle orecchie.»
Liza
levò sorpresa un sopracciglio, lanciando
un’occhiata dubbia all’indirizzo
dell’alta licantropa. Era mai possibile che, in fase
pretrans, si fosse sentita
così inadeguata e debole da rinchiudersi volontariamente in
casa?
«All’epoca
abitavamo ad Alexandria, un buco sperduto della British Columbia dove
c’eravamo
solo noi, l’Orso Yoghi e la Renna Rudolph»
ironizzò la ragazza, ammiccando al
loro indirizzo. «Per andare a scuola dovevo prendere
l’autobus tutte le mattine
e raggiungere la vicina cittadina di Prince George, indipendentemente
dal buono
o dal cattivo tempo e, quando rientravo, non avevo amici con cui
giocare.
Insomma, era un posto delizioso.»
I
due assentirono muti e, quando raggiunsero Chanel e Fergus, Sasha
aggiunse per
chiudere il discorso: «Per papà è stata
una manna dal cielo trovare un lavoro
presso la segheria del padre di Chelsey, perché
così ci siamo potuti spostare,
e mia sorella non ha dovuto fare la mia stessa trafila per andare a
scuola.»
Quello
che ovviamente Sasha non disse fu che la sorella non sarebbe stata
costretta a
crescere in un bosco, isolata dal mondo degli umani, come invece aveva
rischiato di fare l’intera famiglia Kendrick.
La
famiglia di Sasha, infatti, era rimasta vittima della Voce del Comando
di Logan
e, da quel poco che aveva saputo, avevano passato più di un
anno nel campo nei
pressi del McDougall Lake.
Quando
i Kendrick erano stati finalmente liberati dall’influsso del
loro malvagio
Fenrir, scoprendo così ciò a cui erano stati
costretti, lo shock non era stato
indifferente. Thomas Kendrick, il capofamiglia, aveva compreso di aver
perso il
lavoro a Prince George, costretto le figlie a venire marchiate e
offerto la
moglie a quel folle di Logan.
La
crisi che ne era seguita aveva quasi fatto impazzire il licantropo, e
solo
l’amore della moglie e delle figlie lo aveva salvato dal
suicidio. Quando
infine Darren – il fratello redento di Logan – gli
aveva proposto di
trasferirsi a Clearwater e di lavorare presso la segheria di Devereux
Saint
Clair, Thomas Kendrick aveva accettato subito.
Da
quell’evento era passato più di un anno e, ormai,
a ricordo di quella brutta
esperienza rimanevano soltanto i marchi sulle spalle di Sasha e di sua
sorella
Micha.
«Oh…
stavi facendo sentire un po’ meno speciale
Sullivan?» celiò Fergus McBride
dando di gomito al ragazzo, che accennò un sorriso timido.
«Non sei un caso
isolato, credici sulla parola. Sasha e Liza sono solo tra le ultime, a
essersi
trasferite qui. Per esempio, io e i miei siamo arrivati qui quattro
anni fa, da
Calgary. Mia nonna materna abita qui da sempre ma, negli ultimi anni,
non è più
così in salute, così ci siamo spostati per
esserle di aiuto, visto che è sola.»
Chanel
Howthorne, compagna di classe di Liza e Mark al pari di Fergus,
assentì e
aggiunse: «Se chiedi in giro, sentirai di un sacco di gente
che va e viene. Il
legname dà lavoro un po’ a tutti, qui in zona, e
il turismo anche, perciò ci
sono un sacco di persone che fanno i pendolari o gli stagionali, mentre
altri
si spostano qui in pianta stabile dopo alcuni anni di lavori part
time.»
Imboccando
il sentiero, Sasha si volse verso Mark come a chiudere quel discorso e,
strizzandogli l’occhio, chiosò: «Sei
solo l’ultimo della fila, ma non sei certo
l’unico.»
Mark
assentì, vagamente rasserenato da quelle storie e, nel
sistemarsi le stringhe
dello zaino sulle spalle, si avviò assieme a loro per la
prima, vera camminata
per i boschi che avesse mai fatto da dieci anni a questa parte.
Fino
a quel momento, le sue erano state solo caccie al nulla, a un fantasma
di cui
non conosceva il volto, ma che ossessionava suo padre – e di
conseguenza la sua
famiglia – fin da quando suo zio era morto.
Per
una volta, invece, avrebbe potuto godersi la frescura del bosco, i suoi
colori
autunnali, il profumo delle erbe, il ciangottare degli uccellini e il
gorgogliare delle acque.
Per
una volta, avrebbe potuto comportarsi come un comune ragazzo di sedici
anni, in
compagnia dei suoi nuovi amici.
Per
una volta, sarebbe stato solo Mark.
***
In
cuor suo, Liza aveva sperato fino all’ultimo che i suoi nuovi
amici avrebbero
messo a loro agio Mark e, nel sentirli parlare a quel modo, il suo
cuore era
scoppiato di gioia al pensiero di non essersi sbagliata su di loro.
Per
quanto lei fosse allegra, spensierata e faceta, l’aveva
terrorizzata a morte il
pensiero di trasferirsi a Clearwater e sentirsi quella
nuova. Aveva preferito di gran lunga raggiungere Iris ben
prima dell’inizio delle scuole proprio
per prendere famigliarità con le persone del posto, per non
sentirsi un pesce
fuor d’acqua al suo primo giorno con gli altri studenti.
Non
era immune dalla paura come molti pensavano, e non era di sicuro
così avventata
come invece temeva sua madre. L’idea di essere Geri
l’aveva galvanizzata ma, a
mente fredda, aveva iniziato pian piano a percepirne il fardello e,
solo dopo
alcune settimane di unicorni rosa e sogni a occhi aperti, si era
finalmente
svegliata.
Una
mattina, di punto in bianco, il giogo di quel nome sussurrato da Lucas
le aveva
quasi tolto il fiato e, nel panico più nero, era corsa nella
stanza dei
genitori con le lacrime agli occhi.
Non
aveva detto nulla – non era riuscita ad aprire bocca
–, limitandosi a stringere
suo padre come se ne andasse della sua stessa vita, mentre sua madre le
carezzava comprensiva i lunghi capelli castani.
Solo
a pianto ultimato, si era raddrizzata e issata per bene sul letto. Nel
tergersi
il volto, aveva infine espresso paure e dubbi, ma suo padre si era
limitato a
dirle: «Hai sentito giusto,
quel
nome, su di te?»
Lei
aveva annuito stentatamente, così il padre si era spinto a
dichiarare: «Allora,
tu sei una Geri. E sei mia
figlia.»
«Nostra
figlia» aveva sottolineato la
madre, trovando il plauso del marito.
«Sei
nostra figlia, e nostra figlia cerca sempre di riuscire al meglio in
ciò che
fa, perciò non ho timori in merito alla buona riuscita di
questo tuo nuovo
compito. E’ giusto che tu ne sia intimorita,
perché chi non lo sarebbe, di
fronte a simili responsabilità? Solo un folle,
credo» le spiegò il padre,
carezzandole gentilmente il viso. «Ma tu non sei folle, e
comprendi sia l’onere
che l’onore di essere un guardiano della libertà
dei tuoi futuri compagni. Li
dovrai difendere, anche da loro stessi, se necessario, e io so che tu
ne hai le
capacità, anche se non hai la loro forza fisica.»
«Grazie,
papà» aveva mormorato lei, tergendosi le ultime
lacrime. «Grazie, mamma.»
Da
quel momento, si era sentita meglio e, di comune accordo con Iris, si
era
trasferita a Clearwater per iniziare il suo training
di apprendimento.
Sapeva
bene, quindi, quanto potesse essere scioccante cambiare vita, e
l’idea di
quella gita le era venuta proprio per mettere a suo agio Mark, per
permettergli
di capire quanto, a Clearwater, avrebbe potuto trovarsi bene.
Ora,
sperava soltanto di non aver collaborato a far sentire meglio un
Cacciatore.
Era
forse l’unica cosa che avrebbe potuto toglierle il sorriso
per sempre.
N.d.A.: come avete visto, Donovan ha degli ottimi motivi per cercare l'assassino di suo fratello. Ciò che hanno fatto alla sua famiglia è terribile. Questo, però, l'ha messo più volte a rischio - senza che lui lo sapesse - e, come se non bastasse, ha messo in allarme un intero branco di licantropi (meno male che non hanno il grilletto facile!). Resta da vedere se le sue ricerche lo porteranno ancor più vicino ai licantropi, o se i nostri "amici del Nord" non ficcheranno il naso prima del tempo.