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Autore: SkyDream    29/10/2020    5 recensioni
Nemmeno i chilometri erano riusciti ad allontanarli davvero.
Eppure Tobio cominciava a dubitare della resistenza di certi rapporti, sospettava che il tempo e la distanza fossero abbastanza tosti da logorare anche ciò che lui credeva infinito.
Come il suo amore per quell’imbranato, chiassoso e pieno di entusiasmo che era stato il suo schiacciatore.
Shoyo si comportava in modo strano ormai da mesi, ogni volta al telefono sembrava volesse dirgli qualcosa senza trovare il coraggio per sputare il rospo. Negli ultimi giorni, però, la situazione era degenerata e le chiamate erano sempre meno frequenti, i messaggi sempre più freddi.
Quella mattina, poi, era caduta l’ultima goccia.
-
Aveva nascosto tutto e se ne vergognava, ma aveva paura di perderlo, così come aveva paura di perdere il suo posto nella squadra di pallavolo.
Poi però aveva pensato che il suo sogno di arrivare ai mondiali lo aveva già realizzato, quello di vivere con Tobio no.
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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~ La presunta verità ~
[KageHina] [pt. 2/2]


Shoyo si sedette per terra, sul tappeto di fronte il letto e aspettò che il suo ragazzo aprisse bocca, quasi dovesse enunciargli la sua condanna.
Kageyama si sedette su una sedia vicino, portò i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani, riuscì a rivolgere un solo fuggevole sguardo alla bambina accucciata sotto le coperte, aveva preso a ciucciarsi una mano e sembrava tranquilla.
«Con chi?» Chiese poi, come fosse la prima di tante pugnalate pronto a ricevere.
«Cosa?» Shoyo cercò i suoi occhi, non aveva realmente capito la domanda.
«Certo che sei proprio stronzo! Con chi, Hinata, con chi hai fatto la bambina! Chi è la madre?» Kageyama aveva portato le dita tra i capelli, stringendoli come se avesse mal di testa.
Non era pronto a quello, non era assolutamente pronto.
«Ma la bambina non è mia. Cioè, è mia solo legalmente, l’ho adottata.» La voce di Shoyo era carica di perplessità ma sincera e genuina come sempre.
Tobio sollevò la testa, più confuso di prima.
«Adottata? Hai adottato una bambina brasiliana?» Il tono non era solo confuso e sconvolto, Shoyo sentì che era anche … ferito.
«Sì, speravo di potertene parlare di presenza. Lo so, avrei dovuto dirtelo prima, ma ho avuto paura. Lilà è con me da quasi un mese, per  questo ultimamente -» Shoyo non riuscì a finire di parlare. Tobio si era alzato con gli occhi spalancati e gli aveva puntato un dito contro.
«Hai adottato una bambina un mese fa senza nemmeno chiedermi cosa ne pensassi? Hinata ma fai sul serio?».
«Te lo avrei chiesto se non avessi saputo che, cocciuto come sei, non mi avresti nemmeno fatto parlare, Kageyama!» Erano entrambi in piedi, uno di fronte all’altro a fissarsi stravolti, feriti come non erano mai stati.
Avevano litigato, a volte non si erano parlati per giorni, ma mai si erano sentiti lontani come in quel momento.
E istante dopo istante, Shoyo vedeva il suo sogno sbriciolarsi.
«Come pensi che potrei reagire visto che sei piombato qui con una bambina in braccio? Aspetta - Kageyama si riprese un momento per elaborare - quindi non mi hai tradito?».
«Tradito? Tobio stiamo insieme! Non potrei mai tradirti!» Shoyo mise su una faccia così confusa che quasi fece ridere l’altro.
“Tradito?” Lo aveva detto con un tono quasi esilarante, come se il suo sospetto fosse non solo totalmente infondato, ma anche impossibile da realizzare.
Tobio non seppe più rispondere, aveva davvero troppe informazioni da metabolizzare per poter parlare ancora.
Shoyo non lo aveva tradito, era davanti a lui e aveva adottato una bambina senza dirgli nulla.
Uno schiaffo se lo meritava?
«Lascia che ti spieghi, ti prego!» Il tono di supplica con cui lo disse lo convinse a reprimere la voglia di strangolarlo. Erano passati anni, interi anni, ma Shoyo aveva ancora gli occhi grandi e lucidi di un bambino e, ogni volta che li rivolgeva a lui, puntualmente non riusciva a dirgli di no.
Si sedette nuovamente, nella stessa posizione di prima e aspettò.
Shoyo scivolò sul tappeto di fronte, cercando il suo viso e cominciò a parlargli di Isabela, della sua morte e della vita che avrebbe atteso Lilà se lui non l’avesse adottata.
Una vita di sfruttamenti, di miseria e dolore. Non ce l’aveva fatta a restare con le mani in mano, al solito suo, e aveva avuto quella botta di testa.
Lo aveva fatto e basta, senza pensarci.
«E non hai pensato a che vita di dolore hai condannato questa bambina? Non avrà una famiglia, tu abiti in Brasile, per l’amor del cielo, come pensi di potertene occupare? Hai almeno la più pallida idea di come si faccia il padre?» Tobio cominciò a formulare almeno un centinaio di domande a cui, sicuramente, il suo compagno non aveva minimamente pensato.
E a giudicare dalla sua faccia ci aveva preso in pieno.
Poi Shoyo sollevò un dito verso di lui, indicandolo.
«Speravo potessi insegnarmi tu, Tobio. Sei sempre stato più “papà” di me.» La voce era onesta, lo sguardo serio. Shoyo non scherzava.
«Essere più papà, secondo te, coincide con l’essere più responsabile tra i due? Con l’essere con la testa sulle spalle e ragionare prima di prendere una decisione simile? Hai compromesso la vita di una bambina, Hinata!».
«Smettila di chiamarmi Hinata!».
La voce del ragazzo fu talmente forte da svegliare la bambina che scoppiò a piangere.
Sho rimase per terra qualche secondo, con la testa abbassata per non mostrare quelle lacrime che stavano per spingersi fuori.
Tobio stava per lasciarlo, era inevitabile, e sperò che accadesse il prima possibile. Quella situazione lo stava logorando.
Lui voleva solo fare del bene, sarebbero stati una bella famiglia.
«Non so neanche come si prende!» Borbottò il setter alzandosi dalla sedia.
Sho sollevò il volto e vide Tobio che tentava di prendere la bambina in braccio, quella continuava a piangere come una disperata, muovendo le mani avanti e indietro.
Il ragazzo riuscì, dopo qualche tentativo, a portarla sulle sue spalle per cullarla.
I morbidi ricciolini avevano un profumo familiare di albicocca, il suo respiro si stava calmando così come le sue urla che si erano trasformate in gemiti appena udibili.
Tobio dovette gettare uno sguardo allo specchio per prendere consapevolezza della scena surreale che stava vivendo.
Aveva la figlia adottiva di Sho in braccio e la stava cullando.
«Non volevo urlarti addosso, mi dispiace.» La voce del suo ragazzo gli giunse appena udibile, Shoyo non si era mosso dal tappeto e sembrava voler dire qualcosa senza riuscirci.
«Quando partirai per il Brasile?» Chiese l’altro senza mollare la bambina che aveva ripreso a dormire sulla sua spalla.
«Non tornerò in Brasile. Andrò in Giappone, mia madre e Natsu mi aiuteranno con Lilà, con la pallavolo farò in qualche modo, troverò una squadra disposta a prendermi.» Seguì un momento di silenzio.
«Non tornerai in Brasile?».
«No».
«E quando avevi intenzione di dirmelo?».
Shoyo sollevò il capo con un’espressione che esclamava “Non era ovvio?” ma si trattenne di nuovo. Aveva imparato questa sacra arte negli ultimi anni di relazione con Tobio.
La bambina fu goffamente riposta tra le lenzuola e Tobio raggiunse il suo ragazzo sul tappeto.
«Se devi mollarmi fallo in fretta per favore. Forse farà meno male.» La voce di Sho tremava, gli occhi lucidi si erano lasciati sfuggire qualche lacrima rapidamente rimossa.
Aveva capito di essere nel torto, avrebbe dovuto parlarne con lui e superare le sue paure.
«Non so se riuscirò mai a perdonarti per quello che hai fatto, Shoyo, ma non ho intenzione di mollarti.» Tobio poggiò le spalle alla testiera del letto. Si godette per bene la scena del suo ragazzo che cacciava via le lacrime con i polsini della felpa - troppo grande - per rivolgergli uno sguardo confuso.
«Hai sbagliato e ne sei consapevole, mi basta. Ma per questa notte preferirei che tu rimanessi qui, devo pensarci su. Non so se sono pronto per accettare sia te che la bambina.» Tobio si sollevò in piedi e infilò il cappotto, pronto per affrontare di nuovo l’aria fredda di Roma autunnale.
«Tornerai?».
La voce di Shoyo rimase sospesa nell’aria.
 ***
Tobio aveva passato, per la seconda volta, l’intera notte a fissare il soffitto.
Fino a poche ore prima non avrebbe mai immaginato di poter vivere una situazione così surreale, di avere l’occasione non solo di poter vedere Shoyo in versione “papà”, ma anche diventare lui stesso un papà.
Quell’idiota non gli aveva detto nulla, adottando una bambina in modo irresponsabile e avventato. Per il suo bene. Amava quella bambina e voleva proteggerla.
Quante volte lo aveva fatto anche con lui? Shoyo proteggeva Tobio, a modo suo, ogni volta che poteva.
Quando andavano insieme ai campionati e vedeva i suoi compagni delle medie - quelli che lo chiamavano “Il Re del Campo” - faceva loro la linguaccia, mostrando fiero il suo meraviglioso e unico setter.
Quando Tobio si feriva le dita, Shoyo si sedeva al suo fianco per fasciarle, senza smettere un momento di parlare.
A scuola, una volta, quando in pausa pranzo si era accorto del latte non disponibile al distributore, era scappato in bici per raggiungere il minimarket all’angolo e ne aveva comprato un’intera bottiglia. Era stata la prima volta in cui aveva visto Tobio arrossire e balbettare una parola simile ad un ringraziamento.
Shoyo era fatto così: era immediato.
Sconsiderato anche, tanto, troppo.
Tobio si rese conto che non solo non sarebbe mai riuscito ad odiarsi, ma avrebbe finito per odiare se stesso se avesse lasciato scappare quell’unica occasione che aveva per essere felice.
Ci avrebbe comunque messo del tempo per perdonarlo, ma avrebbe potuto farlo rimanendo al suo fianco e cominciando ad affezionarsi a Lilà.
Come si faceva il padre? Shoyo non aveva mai conosciuto il suo, lui era vissuto con due genitori stacanovisti. Non poteva assolutamente immaginarsi con una bambina in braccio.
Ma lo avrebbe fatto. Per lui.
 
I colori dell’alba entrarono appena dalle tapparelle abbassate, riflettendosi sul pavimento.
Tobio si sedette sul letto, era così stanco da riuscire appena a tenere gli occhi aperti.
Non ci pensò due volte però, si sollevò in piedi e infilò i primi vestiti capitati sotto mano.
L’aria autunnale di Roma gli colpì il viso, non vi erano ancora i rumori e le voci che riempivano la Capitale al risveglio. Era tutto, ancora per poco, ovattato.
 
La stanza duecentosedici non era chiusa a chiave. Shoyo non ne aveva avuto il coraggio, sperando, fino all’ultimo di vedere il suo ragazzo tornare indietro.
Ma così non era stato e, dopo aver dato del latte alla bambina e averla cambiata, alla meno peggio, si era premurato di avvolgerla per bene nell’unica coperta presente in stanza. Le temperature a Roma erano totalmente diverse da quelle in Brasile, Lilà non sembrava ancora essersi abituata e aveva cercato riparo tra le pieghe morbide di quella felpa troppo larga che Shoyo, dopo tanti anni, si ostinava a mettere.
La indossava sempre al liceo, ci aveva percorso un sacco di chilometri ed era una stoffa impregnata di troppi ricordi per poterla lasciare rinchiusa in un armadio.
Shoyo aveva allungato un braccio lungo le sue spalle, avvolgendola totalmente tra il suo petto e la coperta.
Gli occhi gli bruciavano per il pianto, le labbra erano ferite dai morsi che si era inflitto per non singhiozzare vistosamente.
Si era addormentato così, devastato e stringendo l’unica cosa che ancora lo teneva in piedi, che gli dava la forza per non gettarsi a capofitto nella disperazione.
Così, quando Tobio aprì la porta, non potè che rimanere sull’uscio a fissarlo in silenzio. Le labbra si erano schiuse in un’espressione di stupore mentre, li sentiva salire al petto, i sensi di colpa affioravano per aver lasciato solo il suo ragazzo.
Dopo tutti quei mesi senza vederlo. Senza poterlo baciare.
Tobio richiuse la porta dietro di sé e lasciò il cappotto sulla sedia insieme alla sciarpa, si sdraiò accanto a Shoyo, avvicinandosi abbastanza da scontrare il proprio petto contro la schiena dell’altro, e lo avvolse in un abbraccio che arrivò a circondare anche le piccole spalle di Lilà.
«Sei tornato.» Constatò lo schiacciatore con un mezzo sorriso, sentire il petto di Tobio contro di se era un’emozione enorme, che gli era mancata terribilmente.
«Non sarà facile, ma ci proveremo.» Tobio sospirò contro la nuca del suo ragazzo, provocandogli un brivido. Entrambi sentirono la necessità, impellente, di guardarsi negli occhi.
Le loro mani si strinsero sul corpicino della bambina prima di separarsi da lei, Shoyo ruotò fino a scontrare il suo viso con quello dell’altro che, senza aspettare oltre, gli catturò le labbra.
Shoyo sentì riaffiorare alla mente una marea di ricordi, in tutti vi era il suo setter pronto ad accoglierlo tra le sue braccia: dopo una partita, dopo una trasferta, al ritorno dai viaggi, dopo aver fatto l’amore.
Tobio c’era sempre, con il viso rivolto altezzosamente verso l’alto e gli occhi bassi per guardare quella testolina ramata fiondarsi contro di lui.
Si amavano troppo per poter mandare tutto a monte.
«Sarai un papà meraviglioso, Tobio.» Shoyo gli sorrise sulle labbra mentre lo sussurrava. Tra quelle braccia si sentiva nuovamente a casa, al sicuro.
Si sentiva amato e, ne era certo, presto anche Lilà si sarebbe sentita così.
I due ragazzi non riuscirono a scollarsi, anzi, nelle loro menti - e nei loro piccoli gesti - vi era un’immensa voglia di unirsi ancora di più, fosse anche nelle responsabilità che si stavano posando sulle loro spalle.
E non sarebbe stato facile.
Ma, si sa, in due il carico è più leggero.
Tobio chiuse gli occhi per primo, lasciandosi vincere dalla stanchezza, e l’ultima cosa che vide prima di addormentarsi fu Shoyo che metteva Lilà tra di loro, includendola in un abbraccio.
Avrebbero riaperto gli occhi insieme, qualche ora dopo, passando interi minuti a fissarsi prima di trovare il coraggio di alzarsi e cominciare una vita tutta nuova.
 
***
 
Tobio  ripensava spesso a quel momento, quello in cui aveva deciso di far entrare Shoyo nella sua vita una seconda volta.
Insieme a Lilà, ovviamente.
E si chiedeva cosa ne sarebbe stata della sua vita se avesse preso la scelta contraria. Ma se lo chiedeva mentre teneva per mano una bambina vestita di rosa, con un cespuglio di capelli castani che tentava di domare con fermagli colmi di brillantini, e quello era l’importante.
Due occhi verdi si scontrarono con i suoi, così simili a quelli di Hinata nonostante non vi fosse alcun legame di sangue.
«Tobio-otosan, palla?» Lilà corse verso un pallone troppo grande per le sue braccia, riportandolo al ragazzo come fosse una richiesta.
«Vuoi che giochi con te? Ancora?» Chiese falsamente stanco di quella ripetitività.
Lilà sollevò un dito, come a chiedere “L’ultima volta!”.
E Tobio, con un malcelato sorriso, si ritrovò a chiedersi se fosse il suo destino quello di innamorarsi di nanetti incredibilmente testardi.
 

Angolo autrice: Ringrazio tutti coloro che sono arrivati alla fine di questa fanfiction che, personalmente, è stata davvero una bella sfida. L'introspezione di Tobio potrà forse apparire un po' velocizzata, ma vi assicuro che ho fatto di tutto per calarmi nel personaggio. Per questo ringrazio ancora Dalila, che mi ha aiutata facendomi vedere un punto di vista nuovo, più realistico, che inizialmente non avevo considerato.
Non escludo di poter tornare nuovamente a parlare di Roma e delle favelas, mi è piaciuto molto tornare mentalmente al Pincio e in via Condotti, spero di tornarci presto anche di presenza, così come ho trovato interessante impersonarmi, seppur marginalmente, in Isabela e in ciò che avrebbe atteso Lilà in quanto orfana.
Ringrazio tutti ancora una volta, a presto!
   
 
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