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Autore: _Agrifoglio_    28/01/2021    14 recensioni
Una missione segreta, un’imboscata vicino al confine austriaco e il corso degli eventi cambia. Il senso di prostrazione dovuto al fallimento, il dubbio atroce di avere sbagliato tutto, un allontanamento che sembra, ormai, inesorabile, ma è proprio quando si tocca il fondo che nasce, prepotente, il desiderio di risorgere. Un incontro giusto, un’enorme forza di volontà e, quando tutto sembrava perduto, ci si rimette in gioco, con nuove prospettive.
Un’iniziativa poco ponderata della Regina sarà all’origine di sviluppi inaspettati da cui si dipanerà la trama di questa storia ricca di colpi di scena, che vi stupirà in più di un’occasione e vi parlerà di amore, di amicizia, di rapporti genitori-figli, di passaggio alla maturità, di lotta fra concretezza e velleitarismo, fra ragione e sogno e della difficoltà di demarcarne i confini, di avventura, di duelli, di guerra, di epos, di spirito di sacrificio, di fedeltà, di lealtà, di generosità e di senso dell’onore.
Sullo sfondo, una Francia ferita, fra sussulti e speranze.
Davanti a tutti, un’eroica, grande protagonista: la leonessa di Francia.
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Carnevale di Venezia
 
Reggia di Versailles, gennaio 1800
 
Concentrata e tesa come una corda di violino, la Contessa Geneviève de Compiègne presiedeva all’operato delle sue cameriere che stavano riempiendo alcuni bauli da viaggio.
– No, quello no, Christine. Mettete, invece, il mantello bordato di pelliccia che è più adatto al freddo invernale. Ricordate l’abito turchese e quello color avorio.
– Sì, Signora Contessa.
– Fatica sprecata, tanto, qualunque abito indossiate, sarete sempre un pianto! – sentenziò acidamente la Contessa madre di Compiègne – Oggi, per esempio, sembrate un limone raggrinzito avvolto in un cartoccio viola!
Geneviève de Compiègne contrasse i muscoli e, d’istinto, abbassò lo sguardo sul suo abito color lavanda che, come quasi tutti, poco legava col colorito giallognolo dell’incarnato e col biondo paglierino dei capelli di lei.
– La vostra bontà, come sempre, mi commuove, Madame la Comtesse – rispose seccamente la nuora, stanca di anni di soprusi e di vessazioni.
Dopo quasi sette anni di servizio come dama di compagnia della Regina, l’infelice sposa del Conte Maxence Florimond de Compiègne non era più la sprovveduta zitella di provincia di un tempo, ma una donna disincantata, smaliziata e avvezza alla vita di corte.
– Io non faccio altro che dire la verità! Sono stati la vostra scarsa avvenenza e il vostro fascino inesistente, uniti all’avarizia vostra e della vostra genitrice, a decretare la rovina di mio figlio!
– Che cosa?! – esclamò, esterrefatta, Geneviève de Compiègne.
– Sì, è così! – incalzò, implacabile, la Contessa Bérénice Eulalie – Mio figlio non avrebbe avuto bisogno di assecondare gli intrighi del Duca d’Orléans, se avesse trovato in casa un talamo accogliente e se voi e vostra madre non foste state così pervicacemente avvinghiate ai cordoni delle vostre borse!
– Questo è troppo, Signora!
– Se foste stata, da subito, una brava moglie, adesso, non avreste alcun bisogno di partire per Venezia per incontrare mio figlio, perché egli sarebbe qui – continuò, come se nulla fosse, la suocera – E, soprattutto, se foste stata una persona a modo, mi avreste invitata a venire con voi!
– E voi avreste intrapreso il viaggio? – domandò, con malcelato sarcasmo, la nuora.
– Certo che no! I disagi degli spostamenti e il gelo invernale non possono che nuocere al mio affanno respiratorio… Siete molto insensibile a esservene dimenticata… Tuttavia, sarebbe stato degno della nuora rispettosa che non siete propormi ugualmente di unirmi a voi e lasciare a me la scelta di declinare l’offerta!
– Vedo che, seppur tortuosamente, siamo giunte a un accordo: io parto e voi restate qui.
– Bene, me ne torno a casa mia, tanto, qui, nessuno mi rispetta!
Detto ciò, l’anziana Contessa si alzò dalla sedia e, senza salutare, lasciò le stanze della nuora e la reggia, diretta verso la casa in cui abitava, la cui pigione era pagata interamente col denaro di Casa d’Amiens.
Andata via la nonna che non gli aveva rivolto un solo sguardo, il settenne Héracle Domitien, Marchese d’Amiens, libero dalla paura e dalla soggezione che l’anziana donna gli incuteva, corse verso la mamma, con le sue gambette esili e lunghe. Era un bambino alto, magro, sgraziato, sensibile, intelligentissimo e molto affezionato alla madre. Aveva ereditato lo sgradevole aspetto fisico dai d’Amiens mentre la bontà, la dolcezza, la sensibilità e l’intelligenza acuta erano un tratto caratteristico di uno dei rami della famiglia de Girodel. Il Generale Victor Clément ne aveva notato il buon carattere e l’aveva preso sotto la sua ala protettrice, supplendo all’assenza del padre degenere e collaborando con la cugina acquisita all’educazione di lui.
– Madre, perché partite? Portatemi con Voi, non mi lasciate solo!
– Non resterai solo, Héracle – disse la madre, stringendolo forte a sé – La tua prozia, la Marchesa d’Auteuil, si occuperà di te in mia assenza.
Dicendo ciò, guardò in direzione della zia che sedeva nel punto della stanza dalla quale era arrivato il bambino.
– Geneviève, non capisco questa tua decisione repentina! – protestò l’anziana signora, alzandosi in piedi – Ti metti in viaggio all’improvviso, tu che sei di natura sedentaria e per nulla avventurosa e parli come se non dovessi tornare.
– Ma cosa dite, Signora Zia, certo che tornerò!
Così rispose, ma sentì di mentire mentre abbracciava e baciava il suo bambino.
 
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Venezia, febbraio 1800
 
Il Conte di Compiègne tornò a casa soddisfatto, dopo un’allegra mattina passata in compagnia degli amici al Caffè Florian, ma il sorriso gli si spense repentinamente in volto quando, nel mettere piede in salotto, vi scorse, seduta, la detestata consorte che non vedeva da quasi sei anni.
Dopo i primi attimi di sconcerto, riprese padronanza di sé ed esclamò:
– Voi… Perché siete qua?
– Sono lieta anch’io di rivedervi, Monsieur – rispose, seccamente, la Contessa Geneviève.
– Perché siete venuta a Venezia? – ripeté lui.
– Per parlarvi di Héracle Domitien – rispose, con un filo di voce, senza guardarlo negli occhi, nella speranza che, così, la menzogna non sarebbe stata percepita – Dopo tutto, è anche vostro figlio.
– E c’era bisogno di venire sin qui?! Non potevate scrivermene per lettera? – protestò lui, esasperato e isterico.
– Il vostro amore di padre è la parte di voi che mi commuove di più – ribatté la moglie, con un’ironia appena sufficiente a celare l’odio per l’uomo che l’aveva calpestata, derisa, umiliata, tenuta prigioniera e sfruttata.
Il modo in cui ne era diventato il marito era stato soltanto l’inizio di una lunga serie di maltrattamenti che avevano totalmente cancellato le illusioni giovanili di lei e che erano sfociati nel tentativo di procurarne la morte per parto.
– D’accordo, parleremo del bambino, ma non adesso. Ho la giornata totalmente impegnata e non pranzerò a casa.
– Vedo che su una cosa almeno ci troviamo d’accordo, dato che io ho già desinato e che, questo pomeriggio, sarò fuori casa per alcune commissioni.
– Dite la verità – la punzecchiò, sarcasticamente, lui – Siete venuta perché l’idea del Carnevale di Venezia vi attira. Camminando tutti per le strade a volto coperto, per una volta, non vi troverete in svantaggio rispetto ai vostri simili.
– Constato che il passare del tempo ha appesantito i vostri lineamenti – rispose lei, senza battere ciglio – ma non ha scalfito il vostro amabile carattere.
Il Conte di Compiègne si diresse verso la porta, non essendo abituato e non tollerando che la moglie, che lui ricordava molto brutta e povera in spirito, gli tenesse testa, ma, d’improvviso, fu attraversato da un pensiero che lo paralizzò.
– Ora che siete qui, non pretenderete di…
Ella lo guardò, comprese al volo e rispose con decisione:
– Certo che no.
– Oh, bene! – reagì lui, visibilmente sollevato – Parleremo del ragazzo quando se ne presenterà l’occasione. Buona giornata.
 
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Calli di Venezia, febbraio 1800
 
Accompagnata dalla sua cameriera personale, la Contessa Geneviève de Compiègne camminava per le calli di un sestriere veneziano abitato prevalentemente da popolani. Le maschere che le due donne indossavano e che coprivano per intero i loro volti infondevano loro molta sicurezza. Non essere riconoscibili è sempre di conforto, quando si sta facendo qualcosa di pericoloso.
Nessuno prestava loro attenzione. Due donne mascherate, nel carnevale veneziano, erano come due gocce d’acqua nel Canal Grande.
Giunsero, infine, davanti a una modesta pensione, vi entrarono e bussarono alla porta di una camera al secondo piano.
L’uscio si aprì e il Generale de Girodel diede il benvenuto alle due donne.
Nella stanza, c’erano anche Oscar, André, il Conte di Fersen, il Maggiore de Valmy e Sir Percy Blakeney, con i quali Geneviève de Compiègne e la cameriera avevano fatto il viaggio.
– Come state, Madame? – le domandò Oscar, visibilmente preoccupata per i rischi che il piano comportava per la Contessa di Compiègne.
– Va tutto bene, Generale, Vi ringrazio – rispose quella – Se si eccettua che ho dovuto rivedere mio marito, posso dire che va tutto bene. Queste sono le chiavi del palazzo dove abita il Conte, la cui pigione è rigorosamente pagata dal Duca d’Orléans, ne ho avuto oggi la conferma.
– Grazie, Madame – disse Oscar, tendendo le mani per prendere il mazzo di chiavi.
– Di nulla, Generale – rispose Geneviève de Compiègne – E’ il minimo che possa fare, dopo che la mia presenza a corte come dama di compagnia ha agevolato mio marito nel disegno di trafugare tutti quei documenti dall’armadio della Regina.
– La Regina Maria Antonietta continua a fidarsi di Voi – si inserì il Conte di Fersen – e, infatti, seppure con riluttanza perché temeva per la Vostra incolumità, ha approvato la nostra missione a Venezia e la Vostra partecipazione ad essa.
– Grazie, Conte di Fersen. La fiducia della Regina mi rende orgogliosa.
– Siete sicura che Vostro marito non abbia dei sospetti e che non Vi abbia fatto seguire? – le domandò André.
– Ne dubito fortemente – rispose la donna – Si cura di me meno che delle sue scarpe e mi evita come la peste. Il pomeriggio del nostro arrivo a Venezia, la mia cameriera ha chiesto le chiavi al portinaio, dicendo di doverne fare una copia per me. Con l’occasione, ne ho fatta fare una anche per Voi. Nessuno mi ha seguita e nessuno potrebbe immaginare che delle persone del Vostro rango alloggino in una pensione così modesta.
La cameriera confermò le parole della padrona con un tacito cenno del capo.
– Noi, del resto, usciamo sempre a volto coperto e il bello è che, in questo luogo e di questi tempi, l’anomalia sarebbe il contrario – scherzò il Maggiore de Valmy.
– Credo che mio marito conservi le lettere che riceve dal Duca d’Orléans nel suo studio. Non le ho mai viste, ma ritengo che sia così. Quando è in casa, sta chiuso lì per ore e non credo che lo faccia soltanto per evitarmi. C’è, però, un gruppetto di lettere che egli porta sempre con sé. Lo so perché un valletto che fa la corte a Juliette glielo ha confidato.
La cameriera annuì con un sorriso divertito.
– Sapete se e quando la casa rimarrà vuota? – le domandò Oscar.
– Nella serata di martedì grasso, mio marito darà la libera uscita ai suoi servitori che resteranno fuori del palazzo fino alle sei del mattino. Egli stesso, nel tardo pomeriggio, si recherà a una festa a Palazzo Vendramin, abbigliato con un abito color oro e col volto coperto da una maschera di seta, raffigurante il sole e lì rimarrà per tutta la notte. Se lo conosco bene, si ubriacherà e, allora, potrete agevolmente sottrargli le lettere che porta con sé. Né Juliette né io, purtroppo, abbiamo accesso alle stanze di mio marito e allo studio.
– Perfetto! – esclamò Sir Percy Blakeney – Chiederò al mio amico, il Conte Grimani, di procurarci degli inviti per quel ricevimento.
– Bene – concluse Oscar – grazie agli inviti che ci farà avere il Conte Grimani, potremo pedinare il Conte di Compiègne e sottrargli le lettere che porta sempre con sé. Dopo di che, entreremo nel palazzo e lo perquisiremo, approfittando dell’assenza della servitù. Dobbiamo predisporre il piano nei dettagli.
– Io, adesso, Vi devo lasciare – disse la Contessa Geneviève – Ho detto che sarei andata da una modista rinomata che si trova dall’altra parte della città e non ho ancora messo piede in quella bottega.
Pronunciate queste parole, si accomiatò da Oscar e dagli altri e se ne andò insieme alla sua cameriera.
 
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Venezia, 25 febbraio 1800, martedì grasso
 
Rimasero appostati nei pressi del palazzo dove risiedeva il Conte di Compiègne, pazientemente seduti in una gondola presa a noleggio, finché non lo videro uscire, anch’egli in gondola, dal portone delle imbarcazioni.
Come la Contessa Geneviève aveva loro rivelato, era abbigliato con un abito color oro, intessuto di fili aurei e adornato con uno jabot e, ai polsi, con delle cadute in pizzo. Il copricapo, dello stesso colore, era bordato di piume. Il volto era coperto da una maschera anch’essa del colore dell’oro che, tutt’attorno all’ovale del viso, si diramava in piccoli raggi ondulati.
– Indossa un costume da Dio del Sole, peccato che abbia le tenebre dentro – commentò, sarcasticamente, Girodel – Sin da piccolo, ha sempre avuto un’alta opinione di se stesso.
Fecero cenno al gondoliere di seguirlo, iniziando, così, a risalire il Canal Grande fino a Palazzo Vendramin.
Benché l’ora fosse prossima al tramonto, videro chiaramente gli abiti indossati dalle persone che camminavano per strada o sui ponti che sovrastavano il Canal Grande e quelli dei passeggeri della altre gondole. C’era un passante con un copricapo a forma di cigno e un ampio mantello piumato mentre, poco più in là, una coppia di coniugi esibiva due velieri in testa e degli ampi e sontuosi abiti che, per colore e panneggio, ricordavano i flutti dell’oceano. Un gruppo di giovani faceva mostra di abiti a strisce variopinti con il cappello a sonagli tipico dei giullari. Su una gondola, una persona sfoggiava un vestito color fuoco e, intorno al volto, lunghi raggi rosseggianti mentre un’altra indossava una tunica argentea e la falce lunare. Da sopra un ponte, un giovanotto panciuto, vestito da Bacco, lanciava grappoli d’uva e uno di essi finì in grembo a Sir Percy che lo afferrò, lo levò verso la divinità e ringraziò con un cenno del capo. Da una gondola, una giovane, raffigurante la dea Flora, spargeva fiori per il canale, suscitando applausi e acclamazioni per la sua bellezza.
Quando la gondola ormeggiò davanti a Palazzo Vendramin, Oscar e gli altri misero piede sulla terra ferma e si diressero verso il portone principale. Mentre ponevano mano agli inviti, rigorosamente anonimi, che l’amico di Sir Percy aveva procurato loro, una persona, abbigliata con un ampio costume non riferibile ad alcuna epoca storica precisa, ornato intorno al collo e sul copricapo con delle carte da gioco, iniziò a intrattenerli con inchini, piroette e abili esibizioni di prestidigitazione effettuate con le carte e con veloci e sinuosi movimenti delle mani. Poco più in là, alcuni saltimbanchi, abbarbicati su trampoli lunghissimi, davano il benvenuto ai nuovi arrivati.
Entrati nel palazzo, la loro attenzione fu subito attirata da una miriade di immagini variopinte e fantasmagoriche. Tutti gli invitati erano resi irriconoscibili da maschere di porcellana o di stoffa che coprivano i volti per intero, ma, curiosamente e paradossalmente, ognuno di loro era unico, tanto erano fantasiosi ed eccentrici i costumi. Sultani e dei dell’Olimpo, fiori e strani animali si susseguivano in un vortice di baldoria reso ancora più turbinoso dalla consapevolezza dell’imminente Quaresima. In quell’affascinante frastuono, sarebbe stato molto facile perdere di vista l’obiettivo e lasciarsi sfuggire il Conte di Compiègne. Consapevoli di ciò, Oscar e gli altri acuirono i loro sensi e moltiplicarono gli sforzi, quando un’invitata, vestita da orologio, iniziò a seguirli e a volteggiare attorno a loro, con gesti eleganti, ma senza proferire parola, invitando alle danze Sir Percy, che era il più vistoso e leggiadro con un costume azzurro ornato da piume di pavone. Sir Percy declinò l’invito con gentile fermezza e tutti insieme seguirono il Conte di Compiègne nel salone principale.
Nella sala, sfavillante di marmi e di lampadari di Murano, affrescata superbamente e rilucente di oro veneziano, molte maschere apparivano dalla massa e, di nuovo, vi scomparivano: dame con cappelli di fiori e di piume, gentiluomini con mirabolanti corone e una coppia di coniugi con sontuosissimi abiti damascati e due copricapi tempestati di pietre preziose, culminanti in ceste di lunghi fiori di campo. Non mancavano i gruppi a tema e, se, da un lato, c’era il firmamento, col sole, la luna, i pianeti e le stelle, dall’altro, risaltava un invitato con un costume, tenuto su con delle assi lignee e agitato da uno strano congegno, raffigurante il fuoco e, tutt’intorno, tante giovinette flessuose e danzanti impersonavano le scintille. C’erano anche le allegorie dei quattro fiumi e delle quattro stagioni, persiani, cinesi, nativi d’America, scandinavi, piante, alberi, fiori e animali. In fondo alla sala, un’orchestra di musicisti, dai volti rigorosamente mascherati, intonava arie veneziane mentre bambini di colore, con strani turbanti e sfarzosi costumi di foggia orientale, servivano agli ospiti cibi e bevande su vassoi d’oro.
Il Conte di Compiègne si intratteneva piacevolmente con questo e quell’invitato, scherzando, danzando e bevendo e il gran numero di dame che gli ruotava intorno era un significativo indizio della frequenza con cui aveva infranto i voti coniugali.
Oscar, André, Girodel, Fersen, Valmy e Sir Percy lo tenevano d’occhio costantemente, di tanto in tanto disturbati da una fenice, da un iris, da una felce o da un giaguaro, ma, finché quello fosse rimasto in sala, circondato da tutti, ogni speranza di avvicinarlo e di perquisirlo sarebbe stata vana. Occorreva aspettare che si appartasse o che iniziasse a barcollare per il troppo bere, così da avere l’opportunità di corrergli in soccorso e di sorreggerlo.
Dopo circa tre ore, la fortuna girò e sembrò andare in loro aiuto. Il Conte di Compiègne, evidentemente un po’ alticcio, abbandonò le sue compagnie e si diresse, con passo affaticato, verso una delle uscite della sala. Oscar e gli altri si apprestarono a seguirlo, ma, di nuovo, l’orologio si accostò a loro, iniziando a volteggiare e a stuzzicarli. Sir Percy afferrò un braccio della dama e la fece girare su se stessa con una piroetta, al termine della quale le porse una primula rossa e si congedò da lei con un inchino.
Usciti dalla sala, videro, in lontananza, ben tre gentiluomini vestiti con abiti color oro e con la maschera del sole sul volto. Furono colti dallo stupore, pensando di essere loro gli ubriachi, finché il buon senso non riprese il sopravvento, facendoli avvicinare.
– Mio cugino è quello – sussurrò Girodel, indicando uno dei tre soli – Sullo jabot, ha una spilla di oro e corallo, raffigurata in uno dei ritratti della galleria dei miei avi, che faceva parte della dote di mia zia.
Il gentiluomo così individuato si diresse verso una terrazza, con l’evidente intenzione di prendere un po’ d’aria e gli inseguitori lo imitarono velocemente. Mentre il Conte di Compiègne teneva appoggiate le mani sul parapetto, Girodel imbevette un fazzoletto con una boccetta di laudano che aveva acquistato in una farmacia veneziana e lo premette sulla bocca del cugino. Il Conte perse lentamente i sensi e André e Sir Percy lo sorressero per le braccia e lo adagiarono sul pavimento. Oscar lo perquisì accuratamente, finché, in una delle tasche del gilet, non trovò un pacchetto di lettere, legate da un nastro di seta azzurro. Il Maggiore de Valmy, nel frattempo, era rimasto sulla soglia della terrazza, a sorvegliare che nessuno si avvicinasse.
Terminata l’operazione, André, Fersen, Valmy e Sir Percy afferrarono il Conte di Compiègne per un arto ciascuno, lo riportarono all’interno e lo sistemarono su uno dei divanetti del corridoio. Alcuni ospiti videro la scena, ma non vi badarono, pensando a un ubriaco raccolto dagli amici.
– Con quel laudano, ne avrà per tutta la notte – disse Oscar – Presto, lasciamo questo palazzo e torniamo a casa del Conte di Compiègne per perquisire lo studio.
 
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La gondola, guidata da un servitore del nobile veneziano amico di Sir Percy, si avvicinò silenziosamente all’ingresso delle imbarcazioni del palazzo ove viveva il Conte di Compiègne. Col favore delle tenebre e siccome quasi tutti gli abitanti del sestriere erano a fare baldoria, nessuno si accorse di loro.
Utilizzando le chiavi fatte fabbricare per loro dalla cameriera personale della Contessa Geneviève, furono presto all’interno.
Come Madame de Compiègne aveva loro preannunciato, il palazzo era vuoto, perché alla servitù era stata data la libera uscita.
Grazie alle indicazioni fornite loro dalla nobildonna, arrivarono presto al piano nobile, dove, in una delle stanze, notarono un bagliore. Misero le mani sull’elsa della spade, ma la precauzione risultò inutile, perché, pochi secondi dopo, videro avvicinarsi la Contessa Geneviève e la cameriera personale di lei con un candelabro d’argento in mano.
– Ce l’avete fatta, quindi. Ne sono lieta – disse Madame de Compiègne – Lo studio del Conte e lì. Alla servitù è stato detto di rientrare alle sei del mattino. Quanto a mio marito, se, come penso, è ubriaco, non si farà vivo almeno fino alle dieci.
– Vi ringrazio, Madame – disse Oscar – Quanto a Vostro marito, egli è più che ubriaco, Ve lo assicuro, trovandosi sotto l’effetto del laudano.
Per nulla impressionata dalle condizioni del consorte, la Contessa indicò loro dei candelabri che avrebbero potuto usare per avere luce, pregandoli, però, di non accendere il camino, circostanza della quale i servitori si sarebbero sicuramente accorti.
Oscar e gli altri iniziarono a perquisire scrupolosamente ogni angolo e ogni mattonella dello studio, ma tanta accuratezza si rivelò eccessiva perché il Conte di Compiègne, sentendosi al sicuro a Venezia, aveva riposto tutte le lettere nel cassetto principale della scrivania. Fra le missive, trovarono anche quelle che André aveva trafugato dalla tenda di Napoleone e che due sconosciuti, spuntati dalla folla, avevano sottratto a lui, a Londra, mentre le guardie lo portavano in carcere.
Poiché terminarono il lavoro intorno alle tre di notte, decisero, per completezza, di perquisire anche la camera da letto del Conte, ma, in essa, nulla trovarono di rilievo.
Alle cinque di mattina, presero commiato dalla Contessa Geneviève.
– Vi ringrazio, Madame – disse Oscar – Senza di Voi, il nostro compito sarebbe stato molto più difficile. Vi suggerisco, però, di venire via con noi. Abbiamo lasciato tutto in ordine, ma Vostro marito, tornando a casa, potrebbe accorgersi che le lettere sono sparite o che qualcosa è stato spostato e potrebbe anche avvedersi di non avere più i carteggi che portava sempre con sé. A quel punto, non sareste al sicuro.
– Vi ringrazio, Generale, ma preferisco restare qui. Ho ancora una cosa da fare.
– Vi prego di riconsiderare la Vostra decisione, Cugina – fece eco Girodel – Vostro marito non tarderà ad accorgersi dell’ammanco e lo ricollegherà invariabilmente al Vostro arrivo inaspettato. Sappiamo tutti che egli è capace di reazioni violente e furiose.
– Venite con noi, Madame – intervenne André – La pensione dove alloggiamo è di poche pretese, ma è pulita, riscaldata e rispettabile e, poi, servono degli ottimi pasti. Prenderemo una stanza in più per Voi.
– Qui, non siete più al sicuro – aggiunse il Conte di Fersen.
– Signori, Vi ringrazio, ma preferisco lasciare questa casa il giorno in cui partiremo per la Francia.
– Come volete, Madame – disse Oscar – Lasceremo Venezia la mattina di giovedì.
I sei salutarono la Signora e varcarono la porta d’ingresso.
Pur essendo rimasto in silenzio, Sir Percy aveva capito che qualcosa non quadrava. Rivolto un ultimo sguardo alla Contessa, le fece un rispettoso inchino e uscì anche lui.
 
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Venezia, 26 febbraio 1800, mercoledì delle Ceneri
 
Intorno a mezzogiorno, il Conte di Compiègne rientrò nel suo palazzo sul Canal Grande, afflitto da una forte cefalea e rallentato da un perdurante intorpidimento, dovuti agli strascichi del vino e del laudano.
Non essendosi imbattuto in alcun servitore al quale chiedere informazioni, si recò nelle stanze che aveva assegnato alla moglie – le più anguste, umide, disadorne e scomode del piano nobile e, soprattutto, le più lontane da quelle che occupava lui – con la speranza di scoprire che se n’era andata e grande fu la delusione nel vederla ancora là.
– Dopo una notte di piacevoli divertimenti, torno qui e vedo il vostro volto. E’ mercoledì delle Ceneri, in fondo – disse il Conte, con voce nauseata dalla vista della consorte oltre che dalle conseguenze dei bagordi.
– Sono vostra moglie da quasi dieci anni. Per me, è sempre mercoledì delle Ceneri – rispose, con sarcasmo, la Contessa.
– Un tempo, eravate entusiasta di avermi sposato – protestò lui, la cui vanità gli rendeva inammissibile di essere detestato persino dalle persone che non voleva intorno a sé.
– Un tempo, ero sciocca – ribatté lei, con voce lapidaria e incolore.
– Siete venuta a Venezia appositamente per insultarmi? – ringhiò lui, contenendo a stento l’ira.
– Sono venuta qui per parlarvi di nostro figlio, ma l’argomento non ha destato la vostra attenzione – mentì lei, guardando con odio l’uomo che le aveva distrutto la vita e che mai aveva mostrato un barlume di affetto per il bambino.
– Quel ragazzino… – biascicò lui, portandosi una mano alla fronte, quasi a contenere una fitta della cefalea – Praticamente non lo conosco ed è meglio che sia così, perché è brutto come voi… Ma vedo che ve ne state andando – aggiunse, con evidente sollievo, dopo avere notato alcuni bauli in un angolo della stanza.
– Sì, me ne sto andando, ma, prima, devo fare una cosa – rispose la moglie senza guardarlo.
Si avvicinò a un tavolino dove aveva appoggiato una borsa da viaggio di velluto verde scuro, la aprì leggermente e vi infilò dentro la mano che strinse con decisione sul calcio di madreperla di una piccola pistola.
Nel fare ciò, un ciondolo effigiante il figlio, che teneva appuntato sul corsetto, si arpionò a una delle decorazioni della borsa, si sganciò e rimase impigliato a un manico. Lei lo prese con la mano libera e, guardandolo, si commosse e gli occhi le si riempirono di lacrime. Quel bambino, disprezzato e rinnegato dal padre, era l’unica ragione di vita che le rimaneva e da lui voleva tornare, per viverci insieme e vederlo crescere, per tutti i giorni che le sarebbero rimasti.
– Cosa dovreste fare, di grazia? – le chiese lui, con impazienza mista a degnazione.
Lei lasciò andare la rivoltella, richiuse la borsa, si voltò lentamente verso di lui e lo fissò negli occhi.
– Sono venuta a dirvi addio. Appena sarò tornata in Francia, avvierò le pratiche per ottenere dalla Sacra Rota la dichiarazione di nullità del nostro matrimonio. Di argomenti, ne esistono tanti quante sono le onde del mare.
– Ma non potete! La vostra dote mi appartiene! Appartiene a me e alla mia Signora Madre! Limitatevi a tornare in Francia e non fate altre sciocchezze, ve lo ordino!
– Dei vostri ordini non so che farmene e la sorte vostra e della vostra Signora Madre mi è del tutto indifferente. Uscite da questa stanza, perché devo finire di prepararmi. Ora e per sempre, addio.
Pronunciate queste parole, indicò la porta e, subito dopo, gli voltò le spalle.

 
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