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Autore: Saelde_und_Ehre    29/11/2020    3 recensioni
Due aviatori britannici sono impegnati nella guerra contro i giapponesi sul fronte del Pacifico. Durante le battaglie sono abituati a cavarsela anche nelle situazioni più estreme, ma i pericoli peggiori sono quelli che giungono inaspettati.
Genere: Azione, Hurt/Comfort, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Capitolo 3

L’unica cosa di cui MacPhearson poteva ritenersi abbastanza sicuro, era che i territori occupati dagli alleati si trovavano a nord. Tuttavia, per quanto avesse camminato per allontanarsi dal luogo dello schianto, nonostante il piede che gli faceva male a ogni passo, non riusciva a scorgere la fine di quella foresta infida, né poteva essere certo di non stare in realtà girando intorno a un punto morto.
A rendere più faticosa la marcia, di tanto in tanto radici sporgenti gli facevano lo sgambetto e il fango gli risucchiava gli stivali, mentre animali mai visti lo scrutavano furtivi dagli alberi.
Alzò lo sguardo verso il cielo: l’oscurità cominciava a calare, lenta ma inesorabile. Avrebbe dovuto trovare un rifugio per la notte, più per l’impossibilità di proseguire col buio che per l’esigenza di un riposo che sapeva essergli precluso. Quando stava in Scozia gli era capitato diverse volte di accamparsi sotto le stelle insieme a suo fratello, ma la differenza stava nel fatto che l’ambiente in cui si trovava non gli ispirava alcuna fiducia.
Approfittò degli ultimi strali di luce per individuare il posto adatto, quindi si arrampicò su una formazione rocciosa ai piedi di uno stagno e lì allestì il suo accampamento per la notte.
La sua posizione, che gli permetteva di vedere anche al di là dei cespugli più alti, gli diede il tempo di effettuare una rapida ispezione prima che le ombre inghiottissero tutto.
Col sopraggiungere del buio, anche la temperatura si abbassò, e la divisa umida divenne una sorta di seconda pelle fredda e viscida. Nel suo bagaglio c’erano dei vestiti di ricambio, ma il solo pensiero di eseguire un’operazione così delicata in quel frangente bastò a farlo rabbrividire per l’orrore.
Per scaldarsi si limitò ad avvolgersi nel giubbotto da aviatore foderato di pelliccia, quindi usò gli ultimi accendini che gli rimanevano e accese un fuoco con un fascio di legni marci.
Forse sarebbe servito a tenere lontane le belve, ma non i giapponesi. “Di notte, in trincea, mai accendere tre sigarette con un solo fiammifero,” ripeteva sempre suo fratello William, che in quel momento si trovava in Nordafrica con un reggimento di fanteria. “Il fuoco desta l’attenzione dei cecchini.”
Se dovessero arrivare non mi farò cogliere impreparato, pensò. Tolse la pistola dalla fondina e rimosse la sicura.
Infine, appoggiò la schiena allo zaino e si sedette per terra, lasciando che il tepore del fuoco gli sciogliesse le membra intorpidite. Mangiò un panino spiaccicato dalla sua riserva di cibo, poi tirò fuori carta e penna e ricominciò da capo la risposta per suo fratello, alla quale si sentì in dovere di aggiungere i dettagli sulla sua disavventura.
Subito sotto le rocce, un coro di ranocchie gracidava sguazzando nello stagno; dagli alberi si levava il canto di qualche uccello notturno. Friniti e ronzii riempivano il silenzio, mentre il fuoco crepitava e scoppiettava.
Un’improvvisa detonazione lo fece sobbalzare, scivolò in copertura e la mano corse ad afferrare la pistola. Un paio di uccelli sbatterono le ali spaventati. Seguì qualche istante di sospensione, poi altri spari in rapida sequenza rimbombarono amplificati dall’eco. Altri uccelli svolazzarono via.
MacPhearson rimase immobile. Aveva riconosciuto il suono: erano fucili giapponesi. Ne aveva sentiti pochi, essendo poco avvezzo agli scontri di terra – e si augurò di non compensare quella lacuna, dopo aver assaggiato il piombo degli italiani – ma ricordava ancora molto bene le poche volte che li aveva sentiti. Quello poteva voler dire solo una cosa: qualcuno degli uomini che si erano buttati col paracadute si era imbattuto in una pattuglia nemica.
Il pensiero che quegli spari potessero essere per Fowler – l’unico che conoscesse, tra tutti i passeggeri dell’aereo – gli fece stringere i denti. Anche se non poteva definirlo suo amico, era pur sempre un suo compagno di squadriglia, un suo commilitone, uno che volava con lui da anni. Un bravo pilota, uno su cui poter contare durante una caotica battaglia aerea: quando volavano in formazione e si guardava alle spalle, scorgere il muso dentato dello Spitfire di Fowler era per lui come una garanzia che l’altro gli avrebbe coperto le spalle, come quella volta contro l’Aquila Prussiana.
E ora poteva essere ferito, forse sperduto nella giungla, forse morto…
“Sei un idiota, Fowler,” ringhiò tra sé e sé.
Decise tuttavia che l’indomani sarebbe andato a cercarlo, vivo o morto che fosse.

Immobile, il viso affondato nel fango, il sergente Fowler pensò di essere morto.
L’odore del sangue che impregnava l’uniforme si mescolava a quello del fango e delle foglie putride, risalendogli fino alle narici a zaffate che gli davano la nausea. Di lontano, come ovattate, gli giungevano ancora le voci dei giapponesi che parlamentavano tra loro.
La lucidità ricompariva a tratti, lo abbacinava come un fascio di luce improvvisa, poi lo faceva di nuovo ripiombare nel buio.
In uno dei pochi sprazzi di coscienza, il dolore lo colpì di nuovo come una frustata e gli infuse nelle vene quel primordiale istinto di sopravvivenza tipico degli animali in pericolo. Le voci dei giapponesi si erano acquietate, e in ogni caso non aveva alcuna intenzione né di morire lì come un povero maccabeo, né di farsi catturare da loro. L’aroma del curry e dell’incenso continuava a solleticargli il naso, quasi come una beffa. Ma se fosse riuscito a raggiungere il villaggio…


Thomas si appiattì contro il muro e arrischiò cautamente la testa al di là del bordo: ciliegie mature ornavano l’albero come decorazioni natalizie, di un rosso così lucido da sembrare smaltate. Dopo settimane intere a mangiare soltanto porridge, fagioli stufati e patate farcite, bastò la sola vista a fargli torcere lo stomaco per la fame.
In quell’ora pigra e senza vento, nemmeno le foglie del giardino si muovevano e, come ogni giorno, il signor Chapman doveva essere immerso nel suo sonno pomeridiano.
Indugiò ancora per qualche istante, la schiena appoggiata al muretto scrostato. Una ragazza in bicicletta passò canticchiando una canzone, la voce stonata che si sovrapponeva al fastidioso cigolio delle ruote, e svoltò l’angolo senza far caso a lui.
Quando fu sicuro che fosse abbastanza lontana, poggiò i gomiti sul muretto, lanciò un’ultima occhiata alle proprie spalle, poi si issò a forza di braccia e balzò agilmente sul prato del suo vicino.
Camminando curvo per non farsi vedere, raggiunse l’albero, si tolse il cappello e iniziò a riempirlo di ciliegie.
Il rumore di una finestra che si apriva lo costrinse ad aggrapparsi all’albero, come se desiderasse diventare un tutt’uno con esso. “Ehi, ragazzino!” gridò irato il signor Chapman. Da lì, Thomas non riusciva a vederlo, ma gli sembrava quasi di ritrovarsi davanti il suo volto paonazzo, con le narici dilatate e le vene che si gonfiavano. Cercò di minimizzare il respiro, mentre rivoli di sudore freddo gli scendevano lungo la fronte. “Ragazzino, dico a te! Non fare il finto sordo!”
Il ragazzo non rispose; sperò soltanto che Chapman si convincesse di avere avuto un’allucinazione e tornasse in casa. Tuttavia, qualche istante dopo la porta si aprì e il padrone di casa iniziò a percorrere a grandi falcate la distanza che li separava, agitando un bastone. “Ragazzino, guarda che so chi sei!”
Thomas rabbrividì, col terrore che gli si agitava nel petto e gli impastava la gola: se suo padre fosse venuto a sapere che rubava le ciliegie, altro che cinghiate…
L’istinto gli suggerì di fuggire a gambe levate, sapendo che nessuno in quel quartiere sarebbe riuscito a eguagliarlo in velocità, ma le sue membra erano come paralizzate.
Un dolore bruciante gli lambì la gamba e, quando abbassò gli occhi, si avvide che i suoi pantaloni erano intrisi di sangue dal ginocchio al polpaccio. La parlata di Chapman era divenuta incomprensibile – sembrava una di quelle lingue esotiche di cui si parlava nei romanzi d’avventura che comprava con pochi risparmi prima che la crisi economica investisse anche la sua famiglia.
Ma era davvero Chapman, quello? Lanciò uno sguardo furtivo nella sua direzione e vide un ometto dal viso schiacciato e scuri occhi a mandorla, che lo fissava con astio.
In mano teneva un fucile. Lo caricò e lo puntò contro di lui…


Fowler strinse i denti e con le ultime forze che gli rimanevano riprese a strisciare facendo forza sui gomiti, a tentoni come un cieco, senza sapere dove sarebbe finito: l’unica cosa che gli importava era allontanarsi da lì e in fretta.
Forse era quella la direzione giusta, forse no, ma che importava? L’unica cosa che importava era allontanarsi da lì.
Si ritrovò invischiato in un groviglio di piante intorno alle quali si annidavano nugoli d’insetti, incontrò una pendenza e ruzzolò lungo un declivio, travolgendo cespugli e spezzando rami.
La caduta si arrestò su un letto di foglie marce, che crepitarono appena sotto il suo peso.
L’atmosfera era greve e malsana, appesantita dai miasmi palustri, infestata da zanzare che lo intontivano col loro ronzio.
Gli parve di sprofondare nell’incoscienza, mentre strane ombre barcollavano dinanzi al suo sguardo allucinato e creature dagli occhi fosforescenti lo osservavano ridendo in segno di scherno.
Forse era tutto un sogno, forse si era addormentato sull’aereo, forse si era schiantato insieme agli altri e quella era solo un’illusione post-mortem. Oppure…
Tutto perse improvvisamente d’importanza, e la sua coscienza sprofondò nell’oblio.

L’alba lo colse ancora sveglio, diffondendo una luce verdastra che trapelava dalle cime degli alberi. Il fuoco era ridotto a un ammasso di braci sfrigolanti da cui si levavano esili serpentelli di fumo. Il sergente MacPhearson lo soffocò del tutto, attento a non lasciare neanche un carbone acceso, quindi si mise lo zaino in spalla e, recuperato il bastone, si incamminò nella direzione da cui aveva sentito provenire gli spari.
Procedeva claudicando, le orecchie tese e gli occhi attenti a cogliere ogni minimo movimento, con la sensazione che la notte avesse acuito i suoi dolori anziché alleviarli. L’uniforme era ancora umida, così come i calzini e la pelliccia del giubbotto che aveva assorbito l’acqua, e un fastidioso bruciore iniziava a invadergli la gola.
Per l’ennesima volta imprecò mentalmente contro il suo parigrado, immaginando di ritrovarsi davanti la sua espressione scanzonata. Quasi si rammaricò di essere stato mandato in licenza: se fossero stati al campo d’aviazione, lui si sarebbe trovato a leggere all’ombra del suo aereo, senza altro pensiero se non quello di fare una buona caccia. Fowler, invece, avrebbe fatto di nuovo tardi a colazione e si sarebbe ingozzato senza ritegno mentre la squadriglia aspettava di decollare.
Si sorprese, tuttavia, quando si rese conto che percepiva l’idea di cercare il suo commilitone più come un’urgenza pressante che come una seccatura, anche se ciò significava tornare a calpestare il territorio dei nemici.


I caccia sciamavano in un cielo gremito di bombardieri pesanti, piccoli pesci che nuotavano tra gli squali.
Colpito da un mitragliere laterale, lo Spitfire si sbilanciò come un giocattolo rotto. Con la coda dell’occhio, MacPhearson vide un’estremità dell’ala che si staccava di netto.
Lo Heinkel 111 sempre più vicino sembrava un ostacolo ormai impossibile da schivare. Strinse i denti: se proprio non poteva evitarlo, avrebbe cercato di schiantarsi in modo da fargli più danni possibile.
Mentre manovrava disperatamente per riprendere il controllo dell’aereo, uno dei motori esplose e lo squalo volante iniziò a puntare il muso verso il basso, avvolto da una nube di fiamme.
“Pensavo che l’obiettivo fosse quello di abbattere i nemici, non quello di suicidarsi andandogli addosso,” disse Fowler attraverso il segnale radio, per poi sfrecciare via tra nugoli di traccianti.


La verità – dovette ammettere, seppur a fatica – era che non voleva abbandonarlo al suo destino perché, dopo tutte le battaglie combattute ala ad ala, sentiva di essersi affezionato a lui.

Quando Fowler tornò in sé, una luce malata illuminava la palude, affollata di rane colorate e mosche grosse quanto un pugno. Un rospo rosa a macchie rosse spalancò un paio di ali membranose e spiccò il volo.
L’aria era satura del ronzio degli insetti e del gracidio degli anfibi, le canne già alte si allungavano a vista d’occhio. Sembrava che gli alberi fossero cresciuti fino quasi a toccare il cielo.
All’improvviso, un cicaleccio di voci sovrapposte lo fece sobbalzare, col cuore che minacciava di scoppiargli nel petto: una pattuglia di giapponesi camminava in circolo sull’orlo del pendio, guardavano in basso ma nessuno riusciva a vederlo. Avevano tutti quanti la cuffia con gli occhialoni da pilota, qualcuno di loro portava anche la maschera dell’ossigeno che lasciava scoperti solo gli occhi a mandorla.
Una figura svettava per altezza sulle altre: lo riconobbe subito per il berretto sulle ventitré, il sorriso irriverente e la croce di cavaliere al collo, così com’era apparso su tutte le riviste militari dopo la sua centesima vittoria. Quando gli occhi chiari del tedesco si posarono su di lui, balenarono sinistri come in cerca di vendetta: una vendetta che, a distanza di oltre due anni, non era mai riuscito a ottenere.
Si chiese che cosa ci facessero così tanti aviatori giapponesi insieme a Manfred von Kleist nella giungla. E perché non li aveva visti prima? Ma soprattutto, perché loro non vedevano lui?
Provò ad alzarsi, ma ricadde bocconi con la faccia nel fango: la sensazione che la pelle della gamba stesse per strapparsi gli ricordò soltanto che era ferito, non sapeva quanto gravemente, e che rischiava di morire di una morte indegna di un asso dell’aviazione.
Con le ultime forze che gli restavano, strisciò sotto un cespuglio di felci e lì rimase nascosto.
Gli occhi gli si richiusero e il sergente sprofondò in un sonno torbido e senza sogni.

La luce aveva già cominciato a scemare, incupendo le ombre che si allungavano tra gli alberi.
Se il suo senso dell’orientamento non lo ingannava, la pista che MacPhearson stava seguendo era quella giusta, ma già da diverse ore vagabondava avanti e indietro senza trovare tracce – né dei giapponesi, né di eventuali superstiti dello schianto. Aveva setacciato ogni cespuglio, scrutato le cavità e i rami di ogni albero, ogni sasso e ogni anfratto, e niente era riuscito a suggerirgli che qualcuno potesse esser passato di lì – né rami spezzati, né impronte di stivali, né vegetazione calpestata. Tutto appariva vergine e incontaminato, come se lui fosse il primo e unico uomo a calcare quel terreno selvaggio.
Inoltre, trascorrere la notte all’addiaccio coi vestiti inzuppati non doveva aver giovato alla sua salute: starnutiva di frequente, la gola gli faceva male anche solo a deglutire, e le ossa gli dolevano come se uno schiacciasassi gli fosse passato addosso.
Sentiva avanzare lo sconforto, come un macigno che gli gravasse sul petto, ma non volle darsi per vinto: sarebbe stato inutile tornare indietro dopo tutto il tempo impiegato in quella ricerca.
‘Arrendersi’ non era una parola che apparteneva al suo vocabolario – a pensarci, aveva pure un suono sgradevole al suo orecchio. Non per nulla, tutti nello squadrone lo conoscevano per aver attraversato la Manica solo per inseguire l’ultimo Stuka superstite di una squadriglia, sfidando le FLAK e i caccia tedeschi pur di abbatterlo. Al ritorno, le ali del suo Hurricane sembravano due fette di groviera, il carburante era a livelli critici, ma lui poté vantarsi di aver portato a termine la missione e fu promosso sergente.
Mentre si crogiolava nei ricordi, uno strano luccichio attirò il suo sguardo: semisepolto sotto il fango c’era un piccolo oggetto estraneo a quel luogo selvaggio. Incuriosito, MacPhearson si chinò e lo raccolse, ripulendolo sommariamente. Lo riconobbe subito: era un elefantino indiano dipinto con smalti di colori sgargianti, che Fowler aveva preso a un mercatino durante un pomeriggio di libera uscita. Ricordò che lo teneva sempre in tasca come portafortuna; doveva essergli caduto.
Guardando più attentamente, notò una traccia: erba schiacciata, fango smosso, tracce di sangue, e un brandello di stoffa blu scomparivano in una depressione del terreno da cui si levava l’odore mefitico di una palude. Erano tracce del passaggio di Fowler, che a quel punto poteva essere già con un piede o addirittura con tutto il corpo nella fossa.
Un brivido gelido gli corse lungo la schiena a quell’ultimo pensiero. Iniziò a temere ciò che avrebbe trovato al termine di quella pista, tuttavia si appiattì tra le frasche e continuò a seguirla.

Accovacciata sotto un cespuglio di felci, c’era la figura allampanata di un aviatore inglese con le vesti stracciate e la faccia sporca di fango. A separarli c’era un nugolo d’insetti che vorticavano in aria. Quando si accorse della sua presenza, Fowler scattò come un animale e gli rivolse uno sguardo allucinato.
MacPhearson aggrottò le sopracciglia. “Thomas, che ci fai qui?”
L’altro sbatté le palpebre gonfie, come se non si aspettasse di vederlo lì. “Sam?” Si passò una mano sul viso per ripulire il velo di sporcizia che gli oscurava la vista. “Sam, hai la faccia sporca di sangue.”
“Sono io, sì.” La voce gli uscì dalla gola stranamente roca. Si avvicinò a grandi passi, scacciando gli insetti con ampi gesti delle braccia, mentre Fowler cercava di tirarsi su. Notò che aveva una ferita alla gamba, i gomiti e le ginocchia scorticati. “Stai perdendo pezzi. Che cosa ti è successo?”
Con un cenno del capo, l’altro indicò un punto indefinito della giungla. “I… giappi…”
“Cosa?” MacPhearson lo fissò, incredulo e allarmato al tempo stesso. “I giapponesi ti hanno ridotto così?” Mentre attendeva una risposta che tardava ad arrivare, gli ripulì il viso con un fazzoletto inumidito, quindi sganciò la borraccia dallo zaino e gli offrì da bere. L’altro ci si attaccò con avidità, sorbendo lunghe sorsate che gli colarono sul mento. Era più pallido del normale, e gli occhi verdi apparivano cerchiati da profonde occhiaie.
Si dissetò a lungo, sciolse il nodo che aveva alla gola, poi disse, con voce flebile: “No… sono scappato… prima che mi prendessero.”
“Sei un idiota, volevi forse crepare? Da quanto tempo sei qui?”
“Che ne so, mi sono svegliato per colpa tua,” rispose l’altro con un sospiro stanco. “Da qualche parte c’è un tempio… un villaggio… sento l’odore del curry.”
“Figurati se ti credo. Tu vaneggi, e poi il curry fa schifo.”
Un rombo di motori proveniente dall’alto interruppe la discussione: aerei da caccia.
“Sono nemici?” sfiatò Fowler allo stremo delle forze, rannicchiandosi di nuovo sotto le foglie.
MacPhearson alzò lo sguardo e riconobbe subito le forme affilate dei P-40 con sulle ali una stella bianca inscritta in un cerchio blu. “No, sono americani.” A quelle parole, l’altro si rilassò appena. “Ma se ci vedono i giappi ci sparano a vista. Dobbiamo allontanarci da qui.” Gli porse la mano. “Ce la fai ad alzarti?”
“Se ce la facessi, secondo te sarei qui?” replicò l’altro.
MacPhearson roteò gli occhi, ma decise di non replicare. Lasciò che Fowler gli avvolgesse un braccio intorno alle spalle, per poi cingergli la vita col suo. “Ti porterò io. Tu, però, non azzardarti a crepare.”
L’altro si lasciò scappare una debole risatina. “Figurati se ti faccio questo favore.”
MacPhearson starnutì. “Smettila di fare lo spiritoso e dimmi dov’è quel tempio.”
“Non lo so… segui l’odore.”
Con un sospiro, lo scozzese iniziò a camminare cautamente tra le sponde invase da giunchi e rane, cercando di non farsi risucchiare gli stivali dalla melma appiccicosa. Teneva lo sguardo abbassato, attento a dove metteva i piedi, mentre il naso cercava di individuare note d’incenso al di sotto del marcio che pervadeva ogni cosa. Fowler, aggrappato alla sua spalla, zoppicava a ogni passo ma cercava di fare leva sulla gamba sana per non gravargli troppo addosso.
Nessuno dei due parlava, e a fare da sottofondo a quell’insolita camminata vi erano soltanto i loro respiri accelerati e lo sciacquettio degli stivali. In sottofondo, la giungla mai silenziosa pullulava di rumori.
“L’ho… sentito…” biascicò l’inglese, a un certo punto. Tese la mano libera e indicò un punto tra gli alberi lussureggianti. “Va’… sempre dritto. Lì lo troverai.”
MacPhearson dilatò le narici, ma non riuscì a cogliere alcuna variazione. Tuttavia, decise di fidarsi e seguì la direzione indicata dal compagno. Non trascorse molto tempo prima che l’odore giungesse anche al suo naso, quando ormai le ombre si erano allungate e non si poteva vedere che a pochi piedi di distanza.


Arrancando e zoppicando, guidati dall’aroma acre dell’incenso, giunsero in una specie di radura al centro della quale sorgeva un edificio in pietra rossiccia, con la facciata finemente elaborata e un tetto a guglia composto di più strati sovrapposti. La perizia con cui ogni ghirigoro era stato cesellato faceva pensare a un’opera d’arte senza tempo.
Un ampio spicchio di cielo, di un cupo cobalto, emergeva dagli spazi tra gli alberi, e la luna piena illuminava la terra battuta intorno al tempio. Non c’era nessuno in giro, ma il fumo era così intenso da invadere, in sottili volute, anche lo spiazzo all’esterno.
Le porte erano aperte, e il piccolo ambiente li accolse con la sua avvolgente penombra.
MacPhearson buttò lo zaino ai piedi di un’enorme statua bronzea e lo offrì come cuscino al commilitone ormai stremato, poi si fermò in piedi di fronte all’altare, dove aggraziate composizioni di frutta, fiori e riso erano poste ai piedi delle statue di Buddha con le mani giunte in preghiera. La vernice dorata riluceva nel bagliore delle candele profumate. L’atmosfera di sacralità che pervadeva quell’ambiente, pur appartenente a una spiritualità sconosciuta a uno che fin da piccolo era stato cresciuto in una famiglia di fede presbiteriana, lo fece esitare prima di allungare le mani su quei doni, nonostante la fame. Abbassò lo sguardo su Fowler: giaceva rannicchiato per terra con gli occhi semichiusi e la fronte imperlata di sudore; la divisa era ridotta a un ammasso di panni laceri, irriconoscibili. Nel volto provato dalla sofferenza pareva non esservi più traccia della sua usuale ironia. Con un sospiro, frugò nella tasca, staccò due banane da un casco e lasciò una monetina in pegno alle divinità che abitavano il tempio. Infine, si sedette con la schiena contro l’altare, sbucciò una delle due banane e la porse al compagno, tenendo per sé l’altra. Per un po’ mangiarono in silenzio, storditi dai fumi dell’incenso e troppo stanchi anche solo per intavolare una conversazione.


Disteso per terra con la testa sotto lo zaino, Fowler seguiva come ipnotizzato i serpentelli di fumo che si torcevano nell’aria. “Suppongo che dovrei ringraziarti,” disse infine.
MacPhearson ignorò la provocazione. “Beh, non hai una bella cera.” Gli scostò un ciuffo di capelli umidi e gli portò una mano alla fronte, ma dovette ritrarla subito dopo a contatto con la pelle rovente. “E hai pure un febbrone da cavallo,” constatò, fissandolo con le sopracciglia aggrottate. “In quel pantano c’era pieno di zanzare, non ti sarai mica buscato la malaria?”
“Credo che sia… per colpa della pioggia,” rispose l’inglese. MacPhearson si accorse che si era stretto le braccia intorno al petto e che le sue membra erano scosse da impercettibili tremiti.
Senza dire nulla, frugò nello zaino e ne trasse un panino alquanto malridotto. Tolse l’incarto, ne prese un morso per sé e diede il resto al collega. “È di ieri, ma ti aiuterà a rimetterti in forze.”
L’altro forzò un sorriso sbilenco, che accentuò il luccichio febbrile nel suo sguardo. “Non è che hai un po’ di quel rum della distilleria di Collins?”
“No, purtroppo niente rum.”
Fowler mangiò per un po’ in silenzio, ed egli ne approfittò per controllargli la ferita. Delicatamente, cercando di stare attento a non fargli male, gli arrotolò i pantaloni luridi fino al ginocchio e scoprì la ferita: il segno del proiettile che l’aveva sfiorato era ben visibile sulla pelle pallida della gamba, e l’area intorno a esso era gonfia e arrossata.
Quando iniziò a tamponargliela con un fazzoletto imbevuto d’acqua, l’inglese fece una smorfia di dolore ma non ebbe la forza di reagire.
“Stai buono, non ti agitare.” MacPhearson trasse dallo zaino un pacchetto di medicazione individuale, svolse la benda e gliela arrotolò intorno alla ferita, poi gli riabbassò i pantaloni. “Come ti senti adesso?” gli chiese, quando ebbe finito. Tirò fuori una coperta e gliela sistemò addosso.
“Come prima. Debole, stiracchiato… come del burro spalmato su troppo pane.”
Lo scozzese aggrottò di nuovo le sopracciglia. “Ma tu pensi sempre al cibo?”
“Com’è che si dice, Sam? Bisogna sempre guardare il lato positivo della vita…” concluse l’altro con un debole sorriso, stringendosi nella coperta.


“Samuel?” La voce di Fowler interruppe il silenzio, ridestandolo dal leggero torpore in cui era piombato. Doveva essere ormai notte fonda, anche se aveva perso la cognizione del tempo passato.
“Che c’è, Tom?”
“Mi chiedevo… come hai fatto a trovarmi?”
“Ho trovato una cosa per terra, e da lì ho notato le tracce del tuo passaggio.” MacPhearson trasse dalla tasca l’elefantino e glielo posò sul palmo della mano. “Dimenticavo: questo è tuo.”
“Grazie… è il mio portafortuna.”
Egli annuì. “Forse lo è davvero,” osservò, ripensando alle dinamiche del ritrovamento.
Di nuovo, tra loro cadde una coltre di silenzio imbarazzato. Ogni parola gli raschiava la gola come un sasso, e l’acqua, che pure scarseggiava, non bastava ad alleviare quella sensazione; anzi, la acuiva. MacPhearson alzò lo sguardo: l’aria era densa di un fumo evanescente che catturava il lucore delle candele, e sembrava donare una forma visibile all’aura mistica che pervadeva l’atmosfera. Ma, invece di farlo sentire fuori luogo, lo faceva sentire protetto, lontano dalle insidie dell’ambiente esterno. “Ti ricordi quella volta che gli italiani mi avevano catturato?” chiese infine.
“E chi non se lo ricorda?” mormorò Fowler. “Arrivasti alla base più morto che vivo, su un camioncino dei soccorsi.” Fece una pausa come per recuperare le forze, poi proseguì: “Io e quello scimunito di Steve ci bevemmo una birra alla tua salute.”
A quelle parole, MacPhearson si sciolse un tenue sorriso. “E io mi berrò dello scotch alla tua, se usciamo vivi da questa giungla.”
“Certo che ne usciremo vivi, uomo di poca fede. Ricordi quello che ho detto poco fa? Bisogna sempre guardare il lato positivo della vita…”
Lo scozzese annuì, poco convinto, ma non replicò.
“C’è una cosa che non ti ho mai chiesto, Sam,” riprese l’altro.
“Cosa?”
“Com’è che hai deciso di arruolarti nella RAF?”
MacPhearson sgranò gli occhi, meravigliato nel sentirsi rivolgere dall’altro la stessa domanda che aveva sempre evitato di fargli. Indugiò qualche istante, poi rispose: “Avevo uno zio aviatore durante la Grande Guerra, che una volta mi raccontò di aver duellato nientepopodimeno che con Max Immelmann… ero affascinato dalle sue storie, dalle poesie che scriveva, dal rispetto che c’era tra piloti di schieramenti opposti. Era tutto così diverso dalla guerra di trincea, anche se non meno pericoloso…”
“Tuo zio scriveva poesie sul volo?”
Voglio librarmi tra argentee nubi
dove né preoccupazioni né umani tormenti
violano l’immensità del cielo…
O qualcosa del genere. Era un dilettante, nessun editore aveva mai voluto pubblicarlo, ma mi perdevo sempre ad ascoltarlo mentre le recitava: questa era la mia preferita. E tu, perché hai deciso di diventare pilota di caccia?”
“Ti sembrerà strano detto da me…” Fowler soffocò un risolino. “Ho maturato questa decisione quando i tedeschi hanno tentato di invadere l’Inghilterra: mi ero stancato di fare il ricognitore senza prendere parte attiva alla guerra. Ho visto dei manifesti di reclutamento per piloti di caccia e mi sono detto: perché no? Allora ho fatto l’esame da pilota, l’ho superato a pieni voti ed eccomi qui.”
MacPhearson rimase in silenzio, e il discorso cadde così com’era iniziato. Quando si voltò verso Fowler, si accorse che si era assopito e decise di lasciarlo dormire in pace: ne aveva sicuramente bisogno. Lui, invece, col naso ostruito e le ossa dolenti, sospettava che sarebbe riuscito a prendere sonno solo quando fosse crollato. Trasse il libro dalla tasca e si mise a leggere.
“Perché non mi leggi qualcosa dal tuo libro?” gli chiese flebilmente l’altro, dal dormiveglia.
Lo scozzese si limitò a un cenno d’assenso, si schiarì la gola e iniziò a leggere con voce nasale.
Non trascorse molto tempo prima che Fowler si riaddormentasse, stremato dalla febbre e dalle ferite.
Egli ripose il libro sotto lo zaino e si distese a sua volta, invocando il rassicurante conforto del sonno.

I due sottufficiali si risvegliarono su due lettini nella corsia di un ospedale da campo. Anche se conservava solo qualche sprazzo di ricordo legato ai momenti successivi all’arrivo nel tempio, Fowler apprese che erano stati ritrovati da un monaco – la sua faccia rasata e ieratica continuava a visitarlo in sogno come se fosse un’apparizione del Buddha – che li aveva affidati a un gruppo di missionari britannici che operavano nella zona, e da loro avevano ricevuto le prime cure mentre la febbre alta divorava la loro lucidità.
“Quando ho deciso che in licenza mi sarei concesso qualche giorno di riposo, non intendevo esattamente questo,” commentò. In quel momento, una giovane infermiera passò di fronte a loro e per qualche secondo lo fissò coi suoi grandi occhi da cerbiatta. Egli la ricambiò con un’occhiata ammiccante. “Però almeno ci sono le infermiere carine…”
Nel letto accanto al suo, MacPhearson corrugò la fronte. “Dovresti placare i tuoi bollori. Guarda che se si fa strane idee poi ti tocca sposartela.”
Egli alzò le spalle. “Sai già come la penso, Sam: non ho grandi pretese, spero soltanto che la mia futura moglie sappia cucinare come si deve.”
Lo scozzese piegò un braccio sotto la testa e guardò fuori dalla finestra: in cielo splendeva il sole, che diffondeva il suo tepore anche all’interno della corsia. “Oggi è il venticinque di gennaio. Avevo promesso ai miei amici che ci sarei stato per la Burns Nicht [1].”
Fowler distolse lo sguardo dalla giovane infermiera per voltarsi verso di lui. “La che?”
“È una serata in onore di un poeta delle mie terre, Robert Burns. Ogni anno ci ritroviamo tutti quanti per festeggiare: si brinda alla sua memoria, si leggono le sue poesie, si beve whisky e si mangia haggis.”
“E cos’è che sarebbe lo haggis? Stomaco di capra ripieno di cosa?”
“È stomaco di pecora, innanzitutto, e poi è un piatto squisito.”
Fowler fece una smorfia. “Capirai.”
MacPhearson scosse la testa con ostentata indulgenza. “Non puoi capire, sei un Sassenach.”
“Ah, no?” Egli sollevò un sopracciglio. “Allora perché non introduci questo povero Sassenach alle secolari tradizioni del popolo dei Jocks [2]?”
Negli occhi celesti dell’altro passò un luccichio beffardo. “Ma certo, perché non fai un salto dalle mie parti durante la prossima licenza? Finiresti soltanto per darmi ragione: è sempre così.”



[1] scozzese per “Burns Night”

[2] diminutivo di John, è un termine con cui gli inglesi definiscono gli scozzesi

  
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