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Autore: Hoel    14/11/2020    4 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
Capitoli:
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Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 04.10.2021

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Capitolo Diciannovesimo

Confiteor

(Non commettere atti impuri)

 

Il cuore è ingannevole più di ogni altra cosa.

(Geremia, 17:9)

 

 

 

 

 

Magnifica domina,

come volete dunque ch’io mi comporti? Cosa volete ch’io faccia?

Mesi di rigoroso silenzio da parte vostra, al punto che mi pareva d’udire l’eco della mia medesima voce quando vi scrivevo e ora, finalmente che ho potuto stringere una vostra lettera, voi mi pugnalate con le vostre ridicole cortesie nonché impertinenti offerte d’amor di sorella, voi, proprio voi che con tanta passione mi giuravate al cielo e alla terra d’appartenermi, legati dal nodo assoluto d’amore; voi, che con ardore m’accoglievate nella vostra stanza, vi debbo ricordare l’impeto e il trasporto da voi dimostratomi, quando vi stringevo al petto? Adesso non soltanto rinnegate il nostro sentimento, persino volete dileggiarmi sostituendolo con un altro di ben più misera natura, in questa burla di lettera dal foglio mezzo vuoto, scritto in fretta, neanche voleste spicciarvi di un affar a voi molesto?

Vorrei non esser mai rientrato a Veniexia se tale missiva doveva attendermi, né tentare il fato e, ante di leggerla, portarmela a Padoa, nella sciocca e disperata speranza che le vostre parole, a me più confortanti di mille orazioni, potessero addolcire l’asprezza di questa tremenda guerra. Speravo, folle!, di trovare almeno un picciolo affanno da parte vostra per la mia salute; una spiegazione, perfino una bugia per giustificare il vostro inaspettato fidanzamento: nulla ch’io già non conoscessi, ma forse voi non potrete mai immaginare con quale perverso gusto esso mi venne comunicato? Orbene, nessun orrore offertomi sia dal campo di battaglia sia dall’assedio potrà mai far vacillare il mio spirito, come invece accadde quando intesi dei vostri insensibili propositi,  ancor più stomachevoli poiché avete unito al silenzio la vostra ostinata assenza.

M’imponete supplichevole e altera d’evitarvi e di restituirvi la vostra pace, cessando di importunarvi ed esortandomi a dimenticarvi. Ah! s’io potessi, v’offrirei questo e altro, così come vi ricordo che foste voi per prima a cercarmi, voi per prima ad importunarmi, voi a sfruttare la mia indifesa giovinezza e la mia ingenuità sugli artifizi più subdoli dell’amore,  voi ad avvelenarmi per prima l’esistenza con false promesse e chimere! La mia naturale inclinazione verso di voi non poteva non arrendersi a tal passione!  Se non mi fosse noto l’ambiguo potere della retorica, cederei alla tentazione di credere alla vostra ritrovata verecondia, alla vostra disperata necessità di recidere questo nostro legame per la salvezza della vostra anima, che il dolore che mi state infliggendo corrisponde ad un grave sacrificio da parte vostra. Ciò che mi ha e continua ad addolorarmi, è invece la certezza sempre più inevitabile della fine di quell’affezione che per lunghi anni ci ha tenuti saldamente avvinti. Abbiamo gettato allora il chicco nei rovi? S’io temevo che il vostro silenzio derivasse dalla mancata lettura delle mie missive e dunque m’appigliavo all’ultima illusione che voi mi fuggivate più per apparenze morali che per fastidio della mia presenza, codesta vostra assassina freddezza mi conferma che voi al contrario le avete lette e dimenticate e soprattutto che voi non mi amate più e forse mai lo avete fatto, scambiandomi per un piacevole intermezzo tra il letto del vostro defunto marito e quello del vostro prossimo nuovo consorte.

Eppure io non voglio credere che voi, colei cui ho donato senza riserve e senza garanzie la parte più pura del mio cuore, che proprio voi abbiate deciso di burlarvi costì di me: sempre si denigra l’incostanza e crudeltà di noi uomini, ma oh! se voi donne ben sapete giocare con medesima spietata astuzia, nascondendovi dietro la presunta debolezza del vostro sesso e convenienti pretesti per abbindolare l’allocco di turno, per poi scartarlo inclementi e senz’alcuna possibilità di appello quando più nulla ha da offrirvi! In che cosa io vi ho mancato? Dove ho fallato al punto da rendermi a voi odioso? Da preferirmi l’altrui corteggiamento? Quale male v’inflissi per guadagnarmi tal supplizio, rendendomi mortalmente infelice? È dunque questa la ricompensa per avervi amato sì teneramente? Vi ho adorato alla stregua d’un pazzo, incurante di ogni conseguenza e morale, disposto ad ogni vostra condizione e sedotto da qualità ch’io realizzo ora esser di natura assai mediocre - dove troverete altrove altrettanta dedizione, ditemi? Vi compatisco immaginandovi presto vittima del mio medesimo tormento, il vostro novizzo vi donerà il medesimo affetto che nutre per il suo cane e forse neanche quello, voi ridotta ad un ricco trofeo da esporre e avvizzirete anzitempo nei vostri scrupoli e nelle amarezze di scoprirvi ripetutamente ingannata. Dovrei gioire nel sapervi destinata a tal ingloriosa ma giusta fine, eppure non ho cuore d’augurarvi alcun male né d’odiarvi. Il mio animo, pur dilaniato dall’immeritata perfidia vostra, ancora spera in una smentita, ancora si culla nel sogno di poter trascorrere qualche tempo con voi. Vi scongiuro di dirmi che lo spettro di questo vostro pretendente altro non sia che una prova su cui temprare la fermezza del mio amore, invece dell’arca dove volete anzitempo seppellirlo.

Scrivetemi! Scrivetemi che mi avete subitaneamente preso in odio, che mi disprezzate e che mi maledite piuttosto di narrarmi come abbiate smesso d’amarmi -  io temo più il vostro silenzio che le vostre ingiurie. Comandatemi d’espormi in prima linea al fuoco nemico, ma non di dimenticarvi. Ad ogni ordine vi sono stato docile, a questo io contravverrò fino all’ultimo mio respiro. Non chiedetemi di sopprimere l’amore ch’io nutro per voi, non lo farò. Tale fiamma non si può racchiudere in un angolo sperduto del cuore e più insisterete di gettarvi cenere onde spegnere ogni affezione nei vostri confronti, più al contrariato voi ci soffierete sopra, alimentandola. Allora voi mi darete dell’egoista, di colui che vi vuol negare la vostra tranquillità. Quale? Se non la trovate, è la vostra coscienza che vi morde, poiché chi sprezza l’amore sincero dopo averlo conosciuto è destinato a soffrire ogni martirio interiore, ogni rimorso, cadaun giorno, incessantemente! E quando mi chiamerete poi meschino, per la mia testardaggine, ecco, io pretenderò che me lo sputiate in faccia e se temete in un tranello per sottoporvi a qualche malagrazia, rincuoratevi: piuttosto di nuocervi, mi getterei contro le picche dei lanzichenecchi. Di gran lunga preferisco perire tragicamente, pure di man vostra, acciocché la mia morte vi si marchi a ferro nell’anima e mai voi possiate liberarvi anche solo del ricordo di me. Vedete a che deliri mi avete ridotto?

Sì, convengo con voi che dovrei dimenticarvi quanto prima, però non posso, non posso! La vostra voce mi sussurra costantemente nelle orecchie, è il vostro viso che sogno la notte; neanche il furore della battaglia può cancellarvi dalla mia mente né la mia, lo confesso, vendicativa infedeltà contro di voi. Vedete come siamo ben assortiti, indegnamente degni l’un dell’altro? Voi mi siete stata infedele per comodo e vanità ed io per disperazione e rancore ed ambedue abbiamo esteso le nostre colpe su vittime innocenti.  Ironicamente, il consiglio datomi dai miei amici si sta ritorcendomi contro, al posto del chiodo, scacciar amor con altro amore. Ho preso una villana nel mio letto, una dei tanti fuggiaschi dalle campagne, col chiaro intento di umiliarvi non solo associandomi ad una donna a voi nettamente inferiore, ma pure di poterle riservare il medesimo affetto finora esclusivamente vostro, dimostrandovi che voi non siete né la prima né l’ultima donna a questo mondo e che il vostro spirito non è così sublime come voi v’illudete essere. Ebbene, ingannatore finii ingannato e mi disprezzo il doppio per essermi abbassato a tal meschinità pur di scuotervi dal gelo che vi cinge, approfittandomi dell’altrui disgrazia. Vedete come per amor vostro mi stia rendendo coscientemente spregevole, acciocché voi abbiate validi motivi per odiarmi? Aggiungo inoltre che, malgrado sia ben conscio di quanto anche questa mia ganza stia portando l’acqua al suo mulino, nella sua rusticità ugualmente ella mi dimostra più franchezza di voi: non mi sfugge e me ne dolgo, per non aver aperto prima gli occhi. Quanto amore, quanti anni sprecati!, si sospirerebbe se la parte più inflessibile e orgogliosa di me al contrario non mi bisbigliasse: io non mi pento di nulla – se per qualche misteriosa maniera potessi ritornare indietro, senz’alcun tentennamento ripeterei ogni mia azione, semmai v’amerei con maggior intensità, sapendo a quale triste destinazione doveva concludersi il nostro viaggio. Negatelo pure, se vi va, però noi ci siamo amati e a nessuno debbo chiedere scusa.

Scrivetemi! A breve rientrerò a Veniexia, voi sapete dove trovarmi, verrete? Mi concederete quest’ultima grazia?

Ripensandoci, effettivamente il nostro amore è nato sotto cattivi auspici: ad un funerale ci scorgemmo per la prima volta, ad un funerale ci salutammo per quella che voi avevate arbitrariamente deciso dovesse essere l’ultima volta. Chi fu il vostro consigliere fraudolento? La gelosia, alle cui sferzate molte fiate io dovetti sottostare? I vostri parenti, che più di voi a loro importava la sorte del vostro patrimonio? La vostra coscienza, dove l’avevate scordata quando la passione c’univa nel focoso amplesso? Le vostre amiche, appestate d’invidia? O quelle beghine della vostra parrocchia, i vostri preti pallidi, grossi e grassi, dalla lingua di velluto, le cui frasi troppo spesso di recente mi ripetevate -  fornicazione, disonesto commercio, impuro capriccio. Impuro? Era questo dunque ciò che vi turbava? Che vi ha portata a cedere alle più comode e onorevoli lusinghe di un altro? Impuro! Avete creduto più a loro, che a me? Vi ho mai nascosto la mia ferma intenzione di accasarci, non appena mi fosse stato assegnato un incarico? Impuro! No, preferiste ascoltare il gracchiare dei pizzoccheri, di quei moralisti dalla vita talmente arida e sterile che nulla hanno di meglio da fare se non criticare quella degli altri. Invidiosi che mai amati, non sopportano che gli altri amino; ipocriti sepolcri imbiancati, tanto retti e morali di facciata, ma sozzi delle peggiori lascivie nel cuore. Dal giudizio di costoro vi siete lasciata influenzare? Che cosa sanno questi scalzacani di noi? Del nostro sentimento? Che cosa? Se parlano, è a vanvera, per luoghi comuni, incapaci di ogni discernimento. Talmente son pronti a giudicare, che neppure ascoltano l’intera storia del loro imputato. Egoisti, idolatri di se stessi e, se la fortuna li arridesse, tirannici nei confronti del loro prossimo, smaniosi di spingere la loro farlocca santità giù dritta per l’altrui gola. Ignorate che le virtù di cui tanto oggidì ci s’ammanta, altro non sono che abili coperture di ben peggiori vizi? La loro è una virtù che vuole la servile approvazione di un gran numero di testimoni; la loro è una virtù presuntuosa che condanna l’altrui e mai il proprio errore. Perché avete ascoltato il loro gracidare e non la mia voce?

E come ho potuto io non accorgermi del graduale raffreddamento del vostro amore? Di scorgere i segni della vostra crescente insofferenza? O rimorso? Di che cosa vi siete pentita, esattamente? Nulla io ho fatto, che voi non abbiate voluto. Almeno, aveste avuto la bontà di non cacciarmi via avvalorandovi di scuse di pessimo gusto: il vostro pudore, il vostro onore, la vostra famiglia, il vostro novizzo. Sostenete che io, trascinandovi nel gorgo della fornicazione, abbia offeso il vostro pudore di matrona: e voi? Mi avete catturato quando io ancora possedevo il mio, di pudore, approfittando della mia confusione verso il vostro sesso e del disordine del mio cuore per rigirarmi abilmente a guisa di bambola tra le vostre mani; mi avete menato per il naso per anni e se io nutrivo qualche sentimento di decenza verso gli affari tra uomo e donna, voi m’insegnaste a non curarmene, a seguirvi verso gli impervi sentieri delle disoneste tresche amorose. M’accusate d’infamarvi: ed io? Non ho per amor vostro messo a repentaglio anche il mio di onore, esponendomi costantemente alle severe leggi della Signoria, al pubblico biasimo, alla morbosa curiosità, all'unanime accusa di non stimare né leggi né Stato né Dio, ponendomi allo stesso livello dei munegini, come il fio dil zermano del mio avunculo? [1] M’informate delle vostre preoccupazioni riguardo alla vergogna che proverebbe la vostra famiglia, nello scoprirvi invischiata in sì turpi negozi. E alla mia, allora? Non avete pensato come anche la mia morirebbe di vergogna in caso dovessi comparire dinanzi agli Avogadori? Allo sdegno dei miei parenti, nel vedermi costì traviato? Per chi, poi? Per un’infida, per un’empia che mi vuol precipitare? Non volete mancare alla parola data al vostro novizzo, ma come? Non avevate giurato prima a me che a lui? Non vi avevo promesso su ogni cosa a me sacra, di darvi il segno e la mano appena possibile? Così poca fiducia dunque avevate in me? Cosa sono stato io per voi? Un cassone per il vostro cuore solitario? Non tediatemi poi con discolpe quali l’uomo è l’uomo: ebbene, anche la donna è la donna, fatta anch’essa di carne e di sangue come l’uomo, coi medesimi desideri dell’uomo, in nulla sono i suoi pensieri più nobili, sia essa nata in una stamberga o in un palazzo principesco. Il ventre di una villana è altrettanto accogliente come quello di una nobildonna, ve l’assicuro. Fossimo governati da leggi foreste, con gioia mi avreste consegnato alla vendetta dei vostri familiari, più per placare la vergognosa consapevolezza che voi non siete immune dai più istintuali dei desideri, che non siete al di sopra di nessuno, più che per un presunto senso di giustizia e anche là, attenta, perché se dovessimo determinare la sorgente del vostro supposto disonore e se voleste soddisfazione tramite la giustizia terrena, ebbene avanti! Chiedetela! E non temete che ne riceverete anche fin troppa. Credetemi, a questo mondo a non esser perdonati sono gli scandali, non i peccati e i vostri scrupoli e i vostri rancori contro di me sono dettati anche dal timore, che la mia presenza possa nuocere ai vostri progetti: realizzo che finché nulla si sospettava, voi vi siete spensieratamente accompagnata meco, per poi abbandonarmi al primo cenno di pubblico pettegolezzo. Ma se invece davvero voi avete ragione, se davvero in quest’affare sussiste una colpa, allora è imputabile ad entrambi in egual misura sebbene, vi ripeto, io non mi dolga affatto d’avervi costì amata, ponendovi al di sopra del mio onore, della mia famiglia e oserei aggiungere perfino della mia patria carissima.

Ahimè, quando vi ho conosciuta, io ancora sguazzavo negli insegnamenti dei miei maggiori, ossia come l’amore fosse un piacere e l’onore un dovere; di come l’amore lo si dovesse piegare a qualche virile ambizione superiore, agli affari di Stato, alla gloria, perfino all’orgoglio. E appunto questo è il problema, che la nostra natura fiera e inflessibile  non vuole né cedere né abbassarsi né soffrire in nome dell’amore, dimenticandosi come chi ama davvero non teme alcun sacrificio, alcun compromesso, alcun’umiliazione se può giovare alla persona amata. Perfino la morte per quest’ultima assume i connotanti di una capricciosa stravaganza che un segno di grandezza d’animo e coerenza. Quanta vanità mascherata da amore! Avete amato me o il vostro amor proprio in tutti questi anni?

Ed io?

Ho amato voi o l’idea che avevo di voi o l’amore nutrito per voi? Sicché s’insinua il dubbio anche in me, s’io v’abbia sul serio amata, o se trovavo più dolce amare ed essere amato a condizione di godere anche del corpo della persona amata. Chissà magari non sia io dalla parte del torto, avendomi condotto un’intenzione pura ad un risultato disonesto? Non riesco a giungere ad alcuna conclusione, tanti sono i pensieri contradditori in me, talora neppure  so cosa io voglia da voi esattamente, oscillando tra il desiderio disperato di stringervi le ginocchia similmente alle schiave greche o di applicare il vostro consiglio e ingegnarmi a dimenticarvi, stavolta sul serio e non sfruttando chi non se lo merita.

Un poco sorrido tra me e me al pensiero della vostra espressione di puro terrore dinanzi a questa mia missiva; non temete, già immagino che voi non la leggerete o se lo farete, sarete impestata di sdegno e pertanto non recepirete appieno il mio messaggio. Poco m’importa, oramai questa mia lettera l’ho incominciata a Padoa, per continuarla qui a Veniexia, dove voi tutt’oggi mi negate un colloquio, e spero di inviarvela speditamente, salvo contrattempi – vi dispiacerà sicuramente sapervi subordinata ad altre priorità? Quanto tempo per concludere la vostra lettera! A quante esterne amarezze essa s’accompagna! S’avvicina la festa di Santa Luzia e prego che questi anni di lontananza non abbiano influito sulle vostre devozioni e mi venga esaudito il desiderio di lì incontrarvi, almanco casualmente.

State di buon animo, non premuratevi di rispondere alla mia missiva, non pretendo da voi alcuna replica né conferma di lettura. Ho realizzato nelle ultime settimane che sto effettivamente scrivendo più per me stesso che per voi, sebbene ogniqualvolta scivoli l’inchiostro su questa carta, io abbia la sensazione di vedervi, di toccarvi e di parlarvi. Penso che non stia più cercando di persuadervi a ritornare ad amarmi o ad incominciare a farlo – sarebbe inutile, più che umiliante. Non m’inganno più della falsa attesa di un colloquio che voi mai mi accorderete. Il mio unico desiderio rimane quello di separarci senza alcun rancore, il medesimo ch’io scorgo nelle rarissime occasioni in cui ottengo d’incrociare il vostro sguardo, laddove mi accusate tacitamente di perseguitarvi, come se potessimo sceglierci le amicizie e i familiari, come se voi aveste sperato nella mia morte sotto le mura di Padoa, mi rimproverate d’esser sopravvissuto? Quale forza diabolica m’attribuite, dunque, da riuscire a scampare alla furia assassina della guerra al mero fine di tormentarvi? Suggeritemi voi come ci si debba regolare. Se incontrarmi di sfuggita v’irrita, contemplarvi accanto ad un altro, unito alla consapevolezza che sarei dovuto trovarmi io al vostro fianco, mi ferisce e mi rivolta il sangue, similmente alle vostre perfide confidenze con mia cugina, laddove ingiustamente vituperate il mio carattere e le mie azioni. Così tanto mi trovate peggiorato?

La mia famiglia potrebbe convenire con voi, preoccupata dallo stato deplorevole del mio animo, dalla bile nera che mi ribollisce nel petto. Tutto d’altronde mi dà noia, ogni svago e ogni interesse da me coltivato e perfino questa città istessa sono fonte di un fastidio senza fine. I miei familiari attribuiscono il mio nuovo temperamento atrabiliare alla spietata realtà della guerra e per pigra convenienza glielo lascio credere, forse soltanto a mio fratello ho, tramite qualche sparso indizio, parzialmente confessato il mio tormento, oppure lui l’ha facilmente intuito giacché vittima di medesime angosce e artefice del medesimo crimine di cui voi sì solertemente m’avete assai spesso e volentieri accusato. Fu magro conforto il suo, egli ha trovato la soluzione contrariamente a me, di lui hanno avuto pietà.

Ho deciso, avvicinandosi la data prevista della mia prossima partenza a Castel Novo di Quer e a seguito delle genuine condoglianze del vostro ignaro marito per la morte di mia sorella, di restituirvi assieme a quest’ultima mia missiva tutte le vostre lettere e i vostri favori. Ne custodirò solo due: la prima e l’ultima che mi inviaste e non a titolo d’assicurazione, casomai voi un giorno vi risolveste di vendicarvi danneggiandomi, bensì a futuro monito per me, qualora il tarlo dell’impellente desiderio di amare dovesse ritornare a rosicchiarmi il cuore. Le ho rilette fino ad impararle a memoria, rendendomi conto, soprattutto nella prima, della vostra leggerezza di spirito, dell’accorto gusto nella scelta delle parole e della musicale grazia del raffinato scriver vostro, insomma lettere piacevoli, seducenti, bellissime quanto voi e altrettanto fredde nella sostanza, più sensate che appassionate. Ci siamo travestiti da amanti e ci siamo divertiti e illusi in un lungo Carnevale. Siccome per me è giunta l’ora delle Ceneri, vi ritorno ogni vestigia della migliore tragedia e al contempo commedia da noi recitata. Avrei potuto bruciare e distruggere i vostri pegni d’amore, tuttavia preferisco inviarveli indietro anche per rassicurarvi della mia ferma intenzione di non cercarvi mai più, né apposta né per caso, e di perdonarvi ogni vostra colpa nei miei confronti, spronandovi, se mi permettete un’ultima mercé, a perdonare anche me e a non odiarmi, come io non vi odio. Cesserò per sempre ogni corrispondenza tra di noi e, dovesse questa mia ultima lettera commuovervi, sono io ora ad esigere di non scrivermi né di sentirvi costretta ad un qualsivoglia obbligo nei miei confronti.  

Ho sofferto, mi avete fatto soffrire tremendamente, però vi ringrazio. Vedete, ante di voi io non sapevo cosa fosse esattamente amore né cosa significasse amare, ero innamorato del concetto di amare e ancor meglio se di natura eroica, accecato dalle finzioni letterarie e ansioso d’emularle, incapace di accettare il suo più semplicistico uso, ossia amare per vincolo di legge o di denaro. Non amavo ancora, tuttavia amavo amare... cercavo qualcosa da amare, amando amare. [2] Sono stato un giovane sprovveduto, senza ancora sufficiente malizia per discernere l’amor spontaneo e sincero da quello artificioso e galante, mi avete scovato e ghermito prima che potessi costruirmi le adeguate difese e forse proprio per questo mi avete scelto e tenuto in gabbia per anni, perché ero a voi inoffensivo, facilmente manipolabile e incapace di rendervi la pariglia, affrontando di petto ogni vostra sfida, senza alcun razionale distacco o cinico tornaconto. Orbene, la vostra lezione è stata magistrale, meglio di un qualsiasi magnifico rettore padovano. Mi avete aiutato finalmente a svegliarmi e a maturare, grazie a voi so cosa fare e cosa evitare, cosa voglio da una donna e cosa in lei invece potrebbe provocarmi gravi dispiaceri. Pur separandoci senza un degno commiato, soppesando i pro e i contro del nostro legame, ho realizzato che in fin dei conti voi mi avete reso assai felice -  quanto a voi ignoro fin dove abbiate recitato e fin dove ci abbiate sul serio creduto! -  la mia vittoria consiste nella consapevolezza che voi per anni mi siete appartenuta, anima e corpo, e niente che voi potrete dire o fare potrà mai cambiarlo. La bellezza di questo tempo trascorso ad amarvi non verrà deturpata dalle vostre ultime meschinità, né dalla triste mia consapevolezza e unico rimpianto, di come il destino abbia voluto unirci in un matrimonio persiano, piuttosto che sotto l’inflessibile egida della nostra legge. Lamento di non avervi potuta amare alla luce del giorno, serenamente, invece che nell’angoscia furtiva della notte, la mezzana degli amanti.

Forse doveva finire così? Forse dovevamo insegnarci a vicenda in vista di un nuovo e più casto amore? State amando voi? Il vostro nuovo marito, vi è di gradimento? Vi auguro di trovare in lui l’appagamento e la tranquillità che non trovaste in me. Quanto a voi, rimarrete per sempre nei miei ricordi come colei che amai teneramente, non come l’anima ingrata che mi tradì, ferendomi. A tal punto mi siete cara.

Per me, ho al momento moglie nella guerra e figli nell’ambizione di distinguermi in essa. Penserete sicuramente di un mio rinculare nelle convinzioni e negli insegnamenti dei miei maggiori – ricordate? – di anteporre gloria, onore, orgoglio ad amore. Niente di tutto ciò. Sì, adesso amore in me è ridotto ad un timido fuocherello, ma è lì che attende nuovo soffio vitale per ritornare a bruciare. Un tiro del genere, ho notato tra i miei disincantati compari, solitamente inselvatichisce nei confronti di nuove fiamme, incrudelendo l’anima che, soffocata dal cinismo, fa soffrire agli altri quanto da essa sofferto. Pur divenuto, io spero, più guardingo e savio, ugualmente non permetterò a qualche delusione di negarmi la meravigliosa, possente e tremenda prospettiva futura di potermi di nuovo innamorare. Voglio continuare ad amare, totalmente, senza alcun guadagno personale, amore per amore, fino alla consunzione, fino ad annegarci, annullato in esso. Chi mi accetterà, mai avrà carestia del mio amore, non sarò mai avaro nelle mie affezioni. Il vero amante è colui che rimane abbagliato dalla perfezione della cosa amata e che si sottomette spontaneamente alla sua volontà. È da pazzi e da illusi credere fermamente che tale miracolo possa accadere? O ancora è il nostro orgoglio che ci guida e ci consiglia? Io sento che tale creatura possa esistere e che mi aspetta, sebbene ignori quale via percorrere onde raggiungerla. Nondimeno, di viltà e d’accidia mai sono e sarò tacciato e non temo di sbattere il muso contro il muro del fallimento. Per questo motivo di nuovo vi ringrazio, ho scoperto nell’amore una forza prorompente d’energia infinita, che voglio depurare da ogni gelosia e desiderio di possesso e di dominazione, grazie a voi ho scoperto che mi è più caro amare che essere amato, solo il modo dovrei affinare, evidentemente per non arruffare l’altrui moralistica semplicità. Che strano! Da un disonesto commercio come il nostro, nasce una ricerca di sublimazione dell’amore, una spontanea ricerca di perpetuo vassallaggio tra esso e il suo tempio: dunque è vero, che è la melma ciò che porta fecondo frutto, non la fredda perfezione del cristallo. Ridete pure di me, come tutti gli altri. Dileggiate ciò che voi appellate deliri o disperati sillogismi atti a preservarmi dall’angoscia del disinganno. Fatelo, non mi tangete.

Vi amai, adesso non v’amo più. Mi avete reso tanto felice quanto infelice, senza però riuscire a levarmi la capacità di amare sinceramente come la prima volta. Non è così scontato, sapete, già ve l’ho accennato nelle righe precedenti. Malgrado le mie lascive disonestà degli ultimi due anni, questo mio desiderio rimane puro e attende solo d’ardere di nuova fiamma, più degna. Non permetterò al mio orgoglio d’infettarlo con futili propositi di vendetta, non reclamo alcun sangue, a che pro trascinarsi per tutta la vita il peso d’un inutile assassinio? Cosa ne guadagnerei di concreto se non il fallace e temporaneo appagamento del mio egoismo? Voi non m’amate più ed io non v’amo più. Siamo già morti l’uno per l’altro - a che pro infastidirci in sciocche faide? I crimini passionali che riempiono le aule dei tribunali e le nostre orecchie forse vi rendono scettica circa le mie intenzioni, ebbene voglio che mi distinguiate dagli altri uomini che non hanno sufficiente coraggio d’affermare: non m’importa più, anche quando l’amante abbandonato sono loro. È facile predicare l’atarassia quando si recide un legame, invece di sopportarne la recisione. Non mi è stato facile, lo ammetto, rassegnarmi e riconoscervi la libertà conquistata a mio danno e non vi nascondo che ad un certo punto giunsi ad odiarvi e a maledirvi, per poi concludere che preferisco sapermi ricordato da voi con affetto piuttosto che con paura. La vita è troppo breve per dannarsi per simili quisquiglie. Non ne ho né tempo né voglia di corrervi dietro, sento piuttosto che altri progetti di ben più nobile valore aspettano la mia totale attenzione.

Vi restituisco dunque i vostri presenti – la ciocca di capelli, l’anellino di zaffiro, il fazzoletto di seta merlettato, il libro di chanson per liuto, e altre bagatelle che m’erano più care della vita e adesso occupano soltanto spazio e lì languiscono dimenticate a prender polvere – riservate loro un destino migliore. Ignoro cosa voi abbiate fatto dei miei regali e delle mie lettere – ve ne siete sbarazzata? Le avete conservate? Disponetene a vostro piacimento, ho perduto da tempo il diritto di chiedervi alcunché. Vi confesso che un poco mi stuzzica la curiosità di conoscere a quale sorte riserverete questa mia missiva e la perdonanza se mi sono assai dilungato – mia debolezza, lo ammetto: voi siete stato il mio primo vero amore e quando staccherò la penna, asciugherò l’inchiostro e sigillerò la lettera, ecco che con essa finirà anche la mia giovinezza e questo momento assai definitivo e solenne mi turba grandemente.

In ogni modo, s’ha da giungere alla fine: mia cugina gentilmente s’è offerta di riportavi indietro ogni vostra possessione e il tutto con la massima discrezione; avrei tanto desiderato consegnarvele di persona, ciononostante vi debbo questa delicatezza, per non costringervi a sgraditi chiarimenti con vostro marito, il quale in fin dei conti è un uomo di gran cuore e di nuovo v’esorto a ripagarlo con tutto quell’amore da voi negatomi.

Addio – non vogliatemi male, perdonatemi laddove v’ho offesa, ricordate che mai una volta v’ho ingannata. Addio – siete stata e perennemente sarete l’amore della mia gioventù, profondo ed infinito e vi ringrazio di ogni anno, ogni mese, ogni settimana, ogni giorno e ogni ora d’amore regalatomi.  Addio, senza rancore – vi voglio troppo bene per congedarmi da voi adirato. Addio, mia dolcissima amante, maestra, amica, confidente, tormentatrice, ingrata e crudele, addio mia amata degli impossibili. Addio.

A vostra magnificenza ogni felicità auguro e a voi mi raccomando, Jer.mo Miani scrisse. Veniexia, a dì 1 marzo 1511.

 

***

 

“Siora amia, vi dispiace se porto in camera del Momolo alcune cose che s’è dimenticato a casa mia?”

“Certamente, anzi, peccato che voi lo abbiate mancato di qualche giorno, così da consegnargliele di persona!”

“Oh figurarsi, dubito che al mio zermano avrebbe fatto alcuna diff - …”

“Madona Maria, di grazia, potrei farlo io al posto vostro? Già vi siete affaticata abbastanza a venir fin qui …”

“Siora amia?”

A madona Leonora non era sfuggito l’imbarazzato ingobbirsi della donna accanto a sua nipote, né il modo colpevole in cui gli occhi celestrini di lei rifuggivano il suo sguardo. Quale ansietà la spingeva a compiere un incarico sostanzialmente indiscreto, poco consono al buonsenso del comun galateo? Non sarebbe stata opportuna tale richiesta, anche se la camera di suo figlio Hironimo rimaneva silente e vacante, la sua presenza un incorporeo ricordo fino alla prossima volta in cui l’anziana patrizia avrebbe potuto riabbracciarlo.  

Probabilmente fu l’esitazione della zia a persuadere Maria ad alzarsi e, presa sottobraccio l’amica, a dirigersi assieme verso la stanza del cugino, fermandosi però sull’uscio, in attesa, gli occhi nerissimi di Hironimo che assorbivano ogni movimento della visitatrice, imperscrutabili.

“Amica cara, a che debbo questa vostra visita?”

“Lasciate perdere i convenevoli e ditemi chiaro e tondo: che intenzioni avete col mio germano?”

“Prego?”

“Ho favorito il vostro commerzio giacché mi giuraste di volervi accasare, una volta trascorso il periodo di lutto per voi e ottenuto il mio germano il suo primo incarico ufficiale. Poiché non vedo alcun incoraggiamento da parte vostra a santificare la vostra unione, adesso vi chiedo: che intenzioni avete? Perché, badate, il mio germano ci crede alla vostra promessa. Pertanto, vi consiglio di prendere una decisione: se lo amate, maritatevi con lui. Se non lo amate, lasciatelo libero e non umiliatelo più del dovuto con le vostre disonestà!”

La giovane contessa di Stampalia e Amorgo non conobbe mai quali pensieri s’affollarono nella mente della donna, quand’ella s’attardava, tra l’accorto e il meditabondo, nella sua lenta deambulazione della camera di suo cugino. Su cosa rifletteva, intanto che appoggiava sul piccolo scrittoio quello scrigno ben sigillato? O mentre con la punta delle dita sfiorava la ruvida e leggiadra consistenza della penna appoggiata sbadatamente accanto al calamaio, la pila compatta di pallidi fogli adesso tristemente vergini di parole?

La vide aprire la vetrinetta, sollevare appena il coperchio del bauletto dove dimenticato giaceva il liuto e un mesto e sordo pizzico di corda riempì l’aria troppo primaverile e vivace per sì malinconiche reminescenze. La donna accarezzava il pregiato legno di quello strumento con la medesima delicata passione d’un’amante, sospirando dogliosa e se n’accorse: trasalì, arrossì, impallidì, avvampò e piena di gelo chiuse in fretta tutto, scuotendo veementemente il capo.

“Andiamo: io qui ho finito”, disse la donna alla vedova Querini, uscendo dalla camera senza guardarsi indietro.

Quale sentimento la tormentava? Maria non s’azzardò a chiederle alcuna spiegazione; le bastò captare quella piccola frase per intuirlo e rammaricarsene.

Ritorna vivo e trionfante. Io non t’ho mai odiato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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La genesi di questo capitolo m’ha tormentata assai, giungendo a scrivere ben 3 versioni dai toni piuttosto differenti! XD Il tema era un po’ complesso da sviluppare, nel senso volevo qualcosa che andasse al di là del semplice ravanarsi il còco in allegria coi propri compari o a zompare nei letti delle donnine allegre.

Forse qualcuno ne rimarrà deluso, però questa alla fine è la versione che più mi ha convinta e devo dire che è la mancanza più “perdonabile” del Nostro, il quale come disse l’Anonimo: “il suo amore eccelleva sulla ragione” quindi un carattere molto passionale e generoso nel suo amore, anche  nei suoi aspetti meno “onorevoli”.

Farà sorridere leggere di un uomo nella parte di Didone, però ricordiamo che fu un uomo (Virgilio e poi Ovidio nelle Eroidi) a scrivere i suoi strazianti lamenti XD  Scherzi a parte, l’identità e l’atteggiamento de “L’amata immortale” sono lasciati volutamente ambigui, libero lettore di trarre le sue interpretazioni. Chi è lei? Cosa accadde tra loro due? Fu il Nostro il vero mascalzone? Fu lei la fedifraga? Furono ambedue gli scemi? Chi lo sa, adoro per questo motivo il narratore inaffidabile.

Capitolo insolitamente breve, meglio per me, così termino prima il prossimo e rituffarci nelle vicende del Nostro, lasciato troppo a lungo a languire nella sua cella di fortuna, poi dopo il Bua si annoia e somatizza.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

 

Un po’ di noticine:

 

[1] munegini = coloro accusati di fornicazione con le monache. Vincenzo Morosini di San Cassian, figlio del cugino primo di Battista Morosini, nel 1503 era stato arrestato e condannato per aver folleggiato con una monaca della Vergine delle Grazie. Malgrado la sua fama d'esser giovane "Assa' dishonesto" - come lo definisce il Sanudo - Vincenzo si sposa con Franceschina Boldù, la monaca concupita.

[2] Dalle “Confessioni” di Sant’Agostino.

 

  
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