Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Ghostro    23/10/2020    0 recensioni
Symon Argent è un giovane e ricco uomo d'affari all'apice della sua carriera.
Dal momento che questo genere di personaggio è abusato all'inverosimile, l'ho fatto morire e ficcato a forza in una storia fantasy che lo vedrà confrontarsi con il suo passato.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
- Questa storia fa parte della serie 'Ancora non lo so'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Le porte dell'ascensore si aprirono lentamente ed entrai nell'attico: mio personale ufficio e zona di ristoro.
  Subito un rumore di tacchi attirò la mia attenzione. «Buonasera, signor Argent.» mi salutò Esmera. La segretaria mi affiancò goffamente, affrettando il passo per stare dietro alla mia andatura sicura e veloce.
  Una sensazione di deja vù mi fece fermare bruscamente.
  «Signore, qualcosa non va?» mi chiese, alzando un sopracciglio.
  Scossi la testa brevemente. «Non è niente, va' avanti.»
  «Oh, c-certo! Alle due dovrà tagliare il nastro per l'inaugurazione della nuova sala da ballo e...» Sfogliò le note più e più volte. «Ah, sì! C'è la cena di mezzanotte con tutto lo staff.»
  Mi fermai dinanzi alla porta del mio studio. «Cena con lo staff, hai detto?»
  Esmera si strinse nelle spalle. «Ecco... Ho pensato che cenare con i vostri dipendenti avrebbe potuto...»
  – Ho tentato di pianare i malumori degli altri dipendenti, di far vedere loro ciò che io vedo in te. – Bastò il ricordo delle sue parole per farmi capire che era tutto vero: quella conversazione… era già avvenuta. Quella mattina sarei morto.
  A meno che... «Perché ti preoccupi della mia popolarità con i dipendenti?» domandai a bruciapelo, spiazzandola.
  Esmera si strinse la tabella al petto, le gote così rosse da sembrare che avesse preso fuoco. «E-Ecco, c-ci tengo c-che gli a-altri abb-biano una... buona impressione di lei!»
  «E tu che impressione ha di me?» incalzai.
  «O-Ovviamente è-è p-p-positiva, signor... Sto parlando troppo?! S-sì, forse la sto importunando più del d-dovuto.» Fece una risatina nervosa, indicando tremante la sua scrivania. «F-Forse è meglio che torni di là… e-ed è meglio che la faccia finita. Sto dicendo troppi forse?» Annuì da sola, il volto sudato. «Sì, decisamente sì! Quindi, ecco.... Forse?» E scappò come un fulmine, per quanto i tacchi le avrebbero permesso senza inciampare.
  Scossi, prima di aggiungere: «Domani, a pranzo, con tutti i dipendenti. Venga anche lei… Esmeralda.»
  La diretta interessata boccheggiò e per poco non si slogò una caviglia nel girarsi frettolosamente. Alzò l'indice, assumendo un'espressione sorpresa e al tempo stesso spaventata. «Lei c-crede... Beh, è ovvio, anch'io sono un dipendente! Che sbadata! Ma perché parlo ancora?»
 
«Svetlana» mormorai fingendo sorpresa, felice come una balena naufragata su una spiaggia di trovarla nel mio ufficio non appena volsi lo sguardo verso l'interno.
  Seduta elegantemente sul divano dello studio, le gambe accavallate, la mia socia mi fissava con il suo solito sorriso malizioso e birichino. «Sorpresa!» esclamò con accento russo e un bagliore di divertimento negli occhi chiari.
  – Ora ti aggiusto io. – «Magnifica come sempre.» Le presi gentilmente una mano tra le mie e la baciai, le sfuggì un risolino compiaciuto che tentò di celare posando l'altra sulle labbra.
  Si alzò con una fluidità invidiabile e posò le mani sul mio viso. «Ti stavo aspettando» sussurrò, prima che le nostre bocche si unissero in una sola.
  Risposi prontamente, le mie mani corsero su fianchi sinuosi e sodi, e continuai a baciarla, spingendola sul bordo della scrivania. Poi le morsi a sangue il labbro inferiore, fingendomi preda di una passione irrequieta; lei gemette di dolore, allontanandomi d’impulso per posare le dita sul labbro insanguinato; le esaminò con un’espressione disgustata, che subito celò dietro un falso sorriso.
  «Oh, mi spiace. Sai come reagisco quando ricevo una così calda accoglienza…» commentai, simulando uno sguardo passionale.
  Lei sorrise a trentadue denti, scena raccapricciante con quel labbro insanguinato, piegando leggermente la testa. «Ho pensato che ti sentissi così solo... Volevo farti compagnia.»
  La parte della verginella non ti si addice per niente.» E le lisciai i fianchi. – Già, la tua anima è così peccaminosa da inorridire il Diavolo in persona. –
  «Dici? A voi molti uomini piace.»
  «Io non sono come gli altri uomini.» – E non sono così stupido da ricadere due volte nello stesso errore. –
  «Arie.» Spostò la mano sul cavallo dei pantaloni e strinse lievemente. «Tutti gli uomini ragionano con questo.»
  – In questo momento troverei più sexy un barbone in gonnella. –
  Come se avesse letto i miei pensieri, mi lanciò un'occhiata languida e irriverente. «Prima il dovere, Symon, poi il piacere» annunciò, pensando di tenermi sulle spine.
  «Quindi non è una visita di piacere.»
  «Ma lo è! L'unica cosa che preferisci di più al sesso è il suono della tua voce» commentò, facendomi sghignazzare.
  – O le tue grida, quando ti accorgerai di quello che farò – pensai malizioso. «Sai sempre come prendermi.»
  Mi avviai all'armadietto a muro e afferrai un bicchiere e una bottiglia di Bourbon; bevvi avidamente dopo averlo riempito fino a metà, assaporando quel fuoco liquido che lentamente scendeva sino al mio stomaco e mi scaldò le vene, gelide per la pressione che sentivo addosso.
  Poi mi girai. «Dunque?» iniziai, togliendomi la giacca nera e poggiandola sullo schienale della mia sedia.
  «La catena di alberghi che rappresento vorrebbe rilevare la tua attività. Vogliamo entrare nel mercato americano. Questo è uno degli alberghi più popolari e costosi della città, i suoi introiti sono di gran lunga maggiori, nell'insieme, del nostro migliore articolo a Dubai.»
  «Quindi, da socio, vorresti diventare il mio capo?»
  «No, vorremo che tu diventassi un Socio Anziano della nostra catena.» Mi prese le mani tra le sue, carezzandone il dorso con i pollici. «Diverresti uno degli uomini più ricchi del mondo. Avresti ville, palazzi, alberghi in tutto il globo, e... Potremo vederci più spesso» concluse languida. «Da socia di poco conto, come sono ora, i nostri incontri sono così rari…»
  – Già, è un vero peccato – pensai acido, sorridendo a labbra chiuse.
  «Mi offri soldi, io ne possiedo in abbondanza. Mi alletti con il potere, eppure dovrei essere al servizio di chiunque sia il padrone delle catapecchie che chiamate alberghi, come un qualsiasi sgherro. E vuoi corrompermi con il tuo corpo stupendo e quell'abito peccaminoso.» Sorrisi affabile. «Accetto.»
  La russa mi osservò stranita. "Davvero? Sembravi sul punto di rifiutare» disse, cercando di mantenere un tono entusiasta.
  Mi alzai, aggirando la scrivania. Mi poggiai sul bordo di essa prima di prenderle la mano e baciarla. «È arrivato il momento di essere ambiziosi.» Posai l'indice sul bottone del telefono fisso.
  «Sì, signor Argent?» rispose Esmera.
  «Ci prepariamo a fare una fusione. Inizia a chiamare chi di dovere» ordinai, chiudendo la linea. «Domani ci sarà una riunione con il personale e tutti i dirigenti, e soci. Vorrei che partecipaste anche voi della Gato» asserii pacato.
  La bionda annuì, afferrando al volo la sua pochette. «Accetto con gioia!» disse, prima di alzarsi e schioccarmi un bacio sulle labbra.
  L'accompagnai alla porta. La richiusi alle mie spalle appena l'ebbe varcata, fingendomi impegnato.  Feci in tempo a sedermi che fu riaperta con forza, all’entrata di un uragano rosso. «Una fusione!» sbottò Esmera, prima di accorgersi del suo tono e tapparsi la bocca terrorizzata.
  «Sei contraria alla fusione?» Lei annuì. «Bene, perché non ci sarà nessuna fusione affatto una.» Feci segno di chiudere la porta. Basita, si mosse in automatico per compiere quanto chiesto.
  «Cos’ha tra la mani?» le chiesi, anticipandola.
  Lei dapprima mi fissò intontita, poi buttò un occhio alle carte che stringeva tra le mani. «Ah!. S-Sì, certo! Proprietà, bonifici, conti. Tutto ciò che Svetlana ha dovuto dichiarare per diventare nostra socia, più alcune ricerche personali sulla Gato Hotel Group.»
  La osservai di sbieco. «Non te li ho chiesti.»
  «Sapevo che li avrebbe voluti da quando ho visto Svetlana varcare la soglia. Prima o poi sarebbe successo, no? Per questo che l'ha fatta controllare.»
  Feci un mezzo sorriso. «Davvero previdente. Buon lavoro» lodai, facendole sgranare gli occhi.
  «Signor… È sicuro di stare bene?»
  Mi alzai dalla sedia. «Come se fossi appena tornato dal mondo dei morti» affermai compiaciuto. Annullai velocemente le distanze e mi azzardai a toglierle la montatura spessa, mentre mi fissava senza parole. «Invia questi allegati all’indirizzo che ti fornirò e cambiati, perché verrai con me.»
  Non avrei accetto un no come risposta.
 
«Symon, è un piacere rivederti dopo tanto tempo. M-Ma non potevi attendere domattina per venirmi a trovare assieme a… Ma tu non sei Esmeralda?» chiese Padre Carmine, in vestaglia. Aveva i capelli disordinati.
  La donna sorrise divertita. «È un piacere rivederla, Padre Carmine.» Vedendolo assonnato, si alzò dalla sedia e si offrì di preparare il tè che aveva cominciato a mettere sul fuoco; il pastore fu praticamente costretto a sedersi al mio fianco.
  «È diventata una donna bellissima. È gentile com’era da bambina» commentò il vecchio, mentre entrambi la osservavamo destreggiarsi con l’acqua e il pentolino.
  «Così pare» mormorai, perso nei miei pensieri. La osservai come se fosse la prima volta; non l’avevo mai vista così a suo agio, mai quel sorriso genuino sul suo volto. Genuino: un termine che da tempo era sparito dal mio vocabolario.
  «Da quanto state insieme?» s’intromise il pastore.
  Mi massaggiai distrattamente il dorso delle mani con i pollici. «Non stiamo insieme, lei è la mia segretaria.»
  «Sicuro sia solo questo, ragazzo?» indagò il vecchio.
  «Sono venuto qui per lei, padre, in realtà» tagliai corto. «So che il mio comportamento è stato…»
  «Va tutto bene» mi anticipò, mettendo in mostra quei pochi denti rimastigli in una parodia di sorriso. «Eri un bambino. Monello, certo, ma innocente. Ho provato del rancore per te. Nonostante tutto ho vegliato sulla comunità e sono venuto a conoscenza delle tue azioni. Ho provato rabbia venendo a sapere che da quell’incidente non hai imparato la lezione. Le mie disgrazie non hanno portato a nulla di buono, ma Dio ci ha istruito al perdono per un motivo e vederti qui, stanotte, è il regalo più bello che il nostro Signore avrebbe potuto concedermi. Una speranza che ho covato per tanto tempo, e non solo io» concluse, con fare ammonitorio
  «Capisco» annuii, ricevendo una pacca sulla spalla. «Voglio ripagarvi.»
  Padre Carmine mi interruppe con un brusco gesto della mano. «Ciò che mi è successo da quel giorno è colpa mia, non tua, ragazzo. Non addossarti colpe che non hai. Tuttavia, se ti senti in dovere di ripagarmi, sai cosa fare.»
  Non disse altro, non ce n’era bisogno. In silenzio aspettammo che Esmera ci servisse tra tazze fumanti. Bevemmo e chiacchierammo, rimembrando i vecchi tempi.
 
«È stato un bel gesto da parte sua» disse la mia segretaria. «Tua.»
  «Non l’ho fatto per lui» risposi semplicemente, prima di bussare alla porta di mio fratello.
  Dopo alcuni istanti, la porta si aprì di scatto e incrociai gli occhi del mio gemello. Potei leggervi tutto l’odio, l’ira, le emozioni represse in tanti anni di vita… prima che mi sbattesse la porta in faccia.
  Bussai più volte. «Aaron, dobbiamo parlare» affermai risoluto, ma dalla porta non provenne altro che silenzio. «Aaron» ritentai, bussando più volte.
  «Chi è?» domandò una voce femminile dall’altra parte.
  «Nessuno. Hanno sbagliato casa» sentii rispondere, e fermai l’ennesimo pugno prima che battesse sul legno.
  «Ma… stava bussando insistentemente.»
  «Jessica, fidati: è solo un debosciato che credeva di abitare qui.»
  Anche Esmera sentì la conversazione e avanzò impettita verso la porta. La fermai: qualsiasi cosa avesse detto sarebbe stata inutile.
 
Erano le sette del mattino quando mi presentai davanti alla porta della casa in cui ero nato e cresciuto. Come da consuetudine, mio padre era uscito in vestaglia a prendere il giornale; mai si sarebbe aspettato di vedermi con quest’ultimo sotto il braccio davanti al giardino. Ci fissammo intensamente nei rispettivi occhi celesti, mentre Esmera manteneva un silenzio solenne, piena d’imbarazzo.
  «È stato lungo il viaggio di ritorno da Cambridge» sottolineò, riordinandosi la chioma bianca e brizzolata.
  «Una vita» concessi in un sospiro.
  «Entra a salutare tua madre» ribatté ostile, rincasando.
  Non mi ero aspettato una calda accoglienza, dopo ciò che avevo visto con Shanor. Mi attardai solo per afferrare il braccio di Esmera e sussurrarle: «Potresti fargli compagnia? Il tempo di salutarla.»
  Lei annuì immediatamente. «Va’. Lo tengo a bada io» bisbigliò di rimando, trovando il coraggio di rivolgermi un mezzo sorriso; ricambia con uno più tenue.
 
«Mamma? Sono io. Sono Symon.» Forzai un sorriso nell’osservare lo stato quasi catatonico della donna che più di tutti avevo ferito; portai una mano al volto, nel tentativo di ricacciare indietro una lacrima.
  Le afferrai il volto, ma l’esito non cambiò: mia madre non si sarebbe mai ripresa del tutto, e la colpa era solo mia. Mia soltanto: l’avevo tradita, punita con la mia indifferenza e l’orrendo crimine di non essere mai stata ambiziosa come me. Un atto riprovevole di cui mi resi conto solo quando il destino decise di ripetere ciò che avevo conquistato. Avevo sacrificato i miei umili natali. «Mi dispiace, per quel che vale» mormorai sconfitto.
  La verità era che fino a poche ore prima non sarei mai tornato sui miei passi, e nulla avrebbero potuto ripianare ciò che era stato distrutto. E non me ne sarebbe importato.
  Fino ad oggi.
  «Si raccoglie ciò che si semina.» La voce di mio padre mi raggiunse dall’uscio. Quando alzai gli occhi, lo scoprii fissarmi a braccia conserte.
  «Volevo solo stare un po’ di tempo con lei.»
  «L’hai fatto. Ora puoi anche tornartene al tuo maledetto albergo.» Dopo aver pronunciato quelle parole, sparì nel corridoio. I suoi passi pesanti pian piano si allontanarono.
 
Quando controllai il cellulare, scoprii che il tempo era agli sgoccioli. «Devo andare» mormorai, rimettendo in tasca l’apparecchio e sporgendomi verso il suo volto; le baciai la fronte.
  Mi alzai e abbandonai la stanza.
  «Bentornato…»
  Mi girai di scatto appena sentì quel flebile suono provenire dalla camera, ma come tornai a osservarla la ritrovai silenziosa. «Forse me lo sono immaginato» mormorai, chiudendomi la porta alle spalle.
 
Sceso, trovai i due in salotto. «Lei non tornerà mai più quella di un tempo» sentenziò mio padre.
  Concordavo. «È colpa mia.»
  «Lo è. Non c’è nulla che tu possa fare per rimediare. Le scuse…» Guardò verso Esmera. «Né i soldi.»
  Annuii. «Non cerco il tuo perdono. Ma concedimi di tornare a trovarla.»
  Egli non dissi nulla, per un po’. «Hai parlato con tuo fratello?»
  «Non vuole più avere a che fare con me.»
  Il più anziano annuì, poi la stanza ripiombò nel silenzio. Feci per andarmene, sapendo che restare lì impalato non avrebbe risolto nulla. «Non far passare altri otto anni, prima di farti vivo” asserì mio padre, mentre mi avviavo verso l’uscita.
  «Per ricostruire qualcosa, come ai vecchi tempi?»
  L’altro grugnì. «Vedremo.»
  Presi la mia accompagnatrice sottobraccio.
  «Tutto bene?» chiese Esmera sulla soglia della porta principale.
  «Sì, per ora. Adesso c’è un’ultima cosa da fare.» Mi voltai verso di lei. «Hai fatto ciò che ti ho chiesto?»
  La rossa annuì seria.
 
Seduti entrambi sui tavolini esterni del bar vicino al molo, osservammo le forze dell’ordine far sfilare in manette tutti i membri del consiglio mafioso della Gato, inclusa Svetlana; lo sguardo carico d’odio che lanciò nella mia direzione valse tutte le fatiche operate per incastrarla.
  «Ottimo lavoro» lodai.
  Esmera era stata strategicamente posta al di fuori della visuale degli sfilanti, dietro il telone bianco del gazebo. Lei arrossì fino alle punte dei piedi. «Ho solo indagato sugli sporchi segreti di Svetlana. Mai avrei pensato di visionare le riprese delle telecamere per incastrarla, né gli strani movimenti con i Signori della Droga locali che attuava mediante, e sotto la protezione, dei suoi amici Francis, Jack e Lily.»
  «Su, non essere modesta: li abbiamo incastrati per merito tuo.»
  «Perché me l’hai detto… tu» mi corresse.
  «Beh, ho avuto un po’ di tempo libero per cambiare prospettiva…» Sorseggiai il frappè all’arancia.
  «È un peccato che per incastrarli hai dovuto minare la credibilità della tua società.»
  «Non è importante, Esmeralda. Giusto stasera, ho spostato tutte le mie proprietà in un fondo destinato alla mia famiglia. Lo scandalo sarà presto dimenticato» dichiarai tranquillo.
  «Aspetta, vuole… Vuoi ricominciare tutto daccapo?»
  «No» le risposi; e salutai con un sorriso vittorioso Svetlana che veniva trascinata in macchina.
  «Ma…»
  Posai il bicchiere ormai vuoto e spostai lo sguardo su di lei. «Vieni con me.»
  Esmeralda mi seguì fino al terrazzo del bar, che affacciava direttamente sulla strada; il rumore, il vento, non mi impedirono di poter ammirare un’ultima volta il suo viso. La sua chioma che in quel momento svolazzava assecondando le raffiche furenti, donandole una bellezza selvaggia che mai avevo notato in lei prima d’ora.
  — Sono stato cieco. —
 «Che c’è?» domandò confusa.
 «Sai perché ti ho portata qui?» La vidi scuotere la testa. «C’è solo una persona, in verità, con cui sento di dovere di scusarmi, una molto importante.» Le tirai una ciocca dietro l’orecchio. «Sei tu, Esmeralda.»
  La rossa strabuzzò gli occhi, osservandomi tremante. «C-Come sai il mio nome? Non l’ho mai detto a nessuno.»
  Sospirai divertito, prima di poggiarmi al ringhiera. «Ti ho data per scontata per troppo tempo.» Respirai profondamente. «So tutto. Mi ricordo di te, di quando mi vedesti saltare dal pioppo di Padre Carmine, degli anni bui al liceo, di Jessica e dei miei genitori. Della buona impressione che volevi farmi fare davanti agli impiegati...»
  Esmera mi fissò senza dire niente.
  «Symon» sussurrò.
  «Lasciami finire.» Le presi una mano tra le mie, stringendola. «Io vedo il mondo in modo diverso, fatto di squali e prede. Per sopravvivere bisogna calpestare gli altri, e non mi pento di ciò che ho fatto. Ho sacrificato la mia luce all’oscurità. Ma alla resa dei conti, quando ho scoperto che ancora lottavi per una causa nella quale persino mia madre aveva gettato la spugna… Comincio a capire che un amore incondizionato, come il tuo, io non posso ignorarlo.» Mi specchiai nelle sue iridi così pure e innocenti, così vive e piene di speranza. «Ha ragione, sai? Quella vecchia storia del ciondolo. Siamo noi a decidere cosa essere e l’eco delle nostre azioni si ripercuote sulla nostra vita. E se io sono qui, su questo terrazzo, è solo e soltanto per merito tuo.»
  «Mio?» mi chiese, stupita.
  «Hai sempre visto del bene in me. Perché?» le domandai di getto.
  La sua espressione si addolcì, facendomi sentire in soggezione. Quando tentai di distogliere lo sguardo, lei afferrò il mio viso, con dolcezza, e lo volse nuovamente verso di lei. «Perché…» Sorrise genuinamente. «Perché ti amo» rivelò a bassa voce, come se fosse un segreto tra noi due, solo per noi. «Ti ho sempre amato, perdutamente. Ho sempre ho lottato e per sempre lotterò, per te. Contro chi ti accusa, e anche contro te stesso. Finché un giorno non diverrai l’uomo che sei davvero, di cui io sono già fiera» concluse in lacrime, sporgendosi verso di me, gli occhi chiusi.
  Erano le parole più belle che qualcuno mi avesse mai detto e quelle che avrei disprezzato. Eppure soffiarono brezza calda sul mio cuore freddo ed egoista, riscaldandolo più di quanto chiunque altro avesse mai fatto; vederla lì, vicino a me, bellissima e così innocente, mi destabilizzò. Era dunque questo l’amore? Quell’emozione che sapeva spronare qualsiasi uomo o donna a superare i suoi limiti, anche e fino a sacrificare sé stessi per il bene altrui?
  Le avevo fatto del male… Eppure eccola lì, davanti a me: l’unica capace di trovare lode in una vita trascorsa a infliggere dolore, l’àncora che cercava di riportare indietro la mia umanità. Eppure sapevo, in cuor mio, che in futuro l’avrei ferita ancora. E proprio questa consapevolezza mi fece ritrarre, ben più della promessa fatta a Shanor, che ora pulsava sotto forma di un taglio sulla mano.
  Posai due dita sulle sue morbide labbra, l’allontanai. «Non posso.» Vedere la sua espressione confusa, ferita, delusa, rafforzò la convinzione che fosse la cosa giusta da fare; e questa consapevolezza mi diede la forza di continuare.
  «Io…» Una lacrima le solcò il viso. «Scusami, credevo che…» Tentò di voltarsi, di scappare, ma le afferrai il polso e la tirai tra le mie braccia; lottò per divincolarsi, tuttavia non mollai la presa, la strinsi saldamente.
  «Sono io che devo scusarmi» le sussurrai. «Da quando ti conosco no ho fatto altro che deluderti, ho lasciato che il tuo amore per me diventasse dolore e rimpianto, e proprio per questo io…»
  «Quello che dici non ha senso!» mi anticipò, stringendo i lembi della mia camicia bianca fin quasi a strapparla.
  «Ce l’ha, invece. Se fossi a conoscenza quello che so io» esalai, stringendola più forte. «Non posso darti ciò che cerchi, non ne sono in grado. Se non ti allontanerai da me, ti farò del male.» Ricordai la sua morte, la disperazione che avevo visto nei suoi occhi. «Smettila di cercarmi, smettila di vivere per me, di essere la mia ombra.» L’allontanai per guardarla negli occhi, che in quel momento si ostinava a mantenere chiusi ermeticamente, come se un volta riaperti l’incanto fosse destinato a spezzarsi, come il suo cuore. «Guardami» la pregai dolcemente, e quando si decise ad aprirli potei leggervi dentro tutto il male, tutto il dolore.
  «Perché?» sussurrò. «Perché mi hai fatto venire con te, se avevi intenzione di allontanarmi?»
  «Perché volevo dimostrarti che l’uomo che tu hai amato esiste, da qualche parte e ti ama, che il ricordo che avrai di me non sarà solo quello di un bambino sorridente. Quando un giorno ripenserai a questo momento, e comprenderai perché l’ho fatto, spero con tutto il cuore che ti ricorderai di me, dell’uomo che hai visto sotto questo guscio vuoto. Perché, ora che l’hai riempito, ora che conosco il tuo segreto, so che ti consumerei.»
  «Questo non ha senso, Symon! Tu non… Non puoi lasciarmi entrare nella tua vita e poi mandarmi via, non puoi! Non lo accett…»
  L’abbracciai ancora una volta e parlai con il cuore, come mai avevo fatto in tutta la mia vita. «Esci dalla mia ombra, Esmera. Esci e splendi come il sole. Liberati di questa vecchia muta che sono io, è solo un intralcio. Tu sei brillante, sei un raggio di luce in questo mondo buio e corrotto, e meriti di essere felice in questa vita e tutte le altre che vivrai. Io sono tornato indietro solo per questo.»
  Esmeralda non mollò la presa, consapevole che se l’avesse fatto tutto sarebbe finito. A malincuore dovetti sciogliere il nostro abbraccio, il nostro legame, piegando le sue deboli resistenze.
  «Addio» le dissi. «E grazie di tutto.»
  «Aspetta» sussurrò, tentando di fermarmi. «Sym, aspetta!»
  Corsi, via, con quanto fiato avevo in corpo, allontanandomi sempre di più per resistere alla tentazione di tornare indietro. Persi la cognizione del tempo, dei minuti e delle ore, dello spazio. Ero insensibile alla fatica, sordo a qualsiasi suono e cieco dinnanzi al mondo sconfinato.
 Quando mi fermai, quando tutto tornò alla normalità, scoprii di essermi diretto verso casa; e ironia della sorte, quello in cui mi ero fermato era lo stesso incrocio dove tutto era iniziato…  
  E dove tutto sarebbe finito. «Signor Argent?» chiese una voce decisa e professionale al tempo stesso: la voce del destino, giunto alle mie spalle.
  «Fa’ ciò che devi» sussurrai , senza voltarmi, mentre un ago si conficcava nel collo e uno strano liquido verde fluiva nel mio corpo.
  «Svetlana vi manda i suoi saluti» asserì l'uomo che mi aveva appena assassinato.
  Caddi senza forze sull'asfalto e strinsi il petto all'altezza del cuore. Il mio volto divenne paonazzo, le vene fin troppo evidenti e gli occhi quasi uscirono fuori dalle orbite. Stavolta non tremai di paura. Stavo per morire e accettai il mio destino con il sorriso sulle labbra.
  Spirai…
 
«Hai mantenuto la promessa» disse Shanor, non appena comparve nel mio campo visivo.
  «Non l’ho fatto per te.»
  «Cosa, allora, se posso chiedere?»
  Fissai il vuoto con espressione pensante, per poi voltarmi verso di lui. «Ho sempre creduto che sacrificio o amore fossero debolezze, che solo i più forti potessero sopravvivere. Eppure… Lei sarebbe morta per me, avrebbe scalato mari e monti se l’avessi chiesto, anche affrontare Svetlana.»
  Il serpente annuì. «Lei l’avrebbe fatto.»
  «E anche tu, ritengo» aggiunsi. «Hai violato le regole permettendomi di tornare indietro nel tempo, l’hai fatto per lei, per salvarla da un destino orribile nella prossima vita. Hai addirittura pregato me, un semplice umano, di fare ciò che tu non avresti potuto.»
  «Hai compreso cos’è l’amore?»
  Passarono diversi attimi di silenzio, finché non decisi di proferir parola. «Ho compreso che lei sarebbe stata capace di cambiarmi, se l’avessi permesso. Sì, anche di provare amore. Ma non era destino che accadesse. È arrivato il momento, vero?»
  Egli annuì. «C’è qualcosa che vorresti chiedere, prima di andare?»
  «Mio fratello… Mi perdonerà un giorno?» chiesi a bruciapelo.
  Per tutta risposta serpente mi concesse di scorgere un’ultima volta la scena del mio funerale: i miei genitori, Esmera… e anche Aaron e Jessica; tutti erano in lacrime, i volti sconvolti dalla sofferenza, e contro ogni logica risi genuinamente. Non godevo nel vederli soffrire, ma poter scorgere cos’avesse prodotto il suo amore incondizionato mi fece comprendere, una volta per tutte, quanto fosse speciale. «Grazie… per tutto» asserii, mentre l’immagine svaniva.
  «È il momento» annunciò il serpente, aprendo un spiraglio di luce accecante nelle tenebre più profonde.
 Esitai solo un istante. «Cosa succederà, adesso?»
 «Il mio potere ha agito sulla tua anima. Non soffrirai, ma sarai condannato a rinascere.» Prima che varcassi la soglia, la sua voce mi trattenne. «Grazie. Sembra che Esmeralda avesse davvero visto qualcosa di buono. I tuoi peccati avranno un peso, nella tua prossima vita. Ma la tua pena sarà meno grave di quanto fosse prima.»
  «Arrivederci, allora» salutai, prima di varcare la soglia…
 
*
 
Correvo per la mia vita. Una tigre dai denti a sciabola m’inseguiva, ed era affamata. Se non avessi fatto perdere al più presto le mie tracce, avrei perso ben più del braccio. Avanzai a stento nella foresta di palme giganti, le stelle azzurre prossime al tramonto illuminavano il mio cammino. Quei globi luminosi bersagliavano il mio occhio buono; la mia solita fortuna! Ansimavo, correvo con il cuore in gola.
  — Non voglio morire! Non voglio morire! Non voglio morire!! —
  Nella fretta mancai di notare un sasso, che mi fece inciampare e rotolare a terra; nell’impatto persi la presa sulla lancia rudimentale e non ebbi modo di raccoglierla: la tigre era già su di me. Sentì le fauci della bestia serrarsi sulla gamba e iniziò a trascinarmi. Sotto di lei, mentre urlavo di dolore; come mi voltai, la trovai a un passo dal mio volto.
  Chiusi gli occhi, non volevo assistere al momento della mia dipartita. Il dolore che mi ero aspettato non arrivò mai. Coraggiosamente aprì l’occhio buono, e subito lo sgranai: una lancia era sbucata dalla bocca della fiera, il suo sangue ora sgorgava copioso dallo squarcio appena aperto.
  Urlai spaventato mentre la carcassa si piegava di lato, rivelando alla luce del tramonto azzurro una visone surreale, come se la Dea Ajeta avesse mandato un suo messo: una donna dagli occhi grigioverdi e la chioma ardente e ribelle che si palesò di fronte a me, il volto sorridente e gentile che mi fece perdere un battito. Era bellissima. La pelle di tigre bianca che le fasciava il corpo sinuoso indicava che fosse una cacciatrice provetta, una delle migliori.
  «Sei ferito» disse apprensiva, con una voce dolce come il miele.
  Strappò un lembo del suo stesso manto per fasciarmi il braccio e la gamba, mentre la osservavo rapito. «Ma tu sei un Cavaliere della Dea?» domandai inebetito, rapito dalla sua bellezza.
  Lei sorrise raggiante, offrendomi la mano. «Sono Eshmeda. E tu?»
  Non avevo un nome, ero sempre e solo… «Ultimo» risposi balbettando.
  «Ultimo? Che nome strano…»
  «Non ho un nome.»
  Eshmeda scosse la testa e sorrise. «E Ultimo sia, allora? Sono sollevata di essere arrivata in tempo. Ma dov’è il tuo clan?»
  «Sterminato» risposi, rabbuiandomi.
  Lei mi carezzò il viso con la mano, il volto triste e compassionevole. «Mi spiace per il tuo clan.»
  Non capii perché, ma vederla in quello stato mi fece male e fui travolto dall’improvviso desiderio di rincuorarla. «Non è colpa tua. Se non mi avessi salvato, sarebbe scomparso definitivamente.»
  Lei rispose con tristezza. «Allora non hai nemmeno una casa.»
  Scossi la testa. «Vivo alla giornata.»
  «No, è troppo pericoloso» sbottò, dandomi la mano per aiutarmi a rialzarmi. «Verrai con me, fuori discussione» sentenziò e fischiò con l’altra mano.
  Una grandissima lupa bianca apparve dalla foresta di palme e subito la donna di fuoco mi aiutò a salire in groppa al suo dorso, ignorando le mie proteste: «Non fa nulla, dico sul serio.»
  «Ah, finiscila» mi ammonì divertita. Salì e battè i talloni sulla schiena della belva per spronarla. «Nessuno di noi dovrebbe restare da solo. Mai.» Lo affermò con solennità… e un pizzico di ilarità.
  Sorrisi mio malgrado, e prima che me ne accorgessi il mio corpo stanco si era poggiato al suo; avvolto in quel magico tepore mi lasciai trasportare, mentre una sensazione di familiarità si faceva pian piano strada nel mio cuore in frantumi.
 
Angolo Autore:
Salve!
Per chi non ha mai letto questa storia, apparteneva a un vecchio contest a cui avevo partecipato. Si chiamava Stelle d’Oriente e l’aveva indetto Dollarbaby. L’avevo cancellata, ma ora come potete vedere è pronta e corretta, e rivista in minime parti perché rientra nel mio grande progetto di riunire tutte le storie dei vecchi contest in una maxi long.
Ritornerà da Te, Salvare il Natale… circa, e questa, sono tre storie assolutamente separate ma che ora sono collegate da una trama superiore; che, al momento, non sto sviluppando. Ho altri lavori da portare a termine, prima.
Tempo di collegamenti?
Innanzitutto, mettiamo ordine sulla linea temporale.
Questa è la prima, Ritornerò da Te è temporalmente successiva e Salvare il Natale è l’ultima.
E se per Salvare il Natale il collegamento erano Serah e Bruce, protagonisti di Ritornerò da te, la cui leggenda risuona ancora dopo secoli - è stata romanzata -, nonché l’Apocalisse, qui c’è la riposta al twist di Ritornerò da te.
Bruce è il Primo, reincarnatosi dopo essere passato da Shanor.
Symon Argent è l’Ultimo, che abbiamo appena visto reincarnarsi.
Ovviamente chi non ha letto le altre due storie non capirà un’acca di ciò che sto dicendo, ma vabbè.
Alla prossima
Spettro94
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Ghostro