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Autore: Dira_    08/11/2020    6 recensioni
[Seguito de "Nella Selva Oscura"]
Castiglioscuro non è più un problema per le Silvani. Lo è il bosco, e ciò che contiene.
Un mostro si è risvegliato tra gli alberi e una barista di paese si è resa conto che non più essere soltanto quello.
Rosi deve tornare nell'Altrove, un mondo popolato da spettri, criptidi e mostri; deve trovare il coraggio di affrontarli e forse affrontare sé stessa.
Nell'Altrove è facile smarrirsi: puoi dimenticare di essere un mostro per scoprire il primo amore, puoi cominciare a dubitare che obbedire agli ordini sia sempre giusto. Puoi scoprire che no, non lo è.
Perché nell'Altrove vi è una sola certezza: una volta che lasci il sentiero, è allora che la storia comincia davvero.
Genere: Fantasy, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1.
 
 
L’Uomo venuto da fuori aveva avvolto Lietta in un abbraccio e l’aveva baciata sulla bocca alla luce della luna calante.
L’aria era immobile, densa come melassa e i grilli avevano smesso di frinire.
 
La mattina dopo Bice aveva atteso che suo padre se ne andasse ai campi e quando Lietta aveva fatto per uscire, si era frapposta tra lei, la porta e qualunque pericolo si annidasse al di là della soglia.
L’Uomo venuto da fuori, principalmente.
“Che fai?” le aveva domandato Lietta perplessa. “Devo uscire!”
“Ti ho visto ieri notte con quell’uomo.” aveva risposto senza girarci attorno, perché tra loro non c’erano mai stati segreti, né sotterfugi, non fino a quel momento almeno.
Lietta era impallidita, stringendo tra le mani il secchio dell’acqua. “L’avrai sognato come fai tu. Non ero con nessuno ieri notte!”
“Dove siete stati?”
Lietta le aveva rivolto un’occhiata rabbiosa perché indossava le proprie emozioni a fiori di pelle, senza mai preoccuparsi di mediare. “Non sono affari tuoi!”
“Lo sai che è pericoloso, non appartiene al Chiaro.”
“Neppure noi,” le aveva ritorto contro, “ma non siamo cattive! Lo hai mal giudicato, non conosci Benedetto come lo conosco io. Mi vuol bene, mi capisce … nessuno qui mi capisce! Non posso dire a nessuno quel che sono, quello che sento e so fare. A lui queste cose posso dirle!” le era tremato un sorriso incerto sulle labbra, una richiesta di comprensione. “È tanto bello quando qualcuno non ha paura di quel che sei, no? Non è lo stesso con il tuo soldato?”
“Di che stai parlando?”
Lietta aveva scrollato le spalle con una risata. “Non dire bugie, tu e Fortunato siete innamorati! Come me e Benedetto!”
Quel paragone osceno le aveva fatto ribollire il sangue nelle vene. La felicità sciocca e pericolosa di sua sorella l’aveva atterrita. “Chi te lo ha detto?”
“Benedetto, vi ha visti baciarvi nel bosco.”
“Ci stava spiando?!” Li doveva aver seguiti dopo che l’avevano lasciato alle fonti. Doveva averli tallonati mentre Fortunato le aveva mostrato quelle strane strisce bianche sulle foglie del bosco.
Non erano al sicuro.
Lietta aveva messo il broncio. “Mi ha avvertita che l’avresti detto! Sei malfidata. Vive nel castello adesso, e lavora nelle cucine … vi ha incrociato per caso mentre scendeva al paese!”
“Lietta, non devi più incontrarlo.”
“Perché?” era sbottata prevedibilmente. Mai che le avesse dato retta, e soprattutto non con quelle gote rosse e lo sguardo sognante.
L’Uomo venuto da lontano aveva rubato il cuore di sua sorella e il desiderio di farlo scomparire era stato così forte in Bice da farle venir voglia di urlare.
“Perché sei una ragazzina, e lui non è innamorato di te. Vuole qualcosa da noi, dalla nostra comunità … e io e Fortunato abbiamo intenzione di scoprirlo.”
Lietta a quello era impallidita e le sue più fosche previsioni avevano trovato conferma. “Dove siete stati?” aveva ripetuto.
“Non facciamo niente di male! Stiamo assieme, come te e Fortunato.”
“Due uomini sono morti, Lietta.”
“Non c’entriamo niente.” l’aveva sorpassata, aprendo la porta e dandole quasi una spinta per farlo. “Lasciami andare alla fonte, è già tardi.”
“Cosa fate di notte?”
Lietta le aveva rivolto un’occhiata piena di rabbia e sfiducia, quella che avrebbe dovuto rivolgere al maledetto Benedetto, non a lei, sua sorella, sangue del suo sangue. Poi era corsa via e non aveva potuto andarle dietro, non con la gente che le avrebbe viste.
Comunque, non aveva bisogno di una risposta, perché già la conosceva.
Andavano di certo nel bosco.
 
***
 
 
Il prodigio e il mostro hanno le stesse radici.
(Victor Hugo)
 
Non avrebbero dovuto essere nel bosco.
Maddalena ne era conscia, ma la realtà a conti fatti era un po’ diversa.
C’erano, e stavano correndo a rotta di collo verso il rumore di uno sparo. “Cate!” urlò. “Cate, per favore, fermati!”
Caterina la ignorò continuando a saltare come un maledetto stambecco tra un sasso scivoloso e l’altro.
Maddalena era troppo sbalordita da quell’affastellarsi di eventi per poter far altro che andarle dietro ed evitare che entrambe morissero male.
Caterina alla fine si fermò alla fine della scala che univa il sentiero al castello. “Veniva da qua…” ansimò passandosi una mano tra i capelli per toglierseli dal viso, “Veniva da qua sotto, vero?”
“Sì,” confermò raggiungendola, “nun vulissimu davvero iri verso qualcuno chi avi sparato?”
Cate batté le palpebre realizzando forse per la prima volta cosa stavano per fare. “Mia sorella…” le lanciò un’occhiata spaventata, “quell’urlo era suo, sicura!”
Maddalena inspirò, cercando di regolarizzare il respiro e non rischiare un infarto. “Va bene, andiamo, ma stai dietro a me.”
“Perché, sei antiproiettile?”
Dovette frenare una risata un po’ disperata perché no, certo che non lo era, ma di sicuro aveva i riflessi più pronti di una persona normale.
… anche se in effetti, non era antiproiettile.
Cate le rivolse un sorriso divertito. “Va’ che dei due se c’è qualcuno che deve stà dietro, quella sei te.”
“In base a cosa?”
“Ti sei quasi ammazzata a scendere!” e prima che potesse protestare le prese la mano, intrecciando le dita alle sue. “Andiamo assieme.”
Anche stavolta Maddalena si trovò a corto di parole; forse avrebbe dovuto dire qualcosa, anzi, doveva dire qualcosa.
Ci siamo baciate.
Però non era il momento, non per il modo in cui l’altra le stringeva la mano: parlava più di desiderio di rassicurazione che mossa per conquistarla. Ricambiò la stretta ed insieme si avventurarono per il sentiero, un tunnel verde smeraldo in cui le gocce d’acqua risplendevano dei primi raggi di sole che avevano bucato le nuvole in quella lunghissima giornata.
Era il tramonto e aveva smesso di piovere.
 
***
 
Era morta.
Era di certo così, perché quando un mostro partorito da un incubo ti attaccava cos’altro c’era da aspettarsi?
Roísín pensava che morire sarebbe stato diverso: aveva immaginato di andar verso una luce, non di trovarsi al buio, soffocata dalla stoffa e con le narici piene di un odore familiare.
L’odore di bosco e sudore di Tobia.
Aprì gli occhi e realizzò di essere stretta nell’abbraccio dell’uomo, che era viva e che qualcuno aveva appena sparato. Si staccò la distanza sufficiente per guardarsi attorno e razionalizzare la situazione: alberi, rumore d’acqua, il ponte, le braccia che la stringevano, il rumore dei suoi respiri rotti e il quieto gocciolare degli ultimi sprazzi di pioggia sui rami.
Il mostro non c’era.
Come in un sogno realizzò cos’era accaduto: Tobia l’aveva afferrata poco prima che quella cosa le piombasse addosso e l’aveva tolta dalla sua mortifera traiettoria. Non c’era stato tempo per scappare, né per buttarsi nel ruscello, ingrossato dalla corrente vorticante.
Si divincolò per staccarsi. Tobia al primo cenno di insofferenza la lasciò libera e le restituì uno sguardo velato di terrore. “Stai bene?” le domandò e ad un cenno affermativo fece un passo indietro e cercò Ettore; era dall’altra parte del ponte, la pistola spianata in direzione del castello, un muro invisibile tra sé e l’orrore.
Ha sparato. Gli ha sparato contro!
La creatura era scomparsa e per un attimo Rosi si cullò nell’idea fosse stato solo uno scherzo del suo cervello malato … o che Ettore l’avesse uccisa.
Un serpente.
La Montagnola era piena di bisce: biacchi, colobri e ovviamente vipere, ma non era quelli ad aver visto; non con quelle dimensioni, quel corpo gargantuesco, coperto da fitte scaglie che alla luce splendevano d’argento … e il muso, che non era tale perché volto di uomo, con narici, bocca, occhi obliqui e sbarrati, umano eppure non umano perché completamente privo di espressione.
Rosi cominciò a tremare.
“Lo sparo deve averlo spaventato.” disse Tobia raggiungendo Ettore. Esitò. “Potresti abbassare la pistola per favore?”
L’altro la abbassò con una smorfia imbarazzata. “Scusatemi, è che …”
Già.
Non servì che concludesse il pensiero perché lo condividevano tutti.
I due uomini si misero a controllare il ponte e Tobia si sporse per esaminare le acque tumultuose. “È caduto, sono sicuro … ma non credo che tu l’abbia colpito.”
“Tracce di sangue non ce ne stanno.”
Tobia tornò da lei, posandole una mano sulla spalla e Rosi non poté impedirsi di sobbalzare. C’era un mostro nel suo bosco, nella sua Montagnola, un mostro dal volto d’uomo e il corpo di serpente, grande come un cavallo e rumoroso come una macchina infernale.
E pericoloso …? Quant’è pericoloso?
Qual’era il termine di paragone?
“Cosa facciamo?” mormorò.
I due uomini si scambiarono un’occhiata, ma prima che uno dei due potesse parlare un rumore dal sentiero li mise in allarme. Tobia la tirò dietro di sé ed Ettore si piazzò davanti, sfoderando la pistola come in una pellicola americana.
Era tutto così ridicolo da essere terrificante.
“Chi c’è?!” urlò Ettore. “Sono armato, meglio che ti fai sentire!”
Un’sparà! Siamo Cate e Maddalena!”
La voce di sua sorella fu come un pugno nello stomaco: sollievo e paura si mescolarono mentre svicolava di nuovo dalla presa di Tobia. Caterina intanto, la sua insopportabile, meravigliosamente incolume sorellina, uscì dalla boscaglia seguita dalla siciliana.
Sta bene.
Le corse incontro e venne omaggiata da un’occhiata intimorita – aveva paura l’avrebbe sgridata? Oh, quanto avrebbe voluto farlo per averla fatta spaventare!
La tirò a sé in un abbraccio e la strinse forte, sentendosi, dopo una breve esitazione, ricambiata con altrettanta intensità.
“Hai urlato … e poi c’è stato quello sparo!” borbottò Cate contro la stoffa della sua maglietta. “Che è successo?”
Cosa avrebbe potuto dirle che avesse un senso anche nel Chiaro?
Dio, sto parlando come mamma.
Era però inevitabile, considerando che sua sorella nulla sapeva e nulla avrebbe dovuto conoscere. Neppure la siciliana che era con lei. Erano due ragazzine normali; non dovevano essere trascinate in quell’incubo.
“Un cinghiale,” intervenne pacato Tobia, “siamo stati attaccati da una mamma con i cuccioli. Ettore ha sparato per spaventarla.”
Cate aggrottò le sopracciglia mentre valutava con tipica diffidenza adolescenziale l’attendibilità di quella teoria. Ettore non aveva credibilità, era abbastanza ovvio, ma Bia, il grande, buono e affidabile Bia …
“Ah.” Cate le servì un sorrisetto mangiandosi la foglia. “E ti se’ cacata per un cinghiale?”
Rosi sbuffò, sciogliendola dalla morsa del suo abbraccio, dato che la voglia di darle un calcio nel sedere stava tornando prepotente. “Sono pericolosi.”
“Si vede che è parecchio che un’vieni nel bosco.” continuò, schivando stavolta uno scapaccione. “Perché t’arrabbi? Sei tu che m’hai fatto spaventà con quel bercio, non viceversa!”
Rosi si morse la lingua. “Siete tutti al castello?” domandò mentre Ettore rinfoderava l’arma per la seconda volta. Il napoletano era pallido come un cencio ma riuscì a tirar fuori l’ombra di un sorriso.
Non ebbe cuore di dirgli che la Manolonga si era sporta per giocare con i lacci dei suoi anfibi di servizio.
“Sì, tutti dentro” rispose Cate voltandosi verso Maddalena, “tranne noi due, palese. Gli altri non credo abbiano sentito nulla, te che dici Malù?”
La ragazza confermò con un cenno della testa. Si guardava attorno e per un attimo a Rosi parve stesse annusando. “Vi avevo detto di non entrare.”
“Tiravano certi lampi che pareva ci dovesse cascà addosso il castello! Ci preferivi morti per elettrocuzione o per crollo?”
“Va bene, lasciamo perdere” tagliò corto. “Andiamo su, siamo venuti a prendervi.”
“Non possiamo restare alla radura.” esordì Maddalena stavolta con gli occhi puntati al cespuglio da cui era uscita la bestia.
… è tornata?
Si voltò con il cuore in gola ma non c’era più niente, il bosco era tranquillo e carico dei rumori che doveva avere: richiami di uccelli e, dato che erano sul ponte, il ticchettio delle unghie della manolonga appesa sotto. Ettore inciampò.
“Hai ragione, non credo sia il caso” confermò, “stanotte dormite da noi.”
Cate mentre tornavano su si affiancò di nuovo a Maddalena, sfiorando timidamente le dita con le sue; l’altra le afferrò la mano e sua sorella sorrise da un orecchio all’altro. “Possono stare da noi finché la radura non si asciuga?” domandò con palesissimo tono speranzoso.
Non la faccio di certo dormire in camera tua, bischerella.
“Poi ci pensiamo.”
“Tra poco il sole tramonterà dietro la collina,” disse Tobia, “conviene sbrigarsi.”
Alla luce di quanto era accaduto, più che conveniente era tassativo.
 
***
 
Roísín aveva tirato un sospiro di sollievo solo quando erano tornati in paese ed avevano frapposto le mura tra loro e qualsiasi cosa si annidasse nel bosco.
“Dobbiamo parlare.” disse ad Ettore e Tobia una volta lasciati i ragazzi in casa.
Aveva smesso di piovere ed era una serata calda e mite, simile a quelle dei suoi ricordi d’infanzia. In un certo senso era così, rifletté amara: era spaventata come una bambina.
“Possiamo andare a casa mia.” suggerì Tobia.
“Non se ne parla.” sbottò aggressiva. Quando notò notò la sorpresa sul volto di entrambi sospirò. “Finché c’è quel mostro in giro è meglio non entrare nel bosco a meno che non sia indispensabile.”
“Possiamo andare da me allora” propose Ettore. Era ancora pallido e le dita correvano in continuazione alla fondina della pistola, ma si fermavano sempre un po’ prima. Quando notò che lo stava guardando fece una smorfia imbarazzata e si infilò le mani in tasca. “Non è ‘na reggia, ma meglio di niente.” continuò. “Direi la Stazione, ma ha lo stesso problema del cimitero.”
Erano circondati dal bosco, rabbrividì Rosi mentre si infilavano nelle vie strette e bagnate dal paese; un immenso oceano di alberi dove quella creatura raccapricciante poteva muoversi indisturbata.
Rosi entrò in casa della vedova Brandi come in trance. Fu riscossa solo dal forte odore dolciastro di casa di donna anziana, un odore di cose vecchie, caramelle stantie e ricordi. Era tanto che non andava a trovare la cugina Irma: c’era stato un tempo, quando suo nonno era ancora vivo, che le visite erano all’ordine del giorno. Non duravano mai troppo però. Suo nonno non apprezzavano lo stile di vita di quella lontana parente e rimaneva giusto il tempo necessario per sistemarle qualche tubo o potarle qualche siepe, mentre lei si riempiva le guance di caramelle al rabarbaro.
Ormai era una tema di quella giornata, tornare indietro nel tempo.
E persino senza dormire …
Ettore li guidò lungo la scala che portava alla sua porzione di casa, che consisteva in una stanza raccolta, una cucina che fungeva anche da salotto e un bagno, il tutto ordinato con precisione militare. Il napoletano spalancò le finestre della cucina e il vento che profumava di terra e bosco entrò ovunque.
“Facciamo ‘nu caffé?”
“Sarebbe meglio un the.” suggerì Tobia sedendosi al tavolo nel punto dove, con la sua mole, avrebbe potuto dare meno ingombro possibile.
Ettore posò loro davanti due tazze con dentro a mollo bustine di the della COOP, per la quale i suoi geni irlandesi protestarono violentemente. Li tacitò e lo bevve come se fosse una medicina, mentre sprofondavano tutti in un silenzio denso come inchiostro, immersi nei ricordi di neanche un’ora prima.
Tobia fu il primo a parlare: “Come stai?” lo chiese a lei, ma poteva tranquillamente volgerlo al plurale.
“Di merda.” dichiarò strappandogli un sorriso. “Che cos’era?”
“Un grosso serpente con la faccia da uomo?” ribatté Ettore giocherellando con la propria tazza senza berne un sorso. Era sicuramente in dotazione alla casa perché aveva l’aria di aver vissuto ben più del suo attuale proprietario. Sopra la porcellana smaltata vi erano dipinti degli gnomi intenti ad annusare fiori. Assomigliavano al Beffardello e quindi Rosi distolse prontamente lo sguardo.
“Non c’è mai stato niente di simile qui … non che io ricordi.” rifletté Tobia.
Di tutti e tre sembrava il più calmo. Forse perché ormai si era abituato a pensare al bosco come un posto pericoloso oppure perché finalmente aveva avuto conferma dei suoi sospetti. Rosi avrebbe voluto prenderlo alternativamente a pugni o aggrapparglisi addosso come una roccia in un mare in tempesta.
Rimase seduta imponendosi di non muovere neanche la punta delle dita.
“Che sia nuovo o meno, è chiaro che sarà un problema … grosso.” Ettore fece una smorfia all’involontaria battuta. “Come si ammazza una roba del genere?”
“Perché dovrebbe toccare a noi?” domandò incredula. “Ci sono delle persone che se ne occupano, i Sorveglianti!”
I due uomini si scambiarono una nuova occhiata e Rosi per un momento fu punzecchiata dalla gelosia; in quelle settimane avevano evidentemente sviluppato una sorta di codice tra gentiluomini.
La cosa la fece sentire in due modi: tagliata fuori e stupida per averlo pensato.
“Rosì … tu tieni ragione.” disse Ettore con l’aria di chi stava prendendo misura di ogni singola virgola. “Sono un carabiniere, mi dà fastidio la gente che vuole fare il giustiziere della domenica …” fece un sospiro. “… ma ci sta un problema. Non possiamo chiedere a loro. Dobbiamo occuparcene per conto nostro.”
Fece una mezza risata, un suono secco che non piacque neppure a lei. “Siamo diventati Sorveglianti e nessuno me l’ha detto? Perché c’è mia madre, il Sindaco e quel prete. O è cambiato qualcosa?”
“Non è cambiato niente.” si inserì Tobia. “Il problema è che tra i Sorveglianti c’è qualcuno che nasconde la presenza di Creature pericolose.”
Rosi aprì la bocca per parlare ma si fermò; il suo istinto era di mandare al diavolo entrambi, che i complotti stavano bene su un post Facebook, non certo in quel paesino di trecento anime e trecento gatti. Però.
Era davvero sicura fossero solo complotti? Era tagliata fuori dall’Altrove da anni, aveva chiuso occhi, orecchie e cuore ad un mondo spaventoso e vasto.
E se avessero avuto ragione? Perché fino a quel momento tutto ciò che le avevano detto aveva avuto riscontro nella realtà.
Ettore parve quasi leggerle nel pensiero. “Non stiamo facendo affermazioni campate per aria, Rosì. C’è chi ci ha confermato che un lupomanaio si aggira in queste zone … e ora che visto quella cosa, credi davvero che Tobia si sia inventato tutto?”
Rosi continuò a rimanere in silenzio; avrebbe voluto scappare di lì, tornare alla sua vita di prima e fregarsene, ma non poteva ed era inutile continuare a sperarlo: perché la verità le era stata sbandierata davanti e sua sorella era in pericolo.
“No, non più.”
Non volle dar peso a quelle parole; non volle neanche controllare la reazione di Tobia. Poteva continuare a tener chiusi gli occhi di fronte a certe cose, almeno per un po’.
“Chi è che vi ha confermato la presenza del lupomanaio?”
Non poteva però impedirsi di formulare ipotesi e di giungere a delle conclusioni.
Se è vero quello che dicono, chi è il Sorvegliante che non fa il suo dovere?
Ce n’erano tre: e uno di questi era sua madre.
Tobia si mosse sulla sedia, Rosi poté intuirlo dal rumore che fece strisciando sul pavimento di mattonelle. “Se te lo diciamo ci devi promettere che non lo dirai a Marina.”
“Pensate che sia lei a nascondere le Creature?”
Volle non aver detto quella frase nel momento stesso in cui la pronunciò; perché Marina era sua madre, quella che l’aveva protetta dall’Altrove, che si era presa l’onere di continuare a rimanere una Sorvegliante in attività quando lei si era rifiutata.
Era questo l’amore materno, si era detta: nonostante tutto, nonostante tutte le assenza e le responsabilità lasciate sulle sue spalle da adolescente, Marina aveva fatto almeno quello per lei.
Era il modo in cui faceva la madre … o era convenienza?
“Non lo sappiamo.” rispose Ettore. “Potrebbe essere un unico Sorvegliante che agisce alle spalle degli altri e tua madre potrebbe non essere coinvolta … quello che è sicuro, è che il lupomanaio è andato nell’accampamento dei siciliani ed ha devastato una tenda lo scorso plenilunio. Qualcuno l’ha sostituita cercando di farla passare come quella distrutta.”
“Come sapete tutte queste cose?”
“Devi promettere di rimanere in silenzio.” ripeté Tobia. “Non sappiamo ancora di chi possiamo fidarci …” esitò. “Per questo non puoi dirlo a Marina. Non credo sia coinvolta, ma potrebbe avvertire chi invece lo è.”
“Ho capito…” rispose passandosi una mano tra i capelli. Il the era finito e così il calore che l’aveva momentaneamente scaldata. Era estate, c’era afa, eppure non riusciva a sentire altro che freddo. Le aveva raggiunto le ossa e continuava a mordere. “Quindi qual è il piano? Come ci liberiamo di quella cosa?”
“Capendo cos’è prima di tutto.” le rispose Tobia.
Rosi cercò di riportare alla mente le tante storie che sua madre le aveva raccontato da ragazzina: era così che i Sorveglianti venivano iniziati al loro compito. Con le storie.
Non ce n’era però nessun racconto nei suoi ricordi che parlava di serpenti con il volto umano. Forse Marina gliel’aveva risparmiato per non farle avere incubi, ma dubitava. Da bambina adorava quel genere di storie, e chiedeva sempre quelle più oscure e spaventose, con la certezza di sapersi protetta da mura spesse e genitori che la amavano.
Non era più quella bambina da tanto tempo. “Non credo ci sia sempre stato … o qualcuno se ne sarebbe accorto. La gente caccia nella Montagnola, va’ per funghi.” disse mentre Ettore si alzava e toglieva le tazze dal tavolo. Dal modo nervoso con cui si muoveva era chiaro che non condividesse la stessa tranquillità di Tobia.
Non è casa sua questa, non è nato vicino ad un bosco. Ha paura. Eppure si è messo in prima linea.
Non era un codardo come lei. “Ci sono dei … libri … dove sono descritte le creature, credo si chiamino bestiari.” rammentò. “Potrei cercarlo.”
Tobia annuì. “Tua madre ha ancora i suoi in casa?”
“Credo di sì, ma non nella libreria, quando Cate ha imparato a leggere li ha spostati. Potrebbe averli messi in camera sua.”
“Puoi cercarli?” non lo stava guardando eppure era certa che gli occhi del Nero cercassero i suoi. Li incontrò per un breve attimo ma non riuscì a sostenerli.
Non ti ho creduto. Non ti ho mai creduto e avevi ragione tu.
“Sì. Se è solo per qualche giorno posso anche prenderli, non se ne accorgerà.”
Tobia annuì. “Noi intanto torneremo nel bosco e seguiremo le tracce … dobbiamo capire come si muove e se ha un territorio di caccia.” Ettore aprì la bocca per protestare, salvo stringerla e assumere l’aria di un condannato al patibolo. “Riesci a procurarceli per domani?”
“Mia madre è di turno, posso entrare in camera sua e cercare.”
Era entrata a far parte del gruppo. Non gliel’avevano proposto e non aveva deciso ma ma non poteva andare in nessun altro modo: se voleva chiudere quella storia doveva farne parte.
 
Le scale di legno scuro, che scendevano lungo il corridoio per arrivare all’ingresso, passavano prima dal salottino della vecchia Irma: la trovarono a ricamare vicino alla finestra mentre alla radio trasmettevano una registrazione gracchiante di un vecchio successo di Claudio Villa.
 
Non vedi che il mio amore
fugge via lontano mentre io lo inseguo invano …
 
Quando la donna li notò non si mostrò sorpresa. “Ah, eccovi.” li apostrofò. “Prendete una caramella.”
“No, grazie.” mormorò Rosi a denti stretti: ci mancava solo che la cugina Irma li bloccasse per uno dei suoi monologhi da stramboide per rendere quella giornata ancora più surreale. “Bia, andiamo.”
“Via, non farti pregà, ti piacevano tanto, prendetene una …” insistette la donna, arrivando ad alzarsi e porgerle la vecchia ciotola di vetro smaltato da dove aveva attinto tante volte da ragazzina. Le sorrideva e l’occhio strabico guardava da qualche parte oltre la sua testa.
Tobia ringraziò e ne prese una e a lei non restò che fare lo stesso. Se la infilò in tasca uscendo con la massima velocità consentita dall’educazione.
Fuori la sera aveva già cominciato a dare i suoi contorni azzurri alle cose mentre le cicale erano state sostituite dai grilli. Rosi avrebbe dovuto dire qualcosa. Qualsiasi cosa per rompere il silenzio e Tobia sembrò intuire il suo disagio, perché le sorrise. “Domani andrà meglio.”
“Non credo.”
L’altro a quello non ribatté e Rosi fu tentata di scusarsi. Per cosa però? Per quell’ennesimo rimbrotto o per tutto quanto?
Doveva resistere fino a che non sarebbe tornata a casa e avesse chiuso la porta di camera. Solo allora avrebbe potuto fare i conti con l’enormità delle rivelazioni che l’avevano raggiunta.
Non ti ho creduto. E avevi ragione.
“Non è facile da digerire.” disse Tobia. “Però è tutto vero.”
“Non ho mai smesso di credere che lo fosse.” mormorò. La casa della vecchia Brandi sorgeva di fronte alla pista ciclabile e appena fuori le mura; dopo il giardino della vedova iniziava una terra di nessuno dove la vegetazione del bosco era costantemente tenuta a bada da oculate potature ad opera del Comune. Camminavano quindi tra l’erba e la gomma sintetica della pista con la consapevolezza, almeno da parte sua, di non essere al sicuro.
E se ci avesse seguito?
Rosi non voleva rimanere sola, ma non le servì trovare una scusa per farsi accompagnare perché Tobia la seguì in paese con la naturalezza di un tempo.
Non era il silenzio confortevole di quando erano ragazzi e forse non lo sarebbe stato mai più, ma Rosi sentì di avere meno freddo.
Fece per parlare, ma l’altro la precedette. “Cosa pensi di fare con i siciliani?”
“Impacchettarli e spedirli al mittente?” ironizzò strappandogli una risata sommessa. Quant’era che non scherzavano assieme? La parte peggiore di tornare nell’Altrove era quello: ricordare.
“Per il momento attorno al castello è un pantano e per quel che mi hanno detto le loro tende sono state danneggiate …” gli spiegò. “Non vorranno subito tornare alla radura. Almeno spero.”
Dai frammenti di conversazione che aveva origliato mentre li riportava in paese era Michele quello meno contento di lasciare l’accampamento. Fortunatamente gli altri due le erano parsi ben contenti di avere un tetto sopra la testa quella notte così come quelle successive.
Specialmente Maddalena: l’aveva beccata più di una volta a guardare indietro, verso il bosco e ogni volta le era parso camminasse più veloce.
“Il terreno attorno al castello impiegherà qualche giorno ad asciugarsi.” concordò Tobia. “Però alla loro partenza mancano due settimane … non potrai tenerteli in casa così a lungo.”
“Mi inventerò qualcosa.” erano arrivati in Piazza Saracini, che all’ora di cena era già vuota di movimento e persone. Non c’erano neppure i gatti, che con le strade ancora bagnate preferivano rifugiarsi dentro le mura domestiche.
Le luci di casa erano accese e dalla finestra aperta di camera di sua sorella risuonava a tutto volume una canzone che conosceva, ma di cui aveva dimenticato le parole tanto tempo prima.
 
Are we getting closer,
or are we just getting more lost?
 
Tobia la accompagnò fino alla porta di casa, come quando erano ragazzini ed era il momento di cenare ma non avevano voglia di separarsi dopo una giornata di giochi ed esplorazioni nel bosco. Di solito a quel punto sua madre si affacciava dalla finestra e lo invitava a cenare con loro; ma quella sera Marina era di turno e Tobia non sedeva più alla loro tavola.
“Forse ho un’idea per impedire ai vostri siciliani di tornare al castello.” la distolse da quella vagonata di ricordi.
“A parte legarli?”
“A parte legarli.” le sorrise ancora. “Dammi qualche giorno e non varcheranno più il ponte della Manolonga.”
“Grazie.” buttò fuori senza riflettere. Però aveva il pregio di essere l’unica cosa che avesse senso dire in quel momento. “Grazie … anche per prima.”
“Quando?”
Una scintilla dell’antica rabbia le si riaccese nello stomaco ricordando come l’altro non ci avesse pensato due volte nel farle da scudo contro il mostro. “Ti sei messo in mezzo, se Ettore non l’avesse spaventato avrebbe preso te!”
Tobia le restituì un’espressione blandamente sorpresa. “Cosa ti aspettavi facessi?”
Già … cosa mi aspettavo.
Da una persona normale che rimanesse congelata dall’orrore, o che se la desse a gambe. Dal Nero, dal ragazzo che conversava amabilmente con i morti non avrebbe dovuto aspettarsi nulla di diverso. Perché non era mai scappato di fronte all’Altrove e perché, anche con tutto quello che gli aveva fatto, il primo istinto di quel meraviglioso idiota era stato quello di mettersi tra lei e il pericolo.
Aveva ragione e tu l’hai abbandonato.
Tobia, dato che lo stava omaggiando di un lungo silenzio privo di reazioni, fece un passo indietro e un cenno di commiato. “Buonanotte Roísín.”
Avrebbe voluto trattenerlo, ma a cosa sarebbe servito se non trovava le parole giuste da rivolgergli? “Sta’ attento mentre torni a casa.” mormorò.
L’altro annuì e le voltò le spalle, sparendo tra le ombre della sera.
Non si voltò a guardarla ma non se ne stupì.
Cosa si aspettava che facesse?
 
***
 
Maddalena era stata sistemata nel vecchio studio del padre di Cate.
Il che le andava benissimo; per la prima volta da due settimane aveva un soffitto sopra la testa, non era mangiata viva dai tafani e soprattutto non aveva un coretto di voci sovrannaturali a cullarla nel sonno.
Era felicissima.
… e ovviamente non lo era perché quella era solo una pausa; dentro Castiglioscuro vi era acquattato qualcosa, pronto ad accoglierla quando sarebbe tornata.
Non pensarci adesso.
Si sedette sul divano-letto della stanza; il materasso era bitorzoluto, e odorava di polvere e naftalina, ma era asciutto e dunque un grato cambiamento.
Si stese chiudendo gli occhi; era stata una giornata lunghissima ed era così stanca che neppure la fame le dava fastidio.
… un motivo forse c’è.
Si passò un dito sulle labbra, ricordando il modo in cui quelle di Caterina si erano posate sulle sue.
Non si era nutrita di lei. Da come la toscana era saltata su come una molla al rumore dello sparo dubitava di averlo fatto.
Per fortuna la vânător non era con loro perché non solo aveva completamente ignorato i suoi avvertimenti ma ci aveva anche aggiunto il carico da venti.
E adesso?
Lei e Caterina erano state separate nel momento in cui erano tornate al castello; la toscana era stata requisita dalla sorella maggiore e lei stessa era stata distratta dalle lamentele di Michele – che babbo com’era, si era detto disposto a dormire nel fango pur di non lasciare l’accampamento. E poi l’aveva distratta lo strano odore che aveva percepito lungo il sentiero che portava al paese.
Odore di uova marce … fa questo odore il bosco quando piove?
E adesso Caterina era sparita chissà dove; l’aveva sentita chiacchierare con Stefano e Michele, che invece avevano occupato la vecchia stanza del nonno, ma ora la casa era immersa nella quiete che precedeva la cena.
Doveva andare a cercarla?
Per dirle cosa non ne aveva idea: tutto quello che il suo stupido cervello da bestia continuava ad elaborare era un loop delle sensazioni che aveva provato quando si erano baciate.
Non le piaceva granché baciare la gente con cui andava a letto, ma con Cate era stato diverso; la toscana le aveva preso il viso tra le mani e lei si era sciolta. Aveva sentito le sue ossa, i suoi muscoli e le sue remore diventare liquide e non aveva potuto far altro che ricambiare.
 
Nell’attesa si infilò le cuffie e cercò di dormicchiare; fu quindi con gli occhi chiusi che percepì il profumo dell’altra riempire la stanza.
Difficilmente ormai avrebbe potuto confonderlo con quello di qualcun altro, persino con quello di Rosi, che pur era tanto simile.
“Scusa, non volevo svegliarti!” le disse quando aprì gli occhi. “Ti ho preso degli asciugamani in più.”
Maddalena fece una smorfia; non le importava affatto degli asciugamani, le interessava molto di più capire perché ci avesse messo così tanto a venire da lei. A meno che non avesse voluto evitarla, ma non aveva senso.
Mi hai baciata tu!
“Non stavo dormendo, tranquilla.”
Caterina posò gli asciugamani sulla scrivania di fronte al divano letto evitando il suo sguardo. “Appena torna Rosi ceniamo … anzi, vado già a preparare. Tu riposati pure, ti vengo a chiamare quando è pronto.”
Maddalena era sempre più confusa.
Mi hai baciato tu!
“Mi stai evitando?” le uscì fuori senza riflettere e da come l’altra avvampò ferocemente intuì di averci preso in pieno. “Perché?”
Razionalmente avrebbe dovuto esser contenta. Così sarebbe stato più semplice far finta che non fosse successo niente … però non lo era, affatto. Non voleva che Caterina la ignorasse e cercasse di scappare da lei.
L’altra spostò il peso da un piede all’altro. “Mi dispiace.” borbottò.
“Ma chi minchia stai ricennu?” sbottò esasperata. Dopo quel bacio avrebbe dovuto lanciarlesi addosso chiedendogliene mille altri, avrebbe dovuto desiderarli. Avrebbe dovuto pregarla di non allontanarla.
Non era quello che le vittime di una succuba dovevano fare?
Perché, per l’amor della Madonna, la stava evitando?
“Mi dispiace per prima!” sbottò Cate. “Mi dispiace se ti ho baciato senza chiederti … cioè, senza darti neanche il tempo di dirmi se volevi o meno. Ci ho pensato e … è stato sbagliato, quindi ti chiedo scusa. Va bene?”
È pazza.
Altrimenti non si spiegava quello sproloquio insensato.
“Lo so che sei arrabbiata.”
Nun sugnu arraggiata!” quasi lo urlò, invalidando l’affermazione. Fece quindi un respiro profondo. “Avà, non sono arraggiata con te, non capisco neanche perché dovrei esserlo.”
“Perché ti ho…”
“Ti baciai macari io o mi ricordo male?”
A questo Caterina distolse di nuovo lo sguardo.
Perché si comporta così?
Per quanto razionalmente avrebbe dovuto lasciar cadere quell’argomento, una parte di sé era sempre più confusa … e ferita. Caterina si stava comportando come se quel bacio fosse stato qualcosa di vergognoso, un errore per cui scusarsi e andare oltre. Forse si era pentita di essersi lasciata guidare dall’attrazione per lei? Possibile, eppure si rifiutava di pensare che quel bacio fosse stato solo un attacco intempestivo di ormoni. Non quando le aveva chiesto di rimanere.
Non poteva continuare a farsi mille castelli in aria, e per quando la cosa le mettesse ansia, era necessario che si chiarissero: ormai aveva capito che per quanto per tante cose lei e Cate fossero simili, per altre parlavano due lingue diverse. “Resta, per favore. Parliamo.”
Caterina le obbedì, sedendosi accanto a lei sul letto, rigida come una tavola di legno, le mani in grembo e neppure un centimetro di pelle che toccava la sua.
Non le piacque per niente. “Ti ho baciato anche io” esordì, “quindi non credo che ti preoccupi il fatto di non avermi chiesto il permesso … è qualcos’altro, ma non capisco cosa. Me lo devi spiegare tu.”
Caterina si morse un labbro con l’aria di chi avrebbe preferito buttarsi dalla finestra piuttosto che risponderle. “È che … non voglio rovinare tutto.” mormorò dopo qualche attimo di silenzio. “Perché mi faccio dei film, mi immagino che le persone che mi piacciono mi ricambino … tipo, pensavo di piacere a Gioia Sclavi, ma se mi fossi fermata a ragionare avrei capito che…”
Maddalena sbuffò: la natura non l’aveva dotata di particolare pazienza e non le importava un accidente di chi fosse Gioia Sclavi.
Però adesso almeno aveva capito quale fosse il nocciolo del problema. E un’enorme ondata di sollievo la travolse e dovette frenarsi per ridere, che l’altra avrebbe potuto interpretarlo come una presa in giro. “Non ti sei immaginata niente.”
Cate finalmente, per la prima volta in quel lunghissimi minuti di disagio, parve connettere i neuroni. La contemplò sbalordita. “Allora … ti garbo?”
Maddalena stavolta sorrise: il vernacolo toscano era già di per sé buffo, ma in quelle situazioni aveva il meraviglioso potere di stemperare la tensione, o forse era solo il modo in cui lo usava Caterina. Le sfiorò le dita con le proprie, e Cate fu svelta a prenderle la mano.
Le piaceva quando le prendeva per mano. Era un gesto che parlava di innocenza, di una tenerezza che pensava potesse esser solo rivolta ad un familiare o, al massimo, ad un amico. Le piaceva non fosse solo quello.
“Sì, mi garbi.”
Avrebbe voluto che finisse lì. Avrebbe dovuto finire con lei che si dichiarava e Cate che la baciava senza aver paura di essersi immaginata che ci fosse qualcosa tra di loro.
Perché c’era.
Però non funzionava così: lei era una succuba e la Confraternita era stata chiara, nessun donatore ricorrente, nessun fidanzatino, nessuna ragazza. Solo volti anonimi e prelievi una tantum.
Maddalena aveva sulle labbra quel “ma” tanto voluto dai Sorveglianti, ma non riuscì a pronunciarlo perché Cate la baciò, e quella particella odiosa si dissolse nel nulla mentre la ricambiava, tirandosela addosso e annullando una distanza che aveva sofferto dal momento stesso in cui l’altra aveva deciso di sedersi lontano da lei.
Cate si staccò con il fiato corto – era colpa sua? Forse. Non riusciva a capirlo quando la testa le ronzava a quel modo – e le rivolse un sorriso enorme. “Mi piaci anche tu. Anche se mi pigli in giro e il tuo accento toscano fa schifo.”
Maddalena sbuffò una risatina frenandosi dal riacciuffarla. Non poteva, doveva pensare e quando ce l’aveva tra le braccia non ci riusciva.
La vuoi. Non puoi averla. Ma la vuoi.
Doveva trovare una soluzione.
Il primo passo era fare in modo che la vânător, ma anche i Sorveglianti, non le scoprissero. Le avrebbero allontanate mettendola su un’areo per Catania nella migliore delle ipotesi, mentre nella peggiore …
Non voleva morire per stare con una ragazza, ma la sola idea di separarsi da Cate era insostenibile.
Può funzionare se non lo scopre nessuno … e se non perdo il controllo e non la ammalio non lo scoprirà nessuno.
L’unico modo era continuare a cacciare e nutrirsi altrove. Sua madre era finita com’era finita perché prima di arrendersi alla fame aveva tentato di nutrirsi solo di suo padre per rimanergli fedele, glielo aveva raccontato Carmine.
Non deve succedere anche a me. Non deve succedere a lei.
Se avesse cacciato la notte e fosse stata con Cate durante il giorno non sarebbe successo niente. I due mondi non si sarebbero mai incontrati.
Poteva funzionare.
“A che pensi?” le domandò l’altra. “Non te lo vorrei perché ti piglia male, ma hai di nuovo la faccia incazzata.”
Maddalena abbozzò un sorriso. “Non sarà facile.” che non era una bugia dopotutto.
Cate annuì. “… è la prima volta che ti piace una ragazza?”
“Più o meno.” anche quello era vero, anche se l’unico motivo per cui aveva deciso di non nutrirsi della sua stessa metà del cielo non era stata la mancanza di attrazione, ma piuttosto il contrario. Solo, all’epoca, aveva pensato che sarebbe stato più semplice concentrarsi sugli uomini. Aveva pensato che così almeno avrebbe avuto delle amiche.
Che poi non fosse mai riuscita a farsene di durature quello era un altro paio di maniche.
“Non è facile …” convenne Cate. “… cioè, per me non è stato tanto male. La mia famiglia l’ha capito da prima di me, i miei amici pure, ma non glien’è mai importato nulla. Però non è così per tutti. Non voglio costringerti a fare coming out se non te la senti.”
“Sarebbe un problema?” non era quello il motivo per cui voleva rimanere sottotraccia, ma era un alibi perfetto. “Se non lo dicessimo in giro intendo. Se fosse una cosa solo tra me e te.”
Caterina le sorrise. “Va bene.”
C’era qualcosa nel tono di voce dell’altra che non la convinceva del tutto, ma non poteva permettersi il lusso di farsene un problema. Poteva farlo funzionare; per due settimane poteva nascondere ciò che provava per un abitante del Chiaro.
 
***
 
Marina era tornata a casa che ormai la pioggia era un ricordo lontano.
Solo l’odore che impregnava il bosco e la strada bagnata le avevano segnalato che acqua era scesa, e copiosamente.
Parcheggiò la macchina sotto casa e ne uscì con uno sbuffo dolorante; ogni volta che pioveva le sue ginocchia cominciavano a dolere, segno dell’età ma anche di un’empatia tutta Silvani per l’umore di cui era tinta la Montagnola. Sulla soglia di casa quasi inciampò su Ariele, che non si disturbò a spostarsi obbligandola così a scavalcarlo.
“Gattaccio pigro!” lo apostrofò, pur consapevole non fosse vero; Ariele assolveva ad un compito non dissimile da quello dei suoi colleghi più campagnoli.
Tiene lontano da casa le bestie indesiderate …
Anche se non erano topi o scarafaggi quello che lui e i fratelli cacciavano, relegandoli ai confini delle mura.
Come fosse arrivato il primo gatto a Malacena nessuno lo ricordava, neppure i Sorveglianti più edotti, ma una cosa era certa: era arrivato con una M sulla fronte e un compito preciso.
 
Trovò Caterina e i suoi siciliani stravaccati nel salotto di casa, assorbiti da una puntata di qualche show dai paesaggi scuri e bambini dall’aria ansiosa. Nella stanza aleggiava profumo di fritto e pomarola e a terra c’era una fitta selva di lattine di Coca Cola e pacchi di patatine.
Marina sorrise a quella fotografia adolescenziale. “Buonasera bimbi!”
“Ciao mamma!” la salutò Cate, infossata nel divano assieme ai due fratelli Russo. Maddalena le sorrise nervosa e si premurò di allontanarsi da Cate, mascherando il movimento come un casuale cambio di posizione.
Cittina intelligente …
“Meno male siete tutti qui … con l’acqua che ha fatto ero preoccupata!”
“Siamo saliti a smontare le tende, ma le abbiamo dovute lasciare su. È un pantano, stanotte dormono qui!”
Non era una domanda, era una notifica, ma a Marina non interessava. Dopotutto l’idea di avere la succuba sotto il suo tetto, dove poteva tenerla sott’occhio, non le dispiaceva affatto, così come quella di conoscere in tempo reale gli spostamenti del giovane e zelante Sorvegliante catanese che però, al momento, mancava all’appello. “Dov’è Stefano?”
“In cucina, si è offerto di lavare i piatti.”
Marina diede un’occhiata alla luce accesa del cucinino e chiuse così quel piccolo appello mentale. “Pietro è tornato a casa?”
“Sì, lui Stranger Things l’ha già visto, ha detto di salutarti.”
“Le abbiamo lasciato un paio di arancini in forno!” si inserì Michele con un sorriso che era una palese captatio benevolentiae. “Per ringraziarla dell’ospitalità!” soggiunse imbarazzato. “Non era dovuta. Vero Malù?”
“Vero, grazie,” borbottò questa, “appena si asciuga torniamo su.”
“Non c’è nessun problema … di spazio ne abbiamo quanto volete.” rispose tranquilla. Era un bene averli lì, invece che vicini a Castiglioscuro.
Inoltre averli a disposizione le avrebbe permesso di capire meglio alcune cose.
Perché se Elia è attirato dalla porta … Forse lo è anche Maddalena.
Però, a differenza del figlio di Carlo, la siciliana lo sarebbe stata in maniera cosciente e chiedendole lumi forse avrebbe capito perché, da un anno a quella parte, la porta suscitava così tanto interesse. Non era però il momento di fare domande; avrebbe dovuto trovarla da sola, anche se non sarebbe stato facile considerando che sua figlia sembrava letteralmente incollata all’altra con il cemento a presa rapida.
Avrebbe trovato un modo.
Salutò i ragazzi e passò dalla cucina, dove Stefano le rivolse un cenno cortese, completamente assorto nell’asciugare con precisione millimetrica l’ennesimo piatto.
Scambiarono qualche convenevole ma il ragazzo non le sembrò in vena di chiacchiere e lo lasciò dunque alle sue corveé andando a controllare l’ultima inquilina della casa.
 
Rosi era seduta sul letto ma, a differenza del solito, non aveva un libro in mano.
Non stava neppure ascoltando musica, ma era invece distesa con gli occhi rivolti al soffitto e si mosse solo quando la udì entrare.
“Oh, sei tu.” mormorò. “Sei tornata…”
“Sì, con quei nuvoloni ho preferito aspettare un po’, non volevo finire in qualche fosso mentre tornavo su!”
“Hai fatto bene.” disse alzandosi a sedere di scatto sul letto. Aveva le guance rosse e questo le ricordò quando da ragazzina rimaneva ferma troppo a lungo, a leggere o a fantasticare. Senza preavviso Rosi era capace di saltare su e correre fuori di casa, come una molla tenuta in tensione troppo a lungo.
Aveva un’indole più contemplativa della sua, ma il sangue rimaneva Silvani; erano fatte per correre nel bosco assieme alle sue creature, e solo la modernità le aveva costrette in altri panni.
“Hai mangiato? I ragazzi credo ti abbiano lasciato qualcosa …”
“Sì, me l’hanno detto, ma il fritto a quest’ora mi rimane sullo stomaco, magari me lo porto domani per pranzo.” l’altra diede a malapena segno di ascoltarla, alzandosi dal letto e dirigendosi verso la finestra, dove rimase a guardar fuori. Stavolta Marina si chiese se più che reprimere energia Rosi non fosse invece infastidita dalla sua presenza. “Tutto bene?”
“Sì … a parte gli ospiti inaspettati.”
Marina si strinse nelle spalle: c’era da immaginarselo che la sua misantropa figliola avesse accolto i giovani campeggiatori a collo torto. “Sarà solo per qualche giorno, porta pazienza, non hanno mica fatto piover loro.”
“No, loro no.” Prima che potesse chiederle chi altro avrebbe potuto far piovere, Rosi fece una smorfia. “Ti dispiace? Mi stavo riposando.”
La stava cacciando di camera? Decisamente, da come Marina si ritrovò in pochi attimi fuori da una porta chiusa.
Pensavo che con lei avessimo passato il periodo dell’adolescenza ombrosa!
E invece pareva proprio di no.
 
Qualche ora dopo la casa era tranquilla.
Marina, in bagno, finì di prepararsi per la notte, catalogando i piccoli rumori che segnalavano la presenza di altre persone sotto lo stesso tetto; il russare regolare di uno dei due ragazzi e, quando uscì in corridoio, una lama di luce che filtrava dallo studio di Dermot – Maddalena doveva essere ancora alzata.
Rifletté se andarle a bussare, ma poi decise altrimenti, che la ragazza doveva ancora acclimatarsi e sarebbe stata troppo sul chi vive per rispondere alle sue domande.
Non c’era fretta, il bosco non si sarebbe asciugato prima di qualche giorno; quando pioveva a quel modo rimaneva umido a lungo.
Chissà cos’è successo per scatenare tutta quella pioggia …
I siciliani campeggiavano da due settimane ed erano stati giorni di sole splendido.
Forse avevano deciso di avvicinarsi troppo alla porta e il bosco aveva usato l’unica difesa che conosceva. Era già capitato con Elia, l’ultima volta a Luglio.
Tornò in camera, andando alla finestra per socchiudere le persiane e non far entrare così troppa luce dal lampione di fronte. Nel farlo, notò qualcuno muoversi nella piazza. Pensò a Tobia, ma rimase stupita quando riconobbe la figura magrolina di Stefano. Cosa ci faceva fuori a quell’ora antelucana?
Il ragazzo tagliò la piazza in diagonale per poi infilarsi in uno dei vicoli che salivano lungo il paese. Sparì velocemente nelle ombre.
 
***
 

Note:
Inizia la seconda parte! Considerando che stiamo probabilmente andando verso un lockdown 2.0 credo che ci siano buoni auspici per aggiornarla spesso. *risata che si trasforma in pianto*
Le canzoni presenti nel capitolo:
Il binario, di Claudio Villa.
Swing Life Away, Rise Against.
  
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