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Autore: Gaia Bessie    11/12/2020    2 recensioni
What if?:Asahi non è mai tornato in squadra.
[Epilogo: Quando si smussano gli scogli]
Io ti aspetto, te lo prometto.
[Long-fic di 15 capitoli | AsaNoya, Suga/Shimizu, accenni di KageHina | Angst, Hurt/Comfort, Romantico | Seconda classificata al contest "Canon compliant? I think not!" indetto da Maiko_chan sul forum di EFP | Partecipa al "Gioco di scrittura" del Gruppo FB Caffé e Calderotti]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Slash | Personaggi: Asahi Azumane, Daichi Sawamura, Kiyoko Shimizu, Koushi Sugawara, Yuu Nishinoya
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Epilogo: Quando si smussano gli scogli

 
Sii sempre come il mare che infrangendosi contro gli scogli, trova sempre la forza per riprovarci.
(Jim Morrison)

 
Mi accontento di questo: darti appuntamento nell’aria, farti sedere accanto a me sullo scoglio, anche se non ci sei.
(Sylvia Plath)
 
 
Io ti aspetto, te lo prometto.
Suga se l’è sentito dire una sera che diveniva lentamente notte, con l’aria fredda che dolcemente gli erodeva gli spigoli e le ripiegature della mente, smussandolo. Shimizu l’ha sussurrato, ma lui l’ha sentito.
L’ha sentito come percepisce i propri pensieri o come è certo di avere un cuore che batte nella gabbia toracica, trafitto dalle sue stesse ossa. E ne è certo come è certo di amarla e di farlo da praticamente sempre; la sua non è una sterile infatuazione frutto di un incontro tra pelli, ma l’amore di una ballata che s’incarna e diventa vita vera – o, così gli piace pensare. Ma la ama per davvero, le sussurra come un mantra, così tanto da essere disposto a sbagliare e tornare sui propri passi.
Io ti aspetto.
Come si fa con i casi persi – e, d’altronde, Suga lo è – o con i luoghi impossibili, Shimizu nemmeno guarda l’orologio per contare i minuti che li separano. Perché non è separazione o squallida attesa, la loro: lei lo tiene con sé anche nella sua assenza, come una fantasia o un ricordo incancellabile, tenendolo per mano persino nei propri pensieri.
Perché lei sarà sempre lì, con lui, a contare quanti passi li separano e desiderando posare i propri sulle impronte di lui.
Te lo prometto.
«Ma non dovrai mai più aspettarmi» sussurra Suga, sfiorandole il viso e il cuore. «Sarò sempre con te».
Lei sorride dolcemente, ma ha gli occhi lucidi: non riesce a concepirlo nemmeno lei, come sia tutto sistemato, tutto risolto. Che non vi siano più lacrime, per nessuno, che il martedì esploda in un rosso tramonto a lieto fine.
Qualcuno ha detto che il sole, raggiunto il proprio zenit, può solamente cominciare a cadere verso l’altro capo della terra. Ma, anche qualora fosse realmente così, si può realmente dire che stia cadendo? Da qualche parte della terra, che lei ignora, è ancora martedì.
«Lo so che non ho mazzi di fiori, o altri haiku scritti benissimo» ride Suga. «Ma io lo penso per davvero, che un giorno mi chiederai di sposarti».
E martedì, da quel momento in poi, sarà solamente l’ennesima tacca sulla barra delle settimane, un segno che si perde nel legno. Ve ne saranno altri, ma si perderanno come un’onda solitaria in mezzo al mare e, allora, finalmente potranno sedersi sugli scogli.
Shimizu lo vede già lì, Suga, con le gambe a penzoloni sopra la vasta immensità del mare: le sta sorridendo, agitando la mano, persino in quella marina che dimora nella sua mente. Hanno appuntamento lì, quando lui non c’è, perché lei lo aspetta sempre e soprattutto in quell’assenza dolorosa e bulimica.
«Potresti anche chiedermelo tu» risponde, accennando un sorriso. «Con un mazzo di fiori e niente haiku».
Perché, forse, cresceranno entrambi. Un giorno si sveglieranno e avranno venti, trent’anni: ma non basterà per permettere loro di dimenticare quel momento, le onde che spruzzano acqua salata, e le mani di lei che si sono strette su quelle di Suga dando il via a tutto quanto.
Niente haiku per Shimizu, questa volta: lui realizza in un lampo di comprensione che non le servono più, le dichiarazioni d’amore, perché semplicemente Kiyoko sa. Che ha promesso, forse persino a sé stessa, di amarlo e aspettarlo finché il tempo lo permetterà – andranno sotto la terra, in un martedì che dura più di ventiquattro ore, insieme.
«Te lo chiederò» risponde Suga, prendendole le mani come lei aveva fatto con lui. «Con i fiori, con un anello e senza haiku».
Perché le parole hanno smesso di servire, sono divenute l’ennesima vuota espressione del trascendentale: a che cosa serve, parlare, se si colgono come pensieri sfuggenti e silenzi carichi di significato.
Nella marina della propria mente, Shimizu è finalmente calma. Non v’è vento o tempesta che l’agiti come l’ennesima onda anomala, le alghe crescono placidamente sul fondale e non vengono strappate e rigurgitate dal mare sulla riva. Le conchiglie sono al sicuro, minuscole e mai incrinate – e, nell’armadietto di Nishinoya, formano una casa.
L’avranno anche loro una casa, una famiglia? Dei bambini a cui Suga insisterà per spiegare il significato dei fiori, o persino come si componga un haiku, e a cui farà indossare le sciarpe di Daichi.
«Soprattutto senza haiku» rimarca Shimizu, sorridendo. «E io ti dirò…».
Lui le lancia uno sguardo così impenetrabile da sembrare quasi denso, facendole perdere le parole. Le perde sempre, Kiyoko, quando lui le lancia quelle occhiate insostenibili: perché nei suoi occhi sono espresse mille promesse e, allora, lei si perde a cercare di interpretarle tutte quante – ma sono anche le uniche occasioni in cui, per lei, Suga rimane insondabile.
Come una marina senza luna, lui la guarda e mormora parole incredibili, che la fanno tremare come l’ennesima nevicata di quel mese. È un quarto di luna, il sorriso di Suga mentre la interrompe, con una dolcezza che fa quasi paura.
Io ti aspetto, te lo prometto. Ne aspetta anche la risposta, senza timore, certa che anche il suo sarà sempre e soltanto un meraviglioso sì.
Sì lo voglio, sì voglio rimanere con te, sì è lunedì e noi siamo solamente nell’ennesimo luogo possibile della nostra vita. E io ti aspetto, voglio rimanere con te anche quando il sole il confine della vista.
. Aspettiamoci a vicenda.
«Mi dirai di sì» commenta Suga, accarezzandole i capelli con la mano affusolata. «Perché non potrai dirmi di no, dopo che te lo avrò già detto per primo».
Lei sospira, ma non dice niente, accoccolandosi contro il suo petto – c’è ancora, il cuore tra le ossa, o le ha frantumate tutte esplodendo in uno tsunami di sangue e cocci di gabbia toracica?
«Perché te lo sto dicendo ora» prosegue Suga, così piano che Shimizu fatica a sentirlo. «».
 
***
 
Io ti aspetto, te lo prometto.
Hinata se l’è mangiato vivo la sorpresa e lo sgomento, di fronte a un bacio che non si aspettava di ricevere. Che non si aspettava di assecondare.
Kageyama ha sussurrato qualcosa, prima di voltargli le spalle e cercare di correre via, se solamente lui non l’avesse afferrato per una manica. Shōyō ha lo sguardo scuro come una marina notturna e affilato come uno scoglio, su cui è impossibile accovacciarsi.
«Perché scappi?» domanda, piano. «Se è una gara dobbiamo partire insieme».
Tobio lo guarda e non comprende: scuote il capo, così che i capelli gli disegnano l’ennesima ombra sul volto, e si guarda i piedi a disagio. È patetico. Ha seguito i consigli di Sugawara – che, tra le altre cose, non è esattamente la persona migliore per quel tipo di consigli – e ha fallito, palesemente, perché Hinata lo guarda con gelida sorpresa.
«Sei stato scorretto» lo rimprovera il rosso, con le mani sui fianchi. «Mi hai colto di sorpresa, non lo avevo capito».
Kageyama sospira, senza riuscire a muoversi, sebbene ogni nervo gli stia gridando di voltarsi e andare via. Perché non la può sopportare, quella sua buffa delusione, non può sopportare i rifiuti e, alla fine, non può sopportare nemmeno lui.
C’è una parte di sé che lo detesta come l’ennesima appendice superflua della propria vita, mentre cerca di trovare una scusa – sai, è che Suga mi ha sfidato. Sai, è che sono momentaneamente impazzito, ma adesso sto bene, te lo giuro – che giustifichi quel gesto stupido e impulsivo che ha compiuto.
Eppure. Eppure, Hinata non l’ha spinto via – forse era paralizzato dal disgusto? – e gli è persino parso che lo assecondasse.
Tobio aveva promesso a sé stesso che lo avrebbe aspettato ma, lui, ha un pessimo rapporto con le attese. Che siano i trenta secondi in cui il tè dovrebbe cominciare a riscaldarsi, o quelli necessari affinché il succo di frutta venga espulso da una delle macchinette automatiche a scuola, Kageyama non sa aspettare.
Quindi era solamente l’ennesima promessa vana e inutile, si dice, mentre Hinata si scontra con quel muro di silenzio che s’è costruito attorno per disorientarlo. Se non parli, pensa distrattamente nascondendo le mani in tasca – stanno tremando – non puoi essere colpevole.
«Kageyama!» strilla Hinata, scrollandolo leggermente. «Ma almeno mi stai ascoltando?».
Certo che no, vorrebbe rispondere Tobio, con assoluta sincerità. Perché dovrebbe interessargli, quello che Hinata sta per dirgli, ponendo una drammatica fine a ogni speranza che abbia mai nutrito nei suoi confronti?
«Scusa» si tira fuori, con più sincerità di quanta non avesse voluto metterne. «Non volevo, io…».
Che scusa puoi tirarti fuori, per giustificare un bacio alla persona di cui sei innamorato?
Shōyō sospira, immensamente contrariato, mentre si avvicina leggermente: vorrà dargli uno schiaffo, un pugno come Nishinoya ad Asahi, urlargli contro che è solamente un povero illuso? Kageyama alza il viso, orgoglioso, pronto a prenderselo, quel pugno, senza dire una parola. Ma, anche quello non arriva.
«Se pensi di potermi battere, sei un illuso» borbotta Hinata, orgoglioso. «Il secondo posto non vale, se fai una gara migliore».
Quando finalmente lo bacia, Kageyama spalanca gli occhi, sorpreso – una parte di lui, quella più nascosta, si rassegna a dovergli dire che ha fatto per davvero la gara migliore.
 
***
 
Io ti aspetto, te lo prometto.
L’ha detto con fare minaccioso Daichi ad Asahi, quando ancora s’è rifiutato di mettere un piede in palestra: io ti aspetto perché questo è il tuo posto, e tu non puoi far niente per cambiare questa cosa, è la tua natura e le nature non mutano. Ma Asahi non desiste, anche se la sua vita è notevolmente migliorata, perché la sua vita adesso ha Nishinoya.
Daichi, però, non si rassegna. Come nella vita non s’è mai rassegnato a moltissime cose tra cui, con suo grande e perenne disappunto, insegnare la decenza a Sugawara. Il conteggio delle sciarpe che gli ha regalato – no, lanciato addosso con aria esasperata – è salito a cinque e mezzo, per quella volta che gli ha lanciato anche il gomitolo. Ogni tanto Suga ride, dicendogli che il determinato capitano dei corvi che fa la maglia è un controsenso, ma è l’unico modo possibile in cui Daichi riesce a smussare i propri spigoli. E quelli degli altri.
Così, tutti i corvi sono coperti a dovere – e ha dovuto cucire anche un cappellino per Nishinoya, che ha insistito così tanto da ridurlo alla più cieca esasperazione – e nessuno di loro prenderà un raffreddore prima di una partita, né potrà seguire il tragico esempio di Sugawara.
Persino Asahi ne ha una, verde speranza, che lo avvolge come l’abbraccio dei suoi amici ogni volta che si ferma nel cortile della palestra per aspettare Noya. Ma è una speranza comune, un coro di speranze, che rimbomba tra gli scogli come un’onda sonora e li spinge a pregare silenziosamente che Asahi cambi idea.
Non è solo per il bene della squadra, o perché lui è l’asso, è perché c’è ancora un vuoto da quando lui se n’è andato. Perché Daichi e Suga, così come Tanaka e persino Nishinoya, ne sentono la mancanza. Si voltano, a ogni partita, per scoprire che lui non c’è – non c’è dove si aspetterebbero di vederlo, pronto a saltare, e quell’assenza diviene sempre più pesante.
«Suga, ti avverto» sibila Daichi, interrompendo il flusso dei propri pensieri. «Se non metti immediatamente una sciarpa…».
«Ti arrabbierai parecchio» completa il palleggiatore, allacciandosi l’oggetto incriminato attorno al collo. «Cristallino».
Sugawara finge una calma che non prova ma, il capitano ne è sicuro, anche lui avverte quel vuoto nel campo, dove dovrebbe esserci anche Asahi. Daichi sospira, passandosi stancamente una mano sul viso.
«Non dirmi che a te non manca» commenta, lanciando a Suga uno sguardo impenetrabile. «Asahi intendo. Io… pensavo che sarebbe tornato, prima o poi».
Ma Sugawara sorride, nascondendosi nella propria sciarpa azzurra. «Come sei sentimentale, Dai-chi» commenta allegramente. «Certo che tornerà, abbi fiducia».
D’altronde, pensa Daichi distrattamente, ha promesso a sé stesso che avrebbe continuato ad aspettarlo.
 
***
 
Io ti aspetto, te lo prometto.
L’ha sussurrato Yū ad Asahi, dopo il suo ennesimo no, non posso tornare: si può sempre andare indietro, anche dopo aver proseguito in avanti per una decina di chilometri. Ma Asahi sembra non comprenderlo, perché continua a dire che ha bisogno di andare avanti e dimenticare. Eppure, si domanda Noya quando è abbastanza lontano da impedirgli di cogliere quel pensiero amaro e appiccicoso, che tornare indietro non impedisce di dimenticare.
Ma ha giurato che lo aspetterà, da vivo e da morto, qualunque decisione decida di prendere – anche se a lui non dovesse piacere. E come potrebbe apprezzarla, Nishinoya, una decisione talmente insensata e autolesionista?
Asahi è fatto per il campo, altrimenti non avrebbe braccia così lunghe e forti, non sarebbe così alto e avrebbe mai così grandi – ma lui sembra non comprenderlo e, allora, con che parole potrebbe dirglielo?
Che sacra promessa potrebbe fare, Yū, per convincere Asahi che sono destinati a essere l’uno il completamento dell’altro e, allora, saranno sempre incompleti e frantumati se lui non deciderà di ritornare a giocare?
È ancora spigoloso, Asahi, le mareggiate non ne hanno smussato quegli angoli insensatamente taglienti e, persino nella mente di Noya, toccarlo a mani nude fa male. Ma ha promesso, in maniera silenziosa ma infrangibile, che lo aspetterà sempre.
Che rimarrà silenziosamente al suo fianco, ad aspettare che compia quel passo: forse non lo farà mai e, allora, la mente di Asahi sarà sempre scossa dalle onde e dalle mareggiate. La casa di conchiglie di Yū sarà sempre incrinata e, i suoi omini di conchiglia, non torneranno mai ad essere veramente felici.
«Mi dispiace» mormora Azumane, sfiorandogli timidamente la mano. «Non voglio deluderti, lo sai».
Noya lo guarda e la bugia gli scivola dolcemente dalle labbra, mielosa e densa, come fosse naturale, mentirgli.
«Non sono deluso» mormora. «Non sarei mai deluso da te».
Solamente metà della frase rispecchia quel che Noya pensa, perché deluso lo è davvero: una parte di sé, quella che si vergogna di quel pensiero, s’era convinta che sarebbe bastato l’amore a rimettere in piedi Asahi. E, quando ciò si è rivelato l’ennesimo ragionamento fallace e semplicistico, Nishinoya s’è ferito con i suoi medesimi pensieri.
«Lo sei» commenta Asahi, sfiorandogli i capelli e i pensieri sottostanti con un singolo movimento della mano. «Non… io lo sento che lo sei».
Noya china il capo, con aria stanca: ha ragione, è deluso e forse persino arrabbiato per colpa delle proprie ottimistiche speranze. Ma, a cosa servono, le speranze, di fronte a quella realtà dura e immobile e affilata?
Non è vero, che le onde finiscono sempre per smussare gli scogli: la mente di Asahi è ancora insensatamente tagliente e Yū non riesce a trovarvi alcuna soluzione, alcuna magia per eroderla e renderla una dolcissima curva. Non è vero che le lame diventano sassolini, così come non è vero che la goccia scava la pietra – perché non è mai riuscito a scavarlo, Asahi, a convincerlo con insistenza alternata a suppliche.
«Scusami» mormora Noya, senza sapere bene per cosa si stia scusando, dato che la ragione è dalla sua. «Solo… pensavo che avresti ceduto, prima o poi».
Ma non l’ha fatto e, forse, qualcosa dovrà pur significare: che Asahi è rinato, ma non abbastanza per voler tornare nel proprio elemento naturale. O, come probabilmente è quella realtà odiosamente incomprensibile, forse Noya – e Daichi e Suga e tutti gli altri – ha sbagliato a cogliere la vera essenza di Asahi. Forse non la ama abbastanza, la pallavolo, per tornare a giocare. Forse, non ama abbastanza sé stesso, Yū e chiunque altro – perché, altrimenti, rifiutare di farsi del bene da solo?
«Lo so» conviene Asahi, dolcemente. «Io…».
Ti amo abbastanza da non volerti mentire, vorrebbe dire, ma sono parole che gli tagliano la gola come sabbia vetrificata. Dovrebbe sputare sangue per davvero, Asahi, per espiare quel tradimento nei confronti della squadra, nei confronti di Noya.
Perché, ed è una dolorosa certezza, lo stanno aspettando tutti quanti. Lo aspetta Daichi, che per qualche motivo incomprensibile ha cominciato a produrre sciarpe per tutti quanti, e lo aspetta Suga – sarà ancora divorato dal senso di colpa? Ad Asahi non lo ha mai confessato, né probabilmente lo farà mai.
Lo aspetta Tanaka, che in Noya non ha mai smesso di credere, lo aspetta persino Hinata, che ha ancora bisogno di un rivale.
Solamente Asahi non si aspetta, non potrebbe mai cominciare ad aspettarsi. Eppure. Eppure ha ancora quella mancanza – che non è Noya che sparisce per delle ore ogni giorno – che gli mastica il cuore con esasperante lentezza. È il rumore della palla che cade dall’altra parte del campo, dopo essere stata colpita dalla sua mano, la vista oltre la rete. È tutto questo e anche qualcosa di più.
«Lo so» mormora Yū, insolitamente calmo. «Non è qualcosa che dipende da me, me lo hai detto già».
Il sorriso di Asahi fa male, sembra solamente l’ennesimo taglio in una mappa di cicatrici sbiadite. Ma sono ancora lì, potrebbe persino contarle, se si guardasse allo specchio – eppure, lui si sente cambiato, perché Noya è anche quello. Il suo cambiamento, la sua ripresa, la sua rivalsa. Ma come potrebbe dirglielo a parole?
Io ti aspetto, te lo prometto – ma come può chiedergli di aspettarlo per sempre. E cosa sarà mai, poi, il per sempre se non l’ennesimo cerchio infranto in un tempo che circolare non potrà esserlo mai?
Yū ha zero pretese e zero aspettative, ma Asahi gli sfiora la fronte con la propria e, mentre Noya chiude gli occhi in attesa di un bacio – che non arriva – lo dice. Così piano da farlo sembrare solamente l’ennesimo rumore di sottofondo, ma lo dice e gli fa spalancare gli occhi e urlare di gioia.
Perché Noya gli salta addosso, rischiando di farlo cadere, come se avesse vinto una partita immaginaria – una partita contro sé stesso – e lo bacia come se gli avesse fatto il più bel regalo del mondo. E, forse, lo ha fatto per davvero, facendogli perdere il respiro e le parole.
Gli ha restituito quella speranza che aveva perso per strada, con solamente un sospiro e un suono, quasi indistinguibili dal silenzio.
«Torno».

 
Ed eccoci qua, vi giuro ho le lacrime agli occhi, e non solo perché sono le otto di mattina e devo mettermi al pc per lavorare. Le ho perché questa long significa rinascita: e non solo per i pg, ma anche per me che erano otto anni che non scrivevo e completavo una long-fic.
E ci sono riuscita, a sorpresa anche per me, e quel tasto "completa" di oggi è una minuscola vittoria che mi fa dire okay, ne devo scrivere altre. Io vi ringrazio davvero tantissimo per avermi seguita e incoraggiata, leggere recensioni, mp e vedere che seguivate la storia mi ha riscaldato il cuore.
Grazie mille e spero di rivedervi presto in qualche nuova storia.
Gaia
   
 
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