Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: yonoi    08/10/2020    9 recensioni
Un italiano a Tōkyō, un lutto recente per la perdita dell’amata Fumi, una donna giapponese. Due lavori – il servizio di pulizie in una grande azienda e un part time in un ristorante – che non aiutano a colmare interamente la solitudine. All’improvviso un incontro, qualcosa di Fumi sembra tornare nelle delicate sembianze di un giovane cliente del locale.
Prima classificata al contest “Folklore d’Italia” indetto da Vintage sul Forum di EFP; partecipa alla challenge "Riproviamoci! Challenge a tempo" indetta da Mystery Koopa sul Forum di EFP.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
“Penso spesso a un’immagine
che solo io vedo ancora,
e di cui non ho mai parlato.
È sempre lì, fasciata di silenzio,
e mi meraviglia.
La prediligo fra tutte,
in lei mi riconosco, m’incanto.”
(M. Duras, “L’amante”)
 


2. Un’immagine fasciata di silenzio
 

Due fiocchi nel silenzio / nel tuo sguardo lontano / incomincia l’inverno.
Sul bordo del mio quaderno da disegno mi piace appuntare ogni tanto un verso. È come se lei fosse seduta accanto a me sulla sabbia, stretta tra le ginocchia e la sciarpa, mentre il suo occhio obliquo sbircia sui fogli. Allora le rivolgo qualche breve parola.
Mi piace venire qui alla mattina presto, a raccontare storie davanti al mare. Proporre i miei fumetti nel paese dei manga, entrare a far parte di qualche studio professionale sarebbe in realtà il motivo – quello ufficiale – per cui sono rimasto in Giappone dopo la morte di Fumi. Nei giorni di riposo che Muso ci dispensa col contagocce, cerco di ricordarmelo. Allora prendo il mio album e inforco la discesa che inizia dietro la casa della Momoko-san.
Un viottolo polveroso ruzzola tra enormi piante di aloe, simili a divinità di pietra con tante braccia. Dopo un breve tragitto, arrivo a una spiaggia bigia e a un orizzonte di onde perennemente agitate.
Qui soffia un vento gelido anche d’estate. Un cartello che rimbomba a ogni raffica, superando persino il rumore del mare, elenca tutto ciò che è vietato fare in questo minuscolo spazio: nuotare, bere e mangiare, giocare a pallavolo, a calcio, con le racchette. Infastidire i vicini schiamazzando al cellulare, anche se il volume della risacca è così alto che è quasi impossibile disturbare.
L’oceano si dispiega dietro al guinzaglio di rocce della scogliera, inarca il dorso e drizza creste di spuma. I pochi che si spingono fin qui a passeggio col cane, i pescatori che fanno la spola dalle barche, appaiono e scompaiono come fantasmi dentro ai cappucci degli impermeabili. 
Il cartello dei divieti me lo sono fatto tradurre da Be, dopo averlo copiato più o meno fedelmente su uno dei miei fogli, nel solito tentativo di afferrare qualche parola di giapponese.
Un’unica frase Be non era riuscito a leggere, dovevo aver sbagliato nel riprodurre i caratteri. Vietato respirare, avevo suggerito. Vietato far suonare i furin, aveva scritto Be sulla sua strisciolina. Vietato soffiarsi il naso, avevo aggiunto io, ricordando quel giorno in cui, appena scesi dalla scaletta in aeroporto, persino Fumi si era voltata a guardarmi di traverso. Vietato dire che Muso assomiglia a un sacco di patate, aveva contrattaccato Be, ridendo come un matto. Vietato fare sesso, stavo per dire io, salvo trattenermi all’ultimo momento per non offenderlo.
Così era nata l’amicizia tra me e il signor Be, con la complicità di un cartello roso dalla salsedine, piantato su una spiaggia dove soltanto io riuscivo a resistere intirizzito più di cinque minuti.
 
******
 
In spregio alla regola che impone di non parlare al cellulare, tanto il divieto è in ideogrammi e il mio interlocutore ne sa quanto me, puntuale arriva una chiamata da mio fratello.
“Sei di riposo?” La sua voce si fa strada in una tempesta di scricchiolii, accentuata dal vento che oggi è particolarmente molesto. Le barche dei pescatori, attraccate al piccolo molo, paiono i seggiolini oscillanti di una giostra.
“Sto cercando di mettere insieme una storia,” mi affretto a rispondere, tanto per non confermare l’impressione, peraltro corretta, che nel Paese del Sol Levante mi limito a ciondolare impelagato nei ricordi. Del lavoro di lavapiatti Giulio non ne sa nulla, ufficialmente sono impiegato alla Bio Nihon anche se non è chiaro con quali mansioni. Confondere le tracce è l’unica abilità in cui sono riuscito a raggiungere l’eccellenza, ma Giulio mi conosce ed è poco propenso a farsi depistare.
“Di cosa parla questo nuovo fumetto?” prova a sondare. “L’hai già fatto vedere a qualcuno? Insomma, come stai?” Quando ritorni a casa, è la vera domanda che cuce come un filo tutte le altre.
La mia esitazione corre lungo la linea ed è già una risposta.
“Ho mostrato a un amico di Stefania i tuoi schizzi, lui lavora in una casa editrice. Mi sembra interessato. Quando ti deciderai a tornare, fisseremo un appuntamento.” Ecco, l’ha detto. “Tu intanto segnati questo nome, Enzino Morini. Ha lo studio in via de’ Griffoni.”  
D’un tratto via de’ Griffoni, un vicolo attorcigliato nel centro della mia città, mi sembra più remoto dell’altra faccia della luna.
Cerco di rintracciare su una mappa di volti il profilo di Stefania, mia cognata. Trentotto anni, capelli perfettamente lisciati dalla piastra, la pelle maculata dall’abbronzatura in ogni stagione. Un ventaglio di rughe attorno alle palpebre e una voce che squittisce soprattutto di vacanze, Sharm e Sankt Moritz, chi c’era e chi non c’era, l’abitudine di chiamare i pezzi grossi col nome proprio e tutti gli altri tesoro. Dirigente d’azienda, eppure così diversa dai direttori di qui, da Hirano Ryumei in primo luogo, e chissà perché mi esce tutt’a un tratto quel paragone assurdo.
Forse perché, sull’albo, ho abbozzato un ritratto di lui con il crisantemo bianco. La cosa più difficile è stato riprodurre con la miglior precisione il movimento delle dita che rompevano il gambo, il garbo e l’infinita compostezza del gesto.
Giulio direbbe che sto dando i numeri e forse non sarebbe lontano dal vero. Fortuna che è lontano da qui diecimila chilometri e otto fusi orari, sicché non può spiare sull’albo.
Dopo aver chiesto notizie di Stefania, dei bambini e di quel moncone di vita che è rimasto in Italia e mi è sempre più estraneo, risalgo dalla spiaggia, dove ormai fa decisamente troppo freddo.
Una pioggerella impalpabile mi accompagna in paese quasi senza bagnarmi. Sulla piazzetta è in corso il mercatino settimanale. L’odore della terra sale, corroborante, mi desta come da un sogno.
Davvero voglio inventarmi una storia con Hirano Ryumei come protagonista? E di cosa parlerà? Del mio licenziamento per aver superato la soglia di rumore consentita in azienda, spingendo troppo forte il carrello delle scope?
Cerco di distrarmi osservando le bancarelle, vecchie stampe e mobilia di recupero, stuoie e paraventi in carta di riso, con voli stilizzati di rondini e gru. Un ragazzino abbarbicato a una stufetta, gli occhiali spessi tra la sciarpa e il berretto, è immerso nella lettura di un manga. Non fa caso ai clienti che si radunano a loro volta per leggere, rovistando tra i fascicoli impilati sul banchetto in un silenzio da biblioteca. Il ragazzino si scomoda solo quando qualcuno decide di comprare: allora alza i fondi di bottiglia dal suo libretto e allunga la mano, per poi riporre gli spiccioli dentro a un porcellino salvadanaio. Probabilmente i manga sono di sua proprietà e il ragazzo li vende per farsi un gruzzolo. 
Ovunque si diffonde un aroma di pesce fritto, che proviene dal chiosco dove un’anziana ossuta muove continuamente, con un forchettone, tempura di gamberoni e anelli bianchi di seppie.
Mi crogiolo in quel tepore che giunge a folate, ma ciò che attira la mia attenzione è il banchetto presidiato da un altro anziano, che espone oggetti di una bellezza inconsueta. Sono vassoi e ciotole, tazze da tè percorse da sottili venature dorate che seguono una trama del tutto casuale. È come se tenessero insieme dei cocci, facendo risaltare i punti di rottura invece di nasconderli.  
Il vecchietto combatte il freddo stropicciandosi le mani nei guanti, e a differenza del ragazzino dei manga, si entusiasma sul serio quando mi avvicino alla sua bancarella.
Il filo di barbetta che gli pende dal mento trema per il fervore o forse per il gelo, mentre attacca a spiegare le peculiarità della sua mercanzia. Quando finalmente si accorge che di quel diluvio di parole non ne ho afferrata neppure una, fa marcia indietro e riprende daccapo, questa volta in un inglese così sbilenco che capisco ancora meno. Americano, prendi, mi dice alla fine, allungando un opuscolo. Americani tutti imbecilli, aggiunge tra sé, e questa è l’unica frase che riesco a cogliere in pieno, perché del giapponese conosco soprattutto gli insulti grazie alle lezioni intensive di Muso.
Mentre il vecchietto recupera un po’ di tepore strofinandosi forte le mani nelle muffole, sfoglio l’opuscolo che, miracolosamente, contiene una spiegazione anche in italiano. In pratica, il nonnetto è un esperto di kintsugi, l’arte di riparare decorando le crepe con lacca e polvere d’oro.
Far splendere le ferite è un atto di devozione, recita la massima posta in calce alla foto di un vaso di calle bianche, attraversato da una diagonale di luce. Ciò che si rompe in realtà cambia aspetto e mostra la bellezza di ciò che ha vissuto.
Mentre ripongo l’opuscolo nell’album da disegno, so già a chi vorrei donare uno di quegli oggetti così raffinati e colmi, al tempo stesso, di un significato profondo.
A Fumi ormai non posso regalare più niente. Ma a Hirano Ryumei piacerebbero, mi dico, salvo rendermi conto una volta di più dell’assurdità dell’intera faccenda. Per quello che ne so, quel tizio potrebbe essere un lettore accanito di manga, come i tanti pendolari che incontro ogni mattina sull’autobus. A Hirano Ryumei piacciono i manga hentai, m’invento, per sfuggire a quella che sta diventando un’ossessione.
 
******
 
Dopo quella sera in cui il padiglione l’aveva accolto propiziandogli il sonno, Hirano Ryumei ha continuato a frequentare il locale, senza più addormentarsi ma sempre alle ore piccole. Le undici, mezzanotte, quando Muso comincia a spegnere le luci e si affaccia tra le cordicelle della porta, il tempo di una sigaretta in santa pace poco prima di chiudere. Gli sgabelli sono già ribaltati sui tavoli, le stoviglie a scolare sopra agli strofinacci. Be si aggira con il secchio del mocio e l’aria rilassata di chi sa che per oggi, finalmente, è finita. 
Finché le cordicelle della porta si scostano e a fare la sua comparsa non è il grembiule costellato di macchie sul grosso ventre di Muso, ma la figura verticale e un po’ legnosa di Hirano Ryumei, che si fa avanti con la perfetta padronanza di chi entra in casa propria. Con sé ha la valigetta del portatile e il consueto profluvio di carte.
Alle sue spalle, col passo da grosso granchio che in quel momento tradisce tutta la sua esasperazione, arranca il signor Muso. La scarica di accidenti che rivolge tra sé a Hirano Ryumei è poco più di un fumetto che solo io immagino galleggiare sulla sua testa.
Afferro al volo il menu con la nappa rossa e mi fiondo nel padiglione.
Hirano Ryumei prende atto della mia presenza al tavolo con un cenno del capo, s’immerge nella lettura del menu o forse in altri pensieri, fatto sta che ogni sera ordina sempre la stessa cosa, ramen con verdure oppure verdure e ramen. Quando li ha davanti, neppure li assaggia. Si limita a rigirarli un poco nel piatto come per dare a intendere che qualcosa ha mangiato. Quando passo a ritirarli, li ritrovo ogni volta praticamente intatti.
Forse Hirano Ryumei si sfama mangiando il menu con gli occhi.
Io attendo piacevolmente impalato al suo fianco, per quel che mi riguarda potremmo andare avanti così fino al mattino. Dalla mia postazione, mi limito a condividere un frammento di notte con quell’uomo solitario che mi ricorda Fumi. Il cliente passa in rassegna le pietanze o pensa ai fatti suoi, io a mia volta annoto particolari e dettagli.
Apparentemente, quel tizio non è così diverso dai suoi colleghi dirigenti, né dai tanti impiegati che frequentano il locale. Eppure c’è qualcosa che mi attrae irresistibilmente nel suo modo di muoversi e riempire lo spazio con una sorta di grazia. Hirano Ryumei possiede quell’eleganza innata che è un dono di natura e che non ho mai visto, così evidente, in nessuno.
Ogni sera si ripete lo stesso cerimoniale. Il cliente contempla il menu per un tempo da qui all’infinito e poi ordina il ramen che Muso, dietro al bancone, ha già recuperato da qualche fondo di frigorifero e tenta di rianimare, con l’aggiunta di brodo e imprecazioni varie.
Finché una sera in cui il ramen tarda a resuscitare e io ho appena servito il nostro sakè migliore per prendere tempo, a un certo punto Hirano Ryumei raduna le carte, chiude il portatile e si rivolge a me. Mi aspetto delle rimostranze per il ritardo e per l’alcool, perché so che a differenza degli altri boss Hirano Ryumei non beve, ma vai tu a spiegarlo a quel testone di Muso.
Invece, da quella voce sempre calma e controllata, esce tutt’altro:
“Lei lavora anche per noi, se non sbaglio.” È quasi l’una di notte e la morbidezza del tono si arricchisce di ombre. “È qui per studiare?”
Chissà perché mi viene spontaneo dire le cose così come sono. Nessun accenno all’ambizione di sfondare nel paese dei manga, ma più semplicemente:
“Ho perduto mia moglie. Lei era di Tōkyō.”
Hirano Ryumei mi scruta, soprappensiero. Sta per dire qualcosa ma all’ultimo si trattiene, si limita a chinare le ciglia sul piatto vuoto e le parole muoiono su quelle labbra piene che non sorridono mai. Io invece continuo, e va’ a capire perché.
“Fumiko, mia moglie, era molto malata. È successo un anno fa. Qui ci sono tante cose che me la ricordano. È come averla vicino.”
Il mio interlocutore annuisce. I margini consentiti dalla sua educazione sono un po’ troppo stretti per condividere fatti così personali, ma ho il sospetto di averlo colpito sul vivo, perché di punto in bianco cambia discorso:
“Presto dovremo abolire il servizio di pulizie e affidarlo a una ditta esterna. È una decisione che non dipende da me.”
Devo dire che un licenziamento per un motivo o per l’altro prima o poi me lo aspettavo, sicché, malgrado tutto, non riesce a cogliermi di sorpresa. Il suo volto non lascia trapelare nessuna emozione, eppure ho l’impressione che Hirano Ryumei abbia tirato fuori quella faccenda per sottrarsi ad altri argomenti e pensieri.
Sul tavolo c’è un vaso di crisantemi bianchi. Fiori finti stavolta, più economici secondo il parere di Muso, nonché meno propensi a dar luogo a incidenti quando i boss della Bio Nihon cenano qui e i simposi finiscono puntualmente con una sbronza di gruppo.
Hirano Ryumei saggia tra le dita la consistenza di un petalo. Dal bancone, Muso fa cenno di andare a recuperare la scodella del ramen.
Nei giorni successivi, non accade un bel niente. Alcuni colleghi degli altri turni spariscono da un giorno all’altro, sostituiti da altre facce e carrelli diversi, con un logo che riprende il colore bianco e verde delle loro uniformi. Io però non ricevo nessun avviso, sicché è evidente che il mio contratto part time dipende dagli umori di Hirano Ryumei più di quanto lui stesso sia disposto ad ammettere.
 
 ******
 
A volte mi domando come mai un uomo del genere non abbia un altro posto dove andare la sera, piuttosto che ordinare il solito ramen in un locale che non è certamente di prima classe. Senza dire che quel ramen Hirano Ryumei non lo assaggia neppure. È chiaro che si tratta di una scusa per poter occupare un posto nel locale. Nel padiglione d’oro, per di più.
Secondo Be, non ci sono misteri. “Lavora,” sostiene il mio collega, o meglio lo annota su una delle solite striscioline di contrabbando. “Quelli lavorano tanto, lavorano sempre. Se la ditta li licenzia è finita, nessuno li assume più.”
Talvolta, in effetti, durante il turno mattutino alla Bio Nihon mi capita di scovare quella che, a una prima occhiata, sembra una giacca dimenticata da qualcuno. Puntualmente, dentro alla giacca c’è anche il suo proprietario con la testa crollata sopra alla scrivania.
“Scadenze, straordinari,” insiste Be che tra i mille mestieri di una vita è stato anche fattorino in una ditta. “Fanno così tardi la sera che non vale la pena di ritornare a casa, specie se abitano molto lontano.”
Hirano Ryumei arriva al ristorante con grande profusione di carte, accende il portatile e mangiare è la sua ultima preoccupazione. Eppure, il carico di lavoro non mi pare l’unica e verosimile ragione per cui debba accamparsi nel nostro ristorante, invece di raggiungere la villa dai molti tatami dove probabilmente abita, almeno stando alla mia immaginazione.
Forse una casa vera Hirano Ryumei non ce l’ha, e per casa intendo un luogo dove ci sia qualcuno che aspetta il tuo ritorno. Anche la sua espressione algida e concentrata mi è sempre sembrata triste.
Una malinconia di vecchia data dietro a una facciata di perfetta efficienza: è questo a rendere Hirano Ryumei così inaccessibile e in fondo così diverso da Fumi, che ha sempre continuato a sorridere nonostante tutto. L’unica volta che la ricordo seriamente arrabbiata fu quando mi cacciai in testa che dovevo conoscerla e la inseguii fin dentro ai camerini del teatro, dopo un concerto. Ho ancora sulla fronte la piccola cicatrice dovuta al colpo d’uscio che mi arrivò dritto in faccia. 
 
******
 
Be intuisce i miei pensieri come se li leggesse dentro al vocabolario di lingua cinese che tiene sotto l’acquaio e in cui s’immerge nei momenti di tregua, quando il locale è vuoto e Muso si concede un sonnellino nel retro. Pare sia innamorato della ragazza che impacchetta involtini primavera nel China Express di fronte, guardata a vista da un nutrito clan di parenti che parlano giapponese come lo parlo io. Così Be, nei ritagli di tempo, studia il cinese per potersi recare dal padre di Shu e chiedergli di sposarla. L’unico risultato che ha rimediato finora è stato di finire a gambe all’aria sul marciapiedi, preso per la collottola da una decina tra zii, cugini e fratelli di Shu, che in cinese significa gentilezza.  
In compenso, l’intuito del mio collega si è affinato. Ogni volta che Hirano Ryumei entra nel ristorante, Be intercetta subito il senso di straniamento che mi coglie d’un tratto.
Allora comincia a ridere, stringendosi le narici generose con la punta delle dita. C’è puzza sotto al naso, è il messaggio in codice. O meglio, quello è il soprannome che il signor Be ha assegnato al nostro cliente abituale, per via di quell’aria che a lui sembra arrogante e a me soltanto triste.
Vai, vai, che ti aspetta, scrive Be sulla solita strisciolina quando Hirano Ryumei entra nel padiglione e si guarda attorno aspettando l’arrivo del menù.
“Non sta fissando me,” replico io, colto sul fatto.
È vero, annota rapido Be, accennando al possente deretano del nostro capo, chino a frugare nel frigorifero. Sta contemplando Muso che danza col ventaglio e il kimono da geisha.
A quel punto il signor Muso, sentendosi evidentemente preso per quel didietro che sporge dallo sportello, ci appioppa un ringhio per uno spedendoci ad accendere le luci e ad accogliere l’ospite. Be si dirige puntualmente verso gli interruttori, buttandomi per l’ennesima volta in pasto al fascino indecifrabile di Hirano Ryumei. 
Da ultimo, il nostro cerimoniale si è arricchito di nuovi particolari. Quando la scodella del ramen è già servita al tavolo, il bicchiere di minerale crepita nel suo angolo e il piatto di verdure è arrivato anche lui a destinazione, Hirano Ryumei spegne il computer e inizia con le domande.
Da quella sera in cui ha rotto il ghiaccio chiedendomi del mio soggiorno in Giappone, deve avere intuito che esistono tra noi segrete affinità che vale la pena di approfondire. Per questo, puntuale come se io fossi parte delle scartoffie, accende una sigaretta e inaugura il momento dedicato alle confidenze. Confidenze da parte mia, naturalmente, perché di se stesso, Hirano Ryumei non svela neanche un’ombra.
Forse anche il mio cliente ha perduto qualcuno e ci tiene a sapere come si resta in piedi dopo un fatto del genere.
È chiaro che sfrutta la sua posizione per venire a conoscere quello che gli interessa, ma lo fa con cautela, quasi con timidezza. Il suo tratto è gentile, sicché mentre continua a tormentarmi su Fumi, sulla sua malattia e su come sono riuscito a rimettermi in piedi dopo, m’invita ad accomodarmi sulla poltrona di fronte. Alle mie spalle, avverto le sopracciglia di Muso sfuggire letteralmente dalle tempie: neppure lui si prende la libertà di sedere nel padiglione e tra l’altro il locale dovrebbe essere già chiuso da un pezzo.
Ma Hirano Ryumei è una lanterna di luce ardente, attorno a cui volteggio pur rimanendo immobile sulla poltrona foderata di seta. M’immergo nel fumo della sua sigaretta, rispondo alle domande della sua voce profonda e per quel che mi riguarda non me ne faccio nessuna.
So solo che accanto a lui mi sento in compagnia di più persone: l’uomo che ho di fronte ma anche Fumi che mi parla con la sua voce, mi chiede cosa faccio quando la nostalgia è forte, come sto impegnando il tempo che mi è rimasto. Una sera porto con me i miei album, mostro a Fumi i disegni, la storia del nostro primo incontro a teatro, il mio inseguimento dopo il concerto e la botta sul naso.
Solo il ritratto di Hirano Ryumei con il crisantemo, possibile inizio di un’altra storia, non lo mostro di certo al diretto interessato.
“Davvero le ha sbattuto la porta sulla faccia?” domanda il mio cliente. Sfoglia le pagine con le sue dita lunghe, che sopra a un pianoforte sarebbero perfette.
“Esattamente,” confermo, mostrando la piccola cicatrice. “Poi però, per farsi perdonare, Fumiko ha accettato un invito a cena.”
Hirano Ryumei si protende per osservare meglio, il suo sguardo si posa sulla mia fronte. D’un tratto mi rendo conto che quello che desidero non è più la vicinanza di Fumi, bensì quella di lui.
In preda alla confusione, mi alzo e do una testata contro l’arco d’ingresso del padiglione.
“È successo più o meno così,” aggiungo, completamente rintronato. Metaforici uccellini mi svolazzano cinguettando nel cranio, ma la visione di Hirano Ryumei davanti a me si conserva nitida.
Non credo di aver mai visto in vita mia nient’altro di così limpido e chiaro.
Il cliente è sbalordito. “Guardi che avevo capito,” si scusa, “non c’era mica bisogno di farmelo vedere.”
Be allunga il collo da dietro al bancone, io faccio segno che tutto procede al meglio.
Intendevo sfuggire a una vicinanza eccessiva, ma non ho fatto che peggiorare la situazione. Subito dopo, infatti, Hirano Ryumei versa un po’ d’acqua su un fazzoletto e preme quel tampone improvvisato sulla mia fronte. Segue la traiettoria dello zigomo e del mento e giunge fino al collo, ad asciugare un rivolo che evidentemente considera preoccupante.
Il calore del sangue mi scende dalla testa, s’insinua un po’ ovunque e va a finire chissà dove.
“Ci vorrebbe del ghiaccio,” mormora Hirano Ryumei, con la sua voce suggestiva.
No, è sufficiente che tu non smetta, per me puoi continuare fino a domani.
I suoi occhi percorrono le linee del mio volto insieme all’aroma di colonia del fazzoletto.
Sono tentato di prendere le dita di Hirano Ryumei tra le mie, ma al tempo stesso non so cosa potrebbe succedere. Sicché a un tratto sparo a bruciapelo una domanda, anzi due:
“Quindi anche lei ha perso sua moglie? C’è qualcos’altro che desidera sapere?”
Vedo gli occhi di Hirano Ryumei, fino a un attimo prima dilatati dall’apprensione, ritornare a due fessure di ghiaccio.
“Non credo che i miei fatti personali la riguardino,” risponde, abbandonando il fazzoletto sul tavolo e recuperando una distanza di cortesia. Cala tra noi un sipario a meno dieci gradi, mentre io recupero quel tampone insanguinato perché, piaccia o no a Hirano Ryumei, continuo a zampillare a dirotto.  
Di lì a poco il cliente consulta l’orologio, raduna le sue carte e chiede il conto. 
 
******
 
Per qualche sera Hirano Ryumei non si fa vedere al locale e io mi scopro a desiderare così intensamente la sua presenza che una mattina, durante il solito giro di pulizie, capito nel suo ufficio come tirato da un filo invisibile. Lo studio del direttore del personale è una stanza anonima, identica a quelle di tutti i capi della Bio Nihon. Due pareti occupate da scaffali e una scrivania che avrò spolverato centinaia di volte, senza ricondurla a nessun volto in particolare.
Sul ripiano del tavolo, la schermata di un orologio digitale segna un quarto alle otto. Tra poco l’ascensore arriverà al piano riversando la solita folla di impiegati, le ragazze coi ciondoli di Sailor Moon e Hello Kitty attaccati alla borsa. Un trucco leggero che forse è solo il freddo che viene da fuori e nessuna lattina di tè o caffè bollente che rotoli sbandando fuori dai distributori, richiamata da una moneta e dal desiderio di prendersi un po’ di tempo.
Tra breve inizierà il solito ticchettio di dita concentrate al computer, mentre nei corridoi le macchinette vibrano custodendo il tepore di quelle bevande che non interessano a nessuno. Ogni volta ho l’impressione che le lattine siano sempre le stesse da quando ho cominciato a lavorare qui. Per un attimo, immagino Hirano Ryumei intento a scaldarsi le dita attorno a un tè macha con sopra Totoro. Ciò che è davvero assurdo, non è tanto l’idea di lui che sorseggia da una lattina a fumetti, quanto il fatto che tra le sue mani, al posto di Totoro, vorrei esserci io.
In questo momento, sto spolverando le scansie della sua libreria. Poi passerò al tavolo e infine all’aspirapolvere sulla moquette, sicché ho tutte le ragioni del mondo per essere qui. Ho meno motivi, forse, per curiosare in cerca di qualche indizio su quella vita privata che Hirano Ryumei custodisce così gelosamente.
Su uno scaffale scopro una fila di origami. Piccole gru e una rondine, una volpe più grande e una più piccina, madre e figlia colorate col pennarello. Una traccia di colonia mi riporta alla memoria il tocco delle dita di Hirano Ryumei avvolte nel fazzoletto, e trovo verosimile che quelle minuscole opere di arte e di pazienza sia stato lui a realizzarle. Finché m’imbatto in una ranocchia un po’ storta, scarabocchiata con quel tratto affrettato che è tipico dei bambini.
Così a Hirano Ryumei piace pasticciare con i colori. Certo, non è un grande artista. Chissà come se la cavava all’asilo, penso, mentre passo in rassegna il piano in legno scuro della sua scrivania. Da spolverare c’è poco e niente, non una macchia o un ricciolo di matita nel temperino.
La nettezza di quello spazio che il suo titolare occupa per un numero estenuante di ore al giorno, coincide con l’idea che mi sono fatto di lui, molto più degli origami sullo scaffale. Al confronto, il tavolo che la Momoko-san mi ha messo a disposizione a casa sua somiglia alla bancarella di un suk mediorientale.
Esasperato da quella carenza di chiavi d’accesso al mondo di Hirano Ryumei, apro a uno a uno i cassetti. La scusa di spolverare in questo caso viene meno, e anche il mio desiderio di rivederlo cede il passo alla necessità, non meno impellente, che il mio cliente non entri in ufficio proprio adesso.
Neanche a dirlo, capita esattamente questo. Lì per lì neppure me ne accorgo, perché sono completamente assorbito da una foto che ho riesumato nell’ultimo cassetto, sotto al solito strato di incartamenti vari. L’immagine è una perfetta combinazione di luci e di ombre. Su uno sfondo di ciliegi fioriti su un paravento, ritrae una donna in abito tradizionale, con un volto di mandorla dolce e al suo fianco un bambino in divisa scolastica.
La donna assomiglia a Hirano Ryumei nella misura in cui tutti i giapponesi si somigliano tra di loro. Il piccolo sorride, molto probabilmente perché gliel’hanno chiesto. Per il resto mantiene quel contegno tra il timido e il solenne che hanno i suoi coetanei quando li incontro alla fermata dell’autobus, in calzettoni, cartella e cestino del bentō. Qui i ragazzini imparano presto ad andare a scuola da soli, a orientarsi nelle stazioni della metropolitana e dei bus. La loro aria seria forse è solo paura di perdersi nella folla.  
Kimono e divisa scolastica m’impediscono di collocare la foto in un tempo reale, che potrebbe essere ieri o cent’anni fa. Difficile stabilire se la foto è un ritratto di lui con la madre o con la sorella, una zia, una cugina. Infiniti intrecci di parentele, tutte ugualmente possibili, si aggrovigliano nella mia testa, finché mi accorgo che il proprietario della foto mi sta di fronte.
Hirano Ryumei si limita ad attendere che io mi accorga di lui.
Evita di strapparmi quel frammento di vita privata dalle mani solo perché è trattenuto da molteplici strati di buona educazione, spessi come cemento. In compenso, mi sta bruciando con gli occhi.
Quando finalmente percepisco nell’aria un cambiamento del clima, tendente al caldo torrido, alzo la testa e la sua rabbia m’investe con la grazia di un lanciafiamme.  
“Se ne vada immediatamente,” intima a bassa voce, e io non me lo faccio ripetere due volte.
Raccolgo in fretta stracci, prodotti e aspirapolvere accatastando il tutto alla rinfusa sul mio carrello. D’un tratto ho un lampo di chiarezza cristallina: gli origami colorati col pennarello, la foto con l’elegante cornice in argento, sua moglie e suo figlio.
Il fatto che la foto non faccia bella mostra di sé sopra alla scrivania dubito che dipenda dal proverbiale riserbo della gente di qui.
 Esco di spinta rischiando di investire due Hello Kitty ritardatarie, borsette a tracolla e tacchi che procedono svelti. A causa della frenata improvvisa, il carrello rovescia tutto il suo contenuto: rotoloni asciuganti, spazzole e detersivi etichettati sotto alla dicitura legno, vetri, pavimenti. Le due Hello Kitty sbandano, sfugge una risatina subito trattenuta perché non io non pensi male, non mi stanno prendendo in giro, sono solo spaventate. Posano le borsette e mi aiutano a raccattare quel pandemonio, mentre io con la coda dell’occhio spio dentro all’ufficio.  
Hirano Ryumei non fa caso al trambusto. Rimane a lungo assorto a contemplare la foto, poi con un colpo brusco la chiude nel cassetto. Un attimo dopo è seduto alla scrivania, ha acceso il computer e immagino abbia già archiviato il mio caso sotto alla voce licenziamento.
Eppure, i giorni seguenti, di nuovo non succede niente.
Mi correggo: una piccola casa editrice, specializzata in manga e libri per ragazzi, mi chiama per un colloquio.

 
******
  
Leggi le 9 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: yonoi