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Autore: Gaia Bessie    05/12/2020    2 recensioni
Meglio essere vuoto – infinito, pieno, e poi fine – che morire con una bacchetta puntata alla tempia.
[Tripla flashfic| Scorpius, Asteria, Draco | Questa storia partecipa al contest “Di prompt stilistici e figure retoriche” indetto da Futeki sul forum di EFP]
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Astoria Greengrass, Draco Malfoy, Scorpius Malfoy | Coppie: Draco/Astoria
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nuova generazione
- Questa storia fa parte della serie 'Unflavoured'
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Attenzione: questa storia fa parte della serie "Unflavoured" e si colloca in essa come MM di Unsalted, quindi contemporanea a Unheared.
Può comunque essere letta come storia a sé, tenendo presente che tratta marginalmente di disturbi del comportamento alimentare.

 

Unraveled
 
 
Hold the gun to my head
Count
 
 
 
Apri la bocca.
 
Wrapped up, so consumed by all this hurt
If you ask me, don't know where to start
Anger, love, confusion, roads that go nowhere
 
 
Meglio essere vuoto – infinito, pieno, e poi fine – che morire con una bacchetta puntata alla tempia. Apri la bocca e parli, ridi, piangi e mangi. Il tovagliolo è solamente l’ennesimo santino di cartastraccia, con una ferita che odora di pomodoro e lacrime di sangue che scendono senza posa, che ti ritroverai a dover pregare.
Perché la vita è preghiera e rappresentazione, ma di cosa, ma di chi? La vita è quel che ti capita quando alzi gli occhi e scopri di essere ancora lì, ancora tu, e allora quella stupida filastrocca riprende a risuonarti tra le costole – vuoto, infinito, pieno e poi fine – ferendoti dall’interno. Che qualcuno ti abbia messo una lama lì dentro, l’ultima volta che gli incantesimi di guarigione ti hanno dovuto ricucire?
Il San Mungo è una ferita – che è tua – in un mondo stracciato e sfilacciato, che è un volto – sempre tuo – che piange di rosso su un piatto che pieno non lo è mai. Mangiare è un lavoro ingrato, da quando sei costretto a farlo, ma tua madre ti osserva e ha quegli occhi grandi come scodelle piene di zuppa salmastra, lacrime, che potrebbe annacquare la camera intera. E l’origami che hai fatto con il tovagliolo, un unicorno, non è abbastanza grande da portarti via di qui.
«Scorpius, tesoro» ha la voce che sa d’incrinature, polverose e insensate, che potrebbero squarciarla con un respiro. «Mangia qualcosa, ti prego».
Tu la guardi, ti sei smagrito fino a sembrare un’ombra, e adesso sei vuoto e infinito, mai pieno e quando arriverà questa dannatissima fine? La guardi e ti dispiace per lei, che ha perso tanto per non avere niente indietro, se non una strada che la porta lì, dentro di te.
Dove c’è una voragine immensa e sconfinata che mangia, piange, parla e ride tutto insieme, e poi rigurgita cibo, lacrime, parole e risate tutto insieme su chiunque vi si affacci, forse troppo temerariamente.
«Dov’è mio padre?» tossisci come se non parlassi da un secolo, e argilla e sabbia ti si fossero sedimentate nella trachea. «Perché non è qui?».
Tua madre ha solamente scuse nello sguardo, ma l’onestà dei Grifondoro nel cuore e, allora, abbassa lo sguardo e non dice una parola. Nemmeno riesce a sussurrarti che arriverà, come potrebbe, sarebbe più facile prometterti di farti fare una nuotata nel fiume di lacrime che versa ogni sera – magari riuscirebbe a piangere alghe e minuscoli pesciolini, plancton, e la barriera corallina.
Sospiri, il piatto è ancora pieno, tua madre raccoglie una cucchiaiata d’indefinito e te l’avvicina con aria speranzosa, come se non fosse l’ennesima condanna a morte: se ne prenderai un po’, ne vorrai ancora.
E, vuoto, non lo sarai mai più – sarai infinitamente pieno e sarà la tua fine, lo sai, eppure, eppure, eppure.
Apri la bocca.
 
One,
 
 
Apri gli occhi.
 
Would you take the wheel
If I lose control?
If I'm lyin' here
Will you take me home?
Could you take care
Of a broken soul?
Will you hold me now?
 
Meglio essere piena – infinitamente piena di rabbia – che vuota e fine, morire con una bacchetta puntata alla tempia.
Apri gli occhi e sorridi, ridi, ma poi piangi e come fare a smettere? Hai un mondo dentro il cuore che preme per uscirti dagli occhi, implorandoti di perdere quel controllo che stai tanto faticosamente mantenendo.
Casa tua profuma silenzi, quando vi rientri dopo l’ennesima giornata trascorsa al capezzale di un figlio ch’è solamente tuo, e allora diviene l’ennesimo odore insensato e scolorato dall’assenza di Scorpius.
Oggi, tuo figlio ti ha regalato un tovagliolo piegato a forma di unicorno, dicendoti di usarlo per correre via di lì: è macchiato di sangue o pomodoro, sembra stia lacrimando, e allora lo comprendi e vorresti piangere anche tu.
«Hai fatto tardi» constata tuo marito, seduto sulla propria poltrona preferita. «L’ora di cena è passata da un pezzo».
Tu sospiri. Piena, infinitamente vuota, fine. C’è qualcosa in te che si rompe ogni giorno e che tu ricostruisci pazientemente fino alla mattina successiva, quando il disinteresse di Draco sfilaccia ulteriormente quel legame corrotto e stanco che ti ostini a portare avanti.
«Scorpius non voleva mangiare» spieghi, lasciandoti scivolare sul divano e sfilandoti le scarpe. «Sono rimasta finché non ha finito la sua cena».
«E perché l’hai obbligato?» domanda Draco, sfogliando distrattamente la Gazzetta del Profeta. «Magari stasera non aveva fame».
Lo guardi e, dentro di te, stai urlando: c’è un’Asteria Greengrass più giovane, meno elegante e posata, che strepita e sbatte i piedi urlandoti di aprire gli occhi e fuggire via di lì. Che Scorpius ha sedici anni e ti sta scivolando via come acqua di scolo, è uno scheletro che ti osserva in attesa del momento in cui potrà tornare a mangiare.
«Ha chiesto di te» sussurri, massaggiandoti le tempie con la mano. «Perché non vai tu, domani, a trovarlo?».
«Uscirà a giorni» risponde Draco, sistemandosi gli occhiali da lettura sul naso. «Lo vedrò quando tornerà a casa».
Vorresti piangere, così chiudi gli occhi, mentre il cuore pulsa un dolore silenziosamente sordo che si trasmette a ondate per tutto il corpo.
«Tu mi riporteresti indietro, se perdessi il controllo?» sussurri. «Mi riporteresti a casa?».
«Tu non perdi mai il controllo» risponde Draco, con ovvietà. «Ma stai piangendo?».
Tu sospiri, vorresti solamente chiedergli di stringerti fino a farti dimenticare l’odore dell’ospedale che t’è rimasto appiccicato addosso, ma non riesci a trovare le parole. Senti lo sguardo di tuo marito addosso, inquisitore, mentre tu ci provi, ci riprovi, e fallisci e allora.
Apri gli occhi.
 
Two,
 
Apri il cuore.
 
You say space will make it better
And time will make it heal
I won't be lost forever
And soon I wouldn't feel
Like I'm haunted, oh-oh, falling
 
Meglio non essere, che vuoto, infinito, pieno oppure fine. Eppure, ti rendi conto che sei finito nel momento esatto in cui vedi tua moglie prendere le proprie cose e rimpicciolirle dentro la propria borsetta – ed è solamente l’ennesima bacchetta puntata alla tempia.
Apri il cuore e ne uscirebbero delle parole, se solamente esso fosse collegato alla bocca, e allora taci e la osservi da dietro lo stipite della porta, come se bastasse la tua presenza a risistemare le cose.
Ma tu non la stai perdendo, ti suggerisce una vocina dentro di te, è che non l’hai mai avuta tutta per te: è il guaio dell’aver sposato una donna capace in amore più di te, quella consapevolezza che ti trita le ossa in polvere di sussurri – ha amato prima di te, amerà dopo di te. Ma tu no.
«Merlino, Asteria» sussurri, osservandola mentre rimpicciolisce tutte le fotografie di vostro figlio, con cui ha tappezzato la camera da letto. «Mi spieghi perché stai facendo questa sceneggiata?».
Parole dure, ferrose, in cui non credi: ma sei sempre stato incapace ad esprimere i tuoi sentimenti, quindi, va bene, che altro potresti dire?
Che sei infinito, che sei finito, nel momento esatto in cui lei ti guarda e ha solamente due occhi arrossati dal pianto da offrirti, bellissimi, che riflettono l’infinità di un oceano sconfinato che potrebbe strariparle dall’anima.
«Me ne sto andando, Draco» risponde, semplicemente. «Io… penso che la distanza migliorerà le cose».
«Lo hai già detto» sussurri. Le ricordi minacce, urla, pianti e strepiti, ma Asteria scuote il capo biondissimo con aria ostinata. «Che il tempo le avrebbe guarite».
«Perché dovrei rimanere?» domanda lei, chiudendo quella borsetta minuscola. «Tu… non stai facendo niente per nostro figlio».
Taci. Sai perfettamente di stare lasciando scivolare via Scorpius, ma sai anche che non puoi salvarlo tu, non ne saresti in grado: il giorno che smetterà di essere così perso tornerai da lui e gli chiederai scusa per tutto questo, lo sai, te lo sei promesso.
«Non ti supplicherò» sibili, ferito. «Fai quello che devi, io… starò bene anche senza di te».
Tua moglie sorride: è di nuovo bella – lo è sempre stata – di nuovo giovane, e ha gli occhi finalmente asciutti.
Tu sospiri, vorresti solamente pregarle di non dimenticarti – d’altronde, a non dimenticare Asteria è bravissima – e di tornare indietro, ma non ti escono le parole.
Lei si Smaterializza con uno schiocco, e a te.
S’apre il cuore, ma è cavo e inutile come una scorza priva di frutto.
 
Three.
(Jess Glynne – Take me home)


Questa storia mi è uscita casualmente in un momento di tristezza e inquietudine, quindi spero si capisca qualcosa e non sia una pazzia.
Se siete arrivati fin qui, grazie.
Gaia
   
 
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