Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 04.10.2021
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Capitolo
Diciannovesimo
Confiteor
(Non
commettere atti impuri)
Il cuore
è
ingannevole più di ogni altra cosa.
(Geremia,
17:9)
Magnifica
domina,
come
volete dunque ch’io mi comporti? Cosa volete ch’io
faccia?
Mesi di
rigoroso silenzio da parte vostra, al punto che mi pareva
d’udire l’eco della mia medesima voce quando vi
scrivevo e ora, finalmente che
ho potuto stringere una vostra lettera, voi mi pugnalate con le vostre
ridicole
cortesie nonché impertinenti offerte d’amor di
sorella, voi, proprio voi che
con tanta passione mi giuravate al cielo e alla terra
d’appartenermi, legati
dal nodo assoluto d’amore; voi, che con ardore
m’accoglievate nella vostra
stanza, vi debbo ricordare l’impeto e il trasporto da voi
dimostratomi, quando
vi stringevo al petto? Adesso non soltanto rinnegate il nostro
sentimento,
persino volete dileggiarmi sostituendolo con un altro di ben
più misera natura,
in questa burla di lettera dal foglio mezzo vuoto, scritto in fretta,
neanche
voleste spicciarvi di un affar a voi molesto?
Vorrei
non esser mai rientrato a Veniexia se tale missiva doveva
attendermi, né tentare il fato e, ante di leggerla,
portarmela a Padoa, nella
sciocca e disperata speranza che le vostre parole, a me più
confortanti di
mille orazioni, potessero addolcire l’asprezza di questa
tremenda guerra.
Speravo, folle!, di trovare almeno un picciolo affanno da parte vostra
per la
mia salute; una spiegazione, perfino una bugia per giustificare il
vostro
inaspettato fidanzamento: nulla ch’io già non
conoscessi, ma forse voi non
potrete mai immaginare con quale perverso gusto esso mi venne
comunicato?
Orbene, nessun orrore offertomi sia dal campo di battaglia sia
dall’assedio
potrà mai far vacillare il mio spirito, come invece accadde
quando intesi dei
vostri insensibili propositi, ancor più
stomachevoli poiché avete
unito al silenzio la vostra ostinata assenza.
M’imponete
supplichevole e altera d’evitarvi e di restituirvi la
vostra pace, cessando di importunarvi ed esortandomi a dimenticarvi.
Ah! s’io
potessi, v’offrirei questo e altro, così come vi
ricordo che foste voi per
prima a cercarmi, voi per prima ad importunarmi, voi a sfruttare la mia
indifesa giovinezza e la mia ingenuità sugli artifizi
più subdoli
dell’amore, voi ad avvelenarmi per prima
l’esistenza con false
promesse e chimere! La mia naturale inclinazione verso di voi non
poteva non
arrendersi a tal passione! Se non mi fosse noto
l’ambiguo potere
della retorica, cederei alla tentazione di credere alla vostra
ritrovata
verecondia, alla vostra disperata necessità di recidere
questo nostro legame
per la salvezza della vostra anima, che il dolore che mi state
infliggendo
corrisponde ad un grave sacrificio da parte vostra. Ciò che
mi ha e continua ad
addolorarmi, è invece la certezza sempre più
inevitabile della fine di
quell’affezione che per lunghi anni ci ha tenuti saldamente
avvinti. Abbiamo
gettato allora il chicco nei rovi? S’io temevo che il vostro
silenzio derivasse
dalla mancata lettura delle mie missive e dunque m’appigliavo
all’ultima
illusione che voi mi fuggivate più per apparenze morali che
per fastidio della
mia presenza, codesta vostra assassina freddezza mi conferma che voi al
contrario le avete lette e dimenticate e soprattutto che voi non mi
amate più e
forse mai lo avete fatto, scambiandomi per un piacevole intermezzo tra
il letto
del vostro defunto marito e quello del vostro prossimo nuovo consorte.
Eppure io
non voglio credere che voi, colei cui ho donato senza
riserve e senza garanzie la parte più pura del mio cuore,
che proprio voi
abbiate deciso di burlarvi costì di me: sempre si denigra
l’incostanza e
crudeltà di noi uomini, ma oh! se voi donne ben sapete
giocare con medesima
spietata astuzia, nascondendovi dietro la presunta debolezza del vostro
sesso e
convenienti pretesti per abbindolare l’allocco di turno, per
poi scartarlo
inclementi e senz’alcuna possibilità di appello
quando più nulla ha da
offrirvi! In che cosa io vi ho mancato? Dove ho fallato al punto da
rendermi a
voi odioso? Da preferirmi l’altrui corteggiamento? Quale male
v’inflissi per
guadagnarmi tal supplizio, rendendomi mortalmente infelice?
È dunque questa la
ricompensa per avervi amato sì teneramente? Vi ho adorato
alla stregua d’un
pazzo, incurante di ogni conseguenza e morale, disposto ad ogni vostra
condizione e sedotto da qualità ch’io realizzo ora
esser di natura assai
mediocre - dove troverete altrove altrettanta dedizione, ditemi? Vi
compatisco
immaginandovi presto vittima del mio medesimo tormento, il vostro
novizzo vi
donerà il medesimo affetto che nutre per il suo cane e forse
neanche quello,
voi ridotta ad un ricco trofeo da esporre e avvizzirete anzitempo nei
vostri
scrupoli e nelle amarezze di scoprirvi ripetutamente ingannata. Dovrei
gioire
nel sapervi destinata a tal ingloriosa ma giusta fine, eppure non ho
cuore
d’augurarvi alcun male né d’odiarvi. Il
mio animo, pur dilaniato
dall’immeritata perfidia vostra, ancora spera in una
smentita, ancora si culla
nel sogno di poter trascorrere qualche tempo con voi. Vi scongiuro di
dirmi che
lo spettro di questo vostro pretendente altro non sia che una prova su
cui
temprare la fermezza del mio amore, invece dell’arca dove
volete anzitempo
seppellirlo.
Scrivetemi!
Scrivetemi che mi avete subitaneamente preso in odio,
che mi disprezzate e che mi maledite piuttosto di narrarmi come abbiate
smesso
d’amarmi - io temo più il
vostro silenzio che le vostre ingiurie.
Comandatemi d’espormi in prima linea al fuoco nemico, ma non
di dimenticarvi.
Ad ogni ordine vi sono stato docile, a questo io
contravverrò fino all’ultimo
mio respiro. Non chiedetemi di sopprimere l’amore
ch’io nutro per voi, non lo
farò. Tale fiamma non si può racchiudere in un
angolo sperduto del cuore e più
insisterete di gettarvi cenere onde spegnere ogni affezione nei vostri
confronti, più al contrariato voi ci soffierete sopra,
alimentandola. Allora
voi mi darete dell’egoista, di colui che vi vuol negare la
vostra tranquillità.
Quale? Se non la trovate, è la vostra coscienza che vi
morde, poiché chi
sprezza l’amore sincero dopo averlo conosciuto è
destinato a soffrire ogni
martirio interiore, ogni rimorso, cadaun giorno, incessantemente! E
quando mi
chiamerete poi meschino, per la mia testardaggine, ecco, io
pretenderò che me
lo sputiate in faccia e se temete in un tranello per sottoporvi a
qualche
malagrazia, rincuoratevi: piuttosto di nuocervi, mi getterei contro le
picche
dei lanzichenecchi. Di gran lunga preferisco perire tragicamente, pure
di man
vostra, acciocché la mia morte vi si marchi a ferro
nell’anima e mai voi
possiate liberarvi anche solo del ricordo di me. Vedete a che deliri mi
avete
ridotto?
Sì,
convengo con voi che dovrei dimenticarvi quanto prima, però
non posso, non posso! La vostra voce mi sussurra costantemente nelle
orecchie,
è il vostro viso che sogno la notte; neanche il furore della
battaglia può
cancellarvi dalla mia mente né la mia, lo confesso,
vendicativa infedeltà
contro di voi. Vedete come siamo ben assortiti, indegnamente degni
l’un
dell’altro? Voi mi siete stata infedele per comodo e
vanità ed io per
disperazione e rancore ed ambedue abbiamo esteso le nostre colpe su
vittime innocenti. Ironicamente,
il consiglio datomi dai miei amici si sta ritorcendomi contro, al posto
del
chiodo, scacciar amor con altro amore. Ho preso una villana nel mio
letto, una
dei tanti fuggiaschi dalle campagne, col chiaro intento di umiliarvi
non solo
associandomi ad una donna a voi nettamente inferiore, ma pure di
poterle
riservare il medesimo affetto finora esclusivamente vostro,
dimostrandovi che
voi non siete né la prima né l’ultima
donna a questo mondo e che il vostro
spirito non è così sublime come voi
v’illudete essere. Ebbene, ingannatore
finii ingannato e mi disprezzo il doppio per essermi abbassato a tal
meschinità
pur di scuotervi dal gelo che vi cinge, approfittandomi
dell’altrui disgrazia.
Vedete come per amor vostro mi stia rendendo coscientemente spregevole,
acciocché voi abbiate validi motivi per odiarmi? Aggiungo
inoltre che, malgrado
sia ben conscio di quanto anche questa mia ganza stia portando
l’acqua al suo
mulino, nella sua rusticità ugualmente ella mi dimostra
più franchezza di voi:
non mi sfugge e me ne dolgo, per non aver aperto prima gli
occhi. Quanto
amore, quanti anni sprecati!, si sospirerebbe se la parte
più inflessibile
e orgogliosa di me al contrario non mi bisbigliasse: io
non mi pento di
nulla – se per qualche misteriosa maniera
potessi ritornare indietro,
senz’alcun tentennamento ripeterei ogni mia azione, semmai
v’amerei con maggior
intensità, sapendo a quale triste destinazione doveva
concludersi il nostro
viaggio. Negatelo pure, se vi va, però noi ci siamo amati e
a nessuno debbo
chiedere scusa.
Scrivetemi!
A breve rientrerò a Veniexia, voi sapete dove
trovarmi, verrete? Mi concederete quest’ultima grazia?
Ripensandoci,
effettivamente il nostro amore è nato sotto cattivi
auspici: ad un funerale ci scorgemmo per la prima volta, ad un funerale
ci
salutammo per quella che voi avevate arbitrariamente deciso dovesse
essere
l’ultima volta. Chi fu il vostro consigliere fraudolento? La
gelosia, alle cui
sferzate molte fiate io dovetti sottostare? I vostri parenti, che
più di voi a
loro importava la sorte del vostro patrimonio? La vostra coscienza,
dove
l’avevate scordata quando la passione c’univa nel
focoso amplesso? Le vostre
amiche, appestate d’invidia? O quelle beghine della vostra
parrocchia, i vostri
preti pallidi, grossi e grassi, dalla lingua di velluto, le cui frasi
troppo
spesso di recente mi ripetevate - fornicazione,
disonesto commercio,
impuro capriccio. Impuro? Era questo dunque ciò che vi
turbava? Che vi ha
portata a cedere alle più comode e onorevoli lusinghe di un
altro? Impuro!
Avete creduto più a loro, che a me? Vi ho mai nascosto la
mia ferma intenzione
di accasarci, non appena mi fosse stato assegnato un incarico? Impuro!
No,
preferiste ascoltare il gracchiare dei pizzoccheri, di quei moralisti
dalla
vita talmente arida e sterile che nulla hanno di meglio da fare se non
criticare quella degli altri. Invidiosi che mai amati, non sopportano
che gli
altri amino; ipocriti sepolcri imbiancati, tanto retti e morali di
facciata, ma
sozzi delle peggiori lascivie nel cuore. Dal giudizio di costoro vi
siete
lasciata influenzare? Che cosa sanno questi scalzacani di noi? Del
nostro
sentimento? Che cosa? Se parlano, è a vanvera, per luoghi
comuni, incapaci di
ogni discernimento. Talmente son pronti a giudicare, che neppure
ascoltano
l’intera storia del loro imputato. Egoisti, idolatri di se
stessi e, se la
fortuna li arridesse, tirannici nei confronti del loro prossimo,
smaniosi di
spingere la loro farlocca santità giù dritta per
l’altrui gola. Ignorate che le
virtù di cui tanto oggidì ci s’ammanta,
altro non sono che abili coperture di
ben peggiori vizi? La loro è una virtù che vuole
la servile approvazione di un
gran numero di testimoni; la loro è una virtù
presuntuosa che condanna l’altrui
e mai il proprio errore. Perché avete ascoltato il loro
gracidare e non la mia
voce?
E come ho
potuto io non accorgermi del graduale raffreddamento del
vostro amore? Di scorgere i segni della vostra crescente insofferenza?
O
rimorso? Di che cosa vi siete pentita, esattamente? Nulla io ho fatto,
che voi
non abbiate voluto. Almeno, aveste avuto la bontà di non
cacciarmi via
avvalorandovi di scuse di pessimo gusto: il vostro pudore, il vostro
onore, la
vostra famiglia, il vostro novizzo. Sostenete che io, trascinandovi nel
gorgo
della fornicazione, abbia offeso il vostro pudore di matrona: e voi? Mi
avete
catturato quando io ancora possedevo il mio, di pudore, approfittando
della mia
confusione verso il vostro sesso e del disordine del mio cuore per
rigirarmi
abilmente a guisa di bambola tra le vostre mani; mi avete menato per il
naso
per anni e se io nutrivo qualche sentimento di decenza verso gli affari
tra
uomo e donna, voi m’insegnaste a non curarmene, a seguirvi
verso gli impervi
sentieri delle disoneste tresche amorose. M’accusate
d’infamarvi: ed io? Non ho
per amor vostro messo a repentaglio anche il mio di onore, esponendomi
costantemente alle severe leggi della Signoria, al pubblico biasimo,
alla
morbosa curiosità, all'unanime accusa di non stimare
né leggi né Stato né Dio,
ponendomi allo stesso livello dei munegini, come il fio dil zermano del
mio
avunculo? [1] M’informate delle vostre preoccupazioni
riguardo alla vergogna
che proverebbe la vostra famiglia, nello scoprirvi invischiata in
sì turpi
negozi. E alla mia, allora? Non avete pensato come anche la mia
morirebbe di
vergogna in caso dovessi comparire dinanzi agli Avogadori? Allo sdegno
dei miei
parenti, nel vedermi costì traviato? Per chi, poi? Per
un’infida, per un’empia
che mi vuol precipitare? Non volete mancare alla parola data al vostro
novizzo,
ma come? Non avevate giurato prima a me che a lui? Non vi avevo
promesso su
ogni cosa a me sacra, di darvi il segno e la mano appena possibile?
Così poca
fiducia dunque avevate in me? Cosa sono stato io per voi? Un cassone
per il
vostro cuore solitario? Non tediatemi poi con discolpe quali
l’uomo è l’uomo:
ebbene, anche la donna è la donna, fatta anch’essa
di carne e di sangue come
l’uomo, coi medesimi desideri dell’uomo, in nulla
sono i suoi pensieri più
nobili, sia essa nata in una stamberga o in un palazzo principesco. Il
ventre
di una villana è altrettanto accogliente come quello di una
nobildonna, ve
l’assicuro. Fossimo governati da leggi foreste, con gioia mi
avreste consegnato
alla vendetta dei vostri familiari, più per placare la
vergognosa consapevolezza
che voi non siete immune dai più istintuali dei desideri,
che non siete al di
sopra di nessuno, più che per un presunto senso di giustizia
e anche là,
attenta, perché se dovessimo determinare la sorgente del
vostro supposto
disonore e se voleste soddisfazione tramite la giustizia terrena,
ebbene
avanti! Chiedetela! E non temete che ne riceverete anche fin troppa.
Credetemi,
a questo mondo a non esser perdonati sono gli scandali, non i peccati e
i
vostri scrupoli e i vostri rancori contro di me sono dettati anche dal
timore,
che la mia presenza possa nuocere ai vostri progetti: realizzo che
finché nulla
si sospettava, voi vi siete spensieratamente accompagnata meco, per poi
abbandonarmi al primo cenno di pubblico pettegolezzo. Ma se invece
davvero voi
avete ragione, se davvero in quest’affare sussiste una colpa,
allora è
imputabile ad entrambi in egual misura sebbene, vi ripeto, io non mi
dolga
affatto d’avervi costì amata, ponendovi al di
sopra del mio onore, della mia
famiglia e oserei aggiungere perfino della mia patria carissima.
Ahimè,
quando vi ho conosciuta, io ancora sguazzavo negli
insegnamenti dei miei maggiori, ossia come l’amore fosse un
piacere e l’onore
un dovere; di come l’amore lo si dovesse piegare a qualche
virile ambizione
superiore, agli affari di Stato, alla gloria, perfino
all’orgoglio. E appunto
questo è il problema, che la nostra natura fiera e
inflessibile non
vuole né cedere né abbassarsi né
soffrire in nome dell’amore, dimenticandosi
come chi ama davvero non teme alcun sacrificio, alcun compromesso,
alcun’umiliazione se può giovare alla persona
amata. Perfino la morte per
quest’ultima assume i connotanti di una capricciosa
stravaganza che un segno di
grandezza d’animo e coerenza. Quanta vanità
mascherata da amore! Avete amato me
o il vostro amor proprio in tutti questi anni?
Ed io?
Ho amato
voi o l’idea che avevo di voi o l’amore nutrito per
voi?
Sicché s’insinua il dubbio anche in me,
s’io v’abbia sul serio amata, o se
trovavo più dolce amare ed essere amato a condizione di
godere anche del corpo
della persona amata. Chissà magari non sia io dalla parte
del torto, avendomi
condotto un’intenzione pura ad un risultato disonesto? Non
riesco a giungere ad
alcuna conclusione, tanti sono i pensieri contradditori in me, talora
neppure so
cosa io voglia da voi esattamente, oscillando tra il desiderio
disperato di
stringervi le ginocchia similmente alle schiave greche o di applicare
il vostro
consiglio e ingegnarmi a dimenticarvi, stavolta sul serio e non
sfruttando chi
non se lo merita.
Un poco
sorrido tra me e me al pensiero della vostra espressione
di puro terrore dinanzi a questa mia missiva; non temete,
già immagino che voi
non la leggerete o se lo farete, sarete impestata di sdegno e pertanto
non
recepirete appieno il mio messaggio. Poco m’importa, oramai
questa mia lettera
l’ho incominciata a Padoa, per continuarla qui a Veniexia,
dove voi tutt’oggi
mi negate un colloquio, e spero di inviarvela speditamente, salvo
contrattempi
– vi dispiacerà sicuramente sapervi subordinata ad
altre priorità? Quanto tempo
per concludere la vostra lettera! A quante esterne amarezze essa
s’accompagna!
S’avvicina la festa di Santa Luzia e prego che questi anni di
lontananza non
abbiano influito sulle vostre devozioni e mi venga esaudito il
desiderio di lì
incontrarvi, almanco casualmente.
State di
buon animo, non premuratevi di rispondere alla mia
missiva, non pretendo da voi alcuna replica né conferma di
lettura. Ho
realizzato nelle ultime settimane che sto effettivamente scrivendo
più per me
stesso che per voi, sebbene ogniqualvolta scivoli
l’inchiostro su questa carta,
io abbia la sensazione di vedervi, di toccarvi e di parlarvi. Penso che
non
stia più cercando di persuadervi a ritornare ad amarmi o ad
incominciare a
farlo – sarebbe inutile, più che umiliante. Non
m’inganno più della falsa
attesa di un colloquio che voi mai mi accorderete. Il mio unico
desiderio
rimane quello di separarci senza alcun rancore, il medesimo
ch’io scorgo nelle
rarissime occasioni in cui ottengo d’incrociare il vostro
sguardo, laddove mi
accusate tacitamente di perseguitarvi, come se potessimo sceglierci le
amicizie
e i familiari, come se voi aveste sperato nella mia morte sotto le mura
di
Padoa, mi rimproverate d’esser sopravvissuto? Quale forza
diabolica
m’attribuite, dunque, da riuscire a scampare alla furia
assassina della guerra
al mero fine di tormentarvi? Suggeritemi voi come ci si debba regolare.
Se
incontrarmi di sfuggita v’irrita, contemplarvi accanto ad un
altro, unito alla
consapevolezza che sarei dovuto trovarmi io al vostro fianco, mi
ferisce e mi
rivolta il sangue, similmente alle vostre perfide confidenze con mia
cugina,
laddove ingiustamente vituperate il mio carattere e le mie azioni.
Così tanto
mi trovate peggiorato?
La mia
famiglia potrebbe convenire con voi, preoccupata dallo
stato deplorevole del mio animo, dalla bile nera che mi ribollisce nel
petto.
Tutto d’altronde mi dà noia, ogni svago e ogni
interesse da me coltivato e
perfino questa città istessa sono fonte di un fastidio senza
fine. I miei familiari
attribuiscono il mio nuovo temperamento atrabiliare alla spietata
realtà della
guerra e per pigra convenienza glielo lascio credere, forse soltanto a
mio
fratello ho, tramite qualche sparso indizio, parzialmente confessato il
mio
tormento, oppure lui l’ha facilmente intuito
giacché vittima di medesime
angosce e artefice del medesimo crimine di cui voi sì
solertemente m’avete
assai spesso e volentieri accusato. Fu magro conforto il suo, egli ha
trovato
la soluzione contrariamente a me, di lui hanno avuto pietà.
Ho
deciso, avvicinandosi la data prevista della mia prossima
partenza a Castel Novo di Quer e a seguito delle genuine condoglianze
del
vostro ignaro marito per la morte di mia sorella, di restituirvi
assieme a
quest’ultima mia missiva tutte le vostre lettere e i vostri
favori. Ne
custodirò solo due: la prima e l’ultima che mi
inviaste e non a titolo
d’assicurazione, casomai voi un giorno vi risolveste di
vendicarvi
danneggiandomi, bensì a futuro monito per me, qualora il
tarlo dell’impellente
desiderio di amare dovesse ritornare a rosicchiarmi il cuore. Le ho
rilette
fino ad impararle a memoria, rendendomi conto, soprattutto nella prima,
della
vostra leggerezza di spirito, dell’accorto gusto nella scelta
delle parole e
della musicale grazia del raffinato scriver vostro, insomma lettere
piacevoli,
seducenti, bellissime quanto voi e altrettanto fredde nella sostanza,
più
sensate che appassionate. Ci siamo travestiti da amanti e ci siamo
divertiti e
illusi in un lungo Carnevale. Siccome per me è giunta
l’ora delle Ceneri, vi
ritorno ogni vestigia della migliore tragedia e al contempo commedia da
noi
recitata. Avrei potuto bruciare e distruggere i vostri pegni
d’amore, tuttavia
preferisco inviarveli indietro anche per rassicurarvi della mia ferma
intenzione
di non cercarvi mai più, né apposta né
per caso, e di perdonarvi ogni vostra
colpa nei miei confronti, spronandovi, se mi permettete
un’ultima mercé, a
perdonare anche me e a non odiarmi, come io non vi odio.
Cesserò per sempre
ogni corrispondenza tra di noi e, dovesse questa mia ultima lettera
commuovervi, sono io ora ad esigere di non scrivermi né di
sentirvi costretta
ad un qualsivoglia obbligo nei miei confronti.
Ho
sofferto, mi avete fatto soffrire tremendamente, però vi
ringrazio. Vedete, ante di voi io non sapevo cosa fosse esattamente
amore né
cosa significasse amare, ero innamorato del concetto di amare e ancor
meglio se
di natura eroica, accecato dalle finzioni letterarie e ansioso
d’emularle,
incapace di accettare il suo più semplicistico uso, ossia
amare per vincolo di
legge o di denaro. Non amavo ancora, tuttavia amavo
amare... cercavo
qualcosa da amare, amando amare. [2] Sono stato un giovane
sprovveduto,
senza ancora sufficiente malizia per discernere l’amor
spontaneo e sincero da
quello artificioso e galante, mi avete scovato e ghermito prima che
potessi
costruirmi le adeguate difese e forse proprio per questo mi avete
scelto e
tenuto in gabbia per anni, perché ero a voi inoffensivo,
facilmente
manipolabile e incapace di rendervi la pariglia, affrontando di petto
ogni
vostra sfida, senza alcun razionale distacco o cinico tornaconto.
Orbene, la
vostra lezione è stata magistrale, meglio di un qualsiasi
magnifico rettore
padovano. Mi avete aiutato finalmente a svegliarmi e a maturare, grazie
a voi
so cosa fare e cosa evitare, cosa voglio da una donna e cosa in lei
invece
potrebbe provocarmi gravi dispiaceri. Pur separandoci senza un degno
commiato,
soppesando i pro e i contro del nostro legame, ho realizzato che in fin
dei
conti voi mi avete reso assai felice - quanto a voi
ignoro fin dove
abbiate recitato e fin dove ci abbiate sul serio creduto!
- la mia
vittoria consiste nella consapevolezza che voi per anni mi siete
appartenuta,
anima e corpo, e niente che voi potrete dire o fare potrà
mai cambiarlo. La
bellezza di questo tempo trascorso ad amarvi non verrà
deturpata dalle vostre
ultime meschinità, né dalla triste mia
consapevolezza e unico rimpianto, di
come il destino abbia voluto unirci in un matrimonio persiano,
piuttosto che
sotto l’inflessibile egida della nostra legge. Lamento di non
avervi potuta
amare alla luce del giorno, serenamente, invece che
nell’angoscia furtiva della
notte, la mezzana degli amanti.
Forse
doveva finire così? Forse dovevamo insegnarci a vicenda in
vista di un nuovo e più casto amore? State amando voi? Il
vostro nuovo marito,
vi è di gradimento? Vi auguro di trovare in lui
l’appagamento e la tranquillità
che non trovaste in me. Quanto a voi, rimarrete per sempre nei miei
ricordi
come colei che amai teneramente, non come l’anima ingrata che
mi tradì,
ferendomi. A tal punto mi siete cara.
Per me,
ho al momento moglie nella guerra e figli nell’ambizione
di distinguermi in essa. Penserete sicuramente di un mio rinculare
nelle
convinzioni e negli insegnamenti dei miei maggiori –
ricordate? – di anteporre
gloria, onore, orgoglio ad amore. Niente di tutto ciò.
Sì, adesso amore in me è
ridotto ad un timido fuocherello, ma è lì che
attende nuovo soffio vitale per
ritornare a bruciare. Un tiro del genere, ho notato tra i miei
disincantati
compari, solitamente inselvatichisce nei confronti di nuove fiamme,
incrudelendo l’anima che, soffocata dal cinismo, fa soffrire
agli altri quanto
da essa sofferto. Pur divenuto, io spero, più guardingo e
savio, ugualmente non
permetterò a qualche delusione di negarmi la meravigliosa,
possente e tremenda
prospettiva futura di potermi di nuovo innamorare. Voglio continuare ad
amare,
totalmente, senza alcun guadagno personale, amore per amore, fino alla
consunzione, fino ad annegarci, annullato in esso. Chi mi
accetterà, mai avrà
carestia del mio amore, non sarò mai avaro nelle mie
affezioni. Il vero amante
è colui che rimane abbagliato dalla perfezione della cosa
amata e che si
sottomette spontaneamente alla sua volontà. È da
pazzi e da illusi credere
fermamente che tale miracolo possa accadere? O ancora è il
nostro orgoglio che
ci guida e ci consiglia? Io sento che tale creatura possa esistere e
che mi
aspetta, sebbene ignori quale via percorrere onde raggiungerla.
Nondimeno, di
viltà e d’accidia mai sono e sarò
tacciato e non temo di sbattere il muso
contro il muro del fallimento. Per questo motivo di nuovo vi ringrazio,
ho
scoperto nell’amore una forza prorompente d’energia
infinita, che voglio
depurare da ogni gelosia e desiderio di possesso e di dominazione,
grazie a voi
ho scoperto che mi è più caro amare che essere
amato, solo il modo dovrei
affinare, evidentemente per non arruffare l’altrui
moralistica semplicità. Che
strano! Da un disonesto commercio come il nostro, nasce una ricerca di
sublimazione
dell’amore, una spontanea ricerca di perpetuo vassallaggio
tra esso e il suo
tempio: dunque è vero, che è la melma
ciò che porta fecondo frutto, non la
fredda perfezione del cristallo. Ridete pure di me, come tutti gli
altri.
Dileggiate ciò che voi appellate deliri o disperati
sillogismi atti a
preservarmi dall’angoscia del disinganno. Fatelo, non mi
tangete.
Vi amai,
adesso non v’amo più. Mi avete reso tanto felice
quanto
infelice, senza però riuscire a levarmi la
capacità di amare sinceramente come
la prima volta. Non è così scontato, sapete,
già ve l’ho accennato nelle righe
precedenti. Malgrado le mie lascive disonestà degli ultimi
due anni, questo mio
desiderio rimane puro e attende solo d’ardere di nuova
fiamma, più degna. Non
permetterò al mio orgoglio d’infettarlo con futili
propositi di vendetta, non
reclamo alcun sangue, a che pro trascinarsi per tutta la vita il peso
d’un
inutile assassinio? Cosa ne guadagnerei di concreto se non il fallace e
temporaneo appagamento del mio egoismo? Voi non m’amate
più ed io non v’amo
più. Siamo già morti l’uno per
l’altro - a che pro infastidirci in sciocche
faide? I crimini passionali che riempiono le aule dei tribunali e le
nostre
orecchie forse vi rendono scettica circa le mie intenzioni, ebbene
voglio che
mi distinguiate dagli altri uomini che non hanno sufficiente coraggio
d’affermare: non m’importa più, anche
quando l’amante abbandonato sono loro. È
facile predicare l’atarassia quando si recide un legame,
invece di sopportarne
la recisione. Non mi è stato facile, lo ammetto, rassegnarmi
e riconoscervi la
libertà conquistata a mio danno e non vi nascondo che ad un
certo punto giunsi
ad odiarvi e a maledirvi, per poi concludere che preferisco sapermi
ricordato
da voi con affetto piuttosto che con paura. La vita è troppo
breve per dannarsi
per simili quisquiglie. Non ne ho né tempo né
voglia di corrervi dietro, sento
piuttosto che altri progetti di ben più nobile valore
aspettano la mia totale
attenzione.
Vi
restituisco dunque i vostri presenti – la ciocca di capelli,
l’anellino di zaffiro, il fazzoletto di seta merlettato, il
libro di chanson
per liuto, e altre bagatelle che m’erano più care
della vita e adesso occupano
soltanto spazio e lì languiscono dimenticate a prender
polvere – riservate loro
un destino migliore. Ignoro cosa voi abbiate fatto dei miei regali e
delle mie
lettere – ve ne siete sbarazzata? Le avete conservate?
Disponetene a vostro
piacimento, ho perduto da tempo il diritto di chiedervi
alcunché. Vi confesso
che un poco mi stuzzica la curiosità di conoscere a quale
sorte riserverete
questa mia missiva e la perdonanza se mi sono assai dilungato
– mia debolezza,
lo ammetto: voi siete stato il mio primo vero amore e quando
staccherò la
penna, asciugherò l’inchiostro e
sigillerò la lettera, ecco che con essa finirà
anche la mia giovinezza e questo momento assai definitivo e solenne mi
turba
grandemente.
In ogni
modo, s’ha da giungere alla fine: mia cugina gentilmente
s’è offerta di riportavi indietro ogni vostra
possessione e il tutto con la massima
discrezione; avrei tanto desiderato consegnarvele di persona,
ciononostante vi
debbo questa delicatezza, per non costringervi a sgraditi chiarimenti
con
vostro marito, il quale in fin dei conti è un uomo di gran
cuore e di nuovo
v’esorto a ripagarlo con tutto quell’amore da voi
negatomi.
Addio
– non vogliatemi male, perdonatemi laddove v’ho
offesa,
ricordate che mai una volta v’ho ingannata. Addio –
siete stata e perennemente
sarete l’amore della mia gioventù, profondo ed
infinito e vi ringrazio di ogni
anno, ogni mese, ogni settimana, ogni giorno e ogni ora
d’amore
regalatomi. Addio, senza rancore – vi
voglio troppo bene per
congedarmi da voi adirato. Addio, mia dolcissima amante, maestra,
amica,
confidente, tormentatrice, ingrata e crudele, addio mia amata degli
impossibili. Addio.
A vostra
magnificenza ogni felicità auguro e a voi mi raccomando,
Jer.mo Miani scrisse. Veniexia, a dì 1 marzo 1511.
***
“Siora
amia, vi dispiace se porto in
camera del Momolo alcune cose che s’è dimenticato
a casa mia?”
“Certamente,
anzi, peccato che voi lo
abbiate mancato di qualche giorno, così da consegnargliele
di persona!”
“Oh
figurarsi, dubito che al mio
zermano avrebbe fatto alcuna diff - …”
“Madona
Maria, di grazia, potrei farlo
io al posto vostro? Già vi siete affaticata abbastanza a
venir fin qui …”
“Siora
amia?”
A madona
Leonora non era sfuggito l’imbarazzato ingobbirsi della
donna accanto a sua nipote, né il modo colpevole in cui gli
occhi celestrini di
lei rifuggivano il suo sguardo. Quale ansietà la spingeva a
compiere un
incarico sostanzialmente indiscreto, poco consono al buonsenso del
comun
galateo? Non sarebbe stata opportuna tale richiesta, anche se la camera
di suo
figlio Hironimo rimaneva silente e vacante, la sua presenza un
incorporeo
ricordo fino alla prossima volta in cui l’anziana patrizia
avrebbe potuto
riabbracciarlo.
Probabilmente
fu l’esitazione della zia a persuadere Maria ad
alzarsi e, presa sottobraccio l’amica, a dirigersi assieme
verso la stanza del
cugino, fermandosi però sull’uscio, in attesa, gli
occhi nerissimi di Hironimo
che assorbivano ogni movimento della visitatrice, imperscrutabili.
“Amica
cara, a che debbo questa vostra visita?”
“Lasciate
perdere i convenevoli e ditemi chiaro e tondo: che intenzioni avete col
mio
germano?”
“Prego?”
“Ho
favorito il vostro commerzio giacché mi giuraste di volervi
accasare, una volta
trascorso il periodo di lutto per voi e ottenuto il mio germano il suo
primo
incarico ufficiale. Poiché non vedo alcun incoraggiamento da
parte vostra a
santificare la vostra unione, adesso vi chiedo: che intenzioni avete?
Perché,
badate, il mio germano ci crede alla vostra promessa. Pertanto, vi
consiglio di
prendere una decisione: se lo amate, maritatevi con lui. Se non lo
amate, lasciatelo
libero e non umiliatelo più del dovuto con le vostre
disonestà!”
La
giovane contessa di Stampalia e Amorgo non conobbe mai quali
pensieri s’affollarono nella mente della donna,
quand’ella s’attardava, tra
l’accorto e il meditabondo, nella sua lenta deambulazione
della camera di suo
cugino. Su cosa rifletteva, intanto che appoggiava sul piccolo
scrittoio quello
scrigno ben sigillato? O mentre con la punta delle dita sfiorava la
ruvida e
leggiadra consistenza della penna appoggiata sbadatamente accanto al
calamaio,
la pila compatta di pallidi fogli adesso tristemente vergini di parole?
La vide
aprire la vetrinetta, sollevare appena il coperchio del
bauletto dove dimenticato giaceva il liuto e un mesto e sordo pizzico
di corda
riempì l’aria troppo primaverile e vivace per
sì malinconiche reminescenze. La
donna accarezzava il pregiato legno di quello strumento con la medesima
delicata passione d’un’amante, sospirando dogliosa
e se n’accorse: trasalì,
arrossì, impallidì, avvampò e piena di
gelo chiuse in fretta tutto, scuotendo
veementemente il capo.
“Andiamo:
io qui ho finito”,
disse la
donna alla vedova Querini, uscendo dalla camera senza guardarsi
indietro.
Quale
sentimento la tormentava? Maria non s’azzardò a
chiederle
alcuna spiegazione; le bastò captare quella piccola frase
per intuirlo e
rammaricarsene.
Ritorna
vivo e trionfante. Io non t’ho mai odiato.
Continua
…
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La genesi
di questo capitolo m’ha tormentata assai, giungendo a
scrivere ben 3 versioni dai toni piuttosto differenti! XD Il tema era
un po’
complesso da sviluppare, nel senso volevo qualcosa che andasse al di
là del
semplice ravanarsi il còco in allegria coi propri compari o
a zompare nei letti
delle donnine allegre.
Forse
qualcuno ne rimarrà deluso, però questa alla fine
è la
versione che più mi ha convinta e devo dire che è
la mancanza più “perdonabile”
del Nostro, il quale come disse l’Anonimo: “il suo
amore eccelleva sulla
ragione” quindi un carattere molto passionale e generoso nel
suo amore,
anche nei suoi aspetti meno
“onorevoli”.
Farà
sorridere leggere di un uomo nella parte di Didone, però
ricordiamo che fu un uomo (Virgilio e poi Ovidio nelle Eroidi) a
scrivere i
suoi strazianti lamenti XD Scherzi a parte,
l’identità e
l’atteggiamento de “L’amata
immortale” sono lasciati volutamente ambigui,
libero lettore di trarre le sue interpretazioni. Chi è lei?
Cosa accadde tra
loro due? Fu il Nostro il vero mascalzone? Fu lei la fedifraga? Furono
ambedue
gli scemi? Chi lo sa, adoro per questo motivo il narratore inaffidabile.
Capitolo
insolitamente breve, meglio per me, così termino prima il
prossimo e rituffarci nelle vicende del Nostro, lasciato troppo a lungo
a
languire nella sua cella di fortuna, poi dopo il Bua si annoia e
somatizza.
Spero che
il capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1]
munegini = coloro accusati di
fornicazione con le monache. Vincenzo Morosini di San Cassian, figlio
del
cugino primo di Battista Morosini, nel 1503 era stato arrestato e
condannato
per aver folleggiato con una monaca della Vergine delle Grazie.
Malgrado la sua
fama d'esser giovane "Assa' dishonesto" - come lo definisce il Sanudo
- Vincenzo si sposa con Franceschina Boldù, la monaca
concupita.
[2]
Dalle
“Confessioni” di Sant’Agostino.