Questa storia Questo capitolo partecipa al Writober2020 con la
lista di prompt di Fanwriter.it
Parole: 2448. È una roba lunghissima,
mamma mia, ma almeno è ancora nei miei standard *fiuu*
Prompt/Traccia: Backstory
Brevi
Deliri Pre Partum:
Hello! Non sono morta. Se vi stavate chiedendo dove
caspita fossi andata a cacciarmi, NIENTE PANICO: sono viva et vegeta et
produttiva.
Grossomodo.
E ormai c’ho
preso gusto a scrivere i capitoli delle long per il Writober,
lol. Spiegone al fondo, se
volete saltatelo pure tanto sono solamente io che straparlo come al solito.
Hopeless
wanderers
In difesa di Caino
[o del Complesso di
Prometeo]
Non
ci aveva mai pensato prima, ma… adesso si chiede se quello che ha fatto fosse,
oltre che deplorevole, umanamente sbagliato.
Prima
non si era mai davvero soffermata sulle potenziali conseguenze delle sue
azioni, Amalija, forse perché accecata da un
bambinesco orgoglio e narcisisticamente convinta di essere imbattibile –
inarrestabile e inarrivabile, un po’ come quelle stupende sorelle ladre
protagoniste di quel fumetto che le capitava qualche volta di leggere, quando
lavorava come assistente di Pierre. Forse, riflette osservando la luce
distorcersi sul vetro antisfondamento della sua cella, desiderava soltanto che
per una volta le cose andassero per il verso giusto, che potesse in qualche
modo colmare il vuoto lasciatole dai genitori prima e dal vecchio Pierre poi.
Che
stupida.
Una
piccola, irrimediabile stupida.
Esattamente
come la ragazzina che le è seduta di fronte, dall’altro lato dello spesso vetro
– dal lato giusto, forse, o forse no, chi può dirlo davvero, sono solamente
punti di vista – che la osserva senza dire una parola, imperscrutabile nella
sua postura rigida. Ad Amalija pare quasi una bambola
da quanto è bella, crede di non aver mai visto degli occhi come i suoi. Così…
puri, innocenti, pieni di vita e di gioia, velati da una tristezza non sua che
però non può fare a meno si sentire come propria; si sente scrutata fin nel
profondo dell’anima, da quegli occhi come nuvole tempestose, sezionata e
studiata come un topolino in laboratorio dalla scienziata che cerca di capire
quello ha vissuto – e, Amalija sente un brivido
correrle lungo la schiena, è in qualche modo certa che riesca quasi a vedere i
suoi ricordi scorrerle come un vecchio film rovinato davanti al viso.
Allora
posa il quaderno e la matita con cui stava disegnando e si gira sullo sgabello:
si fronteggiano, ora, schiene dritte e labbra cucite, e il cielo d’inverno
incontra il cielo in tempesta, in una battaglia di sguardi in cui a perdere
sarà la prima a mostrare un qualsivoglia sentimento. Amalija
è sicura di avere l’età e l’esperienza come vantaggi, rispetto a quella
ragazzina che pare una cucciola appena svezzata che muove i suoi primi insicuri
passetti nel mondo – e, molto probabilmente, anche lei doveva sembrare così,
quando aveva quattordici o quindici anni, quando era felice e aveva tanti
sogni…
…sogni
che vanno in pezzi a diciassette anni, quando una trave di ferro precipita
addosso a suo padre e non gli lascia scampo.
Si
chiede come reagirebbe quella bambolina che ha di fronte, nella sua situazione:
urlerebbe? Piangerebbe? Desidererebbe di morire proprio come fece sua madre,
impazzita dal dolore?
Boccheggia,
lasciando cadere la busta di plastica con dentro quella torta alla crema
chantilly che alla madre piace tanto, muovendo qualche passo barcollante verso
il piccolo salottino.
-Ma… Mamma… ?- balbetta, incapace di comprendere appieno il macabro
spettacolo che ha davanti agli occhi.
Non si ricorda
cosa ha fatto dopo, come sono arrivati quegli uomini in casa sua e come lei sia
finita in una stanzetta piccola e fredda di un commissariato. Sa solo che anche
sua madre l’ha lasciata indietro, preferendo la morte a un mondo senza l’amore
della sua vita – le ha lasciato una scatola di latta rossa e una chiave, però,
e dentro ci trova dei soldi e una lettera scritta in una calligrafia che stenta
a riconoscere come quella della madre da quanto è sbavata; forse l’ha scritta
piangendo, o era ubriaca, Amalija non lo sa e non
glielo può nemmeno chiedere.
Quegli uomini la
sommergono di domande a cui Amalija non sa e non
vuole rispondere – le chiedono di suo padre, dell’incidente in cui rimase
coinvolto, se per caso avesse sospettato che sua madre potesse fare un gesto
simile o ci avesse tentato nell’anno passato, se qualcuno potesse avere avuto
degli screzi con i suoi genitori, se c’è qualcuno a questo mondo che può
occuparsi di lei.
-Non ho nessuno.- mormora appena, gli occhi chiari gonfi e rossi, le
dita sottili strette intorno alla scatola di latta. –Non ho nessuno, non ho
bisogno di nessuno.-
I due poliziotti
si scambiano uno sguardo preoccupato e la lasciano andare, dopo averle
raccomandato di recarsi da loro per firmare i documenti necessari per inserirla
in un progetto di accoglienza o qualcosa di simile una volta sbrigate le
pratiche per il funerale.
Amalija, quando sua madre è in una bara accanto a quella del
marito, raccoglie le sue cose in una valigia e lascia Vienna.
Andarsene
da Vienna, forse, sperava la allontanasse anche dal dolore – ma Amalija impara in fretta che il dolore è come un predatore:
fiuta la paura delle sue prede, le segue in capo al mondo e non lascia loro
scampo. Amalija è una ragazza Quirkless
sola al mondo, senza un posto da chiamare casa
o persone da chiamare famiglia,
disillusa e convinta che anche la sua fine arriverà presto, perché i soldi
della scatola di latta rossa iniziano a scarseggiare e lei non sa che fare; la
sua salvezza arriva nelle sembianze di un uomo dagli occhi gentili che dice di
chiamarsi Pierre, qualche sera prima del suo diciannovesimo compleanno, che le
offre un lavoro nella sua bottega e una stanzetta in cui stare.
Quando
Amalija gli aveva domandato perché avesse deciso di
aiutarla, Pierre aveva semplicemente scrollato le spalle e spiegato che nel
momento in cui avrebbe lasciato questo mondo gli sarebbe piaciuto pensare di
aver trasmesso il suo amore per l’arte a qualcuno e che quel qualcuno si
sarebbe occupato di quello che avrebbe lasciato indietro con lo stesso amore e
la stessa dedizione che furono sue.
Pierre se ne va sereno,
con un sorriso e senza rimpianti, seduto sulla sua poltrona di pelle preferita
con accanto il suo tè preferito dimenticato lì a raffreddarsi, una mattina d’autunno
come tante in quel di Parigi, mentre legge il giornale e dallo stereo Bob Seger canta “Night Moves”:
occhieggia un’ultima volta verso la tela che Amalija
sta dipingendo prima di chiudere gli occhi, sentendo i primi passi scendere le
scale dalla soffitta.
Pierre
se ne va proprio mentre Amalija conosce Vivienne,
pronta a vedere la propria vita stravolgersi ancora e ancora.
Vivienne
è... affascinante, magnetica, misteriosa, Amalija non riesce a capire cosa stia davvero pensando ma
la donna la conquista con poche semplici parole e in men che non si dica
iniziano a collaborare: mostre, scambi di opere, collaborazioni con musei e
collezionisti privati… Vivienne capisce che Amalija è
brava non solo a dipingere ma anche a trattare con beneficiari e compratori e
allora fanno il primo azzardo.
Il
mercato nero delle opere d’arte, ripensandoci a mente fredda, è stato l’inizio
della fine.
-Non sei stufa, Amalija?-
domanda una sera Vivienne, appoggiata allo stipite della porta di fronte a lei,
il cielo plumbeo e la pioggia battente modulano le ombre in modo che la sua
figura paia scivolare lungo le pareti, rendendo Vivienne bellissima e
pericolosa al tempo stesso.
Ma Amalija non smette di dipingere. -Stufa di cosa?-
Fruscio di seta,
pochi passi, Vivienne le circonda il collo con le braccia e il profumo di
violetta della sua pelle le riempie le narici. –Stufa di essere trattata come…
qualcuno di inferiore, mon coeur,
solo perché non hai un Quirk.-
–Ho passato tutta
la vita come Quirkless e lo resterò fino alla fine
dei miei giorni, ormai direi che mi posso rassegnare.-
ride, Amalija, posando il pennello sul tavolino
accanto alla tela. –E poi, non è così male. Insomma, nelle grandi città la
discriminazione si sente molto meno… -
-…e se ti dicessi
che esiste un Quirk che può essere trasmesso a
chiunque, senza legami di sangue, cosa faresti?-
Vivienne pronuncia ogni sillaba con un tono… strano, che la incanta come un
serpente al suono del flauto. La pioggia che scrocia fuori dalla finestra
sembra placarsi all’improvviso, o forse è solamente lei che smette darci peso.
-Ti direi che hai
bevuto troppo cognac, Vivienne.- la sente allontanarsi
a si gira sullo sgabello, osservandola perplessa: dal basso della sua posizione
seduta non riesce a vedere bene l’espressione negli occhi blu di Vivienne, ma
c’è qualcosa nella linea sottile della sue labbra che la spaventa ma elettrizza
al tempo stesso.
-Non ho toccato un
solo goccio di cognac oggi, Amalija.- ribatte lei, osservando le sue reazioni. –Sto dicendo la
verità: da qualche parte, su questo pianeta, esiste un Quirk
che può essere trasmesso senza aver bisogno di legami di sangue. Lo chiamano One For All.-
La
caccia al One For All
inizia così, quasi per scherzo, ma più passava il tempo più Amalija
si convinceva della veridicità delle parole di Vivienne: era diventata una
missione, ormai, trovare il possessore del One For All e avere quel Quirk
- perché averlo significava poterlo donare ad altri Quirkless
come lei, porre fine alle loro sofferenze.
E
nel frattempo, Amalija aveva scoperto che il traffico
di Quirk frutta bene quasi quanto il mercato delle
opere d’arte e che avevano bisogno di collaboratori.
-Come ti chiami?-
-Soggetto da
Combattimento Numero Dieci.-
Ten era stata la prima ad arrivare,
orecchie tese e nervi a fior di pelle, sempre pronta a combattere e a
difendersi, ringhiando a chiunque si avvicinava un passo di troppo: era stato
difficile, all’inizio, riuscire a farle capire che non era più in un’arena in
cui doveva uccidere per sopravvivere, che Amalija non
l’avrebbe mai obbligata a fare del male a nessuno a meno che non fosse
strettamente necessario, e anche in quel caso le avrebbe lasciato l’ultima
parola: le aveva tolto il suo collare, quello fisico e quello metaforico, e Ten è stata con lei fino all’ultimo.
Poi
è arrivato Emil, ex soldato dalla forza sovrumana e
la fama di riuscire a fermare qualsiasi attacco gli venga scagliato contro, e
in ultimo Wong Soo con il
suo Quirk di controllo mentale che tanto la
spaventava e da cui Vivienne, invece, era affascinata.
Ten si agita, quando la vede arrivare. –Signora, non si…
-
Troppo tardi.
-…che cosa è successo?- balbetta, osservando i due ragazzini in quella
pozza di sangue, i loro occhi spenti rivolti verso l’alto. Le orecchie di Ten si piegano verso il basso ed Emil
si tortura le mani, rifiutandosi di parlare o anche solo di guardarla.
-Sono stato io.- sentenzia allora Wong Soo, impeccabile della sua giacca nera. Sembra davvero un
cameriere. –Volevano scappare, li ho fermati. Proprio come ha detto lei, signora.-
Amalija sente il tè che ha appena finito di bere risalirle in
gola. –Non era questo quello che intendevo.-
Emil posa una mano sulla testa di Wong
Soo e lo costringe a fare un piccolo inchino prima
che possa ribattere. –Non ricapiterà più, signora. Glielo garantisco.-
Non
le hanno voluto dire che cosa è successo a Ten ed Emil, sa solamente che Wong Soo è un paio di celle più a sinistra della sua – in una
cella insonorizzata in modo che non possa usare il suo Quirk
sulle guardie per scappare.
Vorrebbe
sperare che stiano bene, che siano anche loro lì, ma lo dubita fortemente –
allora spera solo che la loro fine sia stata rapida e indolore.
-Lei vada avanti, signora.- urla Ten, cercando di
sovrastare il rumore assordante delle esplosioni e le altre grida intorno a
loro. Emil e Wong Soo, alle sue spalle, annuiscono. –Se non dovessimo essere
fuori da qui entro qualche ora, si allontani il più in fretta che può.-
Sta scappando,
spaventata e sola, evitando cumuli di macerie e buchi nei pavimenti, fino a
raggiungere un punto abbastanza lontano dalla villa e al sicuro: crolla sulle
ginocchia, ferendosi e stringendo tra le mani quella pistola che aveva preso
dalle mani di qualcuno mentre scappava – aveva agito senza pensarci, l’istinto
che continuava a gridarle di difendersi e scappare.
Le tremano le
mani, mentre rafforza la presa sull’arma.
-Ah, a quanto pare
è stato un fallimento.- Amalija
ha un sobbalzo e la pistola è più salda fra le sue mani, poi riconosce Vivienne
in quella figura e si rilassa. –Come la spiegherò al capo, adesso?-
-Vivie… -
-Mi hai veramente
delusa, Amalija.- la voce della donna è gelida come il ghiaccio e tagliente
come una lama, mentre la zittisce. –Credevo saresti stata in grado di portare a
termine un semplice compito, ma non solo hai lasciato che il primo possessore
del One For All venisse
ucciso: hai anche permesso a degli Eroi di trovare la base.-
Amalija boccheggia, incapace di formulare una frase di senso
compiuto, sentendosi improvvisamente piccola e indifesa.
-I… Io… -
-Ma in fondo, cosa
dovevo aspettarmi?- sbuffa ancora Vivienne,
allontanandosi verso il folto della foresta e lasciandola lì, pietrificata.
–Sei soltanto una Quirkless.-
E il mondo le
crolla davanti agli occhi come il castello di carte che Ten
stava costruendo qualche giorno prima e che per sbaglio Emil
ha fatto cadere urtando il tavolino, lasciandola sola a riascoltare come un
disco rotto le ultime parole di Vivienne.
Alla fine, decide
che ormai nulla ha più importanza, non ha più niente da perdere.
Stringe la pistola
tra le dita e torna indietro.
Ground Zero si
regge a malapena in piedi, quando lo scorge in lontananza, ed è l’unico vicino
al ragazzino che sa essere il nuovo possessore del One
For All. Questa è la sua occasione.
…cosa
sperava di ottenere, ancora non l’ha capito. È stata una stupida, un’emerita
stupida, e quella ragazzina sembra averlo capito.
Dopo
quelle paiono ore, la vede socchiudere gli occhi e sciogliere i pugni,
distendendo le mani sulle ginocchia, e una manciata di istanti dopo si alza in
piedi. Amalija non dice una parola mentre la segue
con lo sguardo.
-Io
la perdono, signorina Karič,
perché adesso che l’ho vista capisco che cosa ha provato.-
sussurra, e alle sue spalle un’ombra sembra prendere la forma di una figura
umana. –Voleva soltanto che le riferissi questo.-
«Hai ragione: non ti ucciderò, anche se lo vorrei.
Oh, non immagini quanto vorrei farti passare lo stesso dolore che hai fatto
patire a lui. Ma non lo farò, non perché ho le mie regole. Non lo farò
perché Deku non
lo farebbe. Nonostante tutto, quel coglione di Deku ti perdonerebbe.» - e le parole che Ground
Zero le rivolse quel giorno vorticano nella sua testa come un tornado e quel
volto diventa più nitido: ricorda di averlo visto in foto, quando Vivienne le
ha detto dove trovare il One For All e chi
cercare, si ricorda di aver pensato che avesse un sorriso meraviglioso,
rassicurante. Ora di Midoriya Izuku
rimane un’ombra evanescente pronta a scomparire, che non sorride più ma anzi la
guarda con occhi tristi e sinceramente addolorati. E l’ha perdonata.
Non
ci aveva mai pensato prima, ma… adesso si chiede se quello che ha fatto fosse,
oltre che deplorevole, umanamente sbagliato.
Ora Amalija ha la sua risposta ed è
sì, ha sbagliato, tutto quanto, e piange, nella sua cella d’isolamento, mentre
la ragazzina fa un piccolo inchino e si allontana – lasciandola sola, dal lato
sbagliato di quel vetro antisfondamento.
V.C.P.P.: Vaneggi Chilometrici Post Partum
(con qualche spiegazione su come e perché è nata questa fic
e perché questo capitolo esiste)
Avete allacciato le
cinture di sicurezza e controllato gli specchietti retrovisori sia davanti che
ai lati? Perché sarà una cosa un pochettino lunga.
Detto questo, procediamo.
Avevo iniziato a pensare questa storia
agli inizi di Ottobre 2018, partendo da un prompt per
il Writober che poi è come mio solito degenerato in
cinque capitoli scritti di getto uno dietro l’altro. Nel frattempo, su
richiesta del mio prof di Letteratura di quinto Liceo, stavo preparando insieme
a lui una serie di lezioni su Harry Potter e quindi ero nel pieno della
rilettura della saga; in più avevo anche iniziato il recupero di Kingdom Hearts in vista dell’uscita a Gennaio del terzo titolo
numerato e dopo mesi di silenzio stampa era anche uscito un nuovo capitolo di D.Gray-Man – confermandoci che quella santa donna
dell’autrice era ancora viva e che nonostante la malattia stesse continuando a
lavorare alla sua opera, bless her
and her soul.
Tutto questo insieme di fattori –
l’aberrazione crescente verso la saga del maghetto riletta con la mentalità di
una ventenne, il nuovo capitolo pieno di turbe mentali del povero Allen e il
mio ritornato sentimento di amore-odio nei confronti della Disney per la
gestione di Sora&Co. – mi hanno spinta verso i
primi di Novembre a prendere quei capitoli scritti, rileggerli e cancellarne
quattro su cinque. L’unico che si salvò fu un embrionale capitolo 14, quello su
Deku, che subì solamente degli ampliamenti in corso
d’opera mentre scrivevo quello che poi sarebbe diventato il capitolo 1. Perché
mi sono accorta che non era la storia di Ryu, quella
che volevo raccontare – o meglio, era
la sua storia, ma non volevo
raccontarla dal suo punto di vista: sarebbe stata una copia carbone
dell’originale MHA, in un qual modo.
E poi, diciamocelo, son tutti bravi a
raccontare le storie degli eroi.
Mi sono resa conto che io non volevo
raccontare la storia di un eroe, volevo raccontare la storia di una persona (o
più persone) alle prese con l’essere eroi e con tutto ciò che ne consegue.
Scegliere Bakugou come protagonista e punto di vista
per raccontare questa storia è stato quasi automatico: Katsuki
è tutto fuorché l’eroe perfetto, ha mille difetti che però lo rendono a volte
più umano degli altri, e per il suo modo di fare e di porsi lo vedo più come un
anti-eroe che si contrappone all’eroe ideale che è Deku.
Entrambi hanno lo stesso fine, ma
usano mezzi diversi. Motivo per cui, all’inizio inconsciamente, mi sono sempre
ritrovata a preferire personaggi come Bakugou o Lavi
o Riku, che rientrano più in quella “zona grigia” tra
bene e male piuttosto che personaggi totalmente positivi come Deku o Lenalee o Sora.
Ed è anche uno dei motivi per cui ho
cominciato a odiare la saga di Harry Potter, ma questo è un altro discorso per
un altro momento.
Per di più, sono arrivata alla
conclusione che hanno ragione quelli che dicono che esistono eroi da entrambi i
lati di una guerra e Alan Moore insegna che potrai sì sconfiggere il nemico ma
non riuscirai mai a estirpare il concetto che lo guidava. Leggetevi gli albi di
V per Vendetta e poi venite a ringraziarmi.
E qui arriviamo a questo capitolo,
finalmente, dopo uno spiegone lunghissimo. In
sostanza, questo capitolo (e questa storia in generale) esiste per lo stesso
esatto motivo per cui ho sempre trovato più affascinanti i villains
e/o gli anti-eroi: in fondo, ognuno ha una sua serie di motivazioni – giuste o
sbagliate che siano – per fare quello che fa. Horikoshi
stesso parla più volte dei suoi Villains dedicando
loro dei capitoli, e quindi mi sembrava giusto dedicare un capitolo anche alla
Collezionista e i suoi collaboratori e al fatto che con molta probabilità il One For All non avrà mai pace e
sarà sempre perseguitato da qualcuno o qualcosa che lo vuole per sé. Perfino la
Collezionista è solamente una pedina in una scacchiera più grande di lei, un
pedone sacrificabile come tutti gli altri che però credeva di essere la evil mastermind dietro tutto
quanto.
Questo non la giustifica
assolutamente, sia chiaro, come non si può giustificare nessun Villain presente nella storia originale, ma si possono
comprendere le motivazioni che lo spingono a fare quello che fa. Odio
auto-citarmi, ma quando Katsuki e Deku
parlano sul tetto, nel capitolo 14, e Katsuki accenna
alla “fame” che spinge una persona a fare un’azione, quella “fame” riassume al
meglio il concetto che sto cercando di spiegare. Ed è uno dei pezzi rimasto
lì dal capitolo 14 originale, quello che scrissi all’inizio, tra l’altro.
Volevo scrivere questo capitolo anche
per dare un po’ di spessore ai Villains di questa
storia, anche se credo di aver fallito miseramente: ho impiegato un sacco di
tempo a scrivere questo capitolo e a iniziare il successivo che spero di
finire… boh, facciamo per Natale, ma non mi piace lasciare conti in sospeso e
quindi eccoci qui, a scrivere alle tre del mattino appena arrivata a casa dal
pub in cui lavoro e a correggere e rileggere nelle giornate di riposo in cui
sono morta di sonno. Spero piaccia più a voi di quanto faccia schifo a me.
Detto questo, come sempre grazie per essere
qui a sorbirvi me che vaneggio a cazzo de cane (cit.) e se vi va lasciatemi un
commentino.
Noi ci ribecchiamo… idk, ci
ribeccheremo.
Cia’
Maki