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Autore: Soul of Paper    22/11/2020    5 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto procuratore]
Lo aveva baciato e gli aveva ordinato di dimenticarselo. Ma non poteva certo pretendere dagli altri ciò che non riusciva nemmeno a fare lei stessa. Imma Tataranni - Imma x Calogiuri
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nessun Alibi


Capitolo 49 - La Famiglia - Parte Prima


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“Calogiuri.”

 

“Dottoressa, mi cercavate?”

 

“Sì, Calogiuri, ho dei nuovi elementi che vorrei valutare con te. Accomodati.”

 

Guardò, con un poco di stupore, mentre Imma faceva segno verso una sedia vuota di fronte a lei, davanti alla scrivania.

 

Di solito per fare quei lavori si sedevano fianco a fianco, di fronte alla scrivania appunto. Ma magari voleva ancora tenere le distanze. Si sbrigò a fare come richiesto, non volendo contrariarla ulteriormente.

 

“Che cosa volevate farmi vedere, dottoressa?” le domandò ed Imma fece un sorrisetto che gli provocò un brivido.

 

“Diverse cose, Calogiuri, diverse cose,” rispose, in un modo che non fece nulla per far diminuire la sensazione.

 

Ma doveva rimanere impassibile finché non sarebbe stata lei a dargli un segnale più chiaro, lo sapeva.

 

Imma aprì una cartelletta e ne estrasse dei fogli. Era un rapporto, scritto fitto fitto.

 

Fece per prenderlo, per capire, ma in quel momento sentì qualcosa toccargli il polpaccio destro e si rese conto che era il piede di Imma.

 

“Dotto-” cercò di dire, ma la voce gli morì in gola quando sentì il piede di lei percorrergli la gamba, sempre più in alto, fino a toccarlo .

 

“Imma…” sussurrò, sconvolto ed allo stesso tempo eccitatissimo, finché senti il fiato di lei sul collo e poi….

 

“Imma!” esclamò, trovandosi di colpo nel suo letto, ancora in penombra, sentendo ancora il cuore a mille e soprattutto altri effetti del sogno.

 

Ma soprattutto gli sembrava ancora di sentire quelle sensazioni e… e poi la vista si adattò meglio al buio e percepì, ancor prima di vedere, che Imma nel sonno si era abbracciata a lui, con il viso nell’incavo del suo collo, i capelli e il fiato di lei che gli facevano il solletico e, soprattutto, che aveva la gamba mezza piegata ed il ginocchio appoggiato proprio lì.

 

Sembrava dormire serena, tranquilla, almeno lei.

 

Da un lato avrebbe voluto rimanere a guardarla per sempre, temendo che, al suo risveglio, potesse di nuovo allontanarsi da lui, tornare più fredda, nonostante il grande avvicinamento avvenuto il giorno precedente,

 

Dall’altro lato, però, rimanere in quella posizione per lui era una vera tortura e temeva che se lei lo avesse trovato… in quelle condizioni… avrebbe potuto pensare che a lui importasse solo di una cosa ed arrabbiarsi o sentirsi troppo pressata.

 

Con uno sforzo sovrumano, quindi, le posò un bacio sulla fronte e cercò di staccarsi da lei senza svegliarla.

 

Era appena riuscito a liberare almeno le gambe - e l’essenziale! - e stava cercando di spostare pure il braccio e la spalla, quando si sentì afferrare per la nuca e vide gli occhi di Imma spalancarsi, mentre pronunciava un “dove pensi di scappare mo?” un poco sonnacchioso.

 

“In bagno e poi a prepararci la colazione,” rispose, in quella che, in fondo, era la verità, con solo qualche piccola omissione.

 

“Ma che scherzi? Te la preparo io la colazione, Calogiuri!” proclamò, passandogli una mano nei capelli in un modo che non fece che peggiorare la situazione, prima di dargli un lieve bacio sulla bocca: era da quando l’aveva buttato fuori di casa che non si erano ancora scambiati un bacio vero. Poi si mise seduta e sollevò il lenzuolo per scendere dal letto.

 

Ma si bloccò di colpo e lo guardò con aria divertita, mordendosi le labbra. Il problema era che lo fissava proprio.

 

Beccato!

 

“Calogiuri….”

 

“Scusami ma… è che ho fatto un sogno e-”


“E con chi lo avresti fatto questo sogno?” lo interruppe, il tono e l’occhiata pericolosi.

 

“Con te, con te!”

 

“E, di preciso, che cosa succedeva in questo sogno?”

 

Si sentì avvampare, perché non sapeva come spiegarglielo… come descriverglielo. Poi in un luogo per lei quasi sacro come la procura e, soprattutto, il suo ufficio.

 

“Calogiuri, con quello che abbiamo combinato io e te in questi anni, che ti imbarazzi per un sogno mo? A meno che non fossimo soli e che non fosse un sogno chiusissimo.”

 

“No, no, era chiusissimo, chiusissimo!” specificò, cercando le parole per spiegare e non trovandole, “è che… eravamo nel… nel tuo ufficio. E, mo che ci penso, era l’ufficio di Matera.”

 

Imma si limitò a fissarlo, con l’aria di chi non avrebbe mollato la presa.

 

“E insomma… mi facevi sedere di fronte a te, alla scrivania e poi… mentre mi mostravi un rapporto… con il piede… insomma…” balbettò, sentendosi bollente e guardando anche lui verso il basso, per farle capire senza doverlo dire esplicitamente.

 

Silenzio e poi la sentì prendere un forte respiro. Alzò gli occhi, per cercare di capire se si fosse arrabbiata, cercando di giustificarsi con un, “scusami ma… lo sai che… che mi fai un certo effetto e-”

 

Uno “stai zitto!” sibilato vicino all’orecchio e si trovò letteralmente travolto in un bacio famelico, tanto che cadde all’indietro sul materasso e per un soffio si evitò di sbattere contro la testiera del letto.

 

In un attimo, la sentì sopra di sé, a cavalcioni, che si muoveva in un modo da infarto e poi dita sotto la maglietta, la pelle nuda all’aria, e poi labbra morbide e calde sul petto e poi più giù, sempre più giù.

 

“Im-ma, ma che… che fai?” riuscì a pronunciare, stordito da quell’assalto.

 

Nel giro di un secondo, le labbra di lei gli diedero tregua e, anche se con la vista un poco appannata, incrociò il viso di lei contratto in una smorfia, mentre proclamava, guardandolo negli occhi, “se non ci arrivi da solo, maresciallo, ti butto fuori di casa di nuovo e questa volta definitivamente!”

 

Gli venne da ridere e provò ad afferrarla per la vita, per ricambiare, ma lei gli diede due colpi sulle mani e si sentì scoppiare il cuore quando gli intimò, “se ti azzardi a muoverti saranno dolori, maresciallo. Ti tengo in pugno, in tutti i sensi.”

 

L’ultimo pensiero coerente si dissolse nel delirio di sensazioni, insieme ad un grido.

 

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I polmoni gli bruciavano, mentre cercava di riprendere fiato: forse per tutti i giorni di astinenza, ma aveva ancora come un formicolio in tutto il corpo, dopo una vera e propria esplosione che gli aveva mandato i sensi in tilt.

 

Imma invece era ancora sopra di lui, con un sorriso soddisfatto, del gatto che si è appena mangiato il topo.

 

“S- sei, sei….”

 

“Che ti ho fatto tornare di poche parole, Calogiù?” lo sfotte, dandogli un pizzicotto sul petto che lo fece quasi sobbalzare, era ancora sensibilissimo.

 

“Sei… incredibile e… e matta… ma è per questo che ti amo.”

 

Imma prese un altro respiro e scosse il capo, pronunciando, con una voce roca che fu per lui l’ennesima mazzata, “è il cuore a parlare, mo, o è qualcos’altro, Calogiuri? E non parlo del cervello, vista la faccia da pesce lesso che ti ritrovi e-”

 

Non la fece terminare: la prese per i gomiti e la fece rotolare fino a intrappolarla sotto al suo corpo.

 

“Te lo faccio vedere io, mo, il pesce lesso!”

 

“Magari non troppo lesso è meglio, Calogiuri!”

 

“Imma!” ruggì, prima di farle solletico in vita, mentre con le labbra le sollevava la vestaglia, per renderle pan per focaccia, godendosi le risate che si tramutarono in gemiti.

 

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Si lasciò cadere sul cuscino, sentendosi pienamente e totalmente soddisfatta, come era da troppo che non succedeva, i muscoli che erano di gommapiuma.

 

Forse per l’astinenza autoimposta, ma le era sembrato ancora più incredibile del solito e, visto come la faceva sentire già normalmente Calogiuri, era tutto dire.

 

Si voltò per lanciargli un’occhiata e lo trovò riverso pure lui, con aria stremata.

 

“Che c’hai bisogno di energia, Calogiù? Uno zabaione doppio, oltre ad un caffè doppio?” lo prese in giro e lui sorrise, coprendosi gli occhi.

 

“Tu un giorno mi manderai al creatore, altro che speranza di vita!

 

“E ti lamenti? Se vuoi il divano letto ancora fatto sta e a tua disposizio-”

 

Dovette trattenere un urlo perché si trovò stretta in un abbraccio sul petto di Calogiuri, che le riempì le guance, le palpebre, il mento, la bocca, il naso, con una serie di baci talmente delicati da farle venire un rimescolamento nel petto, per non parlare di come le accarezzò le guance.

 

Si godette per un attimo quegli occhioni azzurri, dilatati al punto da sembrare quasi neri, poi se lo abbracciò forte forte.

 

“Mo vado a farmi una doccia, però, che qua ce n’è bisogno, e a prenderci la colazione,” si costrinse infine a staccarsi, ma lui provò a trattenerla per un polso.

 

“Ci vado io a prendere la colazione, non-”

 

“Guarda che è un ordine, maresciallo, al massimo ti concedo di fare il cappuccino!” esclamò, liberandosi dalla presa ed alzandosi dal letto, stiracchiandosi un poco: sentiva tutti i muscoli piacevolmente indolenziti.

 

Si avviò pigramente verso il bagno. Aveva appena abbassato la maniglia della porta quando sentì dei rumori rapidi e sordi alle sue spalle. Le venne da sorridere, ancora prima di essere ghermita per la vita e trovarsi con i piedi per aria a percorrere gli ultimi metri fino alla doccia.

 

“Ma non eri stremato? E la speranza di vita?!”

 

L’unica risposta fu un mezzo grugnito, delle labbra sulla nuca e una sensazione di freddo al petto quando fu schiacciata contro la parete.

 

Le scappò un urlo, sia per il getto d’acqua fredda che le schiaffeggiò il viso, sia perché il bacio divenne un morsetto.

 

“E che sei diventato Dracula?”

 

“Mi hai trasformato tu in un vampiro, con tutti i tuoi morsi, e quindi mo non puoi lamentarti,” le mormorò in un orecchio, prima di mordicchiarle pure il lobo, costringendola a soffocare un grido nelle piastrelle.

 

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Sorrise nell’udire la porta aprirsi e si affrettò a versare il caffè e la schiuma di latte - anche se non perfetta come quella che faceva di solito Calogiuri - nelle tazze.

 

Lui le scoccò un bacio su una guancia, mentre le porgeva il sacchetto di carta, da cui prese avidamente un bombolone.

 

“Per te ne hai comprati due, almeno, Calogiuri? Che devi recuperare le energie!”

 

“Avrò ancora bisogno di molte energie per il resto della giornata?” domandò, con lo sguardo da impunito, finendo di lavarsi le mani e prendendo a sua volta la sfera di impasto morbido.


“Chissà…”

 

Finì l’ultimo morso di bombolone -  teneva una fame tremenda dopo tutto quel movimento! - quando Calogiuri le chiese, “che cosa vuoi fare oggi?”

 

“Tu cosa vorresti fare, Calogiuri? A parte usare le energie residue, ovviamente.”

 

“Sei… sei mai stata a Villa Pamphili? Mi hanno detto che è bellissima, il più bel parco di Roma. E oggi c’è il sole e penso che saranno le ultime giornate così, prima dell’inverno. Poi potremmo pranzare in una trattoria e dopo… magari fare un giro per negozi. Che te ne pare?”

 

“Mi stai dicendo che ho bisogno di vestiti nuovi, Calogiuri?” gli domandò, sollevando un sopracciglio.

 

“No, ma se andiamo avanti così potrei averne bisogno io!” scherzò, prima di aggiungere, più serio e quasi imbarazzato, “e poi… lo sai che mi piace vederti provare tutte quelle cose che piacciono a te….”

 

“E allora non solo a me,” gli fece notare, stringendosi di più nell’accappatoio.

 

Aveva il potere di farla sentire bellissima, pure con il turbante ancora in testa e doveva ammettere che le piaceva da morire come la guardava mentre provava i vestiti.

 

E poi… voleva comprare un abito - per quanto economico - che facesse schiattare la cara Irene a teatro. E Calogiuri, ovviamente, anche se in tutt’altro modo.

 

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“Allora, ti piace qui?”

 

“Molto, molto! Avevi proprio ragione: è pure più bella di Villa Borghese. Ma mo dopo la villa che cosa c’è da vedere?”

 

“Un laghetto, dovremmo quasi esserci, ecco qua!”

 

Aveva una strana felicità nel petto: non era mai stata una grande appassionata della natura, se non a cavallo, ma vedere tanto verde nel cuore di una città come Roma le scaldava il cuore. Poi però le prese un dubbio.

 

“E chi è che to lo avrebbe consigliato questo parco?”

 

“Mariani. Mi ha detto che ci viene spesso a correre, che è il suo preferito tra i parchi romani.”

 

Imma annuì, sollevata che si trattasse di lei e non di qualcun’altra.

 

“Signò, che lo volete un poco di mangime per le oche? Ne vanno pazze!”

 

L’uomo che gliel’aveva offerto era anziano, un poco malridotto. Probabilmente arrotondava le pensione vendendo briciole di pane raffermo insacchettate ai turisti.

 

Le braccia di Calogiuri che la tenevano per la vita si irrigidirono. I loro occhi si incrociarono e capì benissimo che temeva che lei facesse all’ambulante un panegirico sull’abusività e sullo sporcare potenzialmente il suolo pubblico.

 

E forse la Imma di Matera, almeno nelle giornate in cui era più incazzosa e pignola, lo avrebbe pure fatto.

 

La Imma di Roma pensò solo che non aveva mai dato da mangiare agli animali nei parchi, anche perché da bambina le era stato insegnato che il cibo non si buttava e di non spendere denaro inutilmente.

 

In fondo, perché no?

 

Aprì borsa e portamonete e diede due euro all’uomo, notando benissimo, con la coda dell’occhio, lo stupore di Calogiuri.

 

Prese uno dei sacchetti e si diresse, sempre mezzi abbracciati, verso la riva, poi cominciò a buttare il pane per terra.

 

Un gruppo di oche giunse alla gran di corsa, sbattendo le ali e starnazzando in modo quasi assordante, iniziando a lottare per il cibo.

 

“Calma, calma, ce n’è per tutti!” disse Calogiuri, ma le oche, a differenza della maggioranza degli animali che avevano incontrato da quando si conoscevano, non furono nemmeno scalfite dalla gentilezza del maresciallo e continuarono ad azzuffarsi per procacciarsi più briciole possibile.

 

“Sono proprio assatanate queste oche! Ma almeno puntano al pane e non a te, al contrario di quelle che ti starnazzano intorno di solito!” ironizzò e Calogiuri le diede un pizzicotto e sussurrò un “Imma!” esasperato, prima di scoppiare a ridere.

 

Stava gettando ancora il pane, sperando di placare i volatili, quando udì come un mugolio ai suoi piedi. Dubitando che un’oca potesse produrre un suono simile, guardò verso la punta del suo stivaletto leopardato e ci trovò un micino piccolissimo, tigrato, che miagolava, cercando di avvicinarsi al pane e guardandola con due occhioni azzurri che potevano rivaleggiare con quelli di Calogiuri e del gatto di Shrek.

 

Le venne da sorridere per la ruffianaggine. Prese una manciata di pane e la posò ai piedi suoi e del gattino ma capì subito, da una specie di sibilo, peggio di quello di un serpente, di avere fatto un errore. Le oche, soffiando in un modo di cui non le avrebbe ritenute capaci, si avventarono contro il pane ed il micetto.

 

D’istinto, si abbassò per prenderlo in braccio e fece appena in tempo a rialzarsi prima di venire beccata.

 

“Ma sei matta?! Potevi farti male!” esclamò Calogiuri e, mentre il gattino le si rifugiava nel cappotto, infilandocisi mezzo, si sentì sottrarre il sacchetto del pane dalle mani e Calogiuri buttò tutte le briciole rimanenti un poco distante. Le oche ripresero a fare baruffa ma dirigendosi verso quel punto.

 

“Mo ho capito: queste al Campidoglio i Galli li hanno cacciati da sole, altro che i romani!” scherzò, anche se si era agitata. Un solletico al collo la fece avvedere che il micino si era arrampicato fino a lì e ora si strusciava appena sotto al suo mento, facendo le fusa.

 

Calogiuri si stava trattenendo dal ridere ed Imma sbottò, “ma che ti ridi?! Mi ricorda te quando non stai bene, che fai così pure tu, fai!”

 

E stavolta Calogiuri rise e lei non potè evitare di ricambiare, mentre cercava di intercettare il gattino prima che le salisse in testa.

 

Riuscì infine ad afferrarlo, evitandosi graffi, e se lo portò all’altezza del viso, per guardarlo meglio, anche se a distanza di sicurezza dagli artigli.

 

“Chissà di chi sarà: quanto è piccolo! Anzi, piccola,” si corresse, notando che mancava qualcosa all’appello e c’erano invece altre cose che un gatto maschio, a regola, non avrebbe dovuto avere.

 

“Sì, è una femmina,” confermò Calogiuri, sorridendo, “ed ha pochi mesi, anche se magari sembra più piccola di quanto sia in realtà perché è un poco malnutrita. Possiamo mettere un annuncio sui social per vedere se qualcuno l’ha persa… ma magari è anche stata abbandonata. Però, nel frattempo….”

 

Imma fece un sospiro ed alternò lo sguardo tra la micia e Calogiuri, che le stavano facendo gli occhi da gatto di Shrek in Dolby Surround.

 

“Nel frattempo, immagino che tu la voglia tenere, maresciallo?”

 

“Veramente, per come ti sta attaccata, mi sa che non abbiamo molta scelta, dottoressa,” le fece notare ed, effettivamente, la gattina le aveva praticamente abbrancato un polso tra le zampe e ci stava aggrappata fortissimo.

 

Già sapeva come sarebbe andata a finire.

 

“Ma come facciamo? Non ho mai avuto un animale domestico, Calogiuri, nemmeno un gatto e non ho idea di come si faccia, poi è talmente piccola….”

 

“Sì, ma sembra comunque avere un’età dove è già svezzata e può mangiare normalmente. Sai, da noi in campagna… ho avuto tanti animali, anche qualche gatto randagio che è venuto a rifugiarsi da noi. Dobbiamo solo passare da un supermercato a comprare le cose essenziali e magari domani la porto un salto da un veterinario in pausa pranzo, che oggi saranno tutti chiusi.”

 

Ecco, appunto!

 

“Però prima di andare al supermercato magari possiamo passare dalla trattoria che ho già prenotato. Se ci fanno problemi per lei, posso chiedere se ci danno l’asporto.”

 

“Ma come facciamo a portarla con noi in moto?” chiese Imma, sapendo benissimo che le toccava arrendersi all’inevitabile.

 

“Potresti… potresti mettertela in borsa, no? Tanto ha la cerniera: la lasci con il muso fuori, ovviamente. Ti lego la borsa in vita e la tieni tra noi due, andrò pianissimo.”

 

Presa da mille paure, dallo schiacciarla al farla cadere, si avviò con lui verso il motorino.

 

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“Come va?”

 

“Mi pare un poco agitata, Calogiù, ma al posto suo lo sarei pure io!” gli gridò, mentre procedevano lenti nel traffico domenicale romano, “spero solo che non si agiti troppo, se no la borsa mi tocca buttarla.”

 

Calogiuri rise e lei si trattenne dal dargli un pizzicotto al fianco, perché ci mancava solo che sbandasse. La micia se ne stava con le orecchie basse ed il muso piantato nel suo stomaco, come per non vedere, ed ogni tanto miagolava lamentosa.

 

Dopo minuti che le sembrarono interminabili, Calogiuri fermò il motorino in un posto per lei stranamente familiare.

 

Calogiuri si levò il casco e gli permise di fare lo stesso con lei, mentre cercava di tenere buona la creatura miagolante.

 

E poi riuscì a guardarsi meglio intorno e le prese una botta di commozione quando capì.

 

Mentre accarezzava la guanciotta della piccola, per tranquillizzarla, seguì Calogiuri, quasi ipnotizzata, fino ad arrivare alla loro trattoria.


Quella della prima cena insieme.

 

“Buongiorno, c’avete una prenotazione?” chiese il cameriere, un uomo sulla cinquantina che Imma aveva già visto nelle visite precedenti, e che sembrava essere il cameriere più anziano.

 

“Sì, un tavolo per due, a nome Calogiuri. Ma… c’è un problema… abbiamo un’ospite e non so se sia gradita. L’abbiamo trovata in un parco,” spiegò Calogiuri, e si sentì passare un braccio intorno alle spalle, mentre indicava la borsa da cui faceva capolino un musetto tigrato, “se è possibile fare asporto, noi-”

 

“Ma che scherzi?! Tanto il tavolo ce lo avete all’aperto, l’importante è che sta con voi e non se ne va in giro.”


“Con il cibo non garantisco, mi sa che è affamata,” disse Imma, che ancora la stava coccolando per tenerla ferma.

 

“E che problema c’è?! Se ve sedete le faccio preparà qualcosa di speciale,” rispose il cameriere, indicando loro un tavolino più vicino alla strada e ad Imma venne un altro colpo perché era il loro tavolo, quello della prima volta, “la gatta l’avrà scambiata per su’ madre, signò, con tutto sto leopardo!”

 

Imma si trattenne dal rispondere male, perché il cameriere, in fondo, era stato molto gentile.

 

“Sapete già che cosa volete prendere?” domandò, mentre Calogiuri la aiutava ad accomodarsi, da vero cavaliere, prima di prendere posto di fronte a lei.

 

Calogiuri iniziò ad elencare una sfilza di piatti che erano, nuovamente, gli stessi della prima cena: carciofi alla giudia, fiori di zucca ripieni, cacio e pepe….

 

Si ricordava proprio ogni dettaglio.

 

“E poi ci aggiunga un piatto di puntarelle, che è stagione”, precisò e il cameriere si allontanò dopo aver segnato tutto su un taccuino.

 

Un altro ragazzo in uniforme, più giovane, portò una caraffa di vino bianco.

 

“Questo è pericoloso, Calogiù, poi con la moto!” scherzò, anche se era realmente un po’ preoccupata, visti i precedenti.

 

“Vorrà dire che berrai di più tu, dottoressa!” esclamò lui, versandole un bicchiere quasi colmo e poi riempiendo il suo.

 

Stava per proporre un brindisi, quando la micetta prese a miagolare tantissimo, guardandola nuovamente con gli occhi del collega di Shrek.

 

“Ti ci manca solo il vino a te, ti ci manca!” esclamò, grattandola sotto un orecchio, come aveva notato piacerle molto, e lei prese a sfregarsi sulla sua mano, facendo di nuovo le fusa.


Ruffiana!

 

“Vuoi darle un nome?” domandò Calogiuri, all’improvviso, ed alzò gli occhi verso di lui, che la guardava tra il divertito e l’intenerito.

 

“Forse è meglio accertarsi prima che non sia di qualcuno, Calogiuri. Dando un nome ci si affeziona troppo.”

 

“Perché in effetti così non ci si affeziona proprio per niente!” la sfottè lui, guardando la mano di lei che ancora faceva le coccole alla micia, che continuava a borbottare, mentre si rotolava nella borsa in grembo a lei.

 

“Scemo!” rise, dovendo però ammettere che era difficile resisterle: a lei gli occhioni azzurri l’avevano sempre fregata.

 

“Non c’è dubbio che è una femmina, no? Anche se stranamente non ti si è ancora buttata addosso,” scherzò e Calogiuri scosse il capo ed annuì, “stiamo al Portico di Ottavia... e se la chiamassimo Ottavia?”

 

“Mi pare un nome bellissimo!” le rispose, sorridendole, per poi aggiungere, “comunque metterò gli annunci per capire se qualcuno l’ha persa.”

 

Imma sentì una strana sensazione allo stomaco, ancora prima che giungesse un profumino meraviglioso e di trovarsi davanti un piatto fumante con un mega carciofo e dei fiori di zucca.

 

Il cameriere servì anche Calogiuri e le toccò trattenere le zampe di Ottavia che cercavano disperatamente di allungarsi verso il carciofo. L’uomo le mostrò un piatto di quello che pareva macinato, “carne macinata cotta con l’ovo, signò, i gatti ci vanno matti. Glielo metto qui per tera?”

 

Imma, un poco in apprensione, fece segno di sì ed abbassò la borsa in modo che Ottavia fosse vicino al piatto. La micia ci si buttò a capofitto, letteralmente, mangiando con avidità.

 

Sperava solo che non stesse male ingozzandosi troppo.

 

“Ammazza, c’aveva proprio fame, c’aveva! Che c’avete il necessario a casa o-”

 

“Veramente no, pensavamo di passare in un supermercato per prenderle le prime cose. Sa se ce n’è uno aperto qua vicino?”

 

“Guarda, c’ho un amico che tiene un negozio per animali e fa pure consegna a domicilio. Ce posso mettere na buona parola di portavve quello che ve serve pure oggi, anche se è domenica, che è n’emergenza.”

 

“Spero che pure i prezzi del suo amico non siano da emergenza,” intervenne Imma, perché sapeva che Calogiuri aveva il viso da buono e temeva che volesse approfittarne un po’.

 

“Ma che se crede signò? Che ce faccio ‘a cresta?!” chiese il cameriere, ridendo, mentre Calogiuri pareva voler sprofondare, “stia tranquilla che l’amico mio è onesto e ce se troverà bene. E comunque altro che leopardo: ‘na tigre è!”

 

“Facciamo un brindisi?” le chiese Calogiuri, una volta che furono di nuovo soli, e aveva gli occhi un po’ troppo lucidi.


“A cosa vorresti brindare, Calogiù?”

 

“Alla pace fatta, magari?” domandò lui, speranzoso.

 

“Perché, chi ti dice che abbiamo fatto la pace, Calogiuri?” lo sfottè, facendogli l’occhiolino, ma poi lasciò tintinnare i loro bicchieri ed allungò il collo per baciare quelle labbra, rese ancora più irresistibili dal vino bianco.

 

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“Buona serata! E se c’avete problemi, chiamatemi!”

 

Chiuse la porta alle spalle del ragazzo del negozio di animali con un sospiro di sollievo.

 

“Ma tutta sta roba serve veramente?” chiese poi, guardando il mucchio di scatole in salotto.

 

“La lettiera serve per forza, anche se mi sa che dovremo insegnarle ad usarla. Il lettino ci vuole, il cibo e le ciotole pure ed i giochi per non farla sfogare sui mobili con gli artigli.”

 

“Tra un po’ qua entra lei ed usciamo noi, Calogiù!” sospirò, ma poi si sentì solleticare le caviglie, ci trovò Ottavia che faceva lo slalom e di nuovo sentì quella strana sensazione al petto.

 

Pure questa era pericolosa, non solo Calogiuri, mo!

 

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“Qua altro che energie residue, Calogiuri!”

 

Si era appena infilata nel letto ed era esausta. E non solo per l’attività fisica di prima mattina, o la passeggiata, ma soprattutto perché avevano passato due ore a cercare di insegnare alla micia ad usare la lettiera e quel coso che Calogiuri chiamava tiragraffi.

 

Ringraziò il cielo di non avere molti tappeti o il parquet, ma sperava di salvare il divano.

 

Il telefono sul comodino squillò e lesse il nome di Valentina.

 

Erano le ventitrè passate e le venne un colpo.

 

“Pronto, Valentì, che succede?!”

 

“Niente mà, niente, sta tranquilla! Volevo dirti che sono arrivata a casa qua a Roma e volevo sapere come stavi.”

 

Che Valentina si preoccupasse per lei, per la sua situazione con Calogiuri, fu il più bel regalo che potesse desiderare. Una volta non sarebbe successo.

 

“Qui tutto-” fece per rispondere, ma sentì dei miagolii che parevano quasi dei ruggiti ed un grattare insistente alla porta.


“Tutto…?”

 

“Meglio se ignoriamo, se no se si abitua che se fa così le apriamo, e lo farà sempre,” spiegò Calogiuri, avendo notato la sua esitazione.


“Ma quella è la voce di Calogiuri? Allora lo hai perdonato? Ma chi è che vuole entrare in camera da letto? Un’altra gattamorta?”

 

“No, una gatta viva, Valentì, vivissima.”

 

Manco si fosse sentita nominare, Ottavia riprese a miagolare fortissimo.

 

“Ma sono dei miagolii? Cioè… c’è davvero una gatta lì?”

 

“Sì, abbiamo trovato una micetta di pochi mesi al parco oggi, era affamata e stava per essere assalita da delle oche. Pure quelle oche vere, Valentì, non metaforiche. Stiamo cercando se ha dei proprietari, ma nel frattempo non potevamo lasciarla là a morire di fame.”

 

“Ma proprio tu, che quando ti imploravo per avere un cagnolino o un gattino mi hai sempre fatto storie?! Non ci credo!” esclamò Valentina e, improvvisamente, la comunicazione si troncò.

 

Chiedendosi se il non averle preso un animale domestico fosse un altro dei traumi che Valentina le avrebbe rinfacciato a vita, Imma rimase in ansia per qualche istante, finché vide di nuovo il nome della figlia sul display, ma stavolta per una videochiamata.

 

Diede una controllata a Calogiuri ed era tutto sommato vestito decentemente e lei… va beh… Valentina l’aveva vista in vestaglia un sacco di volte.

 

“La voglio vedere. Subito!” intimò Valentina, non appena ebbe accettato la chiamata.

 

Di fronte a quell’ordine, ad Imma scappò da ridere. Si scambiò uno sguardo con Calogiuri, che andò ad aprire la porta. La micia cercò di buttarsi verso il letto ma Calogiuri la intercettò, prendendola in braccio, e poi la portò vicino ad Imma, mostrandola nella telecamera del telefono a Valentina.

 

“Pure tigrata? Ci mancava che fosse leopardata e poi eravate in coordinato! Comunque la voglio conoscere assolutamente: preparatevi che il prossimo fine settimana vi vengo a trovare!”

 

“Va bene, anche se… bisogna vedere se non troviamo prima il padrone o la padrona.”

 

“Trovare di chi è un randagio a Roma? Tanti auguri!” rispose Valentina ed Ottavia prima inclinò la testa per guardarla, un poco stupita, poi però si allungò, pur essendo trattenuta da Calogiuri, e prese a leccare lo schermo.

 

“Ma che fa?!”

 

“Lecca il cellulare, Valentì, credo ti mandi i suoi saluti.”

 

“Almeno è più gentile di te. Va beh… ho capito. Buonanotte e fate i bravi! Che me la traumatizzate!” si raccomandò Valentina - quell’impunita! - mettendo giù la comunicazione.

 

Ottavia però continuò imperterrita a miagolare e a cercare di sfuggire a Calogiuri per saltare sul letto.

 

“Dobbiamo farla stancare un poco, che si addormenti nel suo lettino, se no vorrà dormire qua tutte le sere e ce l’avremo sempre nel letto,” le spiegò, facendo per alzarsi in piedi, ma Imma lo bloccò con un “che sei geloso, maresciallo?”

 

L’espressione di Calogiuri si fece incredula e tremendamente comica. Imma allungò il collo e lo baciò, sussurrandogli in un orecchio, “tranquillo: l’unico micetto sonnacchioso che voglio nel letto sei tu!”

 

“Te lo faccio vedere io il micetto, dopo!” ribattè lui, prima di alzarsi in piedi ed avviarsi verso il salotto.

 

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“Vuoi provare anche tu?”

 

La voce di Calogiuri quasi le fece prendere un colpo: era rimasta come ipnotizzata a guardarlo giocare con Ottavia ed una specie di bastoncino con delle piume attaccate ad un filo.

 

“Devi solo agitare un poco il bastoncino, è facile!”

 

“E grazie al cavolo, Calogiuri! Che non ci arrivo da sola?” rispose, prendendogli il legnetto dalle mani ed iniziando pure lei a muovere il polso.

 

Ottavia subito si avventò sulle piume, con quel genere di scatto che era stato definito felino mica per niente.

 

“Ti vuoi prendere una rivincita su quelle oche, eh, Ottà? Che ti capisco, eccome se ti capisco!” scherzò, ma la micia continuò a giocare con un’energia invidiabile, “ma è instancabile!”

 

“E va beh… è tutto nuovo per lei, vedrai che tra poco si stancherà.”

 

In effetti, dopo ancora qualche minuto di gioco, Ottavia iniziò a sembrare più lenta e poi si allontanò dalle piume, quasi schifata, e prese a strusciarsi sulle gambe di entrambi.

 

“Qualcuna ha sonno e vuole le coccole… ora se la accarezziamo, piano piano, dovrebbe addormentarsi. Poi i gatti diventano più indipendenti da grandi, anche se va a carattere, ma alcuni ti cercano pochissimo,” provò a tranquillizzarla Calogiuri, ma la verità era che, in fondo, non era certa di volere che Ottavia la ignorasse del tutto, anche se non ci poteva dedicare tutte le sue giornate.

 

“Così di solito li rilassa molto,” continuò a spiegare Calogiuri, accarezzando la piccola con dei movimenti lenti e circolari.

 

Imma lo imitò e, dopo poco, si trovò con Ottavia spalmata su una sua coscia, che ronfava della grossa.

 

“Si è proprio attaccata tantissimo a te, in tutti i sensi!” commentò lui, con uno sguardo che definire pericoloso era un eufemismo, facendole segno di metterla nel lettino.

 

Staccarla, zampa per zampa, non fu facile, ma poi riuscì a poggiarla sul cuscino peluscioso e Calogiuri pose vicino alla micia un pupazzetto a cui si abbracciò subito, pure nel sonno.

 

C’era qualcosa nel bisogno di affetto o comunque di calore di Ottavia, per quanto fosse l’istinto, che la toccava tantissimo.

 

Il più silenziosamente che potevano, si alzarono e si avviarono verso la camera da letto.

 

Le ricordava quando doveva addormentare Valentina, soprattutto dopo averle dato il latte: come la posava nella culla, si svegliava e frignava tanto da spaccare i timpani.

 

Sulla porta della stanza da letto incontrò gli occhi di Calogiuri e la prese una specie di morsa al cuore: sarebbe stato un papà incredibile. Era dolce, sì, e buono, ma, inaspettatamente, almeno con Ottavia, aveva pure una disciplina notevole, pur essendo giocoso, cosa che a Pietro era sempre mancata. Non avrebbe dovuto fare solo lei il generale di ferro un’altra volta, se mai avessero avuto un figlio loro.

 

Chiedendosi per l’ennesima volta se mai ci sarebbero riusciti o se sarebbe dovuta vivere con la consapevolezza di aver contribuito a privarlo di qualcosa per il quale era evidentemente molto portato, si trovò trascinata in un bacio dolcissimo ed in una carezza sul viso da lui, che la guardava commosso.

 

Come sempre l’aveva capita, senza parole.

 

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Aprì gli occhi, di scatto, e dopo qualche istante, ancora rimbambito, capì il perché.

 

Miagolii e il rumore di unghie sul legno.

 

Guardò l’orologio sul comodino ed erano le sei di mattina.

 

Con un sospiro, ritrasse le mani che ancora stringevano Imma nel sonno e poi tentò di alzarsi.

 

“Ma dove vai? Che ore sono?” bofonchiò Imma, voltandosi per guardarlo.


“Le sei. Ottavia gratta la porta, mi sa che ha fame o vuole attenzioni. Ci penso io e poi vado a correre, tu dormi,” si offrì, dandole un bacio.

 

“Guarda che è l’unica femmina a parte me a cui sei autorizzato a darle, le attenzioni!”

 

“Agli ordini!” esclamò, baciandola un’ultima volta, prima di alzarsi definitivamente, andando verso la porta con uno strano groppo in gola.

 

Stare con Imma e con Ottavia, prendersene cura insieme lo faceva pensare a come sarebbe stato avere un figlio o una figlia loro. Imma era molto più dolce e materna di quanto lei stessa pensasse, anche se faceva la dura e nonostante il suo carattere tosto. Era e sarebbe stata ancora una mamma fantastica, ne era certo.

 

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Un lamento quasi disperato l’accompagnò alla porta, mentre Ottavia le si piazzava tra i piedi, nel vero senso del termine.

 

Forse aveva capito che doveva uscire.

 

Assurdamente, sentì una fitta di senso di colpa all’idea di lasciarla lì da sola.

 

Con l’età si stava proprio rammollendo e pure un poco rincoglionendo!

 

“C’ho da lavorare, Ottà, che il cibo per gatti mica cresce sugli alberi!” scherzò, anche se, in effetti, sugli alberi forse i gatti qualcosa da mangiare l’avrebbero trovato eccome.

 

Si impose infine di ignorare lo sguardo degno di Calogiuri e chiuse la porta, avviandosi verso le scale.

 

In strada passò davanti ad una vetrina e si ricordò che, con tutto quello che era successo il giorno prima, non aveva poi comprato un abito per il teatro.

 

Si ripromise di recuperare in pausa pranzo, che tanto Calogiuri sarebbe stato dal veterinario. Così sarebbe stata ancora di più una sorpresa.

 

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Stava finendo di prepararsi in bagno, perché Imma lo aveva cacciato dalla stanza da letto, dicendogli che se si faceva vedere prima che fosse pronta avrebbe dormito sul divano o, peggio, nel lettino di Ottavia.

 

Manco gli leggesse nel pensiero, udì un miagolio ed un grattare ormai molto familiari. Se andavano avanti così avrebbero dovuto ridipingere le porte.

 

Aprì, tanto era pronto, ed una palla di pelo gli si buttò alle caviglie, cominciando a tracciare degli otto.

 

Nomen omen - una delle poche frasi di latino che sapeva.

 

“Allora, quando non c’è la mamma disponibile, ti vado bene pure io? O approvi il vestito?”

 

“E c’ha ragione, c’ha! Con quel vestito stai fin troppo bene, visto chi c’abbiamo appresso stasera!”

 

Alzò gli occhi verso la voce e per poco non gli venne un coccolone: prima vide un paio di scarpe con un tacco da capogiro, nere, e poi… Imma aveva indosso un vestito molto attillato, con la gonna che si stringeva ulteriormente appena sotto al ginocchio ed una specie di bustino retto da spalline. Tutto interamente leopardato.

 

Anzi no!

 

Imma si era voltata, in un modo che lo faceva impazzire, ed il retro era in parte nero, di un tessuto elasticizzato che le stava come un guanto, sottolineando tutto quello che c’era da sottolineare, fin-

 

“Troppo?” gli domandò e Calogiuri si chiese se lo aveva detto ad alta voce, ma poi lei aggiunse, in un modo quasi timido che fu la sua rovina definitiva, “pensi che sia troppo pure per me?”

 

“Troppo sì, ma nel senso che sei troppo bella e mo… altro che di andare a teatro avrei voglia!” rispose, prendendola per la vita e stringendola a sé.

 

Ma lei gli mise due mani sul petto, recuperando un poco di distanza di sicurezza, “per le tue voglie mo ti tocca aspettare dopo il teatro, Calogiuri, che non c’ho tempo di prepararmi di nuovo e se mi rovini il vestito….”

 

“Va bene, va bene,” sospirò, alzando le mani in segno di resa, “allora ci chiamo un taxi, che vestiti così in motorino non ci possiamo proprio andare.”

 

Imma gli sorrise e sparì di nuovo verso la stanza per poi tornare, mentre lui era ancora al telefono, con indosso una giacchetta nera tipo di raso e, soprattutto, il suo inconfondibile cappotto leopardato.

 

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“Vieni.”

 

Afferrò la mano di Calogiuri che, come un gentiluomo d’altri tempi, aveva circumnavigato il taxi per aiutarla a scendere.

 

“Sei bellissima…” le sussurrò, mentre chiudeva la portiera e salutava con un cenno il taxista.

 

“E tu sei più ruffiano di Ottavia…” gli rispose, perché gliel’aveva già detto tre volte quella sera.

 

Non che se ne sarebbe mai lamentata, anzi.

 

Si guardò intorno: tanti cappotti neri, anche se non c’era una vera e propria folla.

 

E poi notò una macchia bianca ed inquadrò Irene, con un cappotto lunghissimo, candidissimo ed elegantissimo, che pareva uscita da uno spot dell’acqua minerale. Non li aveva ancora notati.

 

Si avvicinò e capì immediatamente, dall’espressione di Irene, quando finalmente si acccorse di lei.

 

“Calogiuri, Imma…” li salutò, fissando il suo cappotto in un modo quasi incredulo.

 

E non aveva ancora visto niente!

 

“Ho già preso i nostri biglietti, possiamo andare al guardaroba e poi entrare, che qui non è che faccia caldissimo,” spiegò, porgendo loro i cartoncini fustellati e facendo loro strada in quello che era un teatro non grandissimo e che pareva abbastanza antico.

 

Non appena si sfilò il cappotto, per passarlo al guardarobiere, gli occhi di Irene si spalancarono ancora di più e la squadrò dalla testa ai piedi.

 

Ed Imma ricambiò perché, per carità, il vestito lungo in raso rosso scuro di Irene sarà pure stato elegantissimo, ma aveva uno spacco che lasciava scoperta la gamba sinistra ben sopra al ginocchio.

 

Se si vestiva sempre così per uscire con Calogiuri…!

 

“Andiamo a prendere posto,” propose Irene, fin troppo rapidamente, l’aria di chi si stava trattenendo dal commentare il suo outfit.

 

Calogiuri, che aveva giusto giusto fatto un cenno di saluto alla gattamorta quando erano arrivati, pareva muto come un pesce e molto a disagio.

 

I posti a loro assegnati erano in seconda fila, abbastanza centrali.

 

Irene si infilò subito ed Imma fu per un attimo indecisa sul da farsi.

 

“Vai prima tu,” propose Calogiuri, evidentemente per non sedersi a fianco ad Irene e non rischiare di contrariarla.

 

“Ma no, Calogiuri, vai pure prima tu,” ribattè, perché voleva proprio vedere cosa avrebbe combinato, seduto accanto alla cara collega.

 

Lui, con l’aria di chi stava andando al patibolo, fece come gli fu chiesto ed Imma prese posto alla sua sinistra.

 

Lanciò un’occhiata verso il palco ed una verso la gattamorta, intenta a risistemarsi la gonna e lo spacco in un modo che le faceva ribollire il sangue.

 

Ma si sentì stringere una mano ed incrociò gli occhi di Calogiuri che sorridevano a lei e solo a lei, mentre le faceva l’occhiolino e le sussurrava, “qua la mano morta te la posso fare?”

 

“Sei autorizzato, anzi, autorizzatissimo, Calogiuri!” mormorò di rimando e si godette l’espressione della cara Irene quando lui le passò un braccio intorno alle spalle e la strinse leggermente a sé.

 

Che si rodesse pure il fegato quella, con quella faccia che era tutto un programma!

 

“Il programma!” disse Irene ed Imma si chiese se lei e Calogiuri quella sera si erano messi d’accordo per ripetere i suoi pensieri.

 

“Come?”

 

“Il programma è nello spazio della poltroncina di fronte a voi. Dà molte informazioni sullo spettacolo, gli attori e-”

 

“E cos’è un programma teatrale lo so da me, grazie!” la interruppe, prendendo il foglio A4 ripiegato che fungeva da libretto ed aprendolo per leggere.

 

Oltre ai nomi del cast, dei registi e di chi lavorava dietro le quinte, notò una foto di Amalia con un uomo che presunse essere il protagonista, nei costumi di scena.

 

“Certo che è proprio bella…” commentò, non potendo non invidiarle un poco quell’aspetto da nobildonna nordeuropea.

 

Ma sentì subito il braccio di Calogiuri irrigidirsi.

 

“Qualcuno è geloso?” gli chiese e, mentre Calogiuri si schiariva la voce, la gattamorta alzò gli occhi al soffitto, chiaramente esasperata.

 

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“E dimmi prima un'ultima cosa: sei tu che mi segui, o sono io che seguo te?”

 

Maledizione alle lacrime che scendevano, per quei due deficienti poi! - pensò Imma, mentre assisteva all’ultimo atto del dramma, in tutti i sensi.

 

Mentre cercava di asciugarsele, prima che tornasse la luce, si trovò quasi schiacciata al petto di Calogiuri, che la stringeva fortissimo.

 

Gli ultimi istanti, il rumore di caduta nell’acqua, l’anziana che gridava ed era tutto finito.

 

Le luci improvvise l’accecarono, mentre la platea si esibiva in un applauso scrosciante, soprattutto considerate le dimensioni ridotte del teatro, a cui si unì calorosamente: se lo meritavano proprio.

 

“Allora, vi è piaciuto lo spettacolo? Sempre se lo avete visto,” ironizzò Irene, con un’occhiata eloquente.

 

“Moltissimo,” rispose e Calogiuri la abbracciò fortissimo e le fece eco con un, “moltissimo, anche se è un po’ un pugno allo stomaco.”

 

“Certo che tutti gli spettacoli che abbiamo visto insieme finora, finiscono con i protagonisti che si ammazzano. Scegli sempre cose allegre, Irene,” commentò ed Irene sembrò stupita.

 

“Sì, le ho… l’ho portata insieme a me a rivedere Due Donne Che Ballano.”

 

Lo sguardo di Irene divenne strano, indecifrabile: Imma non capiva se fosse gelosia, disappunto o solo stupore.

 

“Dobbiamo… dobbiamo andare a salutare Amalia, se no non mi perdonerà mai, conoscendola,” propose Irene, cambiando discorso ed alzandosi, “mi ha detto che ci fa passare per i camerini.”

 

Calogiuri pareva ancora un poco rigido: era adorabile quando faceva il geloso!

 

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“Irene!”

 

Amalia, ancora truccata e con la retina della parrucca in testa, anche se vestita in abiti moderni, si abbracciò l’amica.

 

Si chiese come facesse ad essere bella pure conciata in quel modo.

 

“Allora, che ne pensi?”

 

“Mi è piaciuto molto, ma è piaciuto anche a loro: sei riuscita perfino a fare commuovere Imma, che mica è facile!”

 

“No, ma non è giusto! Questa è istigazione a delinquere, dottoressa!” esclamò Amalia, squadrandola in un modo che la fece arrossire, “sei di una bellezza indescrivibile!”

 

Il calore alle guance aumentò esponenzialmente. Calogiuri tossì di nuovo, pure mentre, insieme con lei, faceva i complimenti per la performance.

 

“Amalia, sei quasi pronta?” chiese un uomo che riconobbero come il protagonista, già struccato e rivestito, “ma chi sono? E lei chi è? Una collega? Sei vestita divinamente! Che cos’è? D&G?”

 

“No, qualcosa di infinitamente meno caro,” rispose Imma, decidendo che, in fondo, questi attori le stavano proprio simpatici, “e non sono una collega, anche se con persone che recitano c’ho a che fare tutti i giorni .”

 

“Agenti di spettacolo?”

 

“Avvocati. Sono un magistrato,” rispose, assaporando l’occhiata stupita ed un poco intimorita che accompagnava sempre quella rivelazione, “questo invece è il maresciallo Ca-”

 

“Ma certo! Ecco dove vi avevo già visti! Voi siete quelli del triangolo. E ci sono pure tutti e tre gli angoli! Ma siete una coppia aperta?”

 

“Chiusissima!” pronunciarono all’unisono lei e Calogiuri e poi scoppiarono a ridere.

 

“Va beh… i giornali sapeste quante se ne inventano! C’è di buono che di noi attori di teatro se ne fregano. Sentite, ma perché non venite pure voi a cena con noi, per festeggiare la prima? Amalia, gli altri ci aspettano.”

 

“Sì, dai, venite con noi!”


“Guardate, un’altra volta magari volentieri ma… abbiamo un tornado a casa e vorremmo ritrovarla ancora una casa al rientro.”

 

“Tua nipote?” chiese Irene a Calogiuri, con un sorriso ed un tono zuccherini che le diedero sui nervi.

 

“No, Ottavia, una micetta. L’abbiamo salvata in un parco domenica e non è ancora molto abituata a stare a casa, specialmente da sola.”


“Calogiuri ci sa fare tantissimo con gli animali,” spiegò Irene ed Imma ebbe un moto di fastidio ad avere l’ennesima conferma quanto lo conoscesse bene.

 

“Veramente è Imma che l’ha salvata da uno stormo di oche. Per poco non si faceva mozzare un dito per recuperarla,” spiegò lui, guardandola orgogliosissimo, mentre Irene faceva nuovamente quella faccia strana ed Amalia la guardava come lei guardava Calogiuri e i bomboloni alla crema.

 

“Non rovinarmi la reputazione, Calogiuri!” si schernì lei, procedendo poi a fare i saluti per levarsi dall’imbarazzo.

 

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Aprì la porta e per poco non inciampò: miagolando a decibel inauditi, Ottavia tentò di arrampicarsi sui suoi collant, con ovvi risultati.


Per fortuna erano economici.

 

“Manco Valentina da bimba quando tornavo da lavoro faceva tutte queste scene!” esclamò, prendendola in braccio, nel frattempo che Calogiuri chiudeva la porta, ridendo.

 

“Giochi, divano, coccole e poi a letto?” chiese Imma, nella loro routine ormai consolidata serale.

 

“Sulle coccole e sul letto sarei interessato pure io, dottoressa!” proclamò, dandole un pizzicotto sul sedere che per poco non lasciava cadere Ottavia.

 

“Calogiuri!”

 

“Come ha detto Amalia, sei da istigazione a delinquere, dottoressa!” le rispose, con uno sguardo che le fece salire gli ormoni a mille.

 

Ma prima dovevano addormentare la belva.

 

Anche se… almeno un pizzicotto, pure due, poteva anticiparglielo anche lei.

 

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“Signor giudice, mi chiedo quale credibilità possano avere l’accusa e i testimoni principali di questo procedimento, considerato quanto trapelato dai giornali su possibili… rapporti a tre, e non dico altro.”

 

“Signor giudice, non solo l’avvocato sta dando un’opinione sulla mia persona, che esula da questo procedimento e dalla mia attività professionale, arrivando all’insulto, seppur velato, ma, soprattutto, il maresciallo Calogiuri e la dottoressa Tataranni - perché, avvocato, facciamoli i nomi e cognomi! - sono solo due dei moltissimi testimoni di questo processo. Inoltre, quello che è uscito sui giornali, ed immagino si riferisca alla nostra serata a teatro, dimostra che tra noi c’è sempre e soltanto stato un rapporto di amicizia e collaborazione, smontando quanto emerso nelle foto rubate durante il nostro appostamento a Milano. Se la dottoressa Tataranni fosse stata tradita o se ci fosse tra noi un rapporto torbido e da nascondere, di sicuro non saremmo andati tranquillamente ad una prima teatrale, tutti insieme. E mi permetta di dire che, pure se tra noi ci fosse quello che sta insinuando lei - cosa assurda per chiunque conosca un minimo il maresciallo e la dottoressa, soprattutto, ed il suo carattere! - non vedo come questo inficerebbe le decine, decine e decine di testimonianze e prove raccolte.”

 

Imma si sforzò per rimanere impassibile. La gattamorta era brava in tribunale, le toccava ammetterlo, e l’avvocato era un viscido della peggiore specie. Pure in tralice, vide chiaramente che Calogiuri, al solo menzionare dei rapporti a tre, era diventato fucsia e sembrava in imbarazzo mortale. Quasi peggio di quando avevano visto quell’articolo, intitolato Pensiero Stupendo! che mostrava foto di loro tre a teatro, insinuando che avessero preso molta ispirazione dalla canzone di Patty Pravo.

 

“Avvocato, la prego di essere più rispettoso nei confronti della dottoressa ed evitare attacchi personali che esulano da questo procedimento, altrimenti sarò costretto a prendere provvedimenti.”

 

Ed Irene, in qualche modo, se l’era cavata anche questa volta.

 

Almeno nel gestire il dibattimento le era superiore, questo le toccava riconoscerlo.

 

Ma solo in quello.

 

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“Nulla di fatto, direi, poteva andare meglio, ma poteva anche andare peggio.”

 

Erano in un’aula secondaria, dove la cara collega si stava levando la toga, dopo aver avuto il rinvio all’udienza successiva a marzo.

 

Doveva ammettere anche che nell’analizzare il suo lavoro era molto lucida.

 

E quindi non poteva non esserlo pure lei.

 

“Hai fatto quello che hai potuto: quell’avvocato è peggio pure del precedente, cercherà di distruggerti e distruggerci.”

 

Irene spalancò gli occhi, meravigliata, ma poi le sorrise.

 

“Ed è per questo che… va beh… forse meglio non rivangare quanto successo a Milano, ma… sto facendo calmare le acque, perché dubito che al momento il collega che abbiamo incontrato Calogiuri ed io mi vorrebbe aiutare. E, coi tempi della giustizia italiana, purtroppo e per fortuna, è inutile accelerare ora, rischiando di compromettere tutto. Ma sto lavorando per avere un aiuto lì e… avere informazioni da lui. Se l’avvocato vuole giocare col fuoco, la benzina non mi manca.”

 

L’aveva affermato in un modo talmente deciso che Imma provò un misto di ammirazione ma pure di timore.

 

La gattamorta, quando tirava fuori gli artigli, altro che un Pitbull era!

 

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Una lama di luce negli occhi la costrinse a svegliarsi da un sogno stupendo: c’erano lei e Calogiuri in Giappone, a baciarsi e… non solo quello... su uno di quei pavimenti tipici giapponesi.

 

Non lo sentì addosso, però, cosa insolita, ed allora allungò un braccio per toccarlo, alla cieca, ma sentì solo il letto vuoto, e pure già un poco freddo.

 

“Calogiù?!” chiamò, ma non le rispose nessuno.

 

Manco Ottavia che grattava alla porta.

 

Silenzio.

 

Provando un senso di inquietudine, scese dal letto, si infilò le sue ciabatte pelose leopardate, la vestaglia coordinata e si avviò, in punta di piedi, verso la porta, quasi tentata di prendere un oggetto contundente, ma non ce lo aveva.

 

Se fosse stata ancora con Pietro, avrebbe potuto dare il sax in testa a qualcuno. Che sarebbe stato solo che un bene per tante persone.

 

Aprì la porta e c’era ancora un silenzio perfetto, ma una luce proveniva dalla zona cucina. Afferrò la prima cosa che le venne tra le mani, ovvero la statuetta da leopardo in ceramica, e si avviò, quatta, quatta.

 

Vide un’ombra e stava per sferrare un colpo, quando un “ma che sei matta?!” la bloccò prima che fosse troppo tardi.

 

“Calogiù?! Ma sei tu che sei matto! Un colpo mi hai fatto prendere!” urlò, appoggiando la statuetta a terra, una mano sul cuore, che galoppava.

 

“Volevo farti una sorpresa.”

 

Si guardò intorno e ci trovò diverse scatole ed alcune cose colorate sparse sul divano.

 

“Ma… ma….”

 

“Oggi è l’otto dicembre, il tuo onomastico, e poi… è il giorno per decorare casa per natale.”

 

Se avesse avuto un euro per tutte le volte in cui l’aveva fatta commuovere, sarebbe stata più ricca della gattamorta.

 

“E che volevi farlo senza di me, Calogiù?” gli chiese, fintamente arrabbiata, ma poi gli buttò le braccia al collo e gli saltò in braccio.

 

“Imma… se fai così… qua altro che decorazioni!”

 

“Pure quello potrebbe essere un regalo per il mio onomastico, no? Anche se non proprio disinteressato da parte tua!” esclamò, staccandosi però a forza per guardare gli addobbi che erano appoggiati sul divano, in attesa di essere appesi, “ma la belva dov’è?”

 

“In bagno, con ciotola e giochi, prima che distruggesse tutto ancora prima di appenderlo. Credimi, i gatti vanno pazzi per le decorazioni natalizie. Un anno il gatto che avevamo a Grottaminarda ha tirato giù l’albero, che per poco non ci rimanevano sotto lui e mia madre.”

 

Si trattenne dal dire che, tutto sommato, il gatto avrebbe sacrificato una delle sue sette vite per una buona causa.

 

“E infatti l’albero lo hai evitato, Calogiù? Che non lo vedo.”

 

“No, non l’ho evitato… è solo che… volevo prima sistemare il resto e levare le scatole, che lo spazio è quello che è,” spiegò, aprendo la porta di ingresso dove c’era un altro scatolone, il più grosso.

 

“Allora mo ci facciamo colazione, che la festeggiata c’ha fame, e poi sistemiamo tutte queste cose che hai preso!”

 

Stava per avviarsi quando il contenuto di una scatola la fece fermare sui suoi passi.


“Palline di natale leopardate? Ma dove le hai trovate?!” gli domandò, perché manco lei era mai arrivata a tanto.

 

“Internet, dottoressa.”

 

“Sei sempre stato bravo a fare le ricerche, Calogiù, ma occhio a cosa ci cerchi su internet,” lo prese in giro, puntandogli un dito al petto, prima di baciarlo rapidamente e correre verso la cucina, inseguita da passi rapidi che promettevano molto di buono per lei.

 

In fondo le decorazioni un’altra ora potevano pure attenderla!

 

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“Mi sembra che sia venuto proprio bene, Calogiù! Peccato per le lucette.”

 

“Eh ma coi gatti, avere fili in giro è un invito al disastro… e poi mi sembra già abbastanza... decorato così.”

 

In effetti era pieno di palline paillettate e leopardate, a sfondo dorato o nero, più le classiche monocolore rosse e dorate. Persino il puntale era un tripudio di lustrini.

 

Non poteva ancora crederci che Calogiuri avesse veramente comprato delle cose simili, soltanto per farla contenta.

 

Lo vide piazzare una specie di cancelletto tutto intorno alla base dell’albero, che andava oltre ai rami più bassi e poi estrarre delle bombolette spray.

 

“Che cos’è? Neve finta?”

 

“Aroma alla citronella ed uno all’arancia. Dicono che i gatti odino questi odori, almeno evita di arrampicarsi e farsi male, anche se in teoria l’albero dovrebbe essere ben fissato al soffitto e al muro.”

 

“E se fa schifo pure a noi, oltre che a Ottavia?”

 

“E va beh… vorrà dire che terremo le finestre aperte per un po’ e lo spray alla citronella lo ricicleremo come antizanzare per questa estate.”

 

Lo spruzzò abbondantemente su tutti i rami e le decorazioni e in effetti l’odore non era poi così male, grazie soprattutto all’arancia, che faceva molto natale.

 

“Mo però liberiamo la belva, che ne dici?”

 

“Prima ho un regalino per lei e per te,” proclamò ed Imma non sapeva più che pensare: come poteva ripagare tanta generosità?

 

Le porse un pacchettino un poco allungato ed Imma lo aprì e ci trovò uno di quei bastoncini che Ottavia amava tanto, ma con una striscia leopardata al posto delle piume.

 

“Almeno magari si distrae dalle decorazioni e poi… quando l’ho visto, non ho resistito.”

 

In un secondo gli era di nuovo in braccio, forse con troppa foga, perché si sentì cadere in avanti, ma per fortuna finirono seduti sul divano.

 

“La più pericolosa sei tu, dottoressa, decisamente, almeno per la mia salute,” le sussurrò, accarezzandole il viso.

 

“C’hai un’idea di quanto ti amo? Mannaggia a te!”

 

Gli occhi di Calogiuri brillarono ancora più del solito e fu stretta in un abbraccio a morsa.

 

“Grazie… grazie... ti amo da impazzire,“  le sussurrò, in un modo che era a dir poco straziante.

 

Si rese conto solo in quel momento che, in effetti, dopo gli eventi di Milano non glielo aveva più detto, nemmeno in risposta alle sue bellissime dichiarazioni.

 

Non perché non lo pensasse, anzi, ma forse per un poco di paura residua.

 

Ma con Calogiuri era proprio impossibile mantenere qualsiasi barriera.

 

Altro che lo spray alla citronella!

 

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“Non so se la distrazione funzionerà, Calogiuri!”

 

Ottavia si era pure interessata al giochino nuovo ma, da quando aveva visto l’albero, dopo essercisi fiondata, per poi ritrarsi, con quello sguardo schifato degno di lei, continuava comunque a girarci intorno, tipo lo squalo, anche se a distanza di sicurezza.

 

“Ci si abituerà. O almeno spero. Dovremo giocare di più con lei nei prossimi giorni.”

 

E che gli poteva dire? Sarebbe stato veramente un padre incredibile!

 

Forse gli animali coi quali era cresciuto lo avevano reso più sensibile e, allo stesso tempo, gli avevano dato il polso necessario per non farsi mettere le zampe in testa, almeno da loro.

 

Anche se, pure con gli umani, stava molto migliorando.

 

“Peccato solo che non saremo qua a natale!” sospirò, perché una gran parte di lei non avrebbe voluto essere da nessun’altra parte.

 

Ma Valentina si meritava delle feste con entrambi i genitori presenti e non a cinquecento chilometri di distanza.

 

“In che senso?” le chiese lui, con uno sguardo strano.

 

“Io devo essere a Matera, Calogiuri, lo sai e… e non fraintendermi, vorrei tanto che ci fossi pure tu ma… se dovessi decidere di andare a Grottaminarda lo capirei. Insomma c’è la tua famiglia e-”

 

“La mia famiglia sta già qua,” proclamò in un modo che la ridusse in pappa per l’ennesima volta quel giorno, “Noemi e Rosa posso pure vederle in un altro momento. E gli altri… peggio per loro! Io il natale quest’anno lo faccio con te e non si discute!”

 

Gli finì di nuovo in braccio e poi lo baciò, senza fretta, dolcemente, ignorando i miagolii un poco gelosi che le arrivavano da vicino ai piedi.

 

Lo squillo del cellulare di Calogiuri interruppe quel momento magico.

 

Lo vide estrarlo dalla tasca e poi fare un’espressione di chi teme un’esplosione.

 

“Irene?” gli chiese e Calogiuri annuì.

 

Era peggio di Pietro ai tempi, ma veramente!

 

“Rispondi, dai. In fondo è raro ormai che ti chiami fuori servizio.”

 

Dopo il teatro tutti insieme, l’articolo di giornale e l’udienza, Irene aveva mantenuto le distanze di sicurezza e non aveva più invitato Calogiuri ad altre uscite culturali.

 

“Pronto?” le chiese e Imma vide, ancora prima di udire, che la mise subito in vivavoce.

 

Aveva proprio imparato per bene la lezione, Calogiuri.

 

“Ti disturbo?”

 

“No, in realtà… stavamo finendo con Imma di decorare casa per natale.”

 

Le venne da sorridere, immaginando il travaso di bile della gattamorta.

 

“Proprio per questo ti chiamavo. Cioè, non per le decorazioni natalizie, ma perché… Bianca vorrebbe tanto venirvi a trovare prima di natale, per darvi un regalo. E me lo chiede in continuazione.”

 

Calogiuri la guardò, come a domandarle il da farsi.

 

Imma spinse il pulsantino per mettere in muto il microfono del cellulare e poi rispose, “ma certo che può venire, Calogiù, però avvisala che ci sta pure Ottavia e… non vorrei che Bianca si spaventasse.”

 

Il sorriso ed il bacio di Calogiuri furono i regali più belli, e poco importava se avrebbe dovuto sopportare la gattamorta a casa sua.

 

Anzi, a casa loro.

 

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“Benarrivate!”

 

Calogiuri, ospitale come sempre, fece passare Bianca, abbigliata con un adorabile vestitino rosso a quadri che faceva tanto natale. Pure Irene indossava un abito simile, con una giacca dello stesso colore.

 

Erano bellissime, mannaggia a loro! Sembravano uscite da una pubblicità.

 

“Ciao…” sussurrò Bianca, un poco intimidita, guardandosi intorno.

 

Imma aveva cercato di riordinare il più possibile - con l’aiuto di Calogiuri, ovviamente - ma il loro appartamento non era certo lontanamente paragonabile a quello della gattamorta.

 

“Vieni… vuoi accomodarti sul divano?” le chiese, facendole l’occhiolino ma, in quel momento, ci fu un miagolio e si trovò afferrata per le gambe, Bianca che si nascondeva dietro ai suoi polpacci, mentre Ottavia si avvicinava, stiracchiandosi in modo regale e guardando verso la bimba, con il musetto inclinato.

 

“Buona, Ottavia: non essere impaziente come al tuo solito, mo!” la redarguì, abbassandosi per darle due carezze, mentre la micia, per fortuna, rallentava nell’avvicinamento.

 

“Chissà da chi ha preso sull’impazienza!” commentò Irene e sentì Calogiuri ridere.

 

Ma su quello, almeno, non poteva dare loro torto.

 

Poi la prese in braccio, in modo che non potesse sfuggirle, continuando ad accarezzarla per tenerla tranquilla.

 

Sentì, dopo poco, che la morsa ai polpacci si allentava e Bianca guardò verso di lei, sembrando a sua volta curiosa.

 

“La vuoi accarezzare pure tu? Basta fare piano,” le spiegò, mostrandole come si faceva.

 

La bimba fu un attimo indecisa ma poi allungò una mano, talmente tremante che le ricordava quasi le prime dolcissime carezze che le aveva fatto Calogiuri.

 

Trattenne il fiato, sperando che Ottavia non ne combinasse una delle sue, ma alla fine Bianca riuscì a toccarla. La micia le sfregò prima la testa sulla mano e poi prese a leccargliela, facendo le fusa.

 

Per fortuna restava sempre una ruffiana!

 

“Ma è ruvida!” esclamò Bianca, ridendo, la lingua di Ottavia che evidentemente le faceva il solletico.

 

Poi la bimba, presa confidenza, si guardò intorno ed Imma vide i suoi occhi illuminarsi di fronte all’albero, miracolosamente sopravvissuto agli assalti di Ottavia di quella settimana.

 

“Ma è bellissimo!” esclamò, entusiasta, “non è vero, Irene?”

 

La cara collega fece un’espressione di chi stava trattenendosi tantissimo dal fare qualsiasi commento e poi annuì.

 

“Senti, Bianca, se… se te la senti… ti lascerei qui con Imma e con Calogiuri ed andrei a fare un paio di commissioni. Ti va ? In qualsiasi momento ovviamente mi puoi chiamare.”

 

Imma rimase un attimo sorpresa da quell’iniziativa e si chiese se fosse per testare le acque con Bianca su cosa riuscisse a fare da sola, o se perché Irene preferiva evitare di stare troppo tempo lì con loro.

 

Bianca li guardò un attimo, a turno, e poi annuì.

 

Irene sorrise e se la abbracciò fortissimo, prima di dirle, “se hai bisogno mi chiami ed arrivo subito subito.”

 

E poi con un sorriso ed un grazie! che sembrò veramente sentito, sparì fuori dalla porta.

 

Imma si scambiò uno sguardo con Calogiuri: e che facevano mo?

 

Bianca pure li guardava, sembrando intimidita ed un poco in apprensione.

 

“La vuoi una cioccolata calda? E poi abbiamo una cosa per te,” propose Calogiuri, mostrandole il pacco regalo a lei destinato.

 

Bianca sorrise e se lo abbracciò, ridendo ancora di più quando la prese in braccio.

 

“Ho capito, la cioccolata la faccio io. Voi però mi curate questa signorina,” propose Imma, poggiando Ottavia per terra, che subito saltò addosso a Calogiuri, volendo pure lei un po’ di coccole.

 

Imma quasi non poteva credere ai propri occhi: quando aveva conosciuto il timidissimo appuntato di Grottaminarda, dagli occhi enormi ed azzurri sempre piantati al pavimento, mai e poi mai avrebbe pensato di potere un giorno vivere un momento simile con lui.

 

Se qualcuno gliel’avesse detto, gli avrebbe consigliato di andare a farsi fare una bella perizia psichiatrica.

 

Eppure… eppure era tutto vero e non avrebbe potuto essere più felice di così.

 

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“Buonissima, grazie, Imma!”

 

Sorrise, intenerita, perché Bianca era educata, educatissima, tanto che pareva molto più grande.

 

Non fosse stato per quegli adorabili baffetti di cioccolata calda che le ricordavano che, in fondo, aveva solo sette anni.

 

Le passò un tovagliolino di carta, facendole segno di pulirsi e poi Bianca aprì la borsettina nera che aveva a tracolla - e che chissà quanto costava! - e ne estrasse un pacchettino.

 

“Questo è per voi… non è molto, ma la mia maestra mi ha detto che i regali più belli sono quelli fatti da noi.”

 

Guardò Calogiuri, più squagliato di un pupazzo di neve a primavera, e si chiese se anche lui pensasse al fatto che Bianca avesse ancora un’insegnante privata, a casa, visto che non riusciva ad uscire.

 

Non sapeva bene perché, ma le venne in mente Clara di Heidi.

 

Prese il pacchettino, lo aprì con delicatezza e ci trovò, nell’ordine, un disegno che, con tratti adorabilmente infantili, ritraeva quelli che dovevano essere Bianca, Irene e loro due tutti insieme a giocare con le bambole. Bianca le aveva dettagliate al punto che si riconoscevano Elsa, Anna e pure la bambola Imma.

 

E poi, sotto la carta, trovò delle decorazioni natalizie fatte a mano: degli alberelli realizzati con nastrini colorati, delle stelle di bottoni e delle palline di lana a pompom.

 

“Grazie! Le appendiamo subito all’albero, vero, Calogiù?” gli chiese, e lui, per tutta risposta, se le abbracciò entrambe, Bianca che rideva ed Ottavia che gli era saltata sulla testa.

 

Dopo aver messo il tutto in posti ben visibili, passarono a Bianca il suo di pacchetto.

 

La bimba cercò di scartarlo ordinatamente, ma Imma le disse, “strappa pure, dai, è solo carta!”

 

Bianca fece un risolino - probabilmente non c’era abituata a poter fare confusione - e strappò con entusiasmo, finché vide il regalo e rimase come ammutolita, immobile.

 

“Che c’è? Non ti piace?” chiese Imma, preoccupata, mentre la bimba continuava a fissare il castello di Frozen che le avevano comprato.

 

“No, cioè… è… è bellissimo!” esclamò Bianca, e scoppiò a piangere, abbracciandola di nuovo.

 

Imma non sapeva che dire e manco Calogiuri, che pareva pure lui sull’orlo delle lacrime.

 

Continuò a tenerla stretta, finché Bianca stessa non si staccò.

 

“Però… però lo lascerei qua, così… posso venire a giocarci con voi,” propose poi Bianca e fu il colpo di grazia.

 

“Tu qua puoi venirci quando voi, hai capito? E con tutti i giochi che ti pare. Però con Ottavia in giro… mi sa che il castello è meglio se lo tieni tu al sicuro, prima che ci faccia la cuccia. E poi possiamo venirti a trovare pure noi.”

 

Mentre Bianca di nuovo si faceva abbracciare, Imma si sentì passare un braccio intorno alle spalle ed un “ti amo!” tremolante che le venne sussurrato all’orecchio.

 

Posò la mano su quella di Calogiuri e si appoggiò al suo collo, chiedendosi se fosse troppo sognare che, un giorno, momenti come quelli potessero essere la normalità per loro, tra un casino e l’altro.

 

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“Dottoressa, io avrei finito. Voi a che punto siete?”

 

“Al punto in cui mi chiedo perché mi dai ancora del voi quando non ci sta nessuno in giro, Calogiuri,” rise, finendo di sistemare le ultime cose sulla scrivania ed alzandosi, “Asia è già andata, chissà che doveva fare questo weekend!”

 

“E allora… possiamo andare pure noi?” le domandò, speranzoso, ed Imma si avvicinò e, dopo essersi accertata che fossero soli, gli piantò un bacio sulle labbra.

 

“Sì, Calogiuri, anche perché se no chi la sente a Valentì!”

 

Imma aveva deciso di fare una cosa per lei inconcepibile fino solo ad un paio di anni prima: aveva anticipato le ferie natalizie di un paio di giorni, in modo di poter già arrivare di venerdì sera a Matera.

 

Avevano un sacco di cose da sistemare ed in sospeso, innanzitutto prendere le sue cose da… da casa di Pietro. Non ne aveva voglia, affatto, ma… sapeva di non poter più rinviare.

 

Si infilò il cappotto, la borsa e stavano per avviarsi sulle scale, quando una voce, ben poco amata, li fermò.

 

“Imma, Calogiuri, aspettate!”

 

Irene.

 

Mancini stranamente non si era fatto vedere, aveva solo fatto una faccia un poco strana quando gli aveva chiesto ferie per sé e per Calogiuri per quei due giorni, un paio di settimane prima.

 

Ma gliele aveva concesse, senza fiatare, pure troppo.

 

“State per partire per Matera?”

 

“Sì, sì,” rispose Calogiuri, mentre Irene divenne intelliggibile e gli passò una busta, “Bianca mi ha raccomandato di darvela, prima che partiste.”

 

Incrociò lo sguardo di Calogiuri e gli fece segno di pure aprirla.

 

Ci trovarono un altro foglio A4, ripiegato in due, ed aprendolo videro un disegno, con lo stile inconfondibile di Bianca, che raffigurava di nuovo loro quattro e pure Ottavia, stavolta, con dietro delle specie di quadrati bianchi e grigi che si arrampicavano su una montagna.

 

I Sassi, anche se semplificati e un po’ deformati, com’era ovvio per una bimba di quell’età.

 

Si maledisse perché non voleva mettersi a piangere davanti alla gattamorta, ma pure lei sembrava abbastanza provata e colpita.

 

“Allora… buone vacanze!” augurò loro, allontanandosi a passo rapidissimo, prima che potessero dire qualsiasi cosa, sparendo nel suo ufficio.

 

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“Ma fa sempre così casino? La sento pure con le cuffie!”

 

Figurati noi! - pensò Imma, voltandosi verso il sedile posteriore del furgoncino che avevano noleggiato per tornare a Matera e fare poi il famoso trasloco.

 

C’era Valentina, con un sopracciglio che le arrivava fino all’attaccatura dei capelli, tra un po’, ed il trasportino con dentro Ottavia che si lamentava.

 

“Sai, è la prima volta che la portiamo a fare un viaggio così lungo, magari potresti coccolarla un po? Tenendola col guinzaglio, però, non che ci salti qua davanti, che è pericoloso,” propose Calogiuri, guardandole dal retrovisore.

 

“Pure la cat sitter mi tocca fare?” sospirò Valentina, ma fece come chiesto e Ottavia, non appena fu liberata, cercò di proiettarsi, come da lui predetto, verso Imma.

 

“Questa gatta ti somiglia fin troppo, mà,” rise Valentina, mettendosela in grembo e cominciando ad accarezzarla.

 

Dopo poco, la micia smise di protestare e si spaparanzò a pancia in su sulla sorellona, per farsi coccolare meglio.


A volte sembrava un cane, più che un gatto.

 

“Quante ore mancano ancora all’arrivo? Giusto per capire se ho speranza di arrivarci intera a Matera.”


“Almeno quattro ore, Valentì, porta pazienza!” sospirò Imma, anche se una parte di lei sperava che quei momenti tutti insieme non finissero mai.

 

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“Io ho la stanza che era tua, mà, vero?”

 

L’espressione quasi spaventata di Valentina la intenerì tantissimo.

 

“Tranquilla, Valentì, la camera di nonna ce la prendiamo io e Calogiuri. E poi comunque immagino vorrai stare anche qualche notte da tuo padre, per par condicio.”

 

“Non lo so, mà, dipende se ci sta Cinzia Sax o no. Sai che la reggo poco e li reggo poco, soprattutto. Mi chiedo perché papà ci stia ancora insieme e non ne cerchi un’altra.”

 

“Signorina, tuo padre è più che adulto e non sta a noi giudicare perché stia o non stia con Cinzia Sax. Ma resta tuo padre e a natale avete entrambi tutto il diritto di passare un poco di tempo insieme.”

 

“Lo so e… voglio stare anche con papà, ovviamente, è solo che… vorrei vederlo felice!” esclamò, ed Imma avvertì nettissima una fitta di senso di colpa, mentre Calogiuri guardava intensamente una piastrella vicina al divano, “non ce l’ho con voi, lo so che… che tu e papà non lo eravate più, felici. Ma non ci sarà mica solo sta Cinzia al mondo, no?”

 

E poi Valentina sparì in camera, Ottavia che, stranamente, la seguì, invece di attaccarsi a loro.

 

“Prepariamo pure noi il letto, Calogiù?” gli domandò, perché era tardissimo e doveva essere esausto, dopo un’intera giornata di lavoro e più di sei ore al volante.

 

In silenzio e con il cuore in gola, entrò in quella che era stata la camera di sua madre.

 

Si sentì subito abbracciare forte forte da dietro.

 

“Tranquillo, Calogiuri, mi fa… mi fa meno impressione di quanto credevo, forse perché ci siete tutti voi,” lo rassicurò e si stupì nel constatare che era vero.

 

Anche se… forse avrebbe dovuto cambiare tutti i mobili ma… ma non ne aveva la testa, non con tutto quello che c’era già in ballo.

 

Ma sentiva che nelle braccia di lui avrebbe potuto affrontare ogni fantasma.

 

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Si svegliò di colpo, confusa, non capendo dove si trovasse.

 

E poi mise a fuoco e si rese conto di essere nella stanza di sua madre.


Sarà stata la stanchezza ma… si era addormentata quasi di sasso, abbracciata a Calogiuri.

 

Si rese conto subito però che proprio lui mancava all’appello.

 

Ed, improvvisamente, quella stanza tornò a farle un poco di effetto, un brivido che le corse lungo la schiena.

 

Dei rumori e delle risate, però, le scaldarono il cuore e si affrettò ad infilarsi vestaglia e ciabatte e raggiungerli.

 

“Ti sei svegliata, finalmente, mà!”

 

Il tono birichino di Valentina la accolse e li vide insieme ad una scatenata Ottavia, che cercava di raggiungere un mini albero di natale posto sopra ad un mobile in salotto e che Calogiuri stava già fissando con abbondante nastro adesivo.

 

Ma, soprattutto, la colpirono le decorazioni: quelle di Bianca e qualche pallina pailettata e leopardata.

 

“Non è come l’originale ma… almeno un poco di casa ce l’abbiamo anche qui!”

 

“Vorrai dire che non è un pugno nell’occhio come l’originale, giusto un buffetto nell’occhio,” li sfottè Valentina, ma Imma era troppo felice per provare anche solo a replicare.

 

Finalmente, dopo tanti anni, sarebbe stato davvero un natale in famiglia.

 

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“Cominciavo a temere non veniste più.”

 

Il tono di Pietro era asciutto, tirato, come la sua espressione, quegli occhi azzurri che apparivano appannati.

 

“Scusa ma… non è stato facile trovare posto al furgone: la piazza è piena per le compere di natale. Forse fare questo lavoro di sabato non è stata una buona idea.”

 

“Ormai… via il dente e via il dolore, no?” pronunciò lui, con l’aria di chi però non credeva ad una sola parola di quello che aveva appena detto.

 

E poi notò che guardava verso Calogiuri, che se ne stava ancora fuori, alle sue spalle, l’aria di chi avrebbe preferito qualsiasi cosa al trovarsi lì.

 

“Si accomodi, maresciallo. Immagino che tanto… saprà la strada….” ironizzò Pietro, e Calogiuri dire che fosse mortificato sarebbe stato un eufemismo.

 

“Pietro!” ruggì, infastidita.

 

“Veramente io… io qua non ci ho mai messo piede, signor De Ruggeri. Dove… dove sono le cose pesanti che devo trasportare?” gli chiese, alzando per un attimo lo sguardo, per affrontarlo, in un moto di fierezza di cui Imma fu orgogliosissima.

 

Pietro parve incassare il colpo ma c’era una tensione tale, compressa nell’ingresso di quella che una volta era casa sua, che Imma sperò che i colpi rimanessero solo figurati e di non dover iniziare le feste di natale al pronto soccorso.



 

Nota dell’autrice: Ed eccoci alla fine del quarantanovesimo capitolo. Il prossimo sarà il cinquantesimo e non mi par vero di avere scritto così tanto!

Come avete visto, con questo capitolo ci avviamo ad atmosfere più natalizie e siamo giunti a Matera. Ma non temete, perché la parte più “sdolcinata” del natale è abbastanza conclusa (anche se ci saranno ancora diversi momenti dolciosi) e nel prossimo capitolo, complice l’essere a Matera… succederà di tutto, anche slegato dalle festività in sé. Dopo la parte piacevole dello stare in famiglia, nel prossimo… chissà ;).

Spero che questo capitolo, anche se dalle atmosfere particolari, vi sia piaciuto e vi ringrazio tantissimo per avermi seguita fin qui.

Un grazie enorme a chi mi ha lasciato una recensione: mi fanno sempre tanto piacere e sono uno stimolo incredibile per me nel proseguire e nel correggere le cose che vanno meno. Un grazie anche a chi ha messo la mia storia nei preferiti o nei seguiti.

Il prossimo capitolo arriverà tra due settimane, domenica 6 dicembre.

Grazie ancora!

 
   
 
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