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Autore: Gaia Bessie    25/12/2020    3 recensioni
Lei lo sa. Neri gli occhi, nera l’anima che cruda avanza nella boscaglia, che dolcemente scivola sotto i piedi e mai riposa – Rodolphus non ama, non è in grado, ma cerca il conforto di altre donne su letti che non siano di spine.
[Bellatrix | Bellatrix/Voldemort e Bellatrix/Rodolphus]
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Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Narcissa Malfoy, Rodolphus Lestrange, Voldemort | Coppie: Bellatrix/Voldemort, Rodolphus/Bellatrix
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Malandrini/I guerra magica, II guerra magica/Libri 5-7
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Occhi e nero, nero negli occhi, occhi cerchiati di nero: Rodolphus la guarda e gli mancano le parole e il respiro, vedendola vestita da sposa. Ha scelto un abito scuro, elegante, ma non perché sia una giornata di lutto – è che a Bellatrix manca la letizia di una sposa, non è mestamente né gioiosamente che s’avvia verso la navata, sospirando come fosse l’eroina di una ballata. Ma vi si avvia con rassegnazione verso il fato, con la convinzione che sia la cosa giusta da fare.
Sposa Rodolphus perché sua madre ha detto di no: e Druella non s’è nemmeno presentata a quel matrimonio poco candido, senza i bioccoli che le ha donato sua figlia Narcissa alla festa di fidanzamento di Lucius Malfoy. Ma, e anche questa è la cruda verità, senza la bruciatura sull’arazzo che ha causato Andromeda, che pure era la sua figlia preferita, la primogenita, l’erede.
Sposa Rodolphus perché la sua coscienza, prima, e Lui dopo le hanno detto che è giusto così: e così lei ha chinato il capo, sopprimendo il malcontento sterilmente generato dal pensiero di doversi sposare, e ha detto sì. Non lo vuole, né lo vorrà mai, ma sì.
Narcissa è una parentesi biancovestita – sembra lei, la vera sposa – che le cammina dietro con un bouquet di rose indecorosamente rosse. Il colore delle prostitute, ha sibilato scandalizzata sua madre, nel vederle.
Ma, in realtà, Lui ha detto che il rosso è il colore del martirio. E quello è solamente l’ennesimo martirizzarsi che Bellatrix conoscerà per il bene superiore, lei lo sa, lo saprà per tutta la vita che lui le concederà di vivere.
Bonjour, Madame Lestrange, gradisce un bicchiere di vino? – le domanderanno e lei scuoterà il capo con aria sdegnosa, preferendo il Whiskey Incendiario, vietato a una signora. Ma non a lei, che ne berrà fino all’ultimo sorso, sorridendo senza dolcezza, senza arte o poesia.
Lei, l’artisticità e la poesia del bel viso di sua sorella, non l’avrà mai: Cissy sei una bambolina, nulla di più.
Ma, a volte, ha risposto Narcissa con sdegno, esser bambolina con arte e poesia è meglio che morire soli, e dimenticati, con il nero negli occhi – con Rodolphus che la guarda come dovesse sbocconcellarla, togliendole un pezzo di sé per volta.
E lei, che è più nera di lui, cammina per la navata a grandi passi. Da sola. Né padre né madre, Bellatrix è nata da sé: generata e non creata da una sostanza che è solamente sua, quindi che senso avrebbe chiedere a Cignus o a Druella di accompagnarla?
«Stai attenta, Bella» commenta Cissy, alle sue spalle. «Non puoi sposare un uomo solamente per salvarlo dai suoi demoni».
Bellatrix ride, vorrebbe dirle che è esattamente quel che lei intende fare con l’esistenza indemoniata di Lucius, ma lo sguardo limpido di sua sorella se la mangia viva.
«Salvarlo dai suoi demoni» ripete la bionda Narcissa, con aria angelica. «Solamente per infettarlo con i tuoi».
Neri gli occhi, nero il sorriso di Bellatrix che affianca il proprio futuro marito che apre la bocca – sì, lo voglio – e con uno sguardo viene mangiato vivo.
 

 
 
Neri gli occhi
 
Parte I: Un bicchiere di vino per Madame Lestrange
 
Non desidero una vita felice che rechi dolore, né una prosperità che mi punga l'animo.
 
 
«Ancora niente figli?» Anneliese Rosier alza gli occhi verdissimi al cielo, con aria sconvolta. «Cielo, che situazione imbarazzante».
Bellatrix sorride, poco distante, fingendo di non aver sentito niente – ma lo ha fatto e quella umiliazione è strisciante e bruciante, come una serpentina che le s’incide nel cuore. Non è vergogna, è odio intenso che le incendia il cuore in una nube di fumo.
Beve un sorso di vino, negli anni ha imparato ad apprezzarlo con la complicità dei vigneti dei Lestrange in Borgogna, e adesso lo tracanna quasi fosse acqua, rischiando di strozzarsi. Lui disapprova, ma non è nemmeno presente a qualcosa di mondano come la festa di compleanno di Rabastan, per cui Bellatrix si prende il lusso di poter sfuggire, per un momento soltanto, al Suo controllo.
In quel momento, si sente stupidamente legata, e il vino è quell’ebbrezza che le permette – per un momento soltanto – di correre libera nel prato di Villa Black, con le sue sorelle, no, con Cissy soltanto. Anche se la biondissima signora Malfoy non si metterebbe a correre per nessun motivo al mondo, mentre lei corre tuttora.
Via da sé stessa, via da Rodolphus, via. Via con lui, che ha ammesso in un conato rabbioso di desiderarla per quel che il suo ventre potrebbe offrirgli (e, forse, per qualcosa di più). Non è un mistero che Lord Voldemort stia cercando e sperimentando sulla via più semplice, dopo il sesso, per crearsi un erede che sia a sua immagine e somiglianza. Generato, ma anche creato, e fatto della stessa sostanza di un uomo che, padre, non lo sarà mai.
E lei è pronta a offrirgli ogni parte di sé stessa, anche quella più segreta e nascosta in profondità, pur di accontentarlo in quel suo desiderio. Se solamente lui fosse disposto a scendere a compromessi sul commettere un peccato di lussuria non fine a sé stesso, ma lo sarebbe?
Desidera un altro bicchiere di vino, signora Lestrange? – un Elfo le rabbocca il bicchiere, chissà quante altre volte accadrà per quella serata, chissà se sarà sempre vino o il sangue che il suo Signore si caverà dalle vene per creare un altro sé.
Perché Voldemort non desidera un figlio, un essere inutile cui bisogna dare amore, ma desidera una sua copia capace di farlo vivere per sempre. Ma la gloria preserva chi gloria conserva, e allora lui vivrà comunque per sempre, pensa lei, tracannando un sorso di vino rosso.
Ma il Marchio brucia, come brucia la consapevolezza che stia chiamando solamente lei, e che la fa sorridere. Adesso, vorrebbe non aver – no, dannazione, non ne voglio ancora! – bevuto tutto quel vino, ma china il capo e si Smaterializza, lanciando uno sguardo nero d’intesa a suo marito.
Tace e annuisce, Rodolphus, se potesse dar lui un erede al Signore Oscuro provvederebbe in prima persona ad aprire le gambe e a soffocare i gemiti di piacere tra le labbra, così tace e le regala lo sguardo di chi ha il cuore in fiamme, in attesa, in un incendio d’inestinguibile invidia.
Lei sorride, non conosce altro. Non v’è amore tra loro due, ma una tiepida intesa frutto di obiettivi comuni, che comunque quanto di più simile all’amore che riesca a sperimentare – ed è sicuramente meglio del vomitevole affetto che Lucius Malfoy, in un attaccamento privo di senso e di scopo, prova per Narcissa.
«Sei in ritardo, Bellatrix» osserva l’Oscuro Signore, pigramente, seduto a capotavola nella sala da pranzo di casa Lestrange. «Quando ti chiamo, mi aspetto maggiore prontezza, da parte tua».
Lei annuisce, è smaniosa di apprendere ogni cosa da lui. Forse, come accade per la maggior parte degli animali selvatici, persino l’obbedienza, se sarà intenzionato a insegnargliela.
«Perdonatemi, mio Signore» sussurra lei, chinandosi davanti ai suoi piedi, la fronte che sfiora il pavimento. «Ho esitato un secondo di troppo, vi chiedo perdono».
Lui sorride, svelando una misera traccia d’umanità (che odiosamente tenta di cancellare) nel volto affilato, che lentamente distrugge le ultime vestigia del sangue di Tom Riddle.
«Penso che tu sappia perché ti ho chiamata qui» commenta lui, lanciandole uno sguardo irritato. «Che compito intendo affidarti».
A Bellatrix s’incaglia il fiato in gola, di fronte a quella prospettiva che chiaramente le si spiana davanti come un’eventualità tangibile e, allora, sorride scioccamente entusiasta.
«Bisogna ammettere le lacune nella conoscenza umana, quando ve ne sono» continua Voldemort, osservando il soffitto con aria meditabonda. «E per quanto io abbia esplorato tutta la magia ad oggi nota, non esiste un incantesimo che possa impedirmi di sporcarmi in questo modo».
D’infrangere quell’aurea di perfetta sacralità che l’avvolge, come un santo o un sacro folle, rendendolo intoccabile, intangibile. Non c’è modo di rovinare gli idoli, ha detto qualcuno, se non fosse che basta toccarli per grattar via la doratura.
E non v’è modo di riattaccarla, così che ciò che ne rimane altro non è che un idolo rotto e scrostato, inutilizzabile. Voldemort la guarda, e non v’è desiderio in quello sguardo, né brama: l’analizza come per coglierne le emozioni, ed è disgustato da quello sfoggio di desiderio che il corpo di lei esprime.
«Stenditi sul tavolo» le comanda. «Non voglio sentirti emetter suono, Bellatrix, e questo è un ordine».
Minaccioso la guarda, e lei comprende. Che non ci sono bioccoli, come nella vita morbida e cotonosa di sua sorella Cissy, che non v’è spazio nemmeno per il desiderio, come in quella vita depravata e insensata intrapresa da Meda.
V’è spazio per la lealtà e lei è fatta per quello e null’altro, per essere stesa su un tavolo, con le gambe aperte e il cuore (e anima e mente) rigorosamente chiuso, per essere toccata da mani fredde e da uno sguardo altrettanto gelido.
Occhi e rosso, rossi gli occhi, occhi colorati di rosso. Sangue che scorre, non v’è speranza che un gemito le scappi dalle labbra ma, dentro di sé, Bellatrix sta urlando.
Il nome del suo Signore, che con una spinta secca le entra dentro più di quanto non abbia già mai fatto, più di quanto non farà mai nuovamente.
Un sospiro le incrina le labbra in un sorriso, lui finge di non notarlo.
 

 
***
 

Nausea, sangue che smette di scorrere. Lo scopre così, in una mattina soleggiata di agosto, di aspettare l’erede.
Il giorno in cui, e sono solamente le otto di mattina, afferra un bicchiere di vino e il sapore le fa venire un’ondata di nausea così potente da piegarla. Sono passate tre settimane, e lei ancora sente il suo peso addosso, quando chiude gli occhi nella sera che si mangia vivo il tramonto e, allora, vorrebbe solamente continuare quel sogno ad occhi aperti solamente per un altro po’. Vi prego, sembra dire in ogni suo sguardo, ancora.
Rodolphus – occhi neri su viso bianco come il marmo, troppo fine per quell’uso squallido, del lavandino in cui lei sta vomitando – la guarda ed è squarciato a metà. Diviso la osserva, tenendole i capelli e non sapendo se tirarglieli fino a farle lo scalpo, disgustato e grato mentre rigetta la colazione nel lavandino del bagno padronale.
Mai più vino, Madame Lestrange – te l’ha sempre detto, pensa con aria sconfitta, che il bere è il vizio dei deboli e, adesso, debole non lo sarai mai più.
«Non guardarmi così» sibila Bellatrix, ma lei stessa si sta guardando nello specchio per riscoprirsi cambiata. Pallida, emaciata, come se l’erede ne stesse già succhiando l’energia vitale. «Tu eri d’accordo».
Rodolphus la guarda, neri gli occhi che le restituiscono uno sguardo scontento, e non ha il coraggio di dirle quelle parole dure che gli nascono spontaneamente nella mente, così contorta, che s’agita in rivolta.
Niente bioccoli per loro, sono ormai per sempre inzuppati di vino rosso, e ora rimarranno inutilizzabili. Niente più vino, Madame Lestrange, ormai l’ha finito tutto lei.
«Non pensavo ti saresti spinta così oltre» sussurra lui, chinando il capo. Neri i capelli che gli proiettano un’ombra sul volto. «Ma sporcare una divinità, Bellatrix? È troppo anche per te».
Una macchia di vino sul Signore Oscuro, nera come sangue e scura come quella notte senza stelle in cui l’ha chiamata a sé, entrandole dentro. Ne è davvero mai uscito, o è rimasto in un angolo segreto della sua mente, legandola alla sua persona più di quanto non fosse pensabile, più di quanto non fosse concepibile?
«Era un ordine, Rodolphus» risponde lei, piatta. «E gli ordini si eseguono, non si discutono».
Lui la guarda – nero attorno agli occhi, da quante notti è che non dorme? – e, questa volta, tacere non gli riesce più.
«Sono tuo marito, Bella» constata, atono, nulla in lui tradisce il tormento interiore. «Non puoi semplicemente pensare che riconoscerò quell’abominio che porti in grembo».
Bellatrix ride, come un’incrinatura in quel tempo che s’è fermato e in quello spazio che piano piano si spegne alla luce di un sorriso che semplicemente manca, e allora Rodolphus la guarda e rabbia cieca lo annerisce.
Neri gli occhi, neri la rabbia che gli cammina nello sguardo, l’ennesima e inutile estranea che il suo volto sperimenta su di sé.
«Sei mio marito» risponde lei, anche se dal tono pare più una domanda. «E lo sei per ora o lo devi essere per sempre?».
Una risata le macchia la voce come una colata di quel sangue che le ribolle tra le viscere, e potrebbe facilmente affiorarle alle labbra nell’ennesimo ghigno che la vita sembrerebbe suscitarle.
Rodolphus sospira, è stremato da lei: non l’ama, ma ne è ossessionato a un punto tale che potrebbe facilmente fantasticare d’ammazzarla senza provare nemmeno uno strascico infinitesimale di rancore.
«Sei una sciocca, se pensi di poterlo avere» la rimbrotta, con un cipiglio duro. «Lui è un Dio, Bellatrix, non puoi pensare che si chini a guardare te».
Lei si sfiora il ventre – è la prima volta che lo fa, e le prova un moto di disgusto che le devasta il cuore e l’anima – e sorride, con aria trionfante. Ma lo ha fatto, sembra dire quel sorriso, e suo marito china il capo pieno di delusione.
«Tu non gli servi» sibila Rodolphus, stringendo le mani tra di loro in un gesto urgente, convulso. «Ti ha avuta, gli darai quel che vuole. E poi cosa se ne farà di te?».
Un’amante senza amore, una bugiarda di troppe bugie e una luogotenente incapace di portare avanti i propri incarichi. Ma lei continua a sorridere, posa una mano su quella pancia come se fosse contenta di sentirla, come se fosse Andromeda o Narcissa con i loro schifosi sogni e castelli in aria e l’amore. Ma non è quello che muove Bellatrix, amore e sesso a parimerito, è l’adorazione viscerale che prova nei suoi divini confronti. Che è quel che muove Rodolphus, ma anche Rabastan e tutti gli altri – se non fosse che lei, sopra tutti loro, è anche indecorosamente e indiscutibilmente donna.
Ed è per questo che la temono, forse la odiano, e sicuramente ne hanno paura per l’ascendente che potrebbe esercitare su di Lui. Soprattutto se riuscirà in quell’impresa pazza e sconsacrata, dargli un figlio.
«Ha detto che dovrai occuparti di Alice Longbottom» commenta, Rodolphus, disgustato. «Un’affare tra donne, tra madri. Potrai capirla meglio di chiunque altro, non trovi?».
Bellatrix ringhia, scopre i denti e potrebbe volerlo morto ai suoi piedi – ma a lei serve il suo nome per difendere quella creatura maledetta che le crescerà dentro, e che lui desidera così tanto. Generato e non creato, dalla stessa sostanza del padre (e, un poco, anche della sua).
«Andiamo» tossisce, sangue rosso sulle pareti e sul lavandino di marmo. «Avvisa Rabastan e quel cucciolo spaurito di Crouch. Andiamo a caccia».
Rodolphus ride, scoprendo la dentatura affilata come quella di un lupo, e scuote il capo indicibilmente scuro. «Puoi sempre restare a casa, mamma» commenta, ironicamente. «Immagino che lui te lo perdonerà».
Lei ha la bacchetta in mano, la formula – Crucio – sulla punta della lingua, ma Rodolphus si lascia sfuggire uno sguardo così divertito e rassegnato da farle abbassare la bacchetta.
«Permettimi di giocare un po’» la rimbrotta, sistemandosi la giacca. «Sono pur sempre tuo marito».
Bellatrix lo guarda nel riflesso dello specchio.
Nausea.
Ha ancora la bacchetta in mano.
Il sangue riprende a scorrere.
 

 
***
 

Urla di dolore le incidono le ossa in un piacevole sussurro: Alice Longbottom si contorce sotto il peso delle sue Cruciatus ma, nonostante tutto, non si scioglie sotto il peso di quelle lacrime che le incrinano l’iride lignea. Eppure provengono dalla sede dell’anima purissima, dovrebbe esser facile permetterle di disciogliersi in un miscuglio insensato d’acqua salina ma lei, Alice, non lo fa mai.
Si morde le labbra, sanguina indecorosamente, ma piangere quello mai – nemmeno in seguito a quell’intrusione forzata, sterile e innaturale di Rodolphus dentro di lei s’è lasciata sfuggire un singolo segno di sofferenza su quel volto dai lineamenti un po’ da elfo.
Piangi, dannazione, piangi.
Bellatrix la guarda e freme, potesse la ucciderebbe con le sue stesse mani, ma ha giurato al suo signore che non renderà semplice il trapasso dei coniugi Longbottom. Che impedirà loro di aggrapparsi alla vita con quel loro disgustoso ottimismo, toglierà ad entrambi vite, onore, e speranze.
La vita non è fatta di speranze, Bellatrix – così le ha detto lui, cogliendole i pensieri con aria distratta – ma di fatti. E il fatto, qui, è che i coniugi Longbottom non possono sopravvivere al dominio del Signore Oscuro.
Lei china il capo, come se quelle parole le stesse pronunciando lui stesso, nei campi oscuri della sua mente e allora sorride. Perché Alice si contorce e urla, come se dovesse uscirle anima e sangue dalle labbra, e lei è indicibilmente soddisfatta del lavoro che sta compiendo.
Dicono che sia labile, il confine tra dolore e pazzia: e Bellatrix è decisa a costringere Alice Longbottom ad oltrepassarlo, finendo in un mondo di cotone colorato e bioccoli lattei pronti a soffocarla in un sonno privo di sogni, fatto interamente di incubi.
«Potresti capire» sussurra l’Auror, rannicchiandosi su sé stessa, e nascondendosi il viso tra le mani. «Sei madre perfino tu».
Bellatrix ha la bacchetta in mano – Crucio – e un urlo in gola: lei, madre, non lo sarà mai e poi mai.
E quello è il limite in cui Alice Longbottom non ce la fa più, in cui i suoi occhi s’allargano e si spanano fino a divenire incolori e, allora, qualcuno la tira per il braccio prima che possa ucciderla.
Dolce morte, non meritata – ma lei la vuole defunta ai suoi piedi, ancora supplicante.
«Dobbiamo fuggire» le sussurra Rodolphus, tirandola per un braccio. «Stanno venendo a prenderci».
Ma lei ha un pugnale in mano, ch’era appartenuto a suo padre e a suo nonno, destinato a due bruciature sull’arazzo – Meda, Sirius – della famiglia Black. Bellatrix sorride, come una pazza, ha i capelli carichi di elettricità statica.
«Che ci prendano pure» risponde, lei, ridendo istericamente. «Ma non rovineranno i suoi piani».
«Non osare» sibila Rodolphus. «Ho bisogno che tu lo tenga, è la nostra unica speranza. Cosa faresti se fosse figlio mio?».
Bellatrix continua a ridere: è dolce, la vendetta che s’infrange sulle speranze di suo marito.
Il coltello penetra nella pancia, non fa nemmeno male.
 

 
***
 

Correre.
I pensieri fluiscono nel dolore senza senso e senza fine al ventre, dove un bambino piange e piange e piange, accoltellato dalla propria stessa madre. Rodolphus corre più veloce di lei, non si fermerà, è chiaro.
Lei lo sa. Neri gli occhi, nera l’anima che cruda avanza nella boscaglia, che dolcemente scivola sotto i piedi e mai riposa – Rodolphus non ama, non è in grado, ma cerca il conforto di altre donne su letti che non siano di spine.
Bellatrix non prova gelosia, come potrebbe? Eppure, correndo, il desiderio di morte l’assale e vorrebbe solamente soffocare quell’infante piangente che suo marito ha seminato nel grembo di Elenie Nott – lei sa, perché coglie i pensieri come il suo Signore e quelli di suo marito suonano vuoti e forti come se li stesse gridando.
Non ha il coraggio di lasciarla andare – lei rimarrebbe vedova, ma separata mai – né di confessarle quel che Bellatrix già sa, eppure. Teme per quell’infante minuscolo come un pugno di riso, o di lacrime, perché percepisce come lei ne conosca l’esistenza e la odi con finto disinteresse.
Non ti aspetterò, urla quella corsa, ma lei già ne percepiva l’ostilità da quel sorriso stiracchiato che suo marito si sciacqua via ogni mattina e si ridipinge in volto ogni sera.
E correre via, con quel sorriso, è semplice come incidersi quel sorriso a mani nude, tirando i lembi di carne aperta e squarciata con i pollici. La lascia indietro, con il sangue che le insozza le cosce e persino l’anima, senza curarsi di vedere se sia viva o morta, se abbia ancora qualcosa ad animarle gli arti o sia crollata per terra.
Ma non serve a niente: Malocchio Moody è più furbo di lui, e sua moglie non ha abbastanza sangue a irrorarle il cervello per trovare una via di fuga che sia possibile, che sia pensabile. Bellatrix sorride all’aria, come se sentisse ancora le ultime confuse parole di Alice Longbottom – sei madre anche tu – e le lacrime che ha confusamente versato, sull’orlo della follia.
Correre non basta.
Perché Alastor Moddy e la sua squadra li osservano, davanti e dietro di loro: hanno già preso Rabastan, ma Rodolphus venderebbe l’anima e il corpo di suo fratello pur di riuscire a fuggire. Bellatrix ride: niente più vino per Madame Lestrange, sussurra a sé stessa, e suo marito l’osserva disgustata.
Neri gli occhi in quel campo, santo, che si staglia come una marea d’occasioni perse e distrutte da quella pattuglia di Auror che li circonda a bacchette sfoderate. Sono motivati dal dolore della perdita, anche loro.
Sei settimane fa, Dorcas Meadowes è stata uccisa dalle mani delicate dell’Oscuro Signore, e i capelli biondi come il sole morente le sono tramontati in volto, nascondendone i lineamenti da elfo e gli occhi di un delicato color nocciola. Sei settimane fa, un uomo ha perso la moglie e Malocchio Moody ha perso la sua miglior allieva, senza lo scroscio di una singola lacrima – ma ha promesso vendetta.
Dieci settimane fa, Marlene McKinnon è stata trucidata assieme alla propria famiglia, che contava anche un bambino di sei anni, e Bellatrix Lestrange ha bevuto sangue e vino rosso in quella casa sfregiata da lampi verdastri. Malocchio Moody ha perso un’altra allieva e, già quella volta, aveva promesso vendetta.
Nero l’occhio di Moody, azzurro l’altro che li scruta con la medesima follia di Madame Lestrange, e vendetta incavata nei tratti del suo volto. Alza la mano, fa un cenno ai suoi, sono tutti con la bacchetta puntata.
Rodolphus trema, non è mai stato nei suoi piani morire della morte del topo – e, su di lui, non grava alcuna vendetta o promessa. Ha un bambino di pochi mesi che l’attende in una casa non sua, che piange di mancanza e lui ha visto a malapena due volte, per fedeltà a una moglie che agita la mano come per richiedere l’ennesimo calice di vino.
Ma il vino è finito, per lei, signora Lestrange: ha un esserino che annaspa nel sangue, pugnalato a morte, e non sarà facile cavarlo via di lì.
«Prendi lei» sibila, con schifo, rivolto a Malocchio Moody. «Il pesce grosso mangia il pesce piccolo, e lei sta sanguinando del figlio dell’Oscuro signore».
L’Auror strabuzza l’occhio sano, stupito: Bellatrix Lestrange si tiene il ventre con entrambe le mani, contorcendosi dal dolore ai loro piedi. Preserva una certa fierezza in quel dolore viscerale, e Moody non riesce a non ammirarne l’alterigia mentre li osserva tutti, uno per uno, e ride forte. Anche se, braccata e sanguinante, questa volta lo è lei.
Pensa a Dorcas, Alastor, pensa a Marlene e a tutti coloro che sono passati dai lampi di quella bacchetta. Pensa a Dorcas, pensa a Marlene e s’accende di rabbia repressa – e repressa vedetta.
«Un figlio di Voldemort, Lestrange?» tuona, osservandola con schifo. «Se è vero quel che dici, tua moglie non metterà mai più piede fuori da Azkaban».
Se sopravvivrà, vorrebbe dirgli, ma trattiene parole inclementi su quella clemenza naturale che la sua migliore allieva gli aveva insegnato: avrebbe frenato bacchetta e parole, Dorcas, e svolto il suo lavoro con quella grazia innata che la caratterizzava.
«Prendete lei, mio fratello, chi volete» ribadisce Rodolphus, con dignità. «Io non sono coinvolto».
Non sa che Malfoy ha già parlato, e dai suoi denti perfetti si son rotte verità stuccate e imbiancate e smaltate: ha parlato dei Longbottom, dei piani del suo Signore e – che lui lo perdoni – dell’eccidio dei McKinnon, della morte della Meadowes.
Alastor Moody ride, e mostra denti incrinati e scheggiati come lo è la sua anima da sei settimane a questa parte, scuotendo il capo.
«Non credo proprio, Lestrange» abbaia. «Getta la bacchetta e fai fare lo stesso a tua moglie. Siete in due contro trenta Auror, farete meglio ad arrendervi».
E, forse, mostrerà quella clemenza che loro hanno negato a Dorcas, a Marlene, ai coniugi Longbottom e ai Potter.
«Lui ci porterà indietro» risponde Bellatrix, mentre una goccia di sangue le scola lungo la coscia. «Prendeteci e morite per la sua punizione».
Glielo dicono in quel momento, e il suo urlo squarcia l’esistenza, che lui è semplicemente morto e se non è morto è sparito ed è (o ha) dimenticato.
Questa volta non serve il vino, Madame Lestrange.
 
 
In tutti gli altri eventi, piena è la donna di paure, e vile contro la forza, e quando vede un ferro; ma quando, invece, offesa è nel suo talamo, cuore non c'è del suo più sanguinario.
 

Buongiorno e un felice Natale a chi mi sta seguendo.
Ho scritto questa storia per Severa Crouch (di cui vi lascio il profilo), sperando di riuscire a replicare la precisione e la passione con cui lei riesce a scrivere di questi personaggi. Per me è stato un piacere e un onore poterti regalare questa breve bicapitolo, spero davvero che ti piaccia e di aver fatto una cosa gradita.
Il prossimo capitolo uscirà il 29 dicembre, e sarà ambientato in un tempo diverso, ovvero il settimo libro. Aggiungo che le citazioni a inizio e fine capitolo provengono dalla Medea di Euripide.
Grazie per avermi letta,
Gaia
   
 
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