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Autore: itsgiads    13/11/2020    1 recensioni
Maria è solo una bambina quando, da una delle finestre della maestosa Martiniana, guarda impotente Antonino lasciare la villa. Il rancore accompagna gli anni che seguono: attraversa il terremoto del 1908 e la Grande Guerra. Ed è proprio dopo la fine del conflitto che raggiunge il suo apice, quando Antonino ritorna alla villa dopo ormai quindici anni di assenza. Entrambi i ragazzi sono cresciuti: Maria, divenuta giovane donna, ha cominciato a lavorare alla Martiniana come domestica, mentre Antonino è uno dei membri di spicco della borghesia reggina. La memoria di ciò che è stato comincia ad abbattere il muro di ostilità che Maria ha costruito. La distanza, quella tra i corpi e tra i due ceti, si affievolisce sempre di più, fino a far riscoprire loro una felicità che sembrava appartenere al passato. Sullo sfondo di una Reggio Calabria liberty, i due giovani stringono un legame corporeo e intellettuale, che li soggioga e li rende al contempo liberi. Ma ci sono ostilità che non si esauriscono con un "cessate il fuoco". Apparenze e verità scomode non lasciano spazio a sentimenti ed emozioni. Sono gli anni Venti, gli anni del progresso, del trambusto, del prodigio della mente umana. Non certo dei romanzi d'amore.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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CAPITOLO 1
CIANO

 

Triangulu di Luna, triangulu di cima,

populu di mari 'nchjana lu Cianu.

Nu rre sedutu supr'a na petra   

guarda lu mari, guarda lu mari,

guarda lu mari di la muntagna.

Genti chi 'nchjana carricata di guerra

'ntra li friscuri, 'ntra li friscuri,

'ntra li friscuri di Cianu.

Triangolo di Luna, triangolo di cima,

popolo del mare sale al Ciano.

Un re seduto sopra una pietra

guarda il mare, guarda il mare,

guarda il mare dalla montagna.

Gente che sale carica di guerra,

tra le frescure, tra le frescure,

tra le frescure di Ciano.

La guerra mondiale aveva mietuto con più foga di Cerere in luglio. Rabbiosa come Attila, era piombata nel continente portando miseria e desolazione nei paesi che, sventurati, vi si erano imbattuti. La sofferenza non aveva fatto sconti: ogni trincea sul campo di battaglia era una crepa nel cuore di chi era rimasto a casa, ad aspettare, invano molte volte, che una divisa verde oliva si facesse strada nella penombra. Non erano solo mitraglie, mine, ferro spinato; era perdita e mancanza, era incubo e disillusione. Non era necessaria un'uniforme per trovarsi nella terra di nessuno: l'Europa intera, stuprata, spodestata, era ormai priva di guida. Viaggiavamo alla deriva, profughi su una zattera troppo stretta e precaria.

Col cessate il fuoco, però, la guerra aveva deciso di mostrare l'altra sua faccia. La paura era scemata come il fumo e la polvere che avevano dominato gli anni precedenti, lasciando spazio a una speranza violenta, capace di trascendere supposizioni e ovvietà. Ogni giorno giungevano notizie di nuovi soldati rientrati dal fronte; l'idea di non essere più dei sottoposti, delle pedine di un gioco le cui regole erano ancora a loro sconosciute, sembrava lenire quella moltitudine di ferite, lividi, traumi che li avevano inevitabilmente segnati. Ci trovavamo così ai blocchi di partenza, pronti a correre verso l'abisso di una vita a noi ancora estranea.

Mi fu immediatamente chiaro che già tutti avessero fatto i conti con il proprio passato, mentre io proprio non avevo intenzione di guardarlo negli occhi. Riuscii, non senza sforzi, a scansarlo per mesi, crogiolandomi nella possibilità che mai mi avrebbe trovata. Ma fu infine lui a fare la prima mossa, quando un giorno di metà estate bussò alle dannate porte della Martiniana.

Non faceva mai caldo in quelle stanze umide in cui ci avevano relegati, eppure quel mattino c'era un'afa insopportabile, di quelle che ti assalgono intrappolandoti nella loro morsa. Già dal risveglio percepii che ci fosse qualcosa fuori posto. Ricordo che non volevo alzarmi dal letto per alcuna ragione al mondo. Lo sapevo, ovviamente, non facevano altro che parlarne per i corridoi e nelle cucine. "Il ritorno del figliol prodigo" lo avevano definito tutti elettrizzati, ma io avevo le mie ragioni per sottrarmi a tale eccitazione. Più che un ritorno, mi sembrava un tradimento, la beffa di uno spregiudicato. Mai mi sentii male come in quella mattina di attese e di ricordi. E lo percepivo quel male, non si nascondeva in chissà quali pensieri reconditi. Voleva uscire, urlare e mi sfruttava come mezzo per far avvertire la sua presenza. Oltre che sguattera, ero divenuta anche schiava, di un padrone ben più temibile del burbero Romeo.

La dependance non aveva molti sbocchi sull'esterno, solo qualcuno aveva il privilegio di dormire in una stanza provvista di una piccola finestra. Pochi raggi osavano oltrepassare quel vetro graffiato e incrostato, ma erano abbastanza per annunciare l'alba del nuovo giorno. Avvertii una voragine allo stomaco non appena mi resi conto che il buio della notte aveva già fatto il suo corso.

Scelsi di non alzarmi subito, decisione fin troppo audace per chi non deve far altro che sottostare e obbedire agli ordini. Semplicemente, non ce la facevo. Finché mi rintanavo in quel bugigattolo che osavo definire "stanza", mi convincevo che niente potesse raggiungermi. Né il peso di un passato lacerato né il rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere.

Stetti immobile sulla branda e per poco non scivolai ancora una volta nel sonno. Poi la porta si spalancò.

«Si può sapere cosa ci fai ancora a letto? Iàsati!»

Non fu necessario voltarsi, a dirla tutta non ne avevo la benché minima voglia. Già sapevo che se mi fossi girata, mi sarei imbattuta nello sguardo contrariato di quella vecchia dall'aria fredda e scostante.

«Non mi sento bene» mi limitai a rispondere.

Sbuffò, convinta che le stessi mentendo. Poi con uno strattone scostò le lenzuola.

«Ti rissi mi ti iàsi! Ci sono ancora troppe cose da fare, non puoi startene qui per i fatti tuoi»

Non cambiai il mio atteggiamento e riuscii a mantenere un tono deciso mentre, con una tranquillità decisamente fuori luogo, le dissi «Gli altri se la caveranno benissimo senza di me».

Le stavo dando le spalle, ma fui certa che avvampò dalla rabbia e dall'esasperazione.

«E poi è presto - continuai - abbiamo ancora tempo per sistemare il tutto»

Fu allora che sbottò «Ma si simu ancora o peri r'a 'nchianata! Maria, muoviti, che sunnu i sei 'i matina e aund'è che si fici menzjornu»

Così disse e lanciò sul letto la mia uniforme. Non si prese la briga di chiudere la porta, probabilmente per far sì che il frastuono proveniente dal corridoio mi incitasse a cominciare a prepararmi. Fu quello, o forse il timore di un'ulteriore sgridata, che mi convinse.

Mia nonna era la capocameriera. In parole povere, aveva il permesso di rimproverare chiunque tergiversasse o non rispettasse i piani da lei impartiti. Se poi ero io il soggetto da riprendere, non risparmiava qualche commento in più o una botta sulle mani. Al diavolo il nepotismo. Stremata da tutte le strigliate di capo, arrivai al punto di giustificarla, addirittura. D'altronde, non era certo colpa sua se sua figlia, morendo, l'aveva condannata a condividere il resto della sua esistenza con una scalmanata con tendenze ribelli. Non che incoraggiassi una qualsivoglia forma di rivoluzione e disobbedienza, tutt'altro. Semplicemente, non amavo sottostare alle regole. Per me era come indossare scarpe troppo strette.

In paese, lavorare per l'uomo più in vista della zona era di certo considerato un privilegio. Non importava che tu facessi la sguattera, che riattizzassi il fuoco del caminetto o che ti occupassi dell'automobile, poiché tutto ciò che accadeva alla Martiniana appariva come parte di un ingranaggio, di una macchina volta all'alimentare il lusso, il prestigio, la curiosità degli altri. Lavoravamo per far parlare, per stupire. Sapendo cosa ci fosse dietro ogni singola trovata di Romeo, però, eravamo estranei alla meraviglia di cui i suoi ospiti si inebriavano. Così un gala, un banchetto importante e anche il ritorno dell'unico figlio dopo quindici anni di assenza dalla tenuta caricava noi domestici di compiti e di responsabilità. Il tutto, ovviamente, stando attenti a rimanere nelle retrovie, che, a dirla tutta, quel giorno non mi pesava affatto.

Indossai l'uniforme, lasciando che mi scivolasse lungo il corpo, fasciandomelo come solo un sacco di patate avrebbe saputo fare. Mi resi conto che l'orlo era sfilacciato e per un istante rabbrividii al pensiero di ciò che avrebbe potuto dire mia nonna in merito. Poi, senza pensarci due volte, tirai il filo ancora di più, speranzosa che mai avrebbero permesso a una cameriera in disordine di servire il padrone e il signorino. Con questo pensiero in testa, sorrisi mentre annodavo il grembiule.

Quando mi richiusi la porta alle spalle, fui assalita da imprecazioni, rimproveri e rumori di stoviglie. Eravamo in tanti a lavorare alla Martiniana, decisamente troppi per servire un unico altezzoso signorotto. Oltre a me, avevano il privilegio di sottostare ai desideri di Romeo anche un'altra cameriera, un cameriere zoppo, una cuoca senza un dito, un maggiordomo che all'occorrenza si improvvisava anche valletto, che nelle famiglie rispettabili era consuetudine che ci fosse, e infine mia nonna, il cui ruolo era del tutto superfluo, a mio parere; se me lo aveste chiesto allora, non avrei esitato nel dire che lavorasse lì per sola gentile concessione. Quella mattina fremevano tutti, non facevano altro che aprire, chiudere, sbattere porte, arrancando mentre tentavano di trasportare pile di oggetti sempre diversi che oscuravano loro la visuale. Sembrava quasi comica l'importanza che veniva attribuita a quello che, in circostanze diverse, sarebbe stato considerato un giorno come un altro a quei tempi. La stazione di Reggio era più gremita della fiera del bestiame all'ora di punta: tornavano in massa dal fronte, coloro che il Cielo aveva deciso di graziare. Rientravano così tanti soldati che ormai era diventata cosa naturale sentirsi dire "è di nuovo a casa". Per quanto fosse ignobile ammetterlo, c'eravamo ormai abituati al suono dolce di quelle parole, tanto da dover nascondere talvolta l'apatia che seguiva questo ormai consueto annuncio. Ci si sarebbe potuto chiedere, dunque, da cosa derivasse l'eccitazione riservata per il ritorno di chi, dato il suo rango, con molta probabilità non aveva fatto altro che intrattenere con una partita a carte l'ufficiale a cui era stato affibbiato. Era decisamente vile da parte nostra. Ma non era di certo la coerenza che mi impediva di condividere l'entusiasmo degli altri.

Decisi di sottrarmi al trambusto generale e mi diressi in cucina. Graziella era intenta a tagliare grossolanamente dei pomodori con la sua mano mutilata. Erano le sei di mattina e già una moltitudine di odori pungenti aveva cominciato a invadermi le narici.

«Che prepari per oggi?» le chiesi con tono vivace mentre faceva cadere i pomodori nella pentola.

Si portò una mano sul petto e sobbalzò. Si girò a guardarmi e si morse la mano, come a ragguaglio «Mannaia, mi facisti schiantari!»

Sorrisi, colpevole e divertita.

«Sto preparando il sugo. Sarà qua per pranzo, dicono».

Annuii e mi avvicinai a un'alzatina che racchiudeva una dozzina di biscotti ripieni.

«I petrali?» chiesi guardandoli «non è mica Natale.»

«E quindi? Chi ci faci? Quando eravate piccoli vi intrufolavate di continuo qua dentro per mangiarli di nascosto. Tu sperdisti

No che non l'avevo dimenticato, credo che, anche se avessi potuto, non ne sarei stata capace. Faceva parte di quei ricordi che nel corso degli anni mi avevano scaldato il cuore e, al contempo, avevano contribuito a soffocarlo.

Sgraffignai un biscotto sollevando il coperchio dell'alzatina. Il sapore dei fichi secchi era talmente familiare da trasportarmi in un istante agli anni che mi ero lasciata alle spalle. Avevo una domanda che mi balenava in testa da settimane, così decisi di condividere con Graziella la mia curiosità.

«Secondo te com'è diventato?»

Si pulì le mani con uno strofinaccio e si appoggiò sul tavolo, sovrappensiero.

«Secondo me...»

«Spocchioso, arrogante, prepotente» rispose un'altra voce «e potrei continuare».

Giuseppe fece capolino in cucina, appoggiando le cesoie su un tavolo vicino all'ingresso. Era il giardiniere.

«Ma si no' canuscisti mancu!»

Alzò le spalle «Non c'è bisogno di conoscerlo, la razza è quella» disse indicando la villa.

Giuseppe era arrivato alla Martiniana quando, diventata grande, avevo cominciato a lavorarci anche io. Non abitava lì con noi, veniva giusto qualche volta alla settimana per sistemare siepi e cespugli. Un tempo mio padre aveva svolto le stesse mansioni.

«Mattiniero oggi, come mai?»

Prima di rispondermi, indicò il mio petrale. Gliene porsi uno.

«Non sia mai che le rose siano fuori posto, quando il signorino varcherà il cancello. Potrebbe rimanerne traumatizzato».

Ridacchiai, cogliendo la sua ironia.

«E poi volevo vedere se avevate bisogno di aiuto. A quanto vedo, però, te la stai prendendo comoda».

Feci un cenno in direzione del corridoio. «Ci sono già loro, non vorrei intralciarli, sai?»

«Ah, capisco, sì» disse sorridendo.

Si voltò verso il giardino. «A 'sto punto, ti faccio vedere cosa ho preparato là fuori»

Strofinai le mani facendo cadere le briciole «Sì, dai».

Arrossì un po' e aprì la porticina che dava sull'esterno.

«Ma sì, rutta pi' rutta, rompimula tutta!» cantilenò Graziella quando uscimmo.

Romeo possedeva ettari ed ettari di terreno. Alcuni li aveva acquistati sperperando la dote della moglie, altri attingendo dal patrimonio che il padre gli aveva lasciato in eredità. Nessuno si era lasciato convincere dal successo dei torroni, non smise mai di campare sulle spalle degli altri. Bisognava riconoscergli che aveva ben capito come mettere a frutto i vari appezzamenti, tra pascoli, orti e piccole casette. Il giardino antistante la villa, però, quello era un orgoglio che non aveva intenzione di delegare, voleva prendersi il merito del pregio che conferivano i cespugli ordinati e i fiori dai colori vivaci. Anche se, nemmeno a dirlo, dietro c'era sempre la mano di Giuseppe.

«Guarda un po' là» mi disse lui indicando la fontana davanti al portone di ingresso. Era stata posizionata là, a pochi passi dal cancello, come a voler anticipare il lusso che avrebbe stupito gli ospiti una volta entrati alla Martiniana. Peccato che non fosse mai stata messa in funzione. Troppo dispendioso, troppo inutile. Come il suo proprietario. Quel giorno, però, sembrava diversa.

«Mi stai forse dicendo che ora funziona?»

Giuseppe ridacchiò. «No, per carità! Però l'ho ripulita. Ah, sì, ci ho aggiunto anche qualche geranio».

Era bella, così chiara e splendente. Era bello anche il fatto che l'avessero voluta rimodernare, come a lasciarsi alle spalle gli anni di sporcizia, polvere e trascuratezza. Ma forse ero io che mi imponevo di trovare una metafora in ogni qualcosa che catturasse il mio occhio. Cosa poteva saperne una fontana di negligenza e rinascita?

Mi complimentai: «Hai fatto proprio un bel lavoro, a volte ci vuole qualche cambiamento».

Si mise le mani sui fianchi e si guardò attorno. «Non è proprio come quando c'era tuo padre, ma credo di starmi avvicinando. Un poco alla volta»

Mi voltai verso di lui. Quella sua affermazione mi aveva incuriosito. «L'hai conosciuto, tu? Mio padre, intendo»

Fece un sospiro, probabilmente soppesando cosa dire o cercando di rivangare vecchi ricordi. Mi piaceva che si stesse sforzando di trovare una risposta adeguata.

«Sì. Lo vedevo ogni tanto quando mia mamma mi portava qui, da piccolo. O almeno, quando ancora le era permesso di varcare il cancello».

I genitori di Giuseppe, così come i miei, si erano conosciuti alla villa. Sua madre era la cameriera personale della signora Isabella, la moglie di Romeo, mentre suo padre era il cocchiere. Doveva essere bello, molto bello. Graziella mi aveva raccontato che erano state in molte a fargli la corte, tentando di ammaliarlo. La mamma di Giuseppe, invece, non era granché affascinante. Seppe prenderlo, però, quel giovane vanitoso e scostante. Le concesse solo una notte, niente di più, ma a lei bastò per innamorarsi perdutamente. E per rimanere incinta. Il cocchiere non ne volle sapere: un figlio per lui era una presenza scomoda, un mero impiccio. Rise in faccia alla madre di Giuseppe e la ignorò nei mesi seguenti, quando lei, con la pancia sempre più grande, tentava un approccio. Poi lei decise di fargliela pagare. Una sera, dopo che lui aveva riaccompagnato alla Martiniana i signori Romeo, lo prese di sorpresa, affondandogli un coltello nella gola. Il colletto inamidato lo salvò da morte certa, ma rimase comunque sfregiato. Dopo quell'episodio, decise di abbandonare la villa. Si dice che se ne andò in America, dove riuscì ad arricchirsi col passare degli anni.

La madre di Giuseppe crebbe il figlio da sola, in una bettola di Bagnara. Ogni tanto tornava alla Martiniana per aiutare la signora Isabella, ma, quando anche lei scoprì dell'accaduto, non le fu più concesso di rimettervi piede.

«Quando mia mamma lavorava, io me ne stavo in giardino con tuo padre. Ricordo poco di lui: aveva un buon cuore, maneggiava i fiori con una grazia senza pari. Diceva che ci fosse un linguaggio segreto, che ogni varietà portasse un suo messaggio. Il compito del giardiniere era riuscire a comunicarlo con le composizioni. E le sue erano belle, dannatamente belle».

Sorrisi, orgogliosa di quell'uomo che neppure avevo conosciuto.

«Poi ci è arrivata la notizia dell'incidente. Ammetto di aver pianto. Ci saremmo visti tre o quattro volte, ma era una di quelle persone che lasciano il segno. E infatti, guarda dove sono adesso».

Quando menzionò l'incidente, mi sentii un peso sul cuore. Mia madre era incinta quando mio padre fu ucciso. Fu per uno scambio di persona, mentre stava rientrando a casa col suo carretto. Non lo conobbi mai e niente mi rimase di lui. Nemmeno le fattezze, che la gente riporta immediatamente al viso di mia madre.

Con un groppo in gola, riuscii comunque a proferire qualche parola: «C'è altro oltre alla fontana?».

Mi girai verso Giuseppe in tempo per coglierlo mentre gongolava. «Oh certo» affermò «Per di qua».

Ci avvicinammo ai limiti del giardino, là dove alberi e rampicanti svettavano tra gli arbusti disseminati nel prato. Sembravano una fila di soldati: disciplinati, ordinati, posati. Non ce n'era uno che fosse simile a un altro, eppure, nel loro insieme, risultavano incredibilmente armonici e ben proporzionati.

«Ammennulara, nucara, olivara e cerasu» elencò riferendosi alle varie piante. Dai rami stanchi pendevano i frutti maturi.

«Sarà l'ora di raccoglierli, no?» riflettei.

Giuseppe alzò le spalle «Vedrai quanto ci farà sgobbare Romeo quando gli spunteranno di nuovo i capelli bianchi». Romeo era vanitoso, tanto, troppo. Non permetteva a sé stesso di essere succube degli anni, non osava esibire i segni del tempo, che per lui simboleggiavano fatica e perdita di vigore. Per questo motivo si tingeva periodicamente col mallo della noce. Così, quando alle feste si trovava a parlare con vecchi membri del patriziato o con delle belle donne, poteva stupire tutti con la sua chioma folta e scura, in netto contrasto, studiato a tavolino, con il colore chiaro dei suoi occhi.

Studiando uno a uno gli alberi che mi stavano davanti, mi resi conto di una pianta mai vista prima, ben più bassa e costellata di fiori dal colore violetto.

«E questa?» domandai «Non mi sembrava che ci fosse»

Lo vidi fare una smorfia. «L'ennesimo capriccio. Si chiama tipo arama...amata...amaranto, sì.»

Storsi un po' il naso «È insolita, no?». I boccioli cadevano come i grappoli del glicine.

«Viene dal Sud America, come l'annona.» si limitò a dire Giuseppe. «Solo che questa l'ha fatta piantare a posta Romeo»

Aggrottai la fronte assumendo un'espressione confusa «Per farci cosa, scusa?»

Fece un respiro profondo, come se dovesse incanalare la pazienza per andare incontro alle assurde richieste del padrone.

«L'amaranto è anche un colore» spiegò «e si dà il caso che sia il colore ufficiale dell'Unione Sportiva Reggio».

Ridacchiai, stupita ancora una volta dalle stramberie a cui Giuseppe, indolente, doveva star dietro. Poco prima che scoppiasse la guerra, un gruppo di impiegati pubblici di Reggio aveva dato origine a una squadra di calcio. All'inizio sembrava una cosa improvvisata, una trovata tra amici. Poi però erano arrivati i campionati interregionali, le prime vittorie e Dio solo sa quanto Romeo amasse stare dalla parte del cavallo vincente. Era lui, infatti, che si era offerto di rifornire i calciatori di nuove uniformi e nuove attrezzature. Si diceva anche che stesse contribuendo alla progettazione di quello che, negli anni seguenti, divenne il primo stadio dell'équipe che oggi conosciamo con il nome di Reggina.

«È bella. Pianta strana, sì, ma bella».

«Concordo.» concluse poi Giuseppe, arrossendo un po'. Lì per lì non mi fu chiaro quale tra i suoi mille pensieri l'avesse portato ad avvampare.

Restammo così, l'uno a fianco all'altro, in piedi in quel giardino che non ci apparteneva, ma che ogni giorno contribuivamo a far crescere. Ogni tanto, confrontandoci, ci chiedevamo se ne valesse la pena, se non partecipassimo alla nostra miseria anche solo semplicemente spolverando una delle mensole dei tanto sfarzosi saloni. La verità è che servire ci mortificava ed elevava allo stesso tempo. Eravamo coscienti che non saremmo mai arrivati a possedere anche solo la metà del patrimonio di Romeo, ma, per lo meno, gli eravamo utili. Lo servivamo e gli servivamo. Lo spirito di adattamento, il duro lavoro, l'impegno non si possono acquistare né tantomeno barattare. Eravamo la prova che l'umiltà non fosse un difetto, una macchia. Era piuttosto un orgoglio, sotto il tetto della Martiniana.

A un tratto un grido tranciò il silenzio. « Maria! Veni subitu cca'!». Dalla piccola porta della cucina aveva fatto capolino il viso di mia nonna, contratto, come suo solito, in un'espressione delusa e al contempo feroce.

Percorsi il giardino a passo veloce, ma non abbastanza da impedire a Giuseppe di accostarsi a me. Non ebbi la possibilità di toccare la maniglia della porta: mi si parò davanti.

«Spostati, dai, sono in ritardo» lo intimai.

Ghignò «Ah, adesso ti importa, eh?».

Emisi una risata, più esasperata che divertita.

«Dai, su, che cosa vuoi?».

Mi guardò fisso negli occhi.

«Un'uscita» confessò.

Alzai gli occhi al cielo, visibilmente snervata. «Smettila, fammi passare». Ma lui non si scostò di un passo.

«Sono serio, Maria. Un'uscita e poi non ti stresso più».

Decisi di tagliare corto. «Sì, va bene, ora spostati però».

Mi intenerì osservare il suo volto mentre si illuminava, chiaramente su di giri. Farfugliò qualcosa e poi si fece da parte, permettendomi di aprire, finalmente, la dannata porta che dal giardino portava alla dependance.

In cucina la temperatura era aumentata considerevolmente a causa del forno acceso. Graziella si stava asciugando la fronte imperlata di sudore, passando dalla preparazione di una pietanza a quella immediatamente successiva. Le porsi il mio fazzoletto e mi avviai spedita verso il ripostiglio per acciuffare un secchio e qualche pezza. Sentii un cigolio e l'irrompere di una voce maschile.

«Reggio, venerdì?».

Mi girai, guardando Giuseppe in faccia.

«Va bene.» confermai senza alcun tono particolare.

«Va bene?» rispose lui in fibrillazione.

Repressi un ultimo sospiro seccato, incurvando la bocca in un sorriso. In fondo, voleva essere un gesto galante, il suo. Una lusinga, sebbene con un pessimo tempismo, è pur sempre una lusinga.

Decisi di concedergli un ultimo "va bene" prima di sparire.

 

  
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