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Autore: Cassandra caligaria    14/10/2020    4 recensioni
Tutti umani, trentenni. Le vicende narrate saranno ambientate per la maggior parte nella Boston dei giorni nostri.
La narrazione sarà tutta dal punto di vista di Edward, con qualche extra dal punto di vista di Bella.
Dal primo capitolo:
Mi guardai intorno ammirando l’eleganza dell’ambiente quando ad un certo punto rividi la ragazza del parcheggio che parlava con Rosalie vicino all’ascensore.
«Lei lavora qui?» domandai a Jasper.
«Chi?»
La indicai con un dito e proprio in quell’istante i nostri sguardi si incrociarono.
«Oh, lei! È l’amministratrice dell’azienda» rispose Jasper divertito.
«Merda.»
«Non conosce altre parole?» mi domandò divertita lei. Ma quando si era avvicinata a noi?
Genere: Commedia, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Emmett Cullen, Isabella Swan, Jasper Hale, Rosalie Hale | Coppie: Alice/Jasper, Bella/Edward, Carlisle/Esme, Emmett/Rosalie, Leah/Sam
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film, Contesto generale/vago
Capitoli:
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Tre brevi avvisi:

  • il capitolo è lungo il doppio del solito;

  • prima di leggerlo, ascoltate quest'aria;

  • ad un certo punto ci sarà da ascoltare un'altra canzone, cliccando sulla parola "canzone" nel testo si aprirà direttamente il collegamento su Youtube.
     



Arrivai a Manhattan giusto in tempo per la consegna di quello che avevo ordinato. Il mio amico Albert aveva lasciato le chiavi dell’appartamento al portiere insieme ai pass che ci sarebbero serviti per raggiungere in serata il palazzo. Il portiere mi consegnò anche il pacco che avevo fatto recapitare qualche giorno prima: un piccolo pensiero per ringraziare Albert per la sua cortesia e che Bella avrebbe apprezzato – se possibile – ancora di più di Albert.
L’attico era perfino più bello di come lo ricordavo e la vista che offriva era spettacolare. Ero felice che Albert non lo affittasse mai per quella sera – di solito lo usava lui stesso per festeggiare il Capodanno – ed ero profondamente grato che avesse fatto un’eccezione concedendolo a me e, per di più, per una cifra ben più che amichevole: mi aveva fatto pagare solo per il servizio di pulizia.
Era un vero peccato che fosse in Florida fino a fine gennaio, avrei tanto voluto farlo conoscere a Bella e mi dispiaceva che non fossimo riusciti a incontrarci prima della sua partenza, era da tanto tempo che non ci vedevamo. La prossima volta che saremmo tornati a New York, avremmo di sicuro organizzato qualcosa per rimediare.
Sorrisi al pensiero di quanto fosse diventato facile, elettrizzante e naturale fare progetti per il futuro.
Uscii nella veranda completamente vetrata e riscaldata che si affacciava direttamente su Times Square. Rimasi senza fiato ed era ancora pieno giorno.
Di sera, con le luci, sarebbe stato ancora più suggestivo.
Potevo vedere il fiume di gente che si era già riversata oltre le transenne, i varchi di accesso alla piazza con i controlli della security, la Drop Ball era stata già posizionata sull’asta e tutto sembrava così piccolo visto dall’alto.
Le terrazze sui tetti attorno a me erano tutte un brulicare di persone che stavano curando gli allestimenti delle loro feste per la grande serata. Noi non avremmo dovuto condividere la serata con altre persone su uno di quei tetti o sulla terrazza di un hotel di lusso né saremmo stati storditi dal vociare delle persone e dalla musica troppo alta. Avremmo avuto a disposizione tutti i benefici offerti da una ben più che confortevole abitazione – a differenza delle persone in piazza, per le quali provai per un attimo un po’ di empatia – e avremmo goduto perfino di una vista migliore.
Saremmo stati solo io, lei e Times Square letteralmente ai nostri piedi.
Ero al settimo cielo, Bella sarebbe rimasta senza parole.
Mi sentivo molto fortunato ultimamente, per diversi motivi, ed era una sensazione magnifica.
Rientrai in casa e per prima cosa andai in bagno a lasciare i nostri prodotti personali e il cambio di indumenti per il giorno successivo. Sicuramente Bella si sarebbe accorta che le mancava qualcosa nell’armadio e in bagno, attenta com’era, ma avrebbe capito e apprezzato la mia premura l’indomani.
Poi andai in cucina e avviai le prime preparazioni per la cena. La cucina era completamente attrezzata, c’erano strumenti che non avevo mai usato né visto in vita mia. Albert aveva un servizio catering di fiducia e in genere quando affittava l’attico, il servizio era compreso nel pacchetto; mi aveva chiesto se ne avessi bisogno, ma per la nostra serata ci tenevo a preparare io stesso la cena e a curare personalmente l’allestimento. Mi avrebbe dato fastidio avere davanti per tutta la sera uno chef e un cameriere o dover mangiare cibo precotto e versarlo dai contenitori ai piatti.
Inoltre, Bella era a New York da più tempo di me, da ormai due settimane, e se iniziavo a essere stanco io – che ero arrivato da cinque giorni – di mangiare sempre fuori o di ordinare pasti da consumare in hotel, lei doveva esserlo dieci volte di più. Sapevo quanto fosse attenta all’alimentazione e ci tenevo anche io. Mi piaceva mangiare bene e non mi dispiaceva cucinare.
Prima di uscire, installai la macchina per il caffè dopo averla lavata con cura e ne preparai un paio per testarla. Li versai nello scarico del lavello, ricordavo bene che i primi non erano proprio il massimo da bere. Infine, sistemai le candele e i fiori. Sembrava davvero tutto perfetto.


Tornai in hotel poco dopo le 17, Bella per fortuna non era ancora rientrata dal suo pomeriggio di benessere. Avrebbe sicuramente sospettato qualcosa se avesse annusato l’odore di cucina su di me e sui miei vestiti e io non volevo rivelarle alcun indizio. Mi spogliai e infilai i vestiti che avevo indossato nella lavatrice presente nel piccolo ripostiglio della suite, insieme all’asciugatrice.
Senza alcun dubbio la presenza di quei confort – piuttosto rari anche negli hotel di lusso – erano stati determinanti nella scelta dell’hotel. Bella era un’esperta viaggiatrice e non lasciava mai nulla al caso: quella suite aveva tutto quello che serviva per un lungo soggiorno come il nostro.
Accesi la TV ed entrai velocemente nella doccia. L’impianto di diffusione sonora era un altro dei confort che più adoravo. Era fantastico: c’era una cassa in ogni ambiente della suite – bagno compreso –, sarebbe stata dura ritornare a farsi la doccia a Boston ascoltando la musica diffusa direttamente dallo smartphone lasciato sul ripiano del mobiletto.
La TV era rimasta sintonizzata sull’ultimo canale che aveva scelto Bella quella mattina: una stazione radio che trasmetteva musica classica. Sorrisi e iniziai a insaponarmi, mentre tentavo di ricordare chi fosse l’autore del brano che stava andando in quel momento, senza grande successo.
Non ero un grande esperto di musica classica come lei, ma ne conoscevo abbastanza ed ero sicuro di averlo già sentito quel brano. Verso le note finali, mi venne l’illuminazione: l’avevo ascoltato durante i mondiali di calcio, era un inno nazionale.
Della Germania, forse? Possibile. L’avrei chiesto alla mia esperta, quando sarebbe rientrata.
Mentre spalmavo il gel da barba sul viso – avevo deciso di radermi sotto la doccia, visto che c’era uno specchio su una parete, così avrei ottimizzato i tempi – partì un pezzo che riconobbi subito. Era l’aria Non più andrai tratta da Le nozze di Figaro di Mozart.
Iniziai a fischiettarla, mentre passavo il rasoio sul mio viso.
Continuai a fischiettare il motivetto dell’aria anche quando era finita, alternando momenti in cui canticchiavo la strofa principale, che si ripeteva per tre volte, della quale conoscevo a memoria tutte le parole. Il mio accento italiano lasciava un po’ a desiderare, ma in quel momento non me ne curai, mi stavo divertendo troppo.
«Non più andrai, farfallone amoroso,
notte e giorno d'intorno girando;
delle belle turbando il riposo
Narcisetto, Adoncino d'amor».
Terminai la strofa quando uscii dalla doccia cercando l’accappatoio che avevo lasciato sullo sgabello. Ero così preso dalla mia gioiosa e giocosa esibizione, che non avevo badato molto all’improvviso silenzio intorno a me. E capii subito il motivo del silenzio, quando mi ritrovai di fronte a una Bella sorridente, divertita quanto me, con il mio accappatoio stretto tra le braccia incrociate sotto al petto, che aveva evidentemente interrotto la diffusione della musica in bagno per ascoltarmi.
Si avvicinò a me, porgendomi l’accappatoio.
«Non mi ero accorto di avere una spettatrice che assisteva alla mia piccola performance» mormorai, mentre lo indossavo e strofinavo velocemente i capelli con il cappuccio per togliere un po’ di acqua.
Mi chinai verso il suo viso e per salutarla con un bacio.
«Da quanto tempo stavi lì? Quanto hai ascoltato?» le domandai, mentre disegnavo piccoli cerchi sulle sue guance con i pollici.
«Dall’inizio dell’aria, che era già una delle mie preferite, ma grazie per averla resa ancora più memorabile» mi rispose, circondandomi la vita con le braccia e baciandomi sulla base del collo, rimasto scoperto dall’accappatoio.
«Potevi raggiungermi nella doccia e unirti a me» le dissi ammiccante.
«Avrei voluto farlo, ma poi ho pensato che ti saresti fermato e io mi sarei persa tutto lo spettacolo» alzò la testa e iniziò a scorrermi con la punta del naso e con le labbra tutto il collo fino al mento, dove lasciò un bacio, prima di percorrere la linea della mascella, fermandosi vicino al mio orecchio sinistro.
«Non sapevo fossi così bravo a fischiettare, non ti avevo mai sentito farlo prima d’ora» sussurrò e poi continuò a lasciarmi baci roventi su tutto il viso finché non raggiunse le mie labbra.
«Mi capita di farlo solo quando sono molto felice» mormorai con voce roca, mentre infilavo le mani sotto la sua maglia per accarezzarle la schiena. La sua pelle fu percorsa da un brivido.
«Non hai idea di quanto sia ancora più seducente e profonda la tua voce quando canti in italiano» sussurrò, strofinando delicatamente il naso e le labbra sulla mia guancia.
La reazione immediata del mio corpo la incoraggiò a stringersi ancora di più a me.
Morivo dalla voglia di spogliarla e di farla mia in quel preciso momento, ma ero combattuto: non potevamo uscire troppo tardi, perché ci sarebbe stata troppa calca in metro. D’altra parte, era difficile staccarsi da lei e interrompere l’atmosfera che si era creata.
«Lo so che non abbiamo tempo, ma non ho potuto resistere» ammise candidamente, allontanandosi dal mio viso e accarezzandomi una guancia con il dorso della mano.
«Come fai a sapere che non abbiamo tempo?» le domandai, sfiorandole il naso con il mio.
«Se avessimo avuto tempo sufficiente, a quest’ora i miei vestiti e metà della mia biancheria intima sarebbero già sul pavimento, insieme al tuo accappatoio. Hai a malapena infilato le mani sotto la mia maglia» soffocai la sua risatina con la mia bocca.
La baciai a fondo per qualche minuto, lasciando le mie mani libere di vagare sul suo corpo, sotto la maglia e nei pantaloni della tuta che indossava, mentre le sue mi stringevano i capelli ancora bagnati.
«Forse un po’ di tempo possiamo trovarlo» mormorai, scendendo con la bocca sul suo collo.
«Ah, sì?» sospirò.
Mi slacciò la cinta dell’accappatoio e mi aiutò a sfilarlo, sistemandolo sul pavimento tra i nostri piedi. Mi baciò di nuovo sulla bocca e poi sul collo, passando al petto e scendendo sempre più in basso fino a mettersi in ginocchio sull’accappatoio. Mi accarezzò più volte su e giù le fossette addominali prima con i pollici, poi con le mani aperte e infine alternando colpetti di labbra e lingua, provocandomi brividi lungo tutta la colonna, finché non raggiunse il punto in cui le due insenature terminavano dove lasciò un serie di baci. Proseguì il suo lento pellegrinaggio sulle mie cosce, accarezzandole con desiderio e riverenza, davanti e dietro, scendendo a solleticare l’incavo posteriore delle mie ginocchia, per poi risalire, ripercorrendo al contrario con le mani e con le labbra gambe, bacino, addome, petto, collo, mascella fino a raggiungere il mio orecchio.
«Faresti impallidire Adone in persona al tuo cospetto» sussurrò, mordicchiandomi il lobo dell’orecchio.
«Bella…» sospirai e, incapace di dire o di pensare altro, le presi il viso tra le mani e la baciai. Tentai di spogliarla, mentre le sue mani continuavano ad accarezzarmi scendendo sempre più in basso, lentamente. Un gemito mi morì nella gola, quando raggiunse la meta desiderata. Si staccò dalle mie labbra, mi sorrise e si mise di nuovo in ginocchio sull’accappatoio. Deglutii a vuoto, non più completamente padrone dei miei pensieri e delle reazioni del mio corpo.
Oh.
Iniziò a massaggiarmi lentamente, continuando a guardarmi negli occhi, senza trascurare nessuna parte. Era estremamente attenta e delicata, un’amante molto devota e assai generosa.
Quando iniziò ad alternare alle mani le labbra, la lingua e la bocca, usando le mani per accarezzarmi i testicoli con gentilezza o per strizzarmi i glutei o aggrapparsi alle mie cosce con possessività, mi sembrò quasi di sentire le orecchie che fischiavano e afferrai con una mano la porta della doccia, mentre l’altra rimase morbida sui suoi capelli.
Era la sensazione di piacere più potente che avessi mai provato in vita mia. Era obnubilante, capace di annullare tutti i miei sensi e di amplificarli nello stesso tempo.
Mi stava facendo letteralmente impazzire l’insieme di quello che mi stava facendo, guardarla mentre lo faceva e il suo sguardo che quando incrociava il mio era colmo di desiderio e d’amore per me.
Ero completamente in estasi, incapace di pensare, di parlare, di respirare, di vedere, di volere nient’altro che non fosse lei. Poteva fare di me qualsiasi cosa, ero suo come lei era mia. Quella sola certezza era in grado di mandarmi in visibilio. Mi sentivo davvero molto, molto fortunato.
«Bella» la chiamai, accarezzandole i capelli, quando mi resi conto di essere prossimo al culmine, cosa che ovviamente non le era sfuggita. Mi guardò con dolcezza per rassicurarmi e mi prese una mano. In un gesto di estrema tenerezza la portò, stretta alla sua, sulla mia coscia. Mi accompagnò fino alla fine, con gentilezza e premura. Con amore.
Ero ancora ansimante, ma in un guizzo di lucidità recuperata, riuscii a prenderle entrambe le mani, mentre si rimetteva in piedi, e a incollare la mia bocca alla sua per baciarla.
Quando si accorse che non volevo staccarmi da lei e che non avevo alcuna intenzione di fermarmi lì, rallentò lei il ritmo del bacio.
«Non voglio fare tardi per la nostra serata» mi disse gentile, con il respiro corto, prendendomi il viso tra le mani e accarezzandomi dolcemente. Sospirai, godendomi le sue carezze.
«E poi ho davvero bisogno di una doccia: mi hanno riempito di olio per massaggi dalla testa ai piedi, mi sento tutta unta e scivolosa. È un bene che non abbiamo tanto tempo, non credo che sarebbe molto divertente» disse con nonchalance.
«Finché non proviamo, non possiamo sapere» la guardai ammiccante.
«Lo scopriremo fra qualche giorno, quando saremo entrambi cosparsi di olio, dopo il massaggio di coppia che ho prenotato» mi sorrise maliziosa.
«Non vedo l’ora» soffiai sul suo collo, baciandole un margine di spalla scoperta.
Le sorrisi e la baciai un’ultima volta sulle labbra, prima di allontanarmi e di lasciarla spogliare per entrare in doccia.
Asciugai i capelli con l’asciugacapelli, applicai sul viso la lozione post-rasatura e il profumo dietro le orecchie e sui polsi, continuando a fischiettare e a canticchiare l’aria di Figaro.
La consapevolezza che lei mi stava ascoltando – sentivo qualche risatina soffocata di tanto in tanto coperta dal rumore dell’acqua che scorreva – mi incoraggiava ancora di più a continuare.
Ero particolarmente allegro e su di giri – e come poteva essere altrimenti – e quella melodia era così piacevole e orecchiabile che era difficile togliersela dalla testa.
Ma c’era anche un’altra cosa che non riuscivo proprio a togliermi dalla testa. Quasi stentai a riconoscere la mia espressione estatica riflessa nello specchio.
Volevo vedere la stessa espressione sul suo viso.
Lei mi amava e mi voleva. Come io amavo e volevo lei.
E io volevo lei in quel momento, come lei aveva voluto me poco prima.
Attesi che il fruscio dell’acqua si fermasse e, quando uscì dalla doccia e si avvolse nell’accappatoio tamponandosi i capelli con un’asciugamani, ricominciai a fischiettare e a canticchiare.
«Cherubino, alla vittoria
Alla gloria militar».
«Deduco che sei molto felice» mi sorrise allusivamente. Mi avvicinai a lei, continuando a fischiettare.
«Sono particolarmente felice. Ma sai, la felicità è ancora più bella quando è condivisa» le presi il viso tra le mani e mi avventai sulle sue labbra, già schiuse. Rispose al mio bacio, ma mise una mano sul mio petto per tentare di allontanarmi.
«Faremo tardi» mormorò, liberandosi per un istante, ma cedendo sotto il tocco delle mie carezze.
«Non importa» la rassicurai. Avevamo tutto il tempo del mondo.
Le sfiorai di nuovo la bocca con un bacio, scendendo poi sul collo, mentre lei continuava a strofinare il naso sulla mia guancia, lungo la mia mascella e sul mio collo.
Sapevo che il mix delle fragranze che avevo sulla pelle sortiva su di lei un effetto molto simile a quello che il suo profumo aveva su di me.
Slacciai la cinta dell’accappatoio e continuai la mia discesa. Accarezzai e baciai ogni centimetro della sua pelle calda e profumata, godendo dei suoi sospiri e delle sue mani tra i miei capelli. Un gemito le sfuggì quando applicai con la lingua un po’ più di pressione del solito su un capezzolo e il suo respiro divenne ansimante. Le baciai il neo che aveva sul seno che mi faceva letteralmente impazzire e risalii di nuovo sulla sua bocca, prima di inginocchiarmi di fronte a lei, sul mio accappatoio che era rimasto lì sul pavimento.
«Sei così bella» mormorai, prendendole una mano e baciandole la pelle sottile del polso. Mi accarezzò i capelli e mi sorrise, mentre la mia presa sui suoi fianchi si faceva più salda.
Le accarezzai i piedi, le caviglie, i polpacci e il suo respiro accelerò quando le sfiorai il morbido e sottile punto sensibile dietro le ginocchia, prima con le mani e poi con le labbra.
Salii con le mani sulle sue cosce e percorsi con tocchi leggeri delle labbra il suo addome, dall’ombelico in giù, godendo delle reazioni istintive del suo corpo. Mi fermai tra le sue cosce, la sua pelle lì era particolarmente sottile e delicata, quindi cercai di essere ancora più gentile e attento del solito.
Le sollevai con attenzione una gamba, afferrandola dietro al ginocchio per appoggiarla sulla mia spalla. Si aggrappò immediatamente con le mani sulle mie spalle e le sorrisi.
«Tieniti forte» alzò gli occhi al cielo, ansimante, ma un sorriso si disegnò sulle sue labbra e mi accarezzò dolcemente i capelli.
Mi applicai con estrema perizia e studiata dedizione, alternando dita, lingua e labbra, giocherellando a mio piacimento e godendomi i suoi sospiri, mentre continuavo ad accarezzare con l’altra mano la parte posteriore del ginocchio della gamba su cui era in equilibrio.
Era splendida, i capelli bagnati sulle spalle, più scuri che mai, le guance su cui faceva capolino quel delizioso rossore e gli occhi limpidi, azzurri come il cielo terso, che mi sorridevano ogni volta che la guardavo. Mi sentivo come un pellegrino in adorazione.
Quando raggiunse il culmine e urlò il mio nome, tirandomi i capelli, mi sentii soddisfatto e appagato quanto lei. La aiutai a spostare la gamba dalla mia spalla con attenzione e stavo per alzarmi in piedi, quando mi resi conto che le tremavano le ginocchia. Allora mi sedetti sullo sgabello portandola a sedere su di me, accogliendola tra le mie braccia. Appoggiò la testa sul mio petto e le accarezzai i capelli, mentre si riprendeva.
Sentii le sue mani sulle mie spalle, poi sollevò la testa, mi sorrise e mi baciò.
«Cherubino, alla vittoria» canticchiai sulla sua guancia, tentando di emulare l’intonazione che doveva avere il verso ripetuto per la seconda volta nella strofa, ma risultando in realtà involontariamente allusivo.
Il suo corpo fu scosso da una risatina. La abbracciai più forte e sorrisi anch’io.
«Solo tu potevi farmi ridere dopo… Oh, Dio. Tu…» sospirò e scosse il capo, sorridendo e stringendosi più forte a me.
«Non credo che riuscirò più ad ascoltare Mozart con la stessa innocenza di prima» mormorò, scuotendo il capo con fare teatrale, e scoppiammo entrambi a ridere.
«Ti amo» mormorai sulla sua guancia.
«Ti amo anch’io» mi sorrise, mettendomi una mano sul viso e voltandosi per incontrare il mio sguardo.


Dopo essermi vestito, decisi di telefonare a Emmett, mentre Bella finiva di prepararsi. Lo avevo sentito solo per messaggi in quei giorni.
«Ciao, straniero» mi rispose al terzo squillo.
«Ciao, Emmett. Come stai?»
«Io sto bene. Tu piuttosto? Come procede?»
«Alla grande» sospirai, sprofondando comodamente sul divano. Probabilmente anche Bella, nonostante il rumore dell’asciugacapelli in funzione, riuscì a sentire la risata di Emmett.
«Anche meno, Emmett» lo rimproverai, ma la frase mi uscì fuori più divertita che minacciosa.
«Te la stai proprio spassando» continuò, ridendo.
Non risposi.
«Dai, Teddy, non fare il permaloso pure a Capodanno. Sono contento di sentirti così… estatico».
«Estatico? La mamma ha comprato di nuovo la carta igienica con le parole del giorno?» gli domandai ridendo. Scoppiò a ridere ancora più forte.
Non aveva torto: l’aggettivo che aveva usato calzava a pennello per descrivere il mio stato d’animo in quel momento.
«Sei diventato pure più simpatico. Stai proprio facendo del gran sesso, eh? Bravo, bravo» disse compiaciuto.
Scossi la testa.
«Che fate stasera?» cambiai argomento anche se aveva ragione, più che ragione.
«Ceniamo a casa, vengono anche zia Elisabeth, zio Jimmy, Claire e Tom. Poi andiamo da Seth dopo la mezzanotte».
«Jill Cooper come sta? Come procede la settimana del fitness?» scoppiò a ridere.
«È in pausa fino al 2 gennaio, ma tanto si arrenderà presto» ridacchiò.
«Papà? Rosalie?»
«Papà si è chiuso tutto il giorno nel suo studio oggi, per il suo consueto scarto di fine anno. È proprio un accumulatore seriale, è un miracolo che noi due siamo venuti su normali» feci una risatina comprensiva. Mio padre era abbonato a diverse riviste scientifiche e, come ogni medico, riceveva campioni e gadget dalle varie case farmaceutiche che gli presentavano i nuovi prodotti sul mercato. Lui conservava qualsiasi cosa e a fine anno il suo studio diventava così pieno che gli ci voleva di solito almeno un giorno – se non due – per liberarsi di tutto quello che era superfluo.
«Rosalie sta aiutando la mamma in cucina. Stanno preparando il dannato colcannon» sbuffò.
«Uh, non ti invidio proprio!» storsi il naso.
«Piccolo bastardello fortunato, prima o poi toccherà pure a te» ridacchiai e in quel momento sentii il profumo di Bella invadermi le narici.
Le mimai con le labbra che era Emmett al telefono.
«Salutalo» sussurrò.
«Ti saluta Bella».
«Ricambia. Appena siamo tutti un po’ più liberi, dobbiamo fare una videochiamata» suggerì.
«Certamente. Buona serata e saluta tutti».
«Buona serata a voi» il suo tono era molto allusivo. Alzai gli occhi al cielo e chiusi la chiamata, volgendo la mia attenzione alla meravigliosa fanciulla che si era seduta accanto a me sul divano e che teneva distrattamente una mano sulla mia coscia, coperta dalla mia.
«Non gli hai ancora comunicato la bella novità?» mi domandò.
«Non ancora. Faremo una videochiamata uno di questi giorni, così lo scopriranno tutti insieme» lessi una compiaciuta approvazione nel suo sguardo.
«Mi aiuti con la lampo, per favore?» mi domandò, strizzandomi delicatamente la gamba.
Ci alzammo entrambi dal divano e le tirai su la lampo del vestito, indugiando con le mani sulle sue spalle.
Indossava un delizioso abito nero con le maniche a tre quarti che le arrivava al ginocchio. Lo scollo, il fondo della manica e il girovita erano impreziositi da una striscia di tessuto grigio leggermente glitterato. Il contrasto che creava con l’abito scuro era estremamente raffinato. La cinta in vita, pur restando morbida, metteva in risalto le sue forme, in maniera estremamente intrigante e delicata. Era molto elegante e raffinata, come sempre, assolutamente nel pieno del suo stile sobrio ma ricercato.
«Sei bellissima» mormorai sul suo collo, appoggiando il mento sulla sua spalla.
«Grazie, sei molto bello anche tu» sollevò e piegò un braccio per accarezzarmi sulla guancia.
«Spero sia adeguato alla serata che hai organizzato» disse con una nota di insicurezza nella voce. Le circondai la vita con le braccia, incrociandole sul suo grembo.
«È più che adeguato, è perfetto» le baciai il collo.
«Mi dispiace non poter indossare altre scarpe, ci ho provato, ma mi fanno ancora troppo male le vesciche» mormorò, guardandosi i piedi.
La strinsi ancora più forte.
«Vanno benissimo anche le scarpe, amore. Sei perfetta» le sfiorai la guancia con un bacio che si aprì in un sorriso.
«Pronta per andare?» le domandai, prendendole la mano. Annuì.
«Ci metteremo un po’ più del solito stasera e siamo già un po’ in ritardo» lanciai uno sguardo allusivo e divertito, mentre annodavo la sciarpa.
Mi sorrise complice, ma poi il suo sguardo cambiò.
«Che c’è?» le domandai, sollevandole il mento con un dito.
«Non siamo molto in ritardo, vero? Non vorrei averti scombinato di nuovo i piani» mormorò preoccupata e c’era una sincerità disarmante nel suo sguardo che quasi mi commosse: temeva di avermi involontariamente fatto un torto. La baciai teneramente sulle labbra.
«Siamo in perfetto orario e lo sai che puoi scombinarmi sempre i piani, ogni volta che vuoi» le sorrisi.


Prendere un taxi non era un’opzione praticabile quella sera ed ero lieto del fatto che avesse deciso di indossare un paio di scarpe non molto alte e dall’aspetto tutto sommato comodo, perché avremmo dovuto camminare un po’ per raggiungere il palazzo – Albert mi aveva consigliato di uscire dalla metro un paio di fermate prima di Times Square e di raggiungere il palazzo a piedi, possibilmente cercando di evitare le vie principali – e sapevo che i suoi poveri piedi erano ancora doloranti. Fortunatamente il portone d’ingresso del palazzo non si apriva direttamente su Times Square, altrimenti sarebbe stato un po’ più complicato riuscire ad entrare.
Non mi chiese niente per tutto il viaggio in metro, parlammo pochissimo perché c’era un sacco di gente e il vociare unito al rumore del treno in corsa era assordante. Anche quando uscimmo dalla metro, attraversammo per un breve tratto Bryant park e poi ci inoltrammo nel reticolo di strade parallele e perpendicolari alla Quarantaduesima, rimase quieta e silenziosa.
Sorrisi tra me e me, pensando che il suo stato d’animo doveva essere abbastanza simile al mio durante il viaggio in taxi di qualche giorno prima per raggiungere l’hotel, quando ero arrivato a New York.
Di tanto in tanto le stringevo più forte la mano con la mia – benché fossero coperte dai guanti – e, quando eravamo fermi ai semafori, le baciavo la testa o la tempia, cercando di rassicurarla in qualche modo. Non era da lei tutto quel silenzio e quell’aria circospetta.
Chissà dove pensava la stessi portando, ghignai dentro di me.
Oltrepassammo i controlli della sicurezza esibendo i pass e finalmente riuscimmo a raggiungere il palazzo poco dopo le 21. Strabuzzò gli occhi quando, una volta in ascensore, vide che eravamo diretti all’ultimo piano. Le sorrisi e le accarezzai una guancia con il dorso della mano che avevo liberato dal guanto.
Sembrò rilassarsi solo quando mi vide estrarre dalla tasca del piumino le chiavi per entrare nell’appartamento.
«Puoi aspettarmi solo un minuto qui fuori, per favore?»
Annuì e mi sorrise.
Accesi velocemente tutte le candele, lasciai il piumino nell’armadio vicino all’ingresso, aumentai la temperatura del termostato che avevo lasciato al minimo prima di uscire, feci partire la canzone che avevo scelto e aprii la porta.
Presi Bella per mano e le feci strada all’interno dell’appartamento, aiutandola a sfilare cappotto, sciarpa e guanti.
Ci fermammo di fronte alla vetrata nella terrazza panoramica. Era sbalordita, letteralmente. Avevo posizionato anche lì una serie di candele aromatizzate al gelsomino, il suo fiore preferito.
«Benvenuta all’ultima notte dell’anno più esclusiva di tutta New York» con un ampio gesto della mano accarezzai virtualmente la piazza gremita di gente ai nostri piedi, mentre con l’altra mano portai alle labbra la sua che era rimasta stretta nella mia per tutto il tempo.
«Oh, Edward» mormorò, coprendosi la bocca con la mano libera per cercare di contenere tutta la meraviglia che la stava travolgendo, come potevo ben vedere dai suoi occhi luminosi. Erano più belli che mai, brillavano più di tutte le luci che illuminavano la città intorno a noi.
Le concessi tutto il tempo di cui aveva bisogno per metabolizzare la sorpresa, limitandomi a lasciarle piccoli baci sulla mano e lungo il polso.
«Lo so che non è ancora mezzanotte, ma mi sembrava comunque appropriata per iniziare la serata» indicai con lo sguardo l’oggetto invisibile a cui mi stavo riferendo: la canzone che avevo scelto per il suo ingresso.
«È perfetta» sussurrò, le tremava la voce.
«È tutto perfetto. Tu sei perfetto» mi prese il viso tra le mani e mi baciò con ardore. Ricambiai il bacio e le circondai la vita con le braccia, stringendola forte a me.
«Temevi che ti avrei portata in qualche locale affollato, ammettilo» la presi in giro affettuosamente.
«Ho iniziato a temerlo solo quando abbiamo preso la metro e abbiamo iniziato ad avvicinarci a Times Square. Onestamente, pensavo che saremmo andati semplicemente fuori a cena, quindi non capivo proprio perché avessi voluto il pomeriggio tutto per te» mi sorrise.
«Dovevo preparare la cena e allestire tutto» le spiegai. Sgranò gli occhi.
«Sei venuto qui e hai cucinato per tutto il pomeriggio? Hai fatto tutto tu? Ma… Qui? Come? Tu… Stasera… Quanto?» farfugliò, mentre gesticolando indicava alternativamente l’appartamento e Times Square e poi me. Trattenni una risatina. Le misi due dita sulle labbra e le spiegai come ero riuscito a ottenere quell’attico tutto per noi, rassicurandola sul fatto che non era stato necessario vendere nessuno dei miei organi per ottenere quella privilegiata location in quella particolare serata.
Sembrò rilassarsi.
«Non volevo trascorrere la serata in un banale locale o in un ristorante e francamente saranno anche carine le feste sui tetti, ma sono troppo affollate e rumorose. Volevo stare da solo con te, organizzando una serata e una cena normale come tutte quelle che abbiamo condiviso a Boston prima che tu partissi, ma allo stesso tempo volevo che fosse una serata speciale e non volevo privarti dell’esperienza più suggestiva che offre questa città e che fa accorrere gente da tutto il mondo qui, in questa piazza, per l’ultima notte dell’anno» le spiegai indicando la Ball Drop illuminata.
Mi sorrise e mi accarezzò una guancia, mentre l’altra mano si adagiò delicatamente dietro al mio collo. Era molto emozionata e si prese qualche secondo prima di rispondermi, continuando a far scorrere le sue dita sul mio viso con gentilezza.
«Sono senza parole, dirti solo “grazie” mi sembra oltremodo riduttivo e banale per esprimere davvero tutto quello che sento. Questa è la sorpresa più bella, il pensiero più dolce e la serata più romantica di tutta la mia vita. Grazie» sussurrò, visibilmente commossa.


«Se vuoi toglierti le scarpe, ti ho portato le pantofole» le feci l’occhiolino.
«Proprio quando credevo che non avrei potuto amarti ancora di più» sospirò con aria sognante. Le sorrisi e le indicai con lo sguardo il punto in cui le avrebbe trovate.
«Se è minimamente vero che per arrivare al cuore di un uomo bisogna passare dal suo stomaco, per conquistare il cuore di una donna bisogna curarsi necessariamente del benessere dei suoi piedi» mi disse mentre si toglieva le scarpe. Scoppiai a ridere.
«Ah, davvero? Quindi, avrei anche potuto evitare di cucinare e ordinare la cena stasera? Bastava farti togliere le scarpe per conquistarti?» le domandai, fintamente offeso. Fece una risatina.
«Oh no, mio caro, lo sai che sono io un po’ esigente riguardo a certe cose» disse con aria innocente.
«Definirti solo un po’ esigente è un eufemismo, tesoro» le feci l’occhiolino. Si mise a ridere, mentre si avvicinava all’isola.
«Posso sicuramente affermare che tu, amore mio, hai indovinato la giusta sequenza per conquistarmi» mi abbracciò da dietro. Mi voltai quel tanto che bastava per raggiungere la sua testa e baciarle i capelli.
«E sarebbe?» mormorai, beandomi del suo profumo e della consistenza setosa della sua chioma.
«Mente, cuore, stomaco e piedi».
«Meno male» sospirai e la sentii sorridere contro la mia spalla.
Era rimasta dietro ai fornelli accanto a me mentre riscaldavo e ultimavo le preparazioni per la cena, passandomi quello che mi serviva all’occorrenza, ridacchiando per la mia goffaggine mentre armeggiavo con uno strano utensile per schiacciare le patate – che alla fine aveva usato lei per evitare che lo rompessi e che mi facessi male –, complimentandosi per le combinazioni di sapori che avevo scelto e stringendosi affettuosamente al mio braccio libero nei momenti di pausa.
«Mi era mancato stare con te così» mormorò, accarezzandomi la mano libera sul bancone.
«Anche a me» le tirai su il mento per avvicinarla al mio viso e la baciai.
Sapevo perfettamente a cosa si riferisse, anche a me era mancata da morire la piacevole routine che si era consolidata prestissimo tra di noi e che era stata interrotta dalla sua partenza.
Ero al settimo cielo per la nostra vacanza di lavoro newyorkese che ci aveva resi ancora più consapevoli di quanto fosse profondo il nostro legame, che ci aveva fatto scoprire totalmente innamorati e perfettamente complici in ogni aspetto della nostra relazione, assolutamente perfetti l’uno per l’altra; ma era bello riassaporare un po’ della tenerezza e dell’innocenza delle nostre prime serate insieme, quando avevamo ancora tutto da scoprire e la voglia di stare insieme era così forte e così tanta da farci dimenticare di qualsiasi cosa; quando, perfino dopo le giornate di lavoro più intense e più impegnative, restavamo stretti sul suo divano a bearci della gioia derivante dalla reciproca vicinanza.


«Siccome non abbiamo un dj e neanche lo avremmo voluto», annuì con così tanta enfasi che mi fece sorridere, «ho preparato una playlist per accompagnare la nostra cena» le spiegai, mentre mi avvicinavo al mio tablet che avevo collegato all’impianto di diffusione sonora.
Avevo scelto tutti i pezzi che avevano segnato in qualche modo la nostra storia, dagli albori, quando ancora non sapevamo quello che sarebbe successo.
«Solitamente verso la fine dell’anno si fa sempre un bilancio dell’anno appena trascorso…» cominciai.
«Non avrai intenzione di proiettarmi un grafico, spero» disse fingendosi allarmata.
«Non farmi ridere» la ammonii sorridendo. Alzò le mani e mi fece un cenno con lo sguardo per invitarmi a proseguire.
Mi schiarii la gola.
«A fine anno si fa sempre un riepilogo degli eventi più salienti che sono accaduti. Siccome tutti gli avvenimenti dell’anno che sta per finire che voglio ricordare sono legati a te, ho pensato che sarebbe stato carino ripercorrere questi ultimi mesi con la musica che li ha accompagnati» le spiegai.
«Molto romantico» commentò sorridendo.
«Aspetta di sentire la prima canzone» la avvisai con un ghigno stampato sulle labbra.
Quando partì Sensual Seduction di Snoop Dogg si mise una mano per coprire la bocca e tutto il suo corpo fu scosso da una risata. Ovviamente ricordava tutto anche lei.
«Quella sera è stata la prima volta in cui ti ho visto masticare un bastoncino di liquirizia» disse sorridendo, perdendosi nei ricordi, mentre prendevo posto a tavola accanto a lei.
«E?» la esortai a continuare.
«E avrei voluto esserci io al posto di quel bastoncino. È stato molto difficile resistere alla tentazione di togliertelo dalla bocca e baciarti» confessò, fissando le mie labbra.
Le sollevai il viso e la baciai, aprendole le labbra gentilmente e accarezzandole lentamente la punta della lingua con la mia. Eravamo ancora labbra contro labbra, quando partì il secondo pezzo.
«La Mer?» sgranò gli occhi.
«Ricordi?» le domandai, scendendo con le labbra sul suo collo.
«Come potrei dimenticare? È stata la prima sera in cui sei rimasto con me. La sera in cui hai iniziato ad abbattere tutte le mie difese e a distruggere, una per una, tutte le valide motivazioni che mi ero costruita per convincermi che non potevo farmi prendere troppo da te» mi aveva preso il viso tra le mani, i suoi occhi limpidissimi puntati nei miei. Le sorrisi.
«Probabilmente non ero ancora del tutto consapevole di quanto tu fossi importante per me, ma posso assicurarti che ero già pazzo di te all’epoca» le confessai, accarezzandole una gamba.
Iniziammo a mangiare accompagnati dalla sinfonia di Debussy, sfiorandoci continuamente con baci e carezze, rievocando i momenti più belli e quelli più divertenti di quella prima serata che avevamo trascorso insieme, aprendo completamente i nostri cuori l’uno all’altra e condividendo gli ultimi segreti che erano rimasti da raccontare.
Si susseguirono diversi brani tratti dalle colonne sonore delle serie tv e dei film che avevamo visto insieme, qualche canzone italiana e, nostro malgrado, anche un paio di canzoni brasiliane che scatenarono l’ilarità in entrambi. Arrivammo al dessert con una canzone che quasi la fece strozzare con l’acqua che stava sorseggiando in quel momento per quanto era trash.


«E questa da dove viene?» mi domandò indicando la macchina per il caffè. Non l’aveva ancora notata.
«Indovina un po’? Sono stato primo cliente della Volturi di New York, prima ancora della sua ufficiale apertura» risposi fiero. Scosse il capo sorridendo.
«Come sei riuscito ad averla?»
«Sapevo che Albert non aveva una qui e che tu hai bisogno della tua dose quotidiana di caffè espresso, così ho chiesto ad Alec se c’era un modo per acquistarne una. Si è messo in contatto con il reparto vendite e nel giro di un’ora l’aveva già fatta recapitare qui con un consistente e vario assortimento di capsule. Pensa che mi ha fatto pagare tutto a prezzo di costo, è stato davvero molto gentile. La lascerò qui ad Albert per ringraziarlo della sua enorme cortesia. Ultimamente mi sembra di ricevere aiuto, favori e fiducia da troppe persone senza che io abbia fatto nulla in cambio per meritarli» mormorai. Scosse il capo e mi prese il viso tra le mani.
«Edward, tu non ti rendi conto di quanto sia facile affezionarsi a te, di quanto con il tuo animo gentile e leggero entri nel cuore della gente, di quanto il tuo garbo e le tue buone maniere riescano ad ammorbidire e a conquistare anche il più burbero dei coordinatori» sorridemmo entrambi pensando ad Alec.
«Sei sempre così buono e disponibile con tutti, non neghi mai il tuo aiuto a nessuno. Se le persone sono gentili con te e ti porgono una mano, è perché nessuno lo merita più di te. Fidati» le sorrisi.
«Forse hai ragione» mormorai.
«No, non forse. Ho ragione» puntualizzò, avvicinandosi al mio viso per baciarmi.
«È che di solito queste mie “qualità”», tentai di mimare le virgolette, ma lei mi prese le mani guardandomi con aria di rimprovero per fermarmi, «mi hanno portato sempre più guai che benefici. Non ci sono abituato» mi sorrise comprensiva, accarezzandomi con i pollici i dorsi delle mani strette tra le sue.
«Lo so, ma prima o poi arriva il momento in cui le qualità vengono apprezzate dalle persone giuste» annuii, ricambiando il suo sorriso.
«Adesso, potrei avere un espresso? Inizio ad avvertire i primi sintomi dell’astinenza» ridacchiai.
«Arriva subito, madame» la invitai ad accomodarsi su uno sgabello vicino all’isola.
«Lo prendi anche tu?» mi domandò stupita, quando mi vede inserire la seconda capsula nel vano.
Feci spallucce.
«E se poi non riesci ad addormentarti?» mi domandò, sapendo che non ero abituato ad assumere caffeina di sera.
«Tanto meglio, non ho nessuna intenzione di dormire stanotte» la guardai ammiccante. Scosse il capo, evidentemente divertita.


Qualche minuto prima della mezzanotte ci trasferimmo sul divanetto nella terrazza. L’ambiente era riscaldato, ma preferii lo stesso prendere una coperta per avvolgerci.
Quando a mezzanotte la palla venne tirata giù e i coriandoli si sparsero per tutta Times Square, restammo tutti e due senza fiato e con gli occhi spalancati per la meraviglia.
Godersi lo spettacolo dall’alto era indubbiamente molto suggestivo.
«Felice anno nuovo, amore mio» le sussurrai nell’orecchio.
«Felice anno nuovo anche a te» mi rispose in un soffio prima di baciarmi.
«Sai che su quei coriandoli sono stampati i buoni propositi e desideri espressi dalle persone di tutto il mondo per il nuovo anno?»
«Davvero? Che cosa carina» commentò.
«Mi dispiace non averci pensato prima, avremmo potuto inserire anche i nostri, se mi fosse venuto in mente entro il 28 dicembre» mormorai. Mi accarezzò la mascella con il dorso della mano.
«Non importa» mi rassicurò gentile.
«Puoi esprimerlo adesso, il tuo o i tuoi desideri per il nuovo anno» sussurrai nel suo orecchio.
«Mm… no. A quanto pare si realizzano meglio i desideri che non esprimo» mi toccò una guancia con la mano. Catturai le sue labbra in un bacio che dichiarava apertamente cosa desiderassimo entrambi in quel momento e lasciava già presagire quale direzione avrebbe preso la serata – o meglio, la nottata – di lì a poco.
La presi per mano, conducendola nella camera da letto.
Le tirai giù la lampo del vestito lentamente, lasciando un bacio su ogni centimetro di pelle che scoprivo. La aiutai a sfilarlo via dalle gambe e lo adagiai con cura su una sedia. Si era sfilata i collant, nel frattempo, rimanendo con un’elegante sottoveste nera di seta che valorizzava ancora di più del vestito le belle linee del suo corpo e metteva in risalto la sua pelle chiara e delicata. Si avvicinò a me e sbottonò con voluta lentezza tutti i bottoni della mia camicia, guardandomi negli occhi. Poi passò ai pantaloni, li sbottonò e abbassò la zip; li sfilai e li sistemai sulla sedia, insieme alla camicia, ai calzini e alla maglietta intima.
Non avevamo nessuna fretta, sebbene fossimo entrambi desiderosi di stare insieme, avevamo intenzione di prendercela molto comoda.
La sera precedente era stata emotivamente molto impegnativa e fare l’amore era stato urgente, catartico, necessario.
Sentivamo il bisogno di stare vicini, di fonderci l’uno nell’altra, di stringerci per rassicurarci che fosse tutto reale, che saremmo rimasti insieme per davvero e che tutto sarebbe andato bene. Eravamo entrambi impazienti di unirci il prima possibile ed era stato intenso e magnifico, anche se un po’ frettoloso.
La serata appena trascorsa era stata a dir poco perfetta e il grado di consapevolezza che avevamo raggiunto ci permetteva di misurare le nostre azioni e di goderci le nostre reazioni.
Avevamo entrambi intenzione di procedere con calma, di continuare a corteggiarci, di assaporare lentamente la nostra felicità, di raggiungere gradualmente l’apice della serata.
Sollevai la sua deliziosa sottoveste e la sistemai con cura sulla sedia. Mi sorrise e la abbracciai, godendo come al solito dell’elettricità che scaturiva dai nostri corpi quasi del tutto nudi a contatto.
Sollevò la testa nello stesso momento in cui la mia si abbassava e si inclinava nella giusta angolazione per baciarla. Le sue mani finirono dietro al mio collo e si artigliarono tra i miei capelli, le mie si adagiarono alla base della sua schiena.
Ci spostammo sul letto, eliminando anche le ultime barriere che ci separavano. Non trascurai nessuna parte del suo corpo, dal viso al collo, dalle spalle alle braccia, dal seno all’addome, dall’inguine alle caviglie. Accarezzavo, baciavo e succhiavo delicatamente ogni centimetro di pelle che ormai conoscevo a memoria. Avrei potuto percorrere il suo corpo ad occhi chiusi. Il suo respiro ansimante ad ogni tocco e il mio nome sussurrato ogni volta che mi soffermavo sui suoi punti più sensibili non facevano altro che accrescere il mio desiderio.
«Edward», mormorò, «vieni qui». Mi tirò per il collo, facendomi capire che mi voleva accanto a sé.
Mi sistemai sul fianco accanto a lei, uno di fronte all’altra, occhi negli occhi, pelle contro pelle, uniti in un intreccio di gambe e braccia. Restammo fermi e in silenzio per qualche istante a goderci la sensazione dei nostri respiri sincronizzati e del calore dei nostri corpi. Era una sensazione bellissima stare insieme in quel modo in silenzio lasciando i nostri respiri e i nostri occhi a parlare. Erano momenti molto intimi, quasi più intimi di quello che avevamo fatto prima e che avremmo fatto dopo, e li adoravamo entrambi.
Le accarezzai dolcemente i capelli e mi sorrise prima di mettermi una mano dietro la nuca per avvicinarmi ancora di più al suo viso.
Per tutta la notte più magica dell’anno i miei gemiti furono nella sua bocca e i suoi nella mia.


Gli ultimi giorni a New York volarono in un baleno, le giornate al lavoro erano impegnative, le serate piene e le nottate sempre troppo brevi.
Felix e gli altri amministratori partirono il 7 gennaio, noi saremmo andati via il 10, perché Bella era impegnata fino al 9 in un workshop organizzato in occasione dell’inaugurazione dall’accademia del caffè presso la quale si era formata come sommelier e della quale ora era membro effettivo oltre che docente di alcuni corsi. Io ero libero, il mio lavoro era finito, e approfittai di quei giorni per girare per la città.
L’ultimo giorno del workshop passai a prenderla, avevano terminato le sessioni ed era rimasta solo lei insieme a uno dei fornitori. Le stava passando un piccolo sacchetto di juta che lei aprì e annusò. Un’espressione di pura estasi si dipinse sul suo volto.
Mi avvicinai a lei, quando il fornitore lasciò la sala.
«Cos’è che hai sniffato?» le domandai curioso.
«Chicchi di caffè. Una miscela speciale che porterò con me a Boston» mi rispose.
«È legale? Non vorrei passare per un narcotrafficante e rimanere bloccato dai controlli aeroportuali: tra i farmaci che imbarcherai e quel sacchetto» la presi in giro. Alzò gli occhi al cielo.
«È legalissimo» puntualizzò.
«Com’è andata la competizione? Hai vinto? È quella la nuova miscela che sarà messa in vendita per l’apertura di New York?»
Ogni volta che aprivano una nuova sede, veniva indetta una competizione per creare una nuova miscela ad hoc scelta tra quelle presentate dai membri dell’accademia. La miscela di Boston – quella che avevo avuto l’onore di assaggiare la mia prima mattina di lavoro – l’aveva creata Bella.
«No, questa volta ho preferito far parte della giuria, non ho presentato la mia miscela» rispose e non sembrava dispiaciuta.
«Come mai?» le domandai curioso. Sapevo quanto fosse competitiva e quanto amasse il caffè.
«Sapevo in partenza che la mia miscela non avrebbe avuto molte chance di vittoria e poi non mi andava proprio di condividerla».
Questo non era proprio da lei.
«Perché?»
«Le varietà di caffè che ho scelto per comporla sono estremamente pregiate e costose. Quando dobbiamo creare una nuova miscela da immettere sul mercato, ovviamente dobbiamo tenere conto anche dell’aspetto economico oltre che del gusto. Deve esserci sempre il giusto equilibrio tra la qualità e il prezzo. Questa faticherebbero a venderla anche le caffetterie più lussuose» mi spiegò agitando il sacchetto.
Se possibile, ero ancora più confuso di prima Era troppo sveglia ed esperta per non accorgersi che stava creando una miscela che sarebbe stata giudicata poco vantaggiosa per il mercato.
«E perché l’hai creata lo stesso se sapevi già che sarebbe costata così tanto?»
Fece spallucce.
«I capolavori non si spiegano, si realizzano e basta quando si è ispirati, senza badare ai costi».
«Perché hai detto che non volevi condividerla?»
«Perché è troppo personale» rispose semplicemente.
«Vuoi provarla?» mi domandò. Annuii, curioso di sapere che gusto avesse.
Prima di preparare i due espressi, mi fece annusare il contenuto del sacchetto. L’odore era molto intenso, ma gradevole, per quanto io fossi un umile profano.
Sorseggiai l’espresso insieme a lei. Era delizioso, mi sembrava assurdo che potesse esistere una miscela di caffè migliore. Era davvero un capolavoro.
«Cosa senti?» mi domandò dopo i primi sorsi.
«Cioccolato» annuì, soddisfatta.
«Sento anche altro, però, qualcosa di più dolce del puro cioccolato amaro» aggiunsi.
«Prendi un altro sorso, trattienilo per qualche secondo e poi concentrati sul retrogusto che ti rimane sulla parte finale della lingua» feci come mi aveva detto e sgranai gli occhi. Mi sorrise.
«Liquirizia» sussurrai meravigliato. Assentì, sorridendo.
Aveva unito in un’armonia perfetta i nostri sapori, lei il caffè, io la liquirizia e c’era anche il cioccolato che piaceva a entrambi.
Era in estrema sintesi il sapore dei nostri baci.


La mattina del nostro ultimo giorno a New York eravamo entrambi liberi, così decidemmo di fare un ultimo giro nei pressi dell’hotel prima di rientrare per liberare la suite e recuperare i bagagli per la partenza.
Eravamo seduti su una panchina a Fort Greene Park, Bella aveva la testa appoggiata sulla mia spalla, le nostre mani intrecciate.
Passò davanti a noi un ragazzo molto giovane, era poco più di un adolescente, fasciato in un completo che doveva farlo sembrare più adulto di quello che era in realtà. Camminava tutto trafelato, probabilmente era in ritardo per qualche appuntamento e aveva deciso di attraversare il parco per raggiungere prima la sua meta. Pestò accidentalmente degli escrementi e lo sentimmo imprecare. Sorrisi e sentii Bella tremare tra le mie braccia: stava ridendo anche lei.
«Avevi ragione» le dissi nell’orecchio.
«Potresti essere un po’ più specifico? Io ho sempre ragione» scherzò, ma nei suoi occhi rividi i miei stessi pensieri: il ricordo comune di una scena passata.
«Porta davvero fortuna pestarla».






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Questo non è un addio, è un arrivederci, perché non ho ancora finito con questi due.
Al momento devo fermarmi e spuntare la casella “completa” perché non posso dedicare tutto il tempo che vorrei alla scrittura e non riuscirei ad essere costante con gli aggiornamenti. Tornerò, non so ancora dirvi di preciso quando, ma tornerò. Ci saranno sicuramente i pov Bella prima del seguito.
Ho volutamente scritto un capitolo finale che è conclusivo eppure è aperto, non ho fatto fare salti temporali alla storia, li ho volutamente lasciati a New York, così magari quando tornerò potrò riprenderli da qui.
Prima di salutarvi, vorrei raccontarvi brevemente la storia di Espresso – sì, lo so cosa state pensando: “dopo venti pagine di capitolo, questa ci vuole ammorbare pure con la storia della storia” – ma ci tengo, quindi abbiate un altro po’ di pazienza e leggete queste note.
Durante il lockdown sono stata ri-catapultata dopo tanti, tanti anni di nuovo nell’universo di Twilight. Come è successo a molti di voi, ho riguardato i film trasmessi in tv e mi è ritornata la voglia di scrivere.
Non avevo ancora nessuna idea buona, però. Volevo scrivere qualcosa, ma non sapevo ancora cosa.
Un giorno di maggio, dopo l’allentamento delle misure di contenimento, mentre inscatolavo le mie cose per traslocare, mi sono ritrovata tra le mani una chiavetta usb vecchissima e piena di polvere dalla ridicola capacità di 1 Gb. Neanche mi ricordavo cosa ci fosse in quella chiavetta. Era così vecchia che quando l’ho inserita nella porta usb del pc non la leggeva. Mi stavo arrendendo al suo destino e stavo per buttarla via, quando, dopo averla inserita nell’ultima porta, si è illuminata una timida luce blu e ho sentito un ronzio provenire dal pc.
Dopo qualche minuto, sono riuscita a vedere quello che conteneva: la mia cartella delle fanfiction che avevo scritto e pubblicato qui anni e anni fa e un file word senza nome. La data dell’ultima modifica di quel file mi ha fatto rizzare i peli sulle braccia: 01/07/2012. L’ho aperto – miracolosamente – e c’era la prima parte di quello che poi è diventato il primo capitolo di Espresso.
Non ho cambiato una virgola perché era perfetto così com’era.
Stavo cercando una storia da scrivere e alla fine è stata lei che ha trovato me.
Non posso sapere come sarebbe andata se l’avessi scritta otto anni fa, ma posso sicuramente affermare che sono contenta di non aver buttato via quella chiavetta.
Non avevo una traccia, solo un breve prologo che aveva – perdonate la mia modestia – un gran potenziale. Scrivere Espresso è stato facile, divertente, naturale.
Quella che secondo i miei piani doveva essere una leggera avventura estiva è stato un viaggio meraviglioso che ha superato ogni mia aspettativa.
Grazie per averlo condiviso con me.

  
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