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Autore: Adeia Di Elferas    06/10/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giulio Cesare da Varano allungò con lentezza le gambe sotto al tavolo. Non ne poteva più di tutti quei festeggiamenti. Trovava, anzi, rivoltante che per un semplice matrimonio si facessero tutte quelle pantomime.

In un certo senso, essere lì e aver visto lo sfarzo della domenica appena passata – ovvero il 28 giugno, data in cui, finalmente, Astorre Baglioni era convolato a nozze con Lavinia Colonna – e pensare di aver davanti ancora giorni e giorni di banchetti e spettacoli, gli faceva sembrare ancor più giusto e motivato il suo astio verso quella famiglia.

I Baglioni di Perugia, a suo avviso, avevano da tempo alzato troppo la cresta. Aveva quindi colto al balzo l'occasione, quando aveva sentito alcuni membri secondari della famiglia, come Grifonetto o Carlo Oddo, lamentarsene. Quest'ultimo, per altro, era anche suo nipote, e dunque gli era stato facile far passare il suo interessamento come un nobile sforzo per aiutare un parente, piuttosto che una mossa egoista.

Perugia, mai come in quei giorni, pareva al vecchio Giulio Cesare una nuova Sodoma. E Giampaolo Baglioni, cugino dell'Astorre di cui si festeggiava lo sposalizio, ne era il miglior araldo.

Anche quella sera non faceva altro che bere, gridare frasi sconce e farsi sedere sulle ginocchia tutte le donne che gli capitavano a tiro. Eppure, lui era uno dei più pericolosi, tra tutti i Baglioni che andavano puniti per la loro arroganza. Tanto pericoloso, che, benché fosse uno dei principali obiettivi da colpire, non sarebbe stato male attendere che lasciasse la città, prima di mettere in atto il piano.

A dirla tutta, per lui i Baglioni erano tutti un'unica massa scomposta e belligerante, e, se fosse dipeso unicamente dalla sua volontà, li avrebbe sterminati tutti quanti, senza eccezioni. Però, essendo riuscito a sopravvivere già per sessantasei primavere, sapeva bene come muoversi per ottenere il massimo guadagno al minimo rischio. Avrebbe dato il suo appoggio per togliere di mezzo i peggiori, quelli che stavano prendendo troppo potere, e avrebbe invece tollerato gli altri, almeno per il momento, usandoli, anzi, come mano armata per compiere quella pulizia generazionale che tanto gli pareva necessaria.

Quel matrimonio, che andava a unire i Baglioni e i Colonna, due tra le famiglie più importanti del mondo che ruotava attorno a Roma, era l'occasione perfetta per avere tutti i bersagli a portata di tiro.

Si trattava di uno degli eventi mondani più magnificenti dell'anno, di certo. Una scelta molto scenografica, per mettere in atto una strage familiare. E anche molto rischiosa, su questo Giulio Cesare non aveva avuto dubbi fin dal principio.

Gli era bastato vedere, il giorno delle nozze, la piazza principale di Perugia gremita di invitati, che erano in numero tanto considerevole, da impedire che la cerimonia si svolgesse altrove se non in un simile spazio aperto. E per sottolineare la vastità della folla, Simonetto Baglioni era passato in mezzo alla calca, in cima a un carro trionfale, gettando confetti a destra e a manca.

Da quel punto in poi, ogni cosa che il Varano aveva visto, aveva solo confermato le sue impressioni iniziali: c'erano stati cortei, archi trionfali, sfilate coi doni arrivati da ogni dove, tra cui broccati, gemme e oro.

Tutta quella magnificenza, tuttavia, si trovò a constatare Giulio Cesare, veniva in buona parte vanificata da uomini come Giampaolo Baglioni che, a breve distanza da lui, stava ancora ridendo in modo grossolano per una battuta volgare riguardante la sorella Pantasilea.

“Se quel pezzo di legno di mio cognato Bartolomeo non sa darle quello che vuole – stava ribattendo il perugino, facendo un gesto volgare – allora toccherà ancora a me accontentarla!”

A quel punto, Giulio Cesare – che pure aveva ben davanti agli occhi l'immagine di suo figlio Venanzio che non perdeva occasione di umiliare la moglie Maria Giovanna Della Rovere – si sentì profondamente disgustato per la volgarità di Giampaolo.

“Io mi ritiro.” disse a voce bassa a Berardo Cornia, che gli stava seduto accanto: “Sono stanco di sentire ragliare questo asino...”

Il compare si accigliò un momento, sussurrando di rimando: “Ma con Filippo e Girolamo – disse, riferendosi a Filippo Baglioni e Girolamo Della Penna – eravamo d'accordo di vederci più tardi per...”

“Sapete già benissimo cosa penso, e la mia parola è una.” lo zittì il Varano, cominciando già ad alzarsi, desideroso come non mai di lasciare la tavola e la confusione che ormai regnava sovrana nel salone: “State tranquilli, quindi.”

Berardo non fece nessun cenno, né di assenso, né di insofferenza. Si limitò a fissare a lungo il signore di Camerino, che, in tutta risposta, salutò giovialmente tutti quelli che gli capitarono a tiro, recitando meglio di un attore di commedia, andandosene alla porta senza più voltarsi.

 

Quando Caterina riuscì di nuovo ad aprire gli occhi, sentì la pressione di una mano sulla sua fronte, e qualcosa che assomigliava a un mantello o a una coperta, sotto di sé.

Non si era accorta di essere svenuta. Chissà quando era successo. Sentiva le membra irrigidite e fiacche, come dopo una lunga febbre. Appena provò a inspirare un po' più forte, venne scosse all'istante da una tosse profonda, bruciante, che le mandò a fuoco il petto e la lasciò senza fiato per qualche secondo. Non appena riuscì a placare quell'accesso, tentò di capire meglio cosa stesse succedendo. Faceva fatica a mettere a fuoco le immagini, benché la cella fosse illuminata da una torcia.

La prima cosa che riuscì a distinguere, fu il volto dell'uomo che le stava controllando il polso e la temperatura. Aveva lo sguardo contrariato, corrucciato, e non la guardava mai negli occhi. Dalle sue movenze, la Tigre intuì che fosse un medico. La sua presenza, in quella gabbia di pietra, poteva significare solo una cosa: era stata molto vicina alla morte.

“Finché la terrete qui dentro – disse l'uomo, voltandosi verso qualcuno che era rimasto fuori, oltre la bassa porta di legno massiccio – non potete sperare che migliori.”

“Non ci interessa, se migliora.” disse una voce dall'accento spagnolo, bassa e caustica, che la Sforza non conosceva: “Basta che resti in vita.”

Il medico sollevò un sopracciglio e poi provò a dire ancora: “Almeno concedetele un letto, una coperta, del cibo che si possa definire tale... Potrebbe avere una polmonite, e se continuerà a restare coricata in terra, non credo che...”

“Non siete pagato per credere nulla, solo per non farla morire troppo presto.” tagliò corto quello che stava fuori.

“Ascoltate, Messer Corella...” si risentì il dottore, restando accucciato sulla Leonessa, ma guardando ancora oltre la porta: “Mi avete chiesto di farla sopravvivere, ma...”

“Abbiamo finito così.” tagliò corto Michelotto, richiamandolo all'ordine: “Avete visto quello che dovevate vedere e ci avete anche fatto spendere dei soldi per darle quell'intruglio... Il vostro compito termina qui.”

“E come vi giustificherete con quelli che vi chiedono come stia?” insistette l'uomo, stavolta alzandosi in piedi: “Direte a tutti che Madonna soffre di passion di cuore per il dolore di aver perso il suo Stato?”

“Ci avete dato un ottimo consiglio.” annuì Miguel de Corella, abbaiando subito dopo: “Recuperate il vostro mantello. Ve lo faremo pulire, se quella ve l'ha sporcato standosi sopra.”

Capendo all'improvviso di aver tirato la corda anche troppo, il medico recuperò davvero la propria cappa, scusandosi con un mormorio appena accennato e poi, ritrovando in fretta lo spirito di autoconservazione sufficiente a voltare le spalle alla malata e andarsene, andò alla porta.

A Caterina sembrava quasi di essere intrappolata in un sogno. Sentiva la terra battuta fredda e ancora umida sotto di sé. Aveva il respiro affannoso, e le bruciava la gola. Aveva le orecchie un po' chiuse e faceva fatica a tenere gli occhi aperti. Si sentiva stanca.

Sapeva che stando così male, addormentarsi avrebbe potuto esserle fatale. Cercò di combattere quell'istinto, ma il buio, i muscoli ammaccati e il calore bruciante della sua pelle, che, in contrasto con l'ambiente freddo in cui si trovava, la faceva tremare come una foglia, alla fine la vinsero.

La Leonessa si arrese ancor prima di iniziare la battaglia. Pregando in modo confuso di non morire nel sonno, si abbandonò di nuovo all'incoscienza.

 

“Che il Diavolo se lo porti...” aveva commentato Alessandra Scali, quando era giunta con sicurezza la notizia che, qualche giorno addietro, il papa fosse scampato addirittura alla furia di un fulmine, che, invece, aveva ucciso oltre una dozzina di persone che si trovavano più o meno nella stessa ala del palazzo vaticano.

Anche Bernardino e Galeazzo ebbero la tentazione di lasciarsi andare a commenti simili, mentre Sforzino guardava apatico verso la padrona di casa, e Cesare si faceva il segno della croce. Erano tutti radunati nel salone, dove l'uomo di fiducia della Scali era arrivato a dare notizie fresche dell'Urbe. L'unico che mancava era Ottaviano, chiusosi in stanza da paio d'ore, a sua detta per scrivere una degna risposta all'ultima lettera della madre.

“E di nostra madre? Si sa nulla?” chiese a un certo punto il piccolo Feo, dato che l'informatore stava passando a parlare della presenza scomoda di Giannotto a Pisa, che stava portando più grattacapi ai suoi alleati fiorentini che non ai nemici.

“Ancora nulla di certo.” ammise l'uomo, che, quando era partito, aveva a mala pena fatto in tempo a sentire che c'erano grandi maneggi in gioco per lei, ma che non aveva avuto modo di parlare direttamente con nessuno: “E tanto meno notizie certe di messer Fortunati, mi spiace.”

“Per quelle chiederemo il prima possibile a messer Braccio.” si intromise Ottaviano, che era arrivato proprio in quel momento, tenendo una lettera ancora aperta tra le mani: “In fondo voi avevate solo il compito di curare ciò che faceva il papa, o mi sbaglio?”

Nessuno gli rispose e, nel giro di pochi istanti, il delatore riprese a parlare, spiegando abbastanza dettagliatamente di come il santo padre fosse stato soccorso dopo che il fulmine gli aveva fatto crollare addosso mezzo palazzo.

“Devo farti leggere una cosa.” disse piano il Riario più grande a Cesare.

L'Amministratore Apostolico dell'Arcidiocesi di Pisa assunse un'espressione grave, come a voler rimproverare il fratello per volerlo distrarre dal resoconto riguardante la salute del pontefice.

Tuttavia, quando Ottaviano mosse un po' la missiva che aveva appena redatto, il secondo si fece convincere e lo seguì senza aggiungere più altro in una stanza più tranquilla e riparata.

“Leggila.” lo incitò Ottaviano: “La dovrai firmare anche tu.”

Cesare spianò per bene la pagina, e cominciò a scorrere una riga dopo l'altra. Il messaggio cominciava con il ricordare alla Tigre la questione della custodia di Giovanni, lasciando intendere che Ottaviano non aveva alcuna intenzione di spendere fatica e denaro per mantenerla. Dopodiché si passava a calcare la mano sul fatto che loro stessero facendo di tutto per trovare un accordo con il papa, ma che la loro madre non facesse altro che mettere loro i bastoni tra le ruote.

Richiamando alla memoria proprio l'ultima missiva della Leonessa, il suo primogenito aveva scritto: 'per chiarire la Signoria Vostra che noi l'amiamo in verità, più che matre, e dato che noi sapiamo che quella è patientissima a sopportare ogni disagio, como ella scrive, confortandosi ad non havere rispecto a lei accio non impoveriamo affacto' finendo con il ripetere che, da parte loro, lo sforzo c'era stato e pure consistente.

Cesare, stringendo le labbra sottili, fu tentato di dire qualcosa in merito, ma continuò ugualmente a leggere: 'Infine noi abbiamo facto più che la signoria Vostra non ci ha richiesto e ogni nostra cossa per amore di quella habbiamo messo in mano d'altri adconsentendo ancora di perdere e beneficij chio Arcevescovo ho in Romagna che oltre gli altri danni, ne termini ce retroviamo, questo non e piccolo e siamo contenti per trarla uno tracto di tanta servitu, e miseria.'.

“Come ti sei permesso di scrivere, in questo passaggio, come se fossi io a dettare?” si risentì il giovane, guardando il fratello, che, impassibile, teneva il mento sporto in fuori e le braccia incrociate sul petto.

“Dovresti vedere qualche riga sotto, quando scrivo che deve lasciar fare a Dio, che non l'abbandonerà e tutte quelle cose da prete in cui sei tanto bravo...” ribatté il maggiore, indicando con il dito la parte di cui stava parlando.

Al che il minore prese a leggere a voce alta: “Cofortatevi adunque e raccomandatevi a dio: perche tutte l'altre speranze sono vane: Egli è forza Madonna nostra carissima che la Signoria Vostra scriva una lettera ad Lorenzo in la forma vedra questa inclusa copia, altrimenti ne lei ne noi hara mai un soldo: se la Signoria Vostra ce ama come noi facciamo quella...” scuotendo il capo, il Riario esclamò: “Hai scritto Dio con la lettera minuscola! Ti rendi conto di quello che hai fatto?”

“Se questa è la tua unica obiezione – sorrise Ottaviano – allora posso ritenermi contento.”

Cesare non commentò, arrivando fino in fondo, passando per le ripetute raccomandazioni di scrivere a Lorenzo, finendo con un pragmatico: 'Crediamo che sera bene che la Signoria Vostra strazi subito questa lettera ad cio non venisse in mano del Papa e vi restringessi ad qualche piu suo disegno, e raccomandiamci alla Signoria Vostra del continuo. Florentie die 4 de lujo 1500.'.

I due fratelli si guardarono per un lunghissimo istante e solo dopo aver ragionato a fondo su ogni cosa, il più giovane disse, seppur con scarsa convinzione: “Tentare non nuoce.”

“Dobbiamo essere uniti in questa cosa, fratello.” fece presente Ottaviano.

Il modo in cui lo disse, però, ebbe un effetto strano su Cesare. Il giovane, infatti, rivide in quelle poche parole la stessa cieca baldanza di molti anni prima, quando il maggiore l'aveva convinto della necessità assoluta di togliere di mezzo il Barone Giacomo Feo. Quello spettro, che mai se n'era davvero andato dalla sua anima, gli fece trattenere il respiro per qualche istante.

“Cercare Lorenzo Medici credi davvero sia una mossa saggia? Nostra madre non accetterà mai di...” cominciò a dire Cesare, cercando, pallidamente, una via per far retrocedere Ottaviano, o, almeno, per indurlo a rivalutare meglio la situazione.

“Se daremo Giovanni a Lorenzo – lo zittì subito il più grande – lui farà tutto quello che vogliamo, anche convincere il papa a darmi uno Stato!”

Il Riario più giovane strinse le labbra sottili e fece una breve smorfia, prima di dire, più distaccato di poco prima: “Come dici tu.”

 

Giovanni Lucido, oratore mantovano a Roma, stava attendendo trepidante il suo turno per parlare con il papa. Da quando il fulmine aveva colpito il palazzo, mettendo in serio pericolo la vita stessa del pontefice, non era stato così facile ottenere un abboccamento con lui.

Quando finalmente gli venne concesso di entrare a colloquio, l'uomo fece la sua migliore riverenza e poi chiese al Santo Padre, più a scopo di prammatica che non per vero interesse, come stesse.

Anche Alessandro VI parve cogliere la totale mancanza di interesse del diplomatico per le sue condizioni di salute, tanto che, dopo aver risposto con uno sbrigativo 'mai stato meglio', chiese, pungente: “Cosa vuole sapere, la vostra signora?”

Lucido fece un sorriso vago e ribatté: “Non sono certo qui per soddisfare le curiosità della Marchesa Isabella...”

“Certo...” borbottò Rodrigo, sistemandosi meglio sullo scranno su cui lo avevano issato ormai da ore, e da cui non vedeva l'ora di scendere per rimettersi a letto: “Immagino che sia stato il Marchese Gonzaga a domandarvi informazioni...”

La risata un po' roca del papa non poté non suscitare una breve risposta da parte di Giovanni, che, tuttavia, tornò subito serio nel rispondere: “La Marchesa Isabella è molto attenta agli affari di Stato e a ciò che accade nel mondo... Suo marito, il Marchese, ripone in lei la massima fiducia e quindi...”

“E quindi sappiamo tutti chi porta i pantaloni, a Mantova. E, mi duole dirlo, non è certo il caro Francesco...” borbottò il Borja, ammiccando in modo insinuante: “Quell'Isabella, che diavolo di donna... Scommetto che è solo merito suo, se alla fine lei e suo marito sono riusciti a partorire un bel maschio...”

Il modo in cui il pontefice aveva sollevato un sopracciglio, non piacque affatto a Lucido. Non era la prima volta in cui sentiva fare allusioni al fatto che, forse, Francesco Gonzaga aveva avuto ben poca parte, nel concepimento del tanto sospirato erede, ma aveva sempre pensato che far finta di nulla fosse meglio che impuntarsi nel difenderlo, perché facendo così avrebbe solo avvallato quel genere di dubbi. In più, la Marchesa non stava facendo assolutamente nulla, per aiutare la causa, anzi, continuava a circondarsi di musici, artisti e letterati, tutti uomini, tutti giovani e tutti molto più belli del povero Francesco.

“A proposito di donne e diavoli...” fece Lucido, facendo in parte eco alle parole del papa: “Che mi dite di Madonna Sforza? Mi dicono che non è più al Belvedere...”

Alessandro VI inclinò appena la testa di lato, sistemandosi la cuffietta con la punta di indice e medio, e chiese: “Vi interessano più le sorti di Madonna Sforza che le mie?”

“Non ho assolutamente detto questo...” riparò Giovanni, temendo di aver fatto un passo falso difficile da rimediare.

“Se proprio lo volete sapere – fece a quel punto il Santo Padre, pensando che sarebbe stato meglio non fare tanti misteri, in modo da convincere Lucido che fosse tutto nella norma, alla luce del sole e ben accettato anche dai francesi – per sua sicurezza Madonna è stata spostata in castello qualche giorno fa.”

In realtà il diplomatico aveva già sentito qualche chiacchiera a riguardo, tanto da averne già scritto ai Marchesi, ma era soddisfatto di averne avuto conferma tanto facilmente.

“Ed è a Castel Sant'Angelo da sola?” chiese Giovanni, fingendosi molto sorpreso.

“Ovviamente no.” disse prontamente Rodrigo: “L'ho fatta scortare da due ancelle. E comunque, non è detto che sia la sua dimora definitiva. Messer Braccio mi porta quotidianamente nuove proposte dei Riario da vagliare e io sono disposto ad ascoltare, almeno per ora..”

Il diplomatico, che sospettava di aver capito la situazione molto meglio di quanto il pontefice credesse, ribatté con un tranquillo: “Ovviamente. Siete molto disponibile, Vostra Santità.”

Il papa fece un cenno con la mano e passò a parlare d'altro. Fece domande su domande, senza scomporsi più di tanto, malgrado la sfacciataggine di certe richieste, ma Lucido fu abbastanza abile da rispondere solo ai quesiti a cui sapeva di poter rispondere.

Finito il colloquio, Lucido tornò in fretta ai suoi alloggi e, preso il necessario per scrivere, si affrettò a vergare una missiva per la Marchesa, avendo ben cura, come sempre, di intestarla invece al Marchese, in modo che, in caso di intercettazioni, non fosse subito chiaro a tutti come fosse in realtà Isabella la vera mente di Mantova.

Si ricordava ancora cosa aveva scritto nella sua ultima lettera, vergata appena due giorni addietro: mosso dalla sorpresa dell'aver saputo la Sforza a Castel Sant'Angelo – fortezza dotata certamente di confortevoli alloggi, ma anche di rigidissime prigioni – non aveva infatti esistato a esprimersi con toni forti.

Il 5 luglio aveva infatti scritto: 'Madonna de furli gia qualche di el papa la pose in castello per menor spesa e fatica de guardarla, se facto cum lei come fa la gatta verso el sorego, cum il quale iocha e poi lo mangia; per alcuni mesi è stata molto carezata respective al caso, poi al ultimo l'hanno posta là.'.

Quella sera, invece, non se la sentiva di usare ancora toni tanto forti. Finché non avesse scoperto di preciso come fossero andate le cose, era più prudente restare sul vago.

Così, dopo averci ragionato a lungo, preferì una linea di narrazione intermedia, riferendo ciò che il papa aveva detto, ma esimendosi dal fare commenti personali. Se la Marchesa avesse avuto intenzione di farsi una propria opinione, in fondo, le sarebbero di gran lunga bastate quelle poche righe.

'Dopoi chel papa ha posto in castello la contessa di forli cum due donne a servirla, la Sig.ia de fiorenza ha mandato qua suo homo a solecitar dacordo fra el papa e figliuoli dessa, havendo monstrato el papa volerli dar cinque m.a d.ti de intrata in beni temporali e beneficii altre tanti e la conclusione se strenge ma fatta non è.'.

Scritto ciò, terminò il messaggio con qualche altra annotazione, firmò e preparò la lettera alla spedizione.

Personalmente, non nutriva eccessiva curiosità verso la vita della Tigre di Forlì, ma poteva capire quella provata dalla sua signora. Isabella guardava a Caterina Sforza come a un esempio, da anni, ma ancora non le era chiaro se fosse un esempio da emulare o da prendere come monito. Forse, le vicende di quelle ultime settimane, e l'incarcerazione – perché tale era, secondo Lucido – della Leonessa a Castel Sant'Angelo, avrebbero finalmente fatto capire alla Marchesa quanto fosse pericoloso, avere certi idoli nel proprio pantheon.

   
 
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