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Autore: Gaia Bessie    21/11/2020    2 recensioni
What if?:Asahi non è mai tornato in squadra.
[Epilogo: Quando si smussano gli scogli]
Io ti aspetto, te lo prometto.
[Long-fic di 15 capitoli | AsaNoya, Suga/Shimizu, accenni di KageHina | Angst, Hurt/Comfort, Romantico | Seconda classificata al contest "Canon compliant? I think not!" indetto da Maiko_chan sul forum di EFP | Partecipa al "Gioco di scrittura" del Gruppo FB Caffé e Calderotti]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Slash | Personaggi: Asahi Azumane, Daichi Sawamura, Kiyoko Shimizu, Koushi Sugawara, Yuu Nishinoya
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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10. Il paradosso di Moore

 
Il grande inganno, è che le cose siano come esse sono.
(Hegel)

 
The common explanation of Moore’s absurdity is that the speaker has managed to contradict himself without uttering a contradiction. So the sentence is odd because it is a counterexample to the generalization that anyone who contradicts himself utters a contradiction.
[La spiegazione comune del paradosso di Moore risiede nell’assurdità di un oratore che riesce a contraddirsi senza pronunciare una contraddizione. Dunque la frase è strana in quanto si pone come un controesempio alla generalizzazione secondo cui chiunque si contraddice lo fa pronunciando una contraddizione]15
(Stanford Encyclopedia of Philosophy)
 
 
Yū lascia casa, la sua famiglia, una promessa16.
L’allenatore della Nekoma ha invitato la squadra a un ritiro di tre giorni e, ovviamente, Ukai ha letteralmente colto la palla al balzo. Ed è la prima volta che Noya partecipa a una partita, da quando Asahi ha lasciato la squadra, infrangendo la promessa che ha fatto a sé stesso.
Ma, d’altronde, il guaio delle promesse fatte da solo risiede esattamente nella possibilità di ingannarsi per non perdere mai. E Nishinoya si dice che non può infrangere, una promessa, se Asahi ha rovinato tutto prima di lui.
È arrivato in palestra mentre Ukai decideva la formazione, con aria pensosa. Si è avvicinato a grandi passi, con una sicurezza che non prova – l’angoscia di quel tradimento a sé stesso lo azzanna e gli dilania il cuore – e ha detto, semplicemente, ci sono.
«Sei sicuro, Nishinoya?» domanda Daichi, cauto. «Io… ho sempre rispettato la tua decisione, lo sai».
Ma, arrivati a quel punto – riflettono entrambi, silenziosamente – che valore potrebbe avere una promessa?
Perché Noya si guarda attorno, e ha una tale delusione nello sguardo che fa male ricambiarlo: forse infrangerà la sua promessa ma, presumibilmente, è lui stesso infranto in una miriade di cocci affilati e irregolari.
«Gioco» ripete Yū, con convinzione. «La prego, mi permetta di partecipare: io sono pronto».
«Non sapevo che Azumane avesse deciso di tornare» borbotta l’allenatore, senza convinzione. «Non è venuto a dirmi niente».
«Non lo farà» risponde Noya, atono. Vorrebbe ridere, ma non riesce a far uscire quel suono inquietante dalle labbra. «Ma non importa, ormai le promesse non contano più niente».
«Capisco che tu sia arrabbiato» s’intromette Daichi, lanciando uno sguardo indecifrabile ad Ukai. «Ma sappiamo entrambi che te ne pentiresti: vieni con noi, ma non giocare. Te lo chiedo come favore personale».
Servirebbe a qualcosa?
Noya osserva il capitano della squadra e scuote il capo, stanco: gli si è spezzato qualcosa tra testa e cuore, impedendogli di voler continuare a proteggere Asahi da sé stesso.
È paradossale, che Nishinoya abbia semplicemente deciso di lasciar perdere, paradossale e ingiusto: ma come potrebbe, Daichi, dirgli di continuare a difendere un ragazzo con cui non vuole più avere niente a che fare?
«Va bene» capitola Noya, chinando il capo. «Ma voglio venire con voi. E, se durante la partita volessi entrare in campo, permettimelo Daichi».
Il capitano annuisce, in un tacito assenso strappato con la forza della disperazione, ma si vede lontano un miglio che non riesce a esserne convinto fino in fondo. Perché non è Nishinoya, a chiedere di poter giocare, è la sua delusione di fronte a una promessa incrinata e rotta. Ma non è forse tutta rotta la vita stessa, come Asahi, forse si sono rotte anche le sue speranze?
Noya sorride vittorioso, ma dentro ha qualcosa che suona di vuoto.
 
***
 
Cosa puoi fare, quando ami l’unica persona che è in grado di metterti a nudo senza dire una singola parola?
Sugawara ama Shimizu ma, quando lei l’osserva e sembra cogliere ogni imprecisione o sfumatura della sua pelle, forse un po’ la teme. La teme per la sua comprensione, per la prontezza con cui lo coglie come un fiore o un’idea solitaria ma, soprattutto, la teme per il suo essere talmente sé stessa. Perché Shimizu legge, seduta sul suo letto, con le gambe incrociate e sembra totalmente dentro quel libro, tanto da non avvertire lo sguardo del ragazzo, che si sporge per cercare di comprenderne il titolo.
«Mi stai facendo venire mal di testa» lo riprende Kiyoko, chiudendo il libro. «Non puoi semplicemente chiedermi cosa sto leggendo?».
Suga la guarda, imbarazzato. «Scusami» borbotta. «Non volevo disturbarti, sembravi molto interessata».
Lei sorride, voltando leggermente il libro, in modo da permettergli di leggere il titolo sulla copertina.
«La strategia verbale del buddhismo?»19 domanda Sugawara, perplesso. «Non pensavo ti interessasse la filosofia».
Ci sono troppe cose che deve ancora scoprire di Shimizu, pensa con una venatura di rimpianto, cose che non sa e che nemmeno immagina. Perché la ragazza sfiora la copertina di quel saggio come se fosse pelle nuda, con affetto quasi.
«M’interessa» conferma lei, parca di parole. «Da sempre».
«Non ne so niente, di queste cose» ammette Suga. «Ma potresti sempre insegnarmi qualcosa, se ti va».
Si siede al suo fianco – sfiorandole la mano come lei fa con i suoi pensieri – e occhieggiando con curiosità al libro, nuovamente aperto. Alla prima parola insensata che riesce a estrapolare da quelle righe – sprachspiel18 – Suga scuote il capo, confuso.
«Non penso che potrò mai capirci qualcosa» ride, alzando le mani. «Ma potresti sempre provare a spiegarmi, io… mi piace sentirti parlare».
Le ride, imbarazzata, e si volta per guardarlo: ha gli occhi luminosi come stelle, mentre inclina la testa. Non dice niente, lo guarda e basta, divorandolo con il proprio silenzio.
E lui non può – in tutta sincerità, semplicemente non può – trattenersi dall’avvicinarsi a quel sorriso, depositandovi un bacio lieve come un’ala di farfalla. Sorprendentemente, è lei a prendere l’iniziativa, allacciandogli le braccia al collo.
Non mi lasciare, urla silenziosamente, non lasciarmi scivolare via di nuovo. E Suga, che ha compreso come l’assioma del lasciare andare chi si ama sia solamente l’ennesimo assunto falso, la stringe a sé con un’urgenza quasi dolorosa.
Perché forse Shimizu non lo sa, né mai lui troverà il coraggio di confessarglielo, ma è l’unica che riesce a privarlo dell’equilibrio senza aver bisogno di pronunciare una singola parola.
Le sfiora una gamba, timoroso di un rifiuto, lungo il bordo della gonna: un confine che non ha mai oltrepassato.
Ma Kiyoko annuisce, dolcemente, facendo scivolare il libro sul pavimento. Sì.
 
***
 
Che senso ha un bacio o qualcosa di più se, poi, ogni promessa fatta, ogni patto e ogni concessione, a conti fatti non vale più niente?
Noya prepara la propria borsa con un’espressione astiosa e corrucciata, sebbene sia da solo nella propria camera da letto. Sono giorni che il suo telefono suona ininterrottamente, a tal punto che gli sembra quasi di sentirlo anche dopo averlo messo in modalità silenzioso, e lui lotta con la tentazione di rispondere. Anche solamente per urlare ad Asahi un sonoro vaffanculo, o per rimanere in silenzio ad ascoltarne il respiro rotto dal pianto.
Perché gliel’ha confessato Suga, entrando a sorpresa nella camera e guardandolo con un irritante misto di speranza e comprensione, che Asahi vaga per i corridoi con gli occhi lucidi. Che non è depressione, quella no – ha ripreso a prendere le pillole – ma mancanza.
Chissà se l’ha fotografata, quella mancanza, e appiccicata sul muro per coprirne i buchi neri. Noya scuote il capo, contrariato: ha gettato via, le proprie fantasie per Azumane, ha gettato via Azumane.
«So che soffre» sibila, in direzione di Suga. «Ma non ci credo».
Suga sospira, ma non si arrende. «Spero che tu ti renda conto di quanto sia paradossale» commenta. «Come fai a non crederci, se è qualcosa di talmente evidente? È come dire piove, ma non ci credo».
Noya alza gli occhi al cielo, ma non risponde, continuando a gettare magliette e biancheria nel proprio borsone.
«Si può sapere cosa ci fai qui?» commenta, atono. «Dovresti smettere di dire a mia madre che mi aiuti a studiare, prima che si illuda inutilmente di un miglioramento dei miei voti».
Sugawara ride, ma non molla il punto. «Volevo vedere se non avessi già cambiato idea, riguardo alle partite» commenta. «Ma vedo che ancora non ti sei reso conto di quanto sia una pessima trovata».
Perché se dovessero vincere anche solamente una partita, la psiche di Noya ne rimarrebbe inevitabilmente segnata, di fronte alla semplice evidenza che la squadra e lui stesso possono continuare a esistere senza Asahi. Suga ne è certo, Yū non può aver rinunciato per davvero allo schiacciatore.
Può cercare di convincerne – scappare di casa, dalla sua famiglia e persino dalle sue promesse – ma non può superare Asahi come fosse semplicemente un’insegna di una strada troppo lunga.
«Davvero, Suga» lo apostrofa Nishinoya, a denti serrati. «Dovresti farti gli affari tuoi, sei ancora in tempo per cominciare».
«Tu sei ancora in tempo per metterti una giacca, uscire e andare da Asahi» risponde il palleggiatore, calmo. «E dirgli che sei un idiota e che non riesci a rimanere sano di mente, senza di lui».
«E tu sei ancora in tempo per andare da Shimizu» risponde Noya, serio. «E dirle che ti ha lasciato un gigantesco succhiotto sulla clavicola».
Suga scuote la testa, esasperato, ma non riesce nemmeno a impedirsi di sfiorarsi il petto, confuso.
«Cerchi di distrarmi?» gli domanda, esasperato. «Nishinoya, davvero, ti stai comportando da idiota».
Ma Yū guarda la finestra, con aria immensamente seria e, per un momento, Suga s’illude di essere riuscito a farlo ragionare.
«Piove» constata Noya, invece, sfiorando il vetro con la punta delle dita.
Sugawara sorride, nel guardare l’acqua che s’infrange sul terreno, rendendolo fangoso. «Già» commenta. «Ma immagino che tu sia pronto a dire che pensi di no».
 
***
 
Asahi cammina senza ombrello, ma la pioggia non sembra sfiorarlo: perché, quando la vita ti ferisce, tutto il resto viene relegato al rango di semplice pizzicore. Un fastidio minimo che si perde in un dolore senza confini, o fine, che ti sbocconcella cuore e nervi.
È solo. Non riesce a cercare la compagnia di Suga o Daichi così che, dopo le lezioni, s’avvia da solo verso casa avvolto in una cappa di rigido silenzio. Qualche volta, sente una bicicletta sfrecciargli accanto, arruffandogli i capelli come una raffica di vento. Finché, in un giorno che non sa quantificare, la bicicletta gli si ferma accanto accompagnata dallo stridore dei freni.
«Asahi-san» urla un ragazzo con dei curiosi capelli arancione, scendendo dal veicolo. «Non pensavo saresti sparito».
«Sono ancora qui» risponde Azumane, perplesso. «Non… io non sono sparito».
Ma Hinata scuote il capo, facendo volare diverse goccioline d’acqua: ha i capelli bagnati, ma non fa niente per ripararsi. «Non sei più venuto a leggere davanti alla palestra» risponde. «Mi piaceva vederti lì, pensavo che un giorno saresti persino entrato».
Asahi si domanda come faccia, quel ragazzo, a essere così ottimista: perché lui vive nella certezza assoluta e incontrovertibile che mai più sfiorerà la rete o un pallone, ma Hinata non ci crede. E non è paradossale, smontare una credenza altrui, ma ad Asahi sembra proprio di sì.
«Non l’avrei mai fatto» risponde, atono. «Non avrei potuto».
«Ma, se Nishinoya avesse continuato a chiedertelo» ribatte Shōyō, con convinzione. «Un giorno avresti cambiato idea. Anche lui lo diceva sempre, che sarebbe riuscito a riportarti in squadra».
Azumane alza gli occhi al cielo, sporcandosi di pioggia per poter fingere, almeno con sé stesso, di non avere lo sguardo bagnato di lacrime.
«Non avrebbe potuto» sussurra, piano. «Non me lo sarei mai permesso, di tornare indietro».
«Domani partiamo per degli allenamenti contro la Nekoma» lo interrompe Hinata, con entusiasmo. «Vieni con noi. Sono solamente tre giorni, non devi per forza giocare».
Ma Asahi gli restituisce uno sguardo di pioggia congelata, salata, che fa venire i brividi. Scuote il capo, con lentezza esasperata.
«Non posso» dice, semplicemente. «Che il cielo mi perdoni, ma non posso fare una cosa del genere».
 
***
 
Daichi sospira, nel vedere Noya con il borsone così pieno da essere sul punto di aprirsi e vomitargli mutande e calzini sui piedi, ma non dice niente. Non gli domanda nemmeno se è sicuro, di volere infrangere ogni promessa che ha fatto a sé stesso, perché Nishinoya è abbastanza deluso e arrabbiato con Asahi da poter frantumare promesse, fantasie e patti sacri.
«Nishinoya» lo saluta, facendo l’appello. «Tanaka, Tsukishima… Hinata e Kageyama, piantatela immediatamente di litigare!».
«Siete riusciti a farlo arrabbiare in sei secondi netti» osserva Sugawara, stupito. «Credo sia un record».
«Suga… ma è un succhiotto, quello che hai sulla clavicola?» domanda Daichi, con gli occhi spalancati. «Non voglio saperne niente, non rispondermi. Yamaguchi, Tanaka, Ennoshita… Asahi?».
Quel nome cade nel silenzio, mentre Noya si volta, spaesato, cercando la figura familiare dell’asso della squadra. Ma, davanti al pulmino, non c’è nessuno.
«Scusate» mormora Daichi, massaggiandosi le tempie. «La forza dell’abitudine. Nishinoya, mi dispiac…».
«Non dirlo» risponde Yū, atono. «Narita e Kinoshita ci sono, adesso possiamo andare?».
Volta le spalle a Daichi, costringendolo ad ascoltare il suo silenzio, prima, e il rumore dei suoi passi, poi.
 
***
 
«Siediti accanto a me» Shimizu sorride dolcemente, mandando Nishinoya  completamente in tilt. «Suga è stato rapito da Daichi».
 Yū la guarda e non comprende, così si limita a scivolare sul sedile, disorientato. «E tu gli permetti di farsi rapire da Daichi?» domanda, perplesso. «Guarda che per come vanno le cose in questa squadra, potrebbero benissimo avere una relazione».
Lei ride, senza risparmiarsi un’occhiata in direzione di Sugawara, impegnato in una fitta conversazione con Sawamura.
«Hai ragione» ammette, sorridendo quieta. «Mi toccherà fare attenzione, allora».
Shimizu ha un libro sulle gambe, decorato da un piccolo segnalibro rosso fuoco che cozza con la copertina oltremare.
«Il paradosso di Moore: una critica al rappresentazionalismo21» legge Noya, grattandosi il capo. «Cosa vuol dire?».
«Oh, è filosofia» risponde Shimizu, illuminandosi. «Si tratta di un paradosso logico… una contraddizione, se preferisci».
«Ah» borbotta Nishinoya, poco sicuro di aver compreso. «E quale sarebbe, questa contraddizione?».
«Affermare una frase e al contempo dire di non crederci» spiega Kiyoko. «Se la frase è un’evidenza e si parla in prima persona».
Noya sbuffa, cercando di raccapezzarsi in quel discorso. «Mi puoi fare un esempio?» domanda, incerto. «Io… sono meno bravo di Suga, in queste cose, e credo anche lui ci capisca molto poco».
«Piove» risponde Shimizu, indicando il finestrino. «Ma io credo di no».
 
***
 
S’è tolto il bracciale con le conchiglie e lo ha chiuso in un cassetto – lontano dagli occhi, lontano dal… no, è una bugia bella e buona – dove potrà lentamente dimenticarsene. Forse non tutto in un giorno, ma piano, con la progressiva erosione della memoria che avviene da una notte alla successiva.
E, un giorno, Asahi sarà libero. Del ricordo di Noya, che lo insegue nei suoi incubi come l’ennesimo spettro, forse persino si libererà dai suoi pensieri e, allora, riuscirà a essere vuoto e privo di fantasie come un meraviglioso vaso di vetro. Incrinato.
Forse. Ma, la verità, è che Asahi s’è riempito di pensieri e parole così tanto che, adesso, se scoppiasse dalla sua testa uscirebbe solamente il suo nome.
Ha provato a chiamarlo. Disperatamente, continuamente, ma Noya non ha risposto mai: forse è troppo orgoglioso, forse è semplicemente deluso. Ma non risponde né alle chiamate né alle preghiere e, così, Asahi s’è quasi convinto a lasciarlo andare.
Perché gli hanno detto che Yū vuole riprendere a giocare con la squadra: che ha deciso di partecipare agli allenamenti con la Nekoma e ha detto all’allenatore Ukai che giocherà anche lui come libero.
Asahi è ferito da questa scelta e nemmeno sa il perché.
 
***
 
«Ti squilla il telefono» Shimizu indica con un dito il cellulare, che s’illumina e lampeggia. «Da almeno dieci minuti».
Nishinoya sospira, come se quella lucina fosse in grado di assorbirgli pensieri ed energia, risucchiandoli. Con le mani si aggrappa al sedile, quasi come se quel gesto fosse in grado di assorbirne il tremolio.
«Lo so» sussurra, senza nemmeno guardare lo schermo. «Credo sia ancora Asahi».
Lo dice con una tale esasperazione che a Kiyoko, in un doloroso momento di empatia, si stringe il cuore, seguendo l’armonia di un ricordo quasi sbiadito nella trama della memoria.
«E perché non gli rispondi?» domanda, incerta. «Perché tu vuoi rispondergli».
È evidente ma Noya, che si guarda le scarpe come potesse scorgervi una risposta, si costringe a scuotere il capo.
«Non ho più niente da dirgli» mormora. «Io… è diverso, da quello che stai pensando tu».
Perché Sugawara e Shimizu vivono l’amore delle favole, dove l’uno è il completamento perfetto dell’altra, e insieme sono solamente le ennesime rette coincidenti. Al contrario, Yū e Asahi sono due asintoti, che tendono disperatamente l’uno verso l’altro senza toccarsi mai.
Perché è semplice e coerente, la relazione tra Suga e Kiyoko, senza continue incomprensioni o ferite interne; non hanno bisogno di ferirsi continuamente a vicenda, non hanno bisogno di salvarsi.
«Ma vorresti comunque rispondergli» osserva Shimizu, placidamente. «Potresti farlo e basta, senza messaggi in bottiglia, lettere e soffioni».
Lo dice ridendo, ma è con messaggi, lettere e soffioni che Suga le ha maciullato il cuore, legandola a sé.
«Importa?» domanda Yū, stringendo i denti. È ancora semplicemente furioso. «Parlare non cambia le cose».
Ma ignorarlo non gli impedirà nemmeno di volerlo indietro, pensa distrattamente Shimizu, giocherellando con la copertina del proprio libro. Perché è totalmente evidente il fatto che Nishinoya desideri con tutto sé stesso rispondere a quelle telefonate, come desidera prendere a pugni Asahi o baciarlo fino a fargli male.
«No, non lo farà» conviene lei, placidamente. «Ma non le cambierà nemmeno non farlo».
Yū sospira, guardando distrattamente fuori dal respiro: una parte di lui, quella più ferita e sanguinolenta, pensa distrattamente che Shimizu abbia ragione. Che la vita ferisce comunque, qualunque cosa tu faccia: e, allora, varrebbe la pena di farsi ferire insieme.
Ma Asahi s’è frantumato sui loro sogni, distruggendoli, e Noya non è bravo a perdonare: è l’abbandono, che lo sfregia come una cicatrice, non la bugia sulle pillole. È il fatto che Asahi si sia nuovamente rinchiuso tra le quattro mura della sua mente, lasciandolo fuori ad attenderlo, sotto la pioggia e bagnato dal silenzio.
«Non posso» mormora Noya, semplicemente. «Anche se lo facessi, non penso che riuscirei a dimenticare».
Così come non riesce a dimenticare lui.
Yū guarda fuori dal finestrino, dove il sole ha cominciato ad abbracciare dolcemente il paesaggio, riscaldandolo con i propri deboli raggi.
Dentro di lui sta piovendo. Ma Noya non riesce a crederci.


 

Io mi scuso con coloro che non amano la filosofia, per questo capitolo, ma mi serviva per introdurre un avvenimento (che mi farà odiare da tutti voi) del prossimo capitolo che, a proposito, sarà fuori il 25 novembre, quindi prestissimo. Non riesco a crederci che già manchino così pochi capitoli all'epilogo, ringrazio tutti per avermi letta e vi lascio alle note di questo capitolo:

15La traduzione è stata fatta di me. Fornisco anche una brevissima spiegazione sul paradosso di Moore, esposto da Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche (parte II, nonché manifesto del secondo Wittgenstein). Per non farla molto lunga, lo spiego in parole povere. Il paradosso di Moore riguarda la contraddittorietà, reale o presunta, dell’affermare P ma al contempo affermare di non credere in P. Poiché non si afferma, secondo Wittgenstein, qualcosa in cui si crede, la frase sarebbe contraddittoria. Un celebre esempio del paradosso è citato nel testo: “Piove, ma io penso di no”.
16 Frase ispirata dalla canzone dei Baustele, L’orizzonte degli eventi (Paola lascia casa. Il ragazzo, la famiglia, una gatta)
17Il saggio esiste davvero e potete trovare il suo collegamento con Wittgenstein, qui
18Dal tedesco, gioco linguistico
19Anche questo saggio esiste per davvero, e lo trovate in questa raccolta, come primo saggio

Detto questo auguro a tutti una buona colazione e un buon finesettimana.
Gaia
   
 
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