Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 10.11.2021
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Capitolo
Ventiseiesimo
Confiteor
(Non
desiderare la donna altrui; Non desiderare la roba d'altri.)
Parte 2
Ma la
tentazione! La tentazione dell’amor profano!
A quello
il ragazzo ci cogitava parecchio, da sveglio e dormiente,
peccato che l’implementazione non accadesse ai suoi termini,
indifferente egli
agli sfottò dei suoi amici che lo definivano uno
“schizzinoso”: a lui le
prostitute comuni non dicevano niente, piuttosto lo disgustavano, quei
fantocci
imbellettati, volgari e indifferenti. Perché accontentarsi
di polenta, quando
si poteva assaggiare pane bianco? Tecnicamente, anche Luzia Trivixan
apparteneva alla categorie delle peripatetiche, eppure nessuno la
insultava né
dopo averla posseduta i suoi clienti si dimenticavano di lei,
ritornando invece
ancor più bramosi di prima, perennemente insoddisfatti. E
lei, crudele, li
tormentava, si negava, si dava ora generosa ora avara; con intuito
pazzesco
inquadrava l’uomo e gli ritorceva contro le sue debolezze,
trasformandosi nella
donna che voleva.
Trascorrendo
i pomeriggi con la cantante, onde migliorare le sue
competenze di liutista dilettante o semplicemente per chiacchierare,
Hironimo
aveva avuto modo di studiarla con comodo, cercando di vedere al di
là dell’aura
di pura prorompente femminilità emanata dalla cortigiana
honorata. S’era sorpreso
di scorgervi, dietro all’ingannevole civetteria e aria da
perpetua bambolina,
uno spirito intrepido e avvezzo alla guerra di sopravvivenza. Il mondo
di Luzia
tanto era bello quanto effimero, un unico passo falso e lei poteva
perdere in
un battibaleno quanto conquistatosi a fatica.
Sicché
ella aveva col tempo sviluppato la medesima fredda
razionalità di un condottiero, che studia il piano
d’attacco avanti ordinare la
carica: Luzia progettava spietata la maniera di sbaragliare
l’insidiosa
concorrenza delle colleghe e sceglieva accuratamente i suoi clienti,
infischiandosene del rango, età e patrimonio di chi
rifiutava, badando più ai
benefici a lungo termine che a breve. Se l’arciere tendeva la
corda dell’arco,
di persona lei accordava il suo preziosissimo liuto, ascoltando
attentissima la
tonalità giusta; i suoi elegantissimi e preziosi vestiti
corrispondevano alla
sua armatura, i gioielli il suo vessillo, la schiera esotica di
famigli,
suonatori, ballerini e acrobati la sua compagnia di ventura. Al posto
di una
spada, la cortigiana honorata brandiva i suoi eccentrici ventagli, gli
alti
calcagnetti il suo destriero e l’arguzia mascherata da
superficialità lo scudo
dietro cui ripararsi.
Hironimo
l’aveva definita, non a torto, un’opera
d’arte vivente,
perché rispecchiava perfettamente la natura di Luzia, la
quale non viveva in
pigro e decadente lusso al pari di una concubina da harem,
bensì lavorava
costantemente al miglioramento di sé, informandosi su ogni
minuscolo aspetto
del mondo che la circondava, acciocché nessun cliente la
pigliasse mai
impreparata. S’informava sulle mode correnti e lei stessa
improvvisava il suo
stile; arrivava a leggere fin quasi all’alba gli ultimi saggi
e produzioni
letterarie, in contemporanea alle otto ore giornaliere di prove di
canto,
esercitandosi fino allo sfinimento e trasformandosi lei stessa in uno
strumento
d’affinare, fino a giungere alla perfezione di cui parlava il
giovane Tician.
Hironimo era giunto alla conclusione, che l’unico vero amore
di Luzia fosse la
musica e la necessità di continuare a coltivarlo, unito alla
consapevolezza
della caducità della sua bellezza fisica, portavano la
Trivixan a discutere coi
suoi protettori e clienti anche d’economia, su quali
investimenti puntare i
suoi guadagni, così da capitalizzarli e vivere tranquilla la
sua vecchiaia.
Alternava concerti a lezioni private, sia di canto che di musica e
Hironimo si
chiedeva quando lei dormisse e mangiasse.
Il
patrizio tuttavia amava quella sua determinazione,
quell’inesauribile energia e chiarezza
dell’obiettivo e un poco ammise
d’invidiare Luzia, desiderando poter possedere tali
qualità, invece di
bighellonare con la sua vita, ancora incerto quale strada
intraprendere. Le
persone sicure di sé e dalla forte personalità
l’avevano sempre affascinato,
portandolo a frequentarle, forse nella speranza d’imparare
anch’egli qualcosa da
loro. Luzia, aggiungendo il fattore femminile, gli conferiva poi una
dolce
sensazione di sicurezza e maturità, quasi di protezione.
Allo stesso tempo, gli
piaceva come non lo trattasse con accondiscendenza, ragionando alla
pari e se
la cortigiana honorata non aveva mai pianificato di sedurlo, esattamente
grazie
alla vivacità del suo intelletto aveva irretito il ragazzo,
divenendo
inavvertitamente l’oggetto dei suoi desideri.
Ammirazione
e passione si fusero quindi in Hironimo, influenzando
il suo modo di suonare, cambiando la voce del liuto da precisa e
senz’anima a
languida e malinconica, imitando l’umore del suo suonatore. E
poiché appunto
l’esecuzione di un brano musicale non si riduce a suonare la
nota giusta, bensì
a dargli un’interpretazione, uno spirito unico e vivo, che la
cantante talora
aggrottava la fronte, quasi colta di contropiede da un sospetto o una
rivelazione, per poi scuotere il capo. In altre occasioni, invece, lei
lo
spiava di sottecchi, indecifrabile peggio d’una sfinge, e
allora Hironimo
sbagliava apposta per distrarla, temendo che lei gli leggesse i
pensieri e che
o lo cacciasse o assecondasse il suo capriccio. Fosse la Trivixan
appartenuta
ad altri uomini, il ragazzo non avrebbe esitato a raccogliere la sfida,
stuzzicato dalla competizione di rendersi il più meritevole
agli occhi di lei e
di rubarla per sé. Peccato, però, che lei fosse
mantenuta anche da suo zio
Batista e se dei suoi amici Hironimo se ne fregava altamente, di lui
no, già
egli se ne approfittava sfacciatamente della sua generosità
e fiducia, non
poteva adesso mettere le mani sull’unica cosa che gli era
stata proibita,
seppur implicitamente. Sapeva d’essere talora un ingordo
egoista, ma non fino a
quel punto. O almeno sperava.
“Sei
distratto oggi, Momolo”, gli fece notare Luzia, chiudendo
sbuffando lo spartito ed invitandolo a riporre il liuto, le orecchie
infastidite dalla sfilza d’accordi sbagliati ma peggio ancora
dell’esecuzione
fuori tempo. “Meglio smettere, prima che mi sanguinino le
orecchie! D’accordo
che il brano parla d’addii ai propri amori, però
sarebbe in chiave ironica,
mica tragica!”, lo burlò dolcemente, aprendo la
finestra e permettendo ad un
po’ d’aria fresca di circolare nel suo studiolo
privato. “Se ci recassimo in
giardino per sgranchirci un po’ le gambe?”
Hironimo
s’ingobbì, storcendo imbarazzato la bocca.
“Mi dispiace”,
mormorò contrito, giocherellando con un laccetto del suo
zipone. “Vi giuro che
m’ero esercitato a casa”, aggiunse, non volendole
dare l’impressione d’aver
disertato gli esercizi assegnatigli. I maestri di musica costavano cari
e Luzia
– su istruzione del suo amante e protettore – gli
insegnava pressoché
gratuitamente. Il ragazzo non desiderava pertanto apparire
né un fannullone né
un ingrato.
“E
di che ti scusi?”, liquidò la donna la faccenda
tramite uno
svolazzo di mano. “Abbiamo tutti i nostri giorni cupi.
L’importante è non
indugiarvi troppo”, gli sorrise incoraggiante. La cortigiana
honorata si sedette
su di una panca foderata di cuoio e ricoperta di cuscini di velluto,
invitando
il ragazzo a seguirla. Gli porse una coppa di ceramica, dal cui liquido
all’interno proveniva un pungente profumo di rose e di menta.
“Una miscela
appena giunta dalla Siria: vostro cugino sier Andrea l’ha
regalata al vostro
sior Barba, il quale gentilmente ne ha condivisa una parte con
me.”
Hironimo,
all’udir la storia di quella deliziosa bevanda,
mancò
per poco di soffocarsi, andandogli di traverso, neanche lo zio Batista
avesse
pianificato di strangolarlo indirettamente, reo di nutrire pensieri
lascivi
sulla sua mantenuta.
“Raccontami.”
“Stupidaggini
da ragazzini”, nicchiò il giovane Miani, roteando
la
coppa, lo sguardo ostinatamente abbassato. “Nulla su cui
perderci il sonno …”
“Eppure
capaci di rubarti il buonumore”, ribatté paziente
la
cantante, bevendo con garbo il suo infuso, il
mignolo ben teso e
alzato, un’abitudine simpatica e un pelino infantile, che
suscitava i sorrisi
bonari dei suoi protettori e
clienti. “Niente che ci ferisce
è
stupido e non m’importa se tu la giudichi una fesseria da
tosatèli, ti
ascolterò ugualmente e volentieri.”
Ed ecco
un altro aspetto ch’aveva ammaliato Hironimo, quella
pazienza e oggettività dimostratagli nel sentire le sue
confidenze, senza sfotterlo
né indorargli la pillola se necessitava d’un
consiglio.
Sospirando
a disagio, il ragazzo tentò di vociare quanto lo stesse
turbando, augurandosi di non suonare ridicolo: “E’
che … è che mi
vergogno della mia pateticità.”
“Pateticità?”,
ripeté confusa la cortigiana, stringendo gli occhi.
Hironimo
annuì. “Tutti i miei amici seducono
tranquillamente ogni
donna a loro congegnale mentre io … io neppure riesco ad
aprir bocca senza
coprirmi di ridicolo … Forse, forse i miei maggiori hanno
ragione, quando
sostengono come ci sia qualcosa di storto in me …”
e ogni volta gli insulti,
seppur proferiti ridendo, lo ferivano profondamente e lo impestavano di
folle
rabbia. A nulla serviva riempire di (molto virili) pugni lo sfrontato
di turno,
perché se in questo modo la sua immagine davanti agli amici
si rafforzava,
quella che lui aveva su di sé diminuiva, aumentando quella
sua insicurezza
tipica dell’adolescenza.
“Ciacole,
ciacole”, sentenziò inaspettatamente Luzia, dopo
un
lungo silenzio di riflessione. “Non c’è
niente di anormale in te e i tuoi amici
sono degli stolti, perché non s’accorgono come tu
al contrario sia molto
chiacchierino e disinvolto con ogni donzella, basta che chiedano
conferma alla
Fantina …”, gli confidò, arcuando
maliziosa la bocca. Occhio sempre vigile,
alla cantante non erano sfuggite le furtive occhiate di Hironimo alle
sue
ballerine o acrobate durante le prove generali prima di una festa:
esibendosi
quest’ultime seminude, non gliene faceva certo una colpa,
semmai la divertiva.
Una tra le più spigliate, Fantina, con la scusa di far
sentire al giovane
quanto le battesse il cuore a furia d’esercitarsi, gli aveva
posto la mano
all’altezza della tetta sinistra, roteandola in un invitante
massaggio e il
ragazzo, ridendosela, aveva dichiarato non sentire al contrario niente,
appoggiandole l’orecchio al petto, mentre quella gli spostava
il viso in
posizione frontale tra i seni, emettendo una serie di risolini acuti
non appena
egli aveva preso a soffiare e vibrare le labbra, provocandole un
piacevole
solletico.
Hironimo
arrossì violentemente, colto in fallo e maledicendosi per
quella scherzosa ripicca al giochetto della vivace ballerina.
“Il
problema è casomai quando detta donzella
t’interessa, allora
sì che ti blocchi! E non negare, perché sai che
ho ragione!”, esclamò
trionfante la cortigiana honorata. “Quando una non ti piace sul
serio, non temi
la sua reazione o giudizio. Al contrario, se la desideri …
Non molti uomini
sono capaci di mettersi in gioco, sai? Specie se la potenziale amante
può
rifiutarli. De diana, tutti sono dei grandi seduttori con le
prostitute, no?”,
ridacchiò, strizzandogli maliziosa l’occhio.
“E
il mio sior Barba?”, inquisì d’un tratto
brusco il ragazzo.
“Come vi ha sedotto?”
“An,
quesito difficile”, non si scompose la Trivixan, riempiendosi
di nuovo la coppa di quel dolcissimo infuso. “Non certo coi
suoi soldi né la
sua posizione sociale, poiché annovero tra le mie
fila patroni più
danarosi e socialmente meglio piazzati di lui. Ama molto
appassionatamente,
però con incostanza … No, se avessi puntato solo
sulla passione fisica, a
quest’ora avrei già perduto il tuo sior Barba.
E’ la mia mente ciò ch’egli
adora di me: vedi, la tua siora Amia possiede molte qualità
e lui le vuole un
bene dell’anima, solo che lei è troppo rigida e
limitata di pensiero, mentre il
tuo sior Barba è un irrequieto vulcano d’idee. Lui
apprezza ch’io gli tenga
testa intellettualmente ed anch’io amo ciò,
sicché abbiamo stretto codesto
matrimonio persiano, anche quando la passione fisica
scemerà. Io so che lui va
con altre donne, eppure torna sempre da me.”
L’unica
tuttavia che Luzia gli aveva categoricamente precluso era
Francesca Ordeaschi, la sua odiatissima rivale. Alla
scoperta di
come sier Batista avesse partecipato ad una festa in cui lei aveva
presenziato,
la sua amante si era trasformata in una delle Erinni, sputandogli
addosso i
peggiori insulti e minacciandolo d’accopparlo di sua mano,
piuttosto che
cederlo alla concorrenza. Il Morexini (che sul serio manco se la filava
l’Ordeaschi, troppo volgare per lui) aveva ascoltato
calmissimo, lasciandosi
scivolare di dosso ogni invettiva, già allenato dalla sua
Santippe. L’unico
momento in cui aveva perduto la pazienza, fu quando lei in sberleffo
gli aveva
ripetuto, imitandolo alla perfezione, le sue motivazioni, ossia che
aveva
bisogno di crearsi una solida rete d’amicizie a Palazzo per
favorire la sua
carriera politica in ascesa e attorno a Francesca Ordeaschi gravitavano
appunto
quei pezzi da novanta.
“E
allora fuori da casa mia! Vi odio, vi disprezzo, mi fate
schifo! Su, su correte cagnolino, correte da lei! Io tanto mi strapazzo
per
divertire vossioria, io che vi ho donato i miei migliori anni, che ho
sperato –
Dio mi perdoni! – in una minuscola prova di
fedeltà vostra, mi vedo ripagata
così: l’Ordeaschi schiocca le dita, vossioria
perde la testa e zampetta
scodinzolante da lei!”
“Parlo
al muro, forse? Non me ne cale un accidente di quella
baldracca, bensì della gente che lei frequenta! Vi giudicavo
più intelligente,
ma a quanto pare la gelosia vi ha rivelato per la donnetta di bassa
lega quale
siete!”
“Visto
che scopate anche quelle, non dovreste amareggiarvi!”
“Attenta
a non infastidirmi: non siete l’unica puttana a Veniexia
…”
“E
voi non siete l’unico patrizio: della vostra razza, ne ho
già
cento in lista d’attesa. Meglio per loro che si sia liberato
un posto, almeno
mi divertirò di più e non dovrò
più sopportare un vecchio noioso e impotente
come voi!”
E via
così finché, non ottenendo nulla a parole, sier
Batista era
passato alle vie di fatto e, pigliata la cortigiana, l’aveva
costretta sulle
sue ginocchia, chiappe all’aria, e sollevatale le gonne
l’aveva sculacciata per
bene per la sua linguaccia. Caricatasela poi sulle spalle e gettatala
di peso
sul letto, le aveva ben esplicato tra le lenzuola come lui la
preferisse sopra
ogni altra amante; come fosse tutt’altro che vecchio, noioso
e impotente e che
mai più si ritornasse sull’argomento. In Senato,
il giorno successivo, si era
chiesto al “da Lisbona” il perché dei
graffi sulla guancia, segni che lui aveva
giustificato frutto di un’accesa discussione con la gatta di
casa. Felino che,
dopo una settimana di bronci e dispetti, gli era ritornata tutta
morbida e
ronronnante sulle ginocchia, sotto solenne giuramento di non toccare
l’Ordeaschi manco sotto minaccia di morte.
“In
quest’aspetto, tu gli assomigli molto: ti piace sì
un bel
visetto, ma ancor di più lo spirito di una
persona.”
Appoggiando
la coppa sul tavolino smaltato di foggia orientale,
Hironimo si passò una mano sulla fronte, grattando via i
pensieri. “Mi si
rimprovera che sono troppo accondiscendente verso le donne, permettendo
loro di
pestarmi i piedi e pure scusandomi quando lo fanno”,
proseguì nella sua
confessione, riversando il pus accumulato negli ultimi mesi e
sentendosi un
poco indegno di quel paragone con lo zio, il quale non si tirava mai
indietro
dinanzi alla sfida di una nuova conquista. “Mi hanno detto,
che forse dovrei
essere più – cito - rude e aggressivo nei loro
confronti, poiché così piace a
loro. Che mi lascio trattare alla stregua di uno straccio, piuttosto
d’impormi
e farmi, secondo costoro, rispettare …”
“Boff,
l’uomo lo vogliamo rude e aggressivo forse in letto, ma ti
assicuro che nella vita reale lo preferiamo gentile e
premuroso”, su quel punto
l’assicurò un’intransigente Luzia, la
quale l’ascoltava un poco in pena,
affezionata com’era all’animo sensibile di quel
ragazzo, in fin dei conti più
buono e puro di tanti approfittatori e marpioni in cui s’era
imbattuta. E
ribolliva di rabbia nell’udire quelle sue insicurezze e
recriminazioni,
inculcategli da gente che neanche gli arrivava alle caviglie. In molti
preferiscono essere amati e prendere dagli amati, in una sorta di
comodo e
passivo egoismo; in pochi invece preferiscono dare e amare,
sbilanciandosi ed
esponendosi alle delusioni ed Hironimo si ritrovava in questa seconda
categoria, degli spiriti amanti, che traevano la loro
felicità in quella della
persona amata, piuttosto che alla propria soddisfazione personale. E
per
questo, ahimè, venivano spesso o ridicolizzati o sfruttati.
Teneramente
la cantante afferrò Hironimo per le spalle e lo
invitò
ad accomodare il capo sul suo grembo, scostandogli delicata delle
ciocche scure
dalla fronte. “Come sostiene Marsilio Ficino, solo Venere
domina Marte e lui
non domina mai lei: dunque, un uomo che maltratta la sua donna non vale
niente,
se perfino lo sterminatore di uomini si accoccola mansueto e rilassato
accanto
alla sua”, gli spiegò, distendendo una piccola
ruga scettica sulla fronte del
giovane. “Tu non sei debole, Momolo, ti ho visto combattere
alla Guerra dei
Pugni contro opponenti il doppio di te; non sei né stupido
né una scartina. I
veri amatori non si vantano mai delle loro conquiste e chi afferma di
non aver
mai sofferto d’amore, allora è un bugiardo
perché non è vero, chi veramente ama
soffre, poiché non si esiste più, ci si annulla
nella cosa amata e viceversa.
In amore è facile prendere, ma difficile dare”,
ammise la donna,
accarezzandogli la testa, colta da antica malinconia.
Ripensava
al suo Alexandro, alla sua eroica rinuncia di carriera,
quando, anni addietro, la marchesa Isabella d’Este gli aveva
proposto impiego a
corte, a patto però ch’abbandonasse Luzia,
sostenendo che di cantori e amanti a
Mantova ne avrebbe avuti a bizzeffe. Egli, allora, le aveva intimato di
tagliargli la mano e così assumerlo, poiché senza
la sua musa, egli non poteva
lavorare. Una scelta sciocca, se analizzata freddamente, rifiutare una
sì
allettante offerta per amor di una cortigiana; eppure …
eppure …
“E
poi neanche a me piacciono gli spacconi, i gretti e i volgari,
il cui unico pensiero fisso si riduce al coito. Bleah, cani in calore e
senza
qualità … ”, si scosse Luzia dal suo
incantamento. Nei suoi lunghi anni da
professionista ne aveva viste di cotte e di crude e udite di ben
peggio. Per
questo motivo aveva lavorato tenacemente per elevarsi
dall’anonima marmaglia
delle prostitute, per dedicarsi alla sua arte in tutta
tranquillità, senza
scendere a scabrosi compromessi. Se i suoi clienti desideravano una
serata più
piccante, sapeva dove procurare loro le ragazze ma se volevano giacere
con lei,
scaltramente li indirizzava nelle posizioni a lei consone, facendoli
però
credere ch’erano stati loro stessi a sceglierle. Una volta
presili saldamente
per il pene, gli uomini non capivano più niente, altro
ch’esperti dominatori. E
a coloro che si lamentavano di lei, rinfacciandole come con minor
tariffa
ottenevano miglior mercanzia ai bordelli, Luzia, ridendoli in faccia,
replicava
sfrontata su cosa li trattenesse allora a casa sua; sul
perché si fossero
scomodati a dirglielo, perdendo così tempo prezioso
ch’avrebbero potuto meglio
impiegare in letti più economici.
“Quegli
infoiati là io li cedo assai volentieri alle cortigiane di
lume o alle comuni meretrici. Da loro non c’è da
guadagnarci alcunché di
concreto e molto spesso chi si pavoneggia a voce alta, poi si scopre
essere un
incapace a letto, più veloce di un gatto affamato.”
Hironimo
grugnì sotto i baffi alla battuta.
“Non
vergognarti mai di chi sei, Momolo: quando lo fai, loro hanno
vinto. Il mondo è pieno di vigliacchi pronti ad azzannarti,
ma guaiscono
spaventati non appena mostri il pugno! Mia madre, oltre al mestiere,
m’ha
insegnato a sapere come voglio esser trattata: vedi qualcuno che mi
chiami
apertamente in faccia “troia” o
“puttana”? Uomini arrapati che mi palpeggiano?
O che mi fischiano dietro? No, perché il mio atteggiamento
glielo impedisce,
sanno che se s’azzardano, ci saranno conseguenze gravi per
loro. E se ciò non
bastasse, i miei bestioni li acconciano per le feste”,
dichiarò bellicosa la cortigiana
honorata, la quale appunto onde evitare visite sgradite o aggressioni da
parte di
pretendenti respinti o di rivali, deambulava per le calli accompagnata
dai suoi
bravi, omaccioni provenienti dallo Stato da Mar, tanto truci cogli
estranei
quanto mansueti con la padrona. “Non cedere dinanzi ai
giudizi di nessuno,
conosci te stesso e vai avanti per la tua strada.”
“Quale
strada?”, obiettò Hironimo, stringendo la bocca in
una
linea dura. “Quando il mio sior Pare era vivo, non avevo
alcun dubbio quale
essa fosse, poiché progettavo di seguire le sue esatte orme.
Dopo la sua morte
… non capisco più nulla, questo mondo mi sembra
di vederlo da una lente di
vetro, distorto e assurdo, e ciononostante io voglio fare qualcosa,
rifiuto di
starmene con le mani in mano, voglio … voglio poter esser
d’aiuto e apprezzato
come lo era stato il mio sior Pare … Lo stesso anche in
ambito amoroso”, e
reclinò all’indietro la nuca, cercando lo sguardo
della cantante. “Il mio
sentimento finisce sempre unilaterale e … e se invece viene
ricambiato, è
perché lei ha pietà di me. Ecco perché
mi appellano un patetico sfortunato.”
“Pietà,
lussuria, amore sincero …”, elencò
spassionatamente la
donna, cancellando la conta nell’aria tramite uno svolazzo
della
mano, “che importa il modo, quando
l’amata è tua? In guerra ed in
amore tutto è concesso!”, disse tenera, inclinando
il viso su quello del ragazzo,
che allungò la mano, attorcigliando un ricciolo rosso tra le
sue dita e
rigirandolo pensoso.
“Affermate
il vero, patrona”, soffiò d’un tratto
roco, gli occhi
nerissimi incatenati a quelli turchesi di lei. “Ovunque al
mondo è violenza ed
io non voglio portarla tra me e la mia amata”,
mormorò, disegnando con la punta
del dito il profilo della cantante, accarezzandole la pelle
morbidissima della
guancia. Allo stesso modo non desiderava far del male a nessuno e
ciononostante, in lui percepiva spesso una forza perversa, che lo
spronava alla
malvagità, terrorizzandolo e costringendolo a domandarsi che
cosa sarebbe
successo il giorno, in cui avesse perduto il controllo.
Voleva
soltanto amare ed essere amato, perché doveva suonare
strampalata come idea e così difficile da capire da parte
degli altri?
Puntellandosi
sui gomiti, Hironimo affondò le sue dita tra le
trecce rosse di Luzia, chinandola su di lui e iniziando un bacio un
poco
rovescio, i rispettivi nasi in direzione opposta. Le labbra del ragazzo
emulavano in finezza la forza di due eserciti in pieno scontro
frontale,
avanzando e conquistando il morbido territorio pregno
dell’euforia della prima
uccisione. Si sistemò sul fianco, trascinando Luzia a
sé, la sua preda di
guerra, petto contro petto, leccandole lungo il collo e i denti
mordicchianti
il lobo del delicato orecchio. Finché le posizioni non
s’invertirono e lei si
ritrovò accoccolata sulle sue ginocchia, prigioniera tra le
sue braccia e la
gonna abbastanza sollevata da intravedere le braghesse, assecondando
diligente
i suoi movimenti, senza però prendere alcuna iniziativa, in
paziente attesa che
l’audace slancio del giovane s’esaurisse e lui
realizzasse il peso del suo
gesto.
…
la Trivixan è roba del sior Pare …
Hironimo
si fermò a mezz’aria dall’elargire
l’ennesimo bacio a
Luzia, mordendosi e tirando la pelle delle labbra ora gonfie ed
arrossate,
osservando il viso impassibile della cantante, la camiciola di seta
abbassata e
aperta fin a scoprire quasi completamente il petto, i nastrini sciolti
delle
braghesse. Il ragazzo sospirò, serrò frustrato i
denti, maledicendo tra sé e sé
la sua mancanza di autocontrollo, il suo impulsivo egoismo.
Baciò con estrema
delicatezza ciascuna palpebra della Trivixan, le cui ciglia tremarono
impercettibilmente da un lieve solletico, intanto che le sistemava le
spalline
e la camiciola, in un goffo tentativo di rivestirla.
“Patrona,
mi piacete assaissimo e vi desidero d’ugual intensa
maniera.”
“Sì.”
“Ma
amo troppo il mio sior Barba per ripagare la sua fiducia
coll’inganno.”
“Sì.”
“Vi
domando perdono.”
“Sei
perdonato”, lo rincuorò gentile la cantante,
sciogliendosi
piano dall’abbraccio del confuso e rammaricato patrizio.
Nelle sue iridi
turchesi egli non vi lesse alcun biasimo né rancore
né delusione. Forse un
pelino d’incertezza, come se l’intera situazione
stesse risultando anche a lei
sconosciuta ed ostica. “Ed è già
dimenticato”, si riprese la cortigiana honorata,
alzandosi dalla panca e lisciandosi le pieghe della gonna sgualcita.
“Suppongo
non mi vogliate più vedere.”
Luzia gli
scoccò un’occhiataccia, intanto che si acconciava
alla
bell’e meglio i capelli spettinati. “Non fare lo
sciocco. La pavana si balla in
due, la colpa è in parte anche mia”, lo
rimproverò aspra. “A furia di
frequentare uomini piuttosto maturi, avevo quasi scordato quanto i
giovani
fossero irruenti ed irresponsabili …”,
dichiarò pragmatica, riprendendo posto
accanto ad Hironimo una volta terminata la rapida toeletta, ancora
indeciso se
rimanere o scappar via dopo quella figuraccia. “Mentre tu
m’hai appena
dimostrato, che sei l’eccezione che conferma la
regola.”
“Non
datemi troppo credito, patrona”, si schermì severo
il
ragazzo, studiandosi avvilito la punta delle
scarpe, “se foste stata
la donna di qualcun altro, qualcuno magari a me in odio, non mi sarei
trattenuto.”
La
cortigiana honorata rimase in silenzio per una manciata
d’istanti, l’espressione guardinga ed indagatrice.
Sporgendosi verso di lui,
gli pose due dita sotto il mento e scandagliò accuratamente
negli abissi di
quelle iridi nerissime. “Anche in quel frangente, ti saresti
fermato. Non sei
un malvagio, è il diavolo che vuol fartelo
credere.”
“Che?!”
Ma Luzia
non gli fornì ulteriori dettagli: riacquistata la sua
aria da finta civetta, scattò in piedi e gli tese la mano,
reclamando imperiosa
il suo braccio. Costì avvinghiati, i due si diressero a gran
passi verso la
sala di rappresentanza, gremita di un frenetico viavai di servitori
impegnati a
decorarla. Osservando soddisfatta l’avanzamento dei lavori e
fornendo ogni
tanto qualche dritta, la cortigiana honorata suggerì una
controproposta ad
Hironimo: “Invece, se proprio vuoi far penitenza, aiutami ad
elaborare
un’efficace vendetta contro quello spergiuro
d’Ottaviano Petrucci, quella
viscida serpe d’Urbino!”
“L’editore
musicale?”, si svegliò dal suo incantamento il
ragazzo,
riconoscente a Luzia per aver cambiato argomento e rotto
l’imbarazzo, che lo
stava divorando vivo.
“In
tutta la sua odiosa persona!”, sbuffava a guisa di toro la
Trivixan. “Tra i suoi numerosi progetti futuri, ha incluso
una nuova raccolta
di frottole, ricercari e danze del compositore milanese Joan Ambrosio
Dalza e
mi aveva giurato – ripeto – giurato sul suo onore,
che mi avrebbe procurato in
esclusiva una copia inedita di una pavana alla
venetiana, per
suonarla al mio prossimo ricevimento ufficiale. E l’ha fatto,
secondo te? No!
Che figura farò coll’ambasciatore sier Hironimo
Donado? Ti pare si mantengano
così le promesse, Momolo? E ad aggiungere
l’insulto all’ingiuria, fonti mie
certissime hanno sentito suonare a casa della Francesca Ordeaschi
– becha
fotua, cancara proditora! – un saltarello
alla ferrarese sempre
del Dalza! Ti pare giusto? Ci scommetto il mio diamante più
grosso, che il
signor Ottaviano s’è lasciato coglionare da quella
pezzente! An, mare de diana!
Ma se pensa di cavarsela … di sfuggirmi … Domani
sera a cena gli farò vedere i
sorci verdi, altroché! Non permetto a nessuno di burlarsi di
me, men che meno
ad un marchigiano papalino imbrattatore di fogli!”
Veramente
Luzia Trivixan si comportava come se nulla tra loro fosse
accaduto, avendo sviluppato, grazie alla sua professione, una spessa
corazza
che l’aiutava a lasciarsi scivolar via ogni cattiveria,
delusione e dispiacere.
Per il resto del pomeriggio non accennò mai più
al bacio, né permise che
Hironimo si fustigasse oltre il necessario, tenendolo occupato e
riprendendo la
lezione interrotta di liuto, esercitandosi assieme su di una versione
da lei
stessa arrangiata di Adieu mes amours del franco-fiammingo Josquin
des Prez, il princeps musicorum.
“E
stavolta leggerezza, Momolo”, gli pizzicò giocosa
la guancia la
cortigiana, dopo avergli corretto la postura delle dita. “In
fin dei conti, il
nostro amico si sta lagnando che, non avendo più danari,
dovrà momentaneamente
abbandonare i suoi divertimenti amorosi!”
Adieu
mes amours, a Dieu vous command,
Adieu je vous dy jusquez au printemps …
Luzia
Trivixan era sì una commediante, una maschera che
s’adattava
alle circostanze, però sempre con Hironimo si
dimostrò spontanea e sincera,
sicché, dopo gli iniziali timori e rimorsi, il ragazzo
poté rilassarsi e
confidare nell’effettivo perdono da parte della cortigiana
honorata e soprattutto
nel suo silenzio circa l’accaduto con suo zio sier Batista.
I loro
incontri pomeridiani, per quanto diminuiti, conservarono lo
stesso tono complice e brioso e il giovane Miani si divertì
come un matto a
sentire il colorito resoconto della cantante, quando gli descrisse i
tormenti
cui aveva sottoposto il signor Petrucci, talmente bistrattato da
accordarle
speditamente tutti gli spartiti di cui ella necessitava, per
organizzare una
piccola festa in onore dell’ambasciatore sier Hironimo Donado
“dalle Rose”,
noto “suminus patronus” dell’arte, e il
cavalier sier Domenego Trivixan, da
poco rimpatriati.
Un
piccolo trionfo per Luzia, specie nei confronti della sua
peggior rivale, Francesca Ordeaschi, ed Hironimo le fu davvero
riconoscente
d’averlo incluso a quella festa esclusiva, laddove la
cortigiana honorata era
riuscita ad invitare la meglio Venezia, sia politicamente che dal punto
di
vista culturale.
In
particolare, perché il giovane Miani ebbe modo
d’incontrare
finalmente di persona l’ambasciatore sier Hironimo Donado, un
fratello di
madona Alba amica di Madre e zio del suo amico fraterno Marco
Contarini.
Conversando con lui, Hironimo capì da chi Marco avesse
ereditato la sua amabile
gentilezza e velleità poetiche e da chi suo fratello minore
Piero la sua
precoce bravura in latino e in greco, ammettendo anche una certa
somiglianza
nei tratti somatici: la veste di broccato e la ricca collana al collo
risaltavano
in sier Hironimo il suo corpo vigoroso e il viso bellissimo, dolce e
benevolo e
ben presto Hironimo appurò quanto tanta beltà
fisica s’accompagnasse a quella
dell’animo.
Felice
connubio tra prestigio politico e impegno culturale, il
Donado “dalle Rose”, oltre ad aver ricoperto
importanti cariche per conto della
Signoria, era anche dottore in artibus, poeta lirico,
d’elegie e satire;
saggista, filosofo e appassionato di studi d’astronomia e di
musica, tanto che
Ottaviano Petrucci gli aveva dedicato, il 15 marzo 1501, la prima
edizione
dell’Odhecaton. Amico di Giovanni
Pico della Mirandola, d'Angelo
Poliziano, di Galeazzo Facino, di Marsilio Ficino e dello stesso
Lorenzo il
Magnifico, d’Almorò Barbaro e di Piero Bembo,
della bellissima Cassandra Fedele
Mappelli e di moltissimi altri umanisti veneziani ed italiani, non
esisteva un
argomento in cui sier Hironimo non fosse preparato, spaziando agilmente
dalla
letteratura alle scienze, senza tuttavia apparire spocchioso o pedante,
anzi,
per la prima volta in vita sua il giovane Miani riusciva a capire
concetti –
tipo l’unità dell’intelletto o
l’immortalità dell’anima secondo
Aristotele
- che neppure prendendolo a scudisciate si era stati
capaci
d’insegnargli. Questo perché, se interrotto da una
sua domanda, l’ambasciatore
non si scocciava, semmai ripeteva e semplificava per facilitargli la
comprensione.
“Purtroppo,
non si possono servire due padroni”, gli confidò
malinconico sier Hironimo, spesso e volentieri trascinato via dal suo
otium
culturale dai turbini della politica. “Per questo, quando
troverai la tua vera
vocazione, devi perseguirla più tenace d’un
bracco, senza distrazioni e
compromessi. Altrimenti, si è destinati
all’oscurità e ad un precoce oblio.”
Completamente
ammaliato dalla sua intelligenza, Hironimo credette
d’essersi un poco innamorato di quell’uomo, al
punto d’invidiare madona Maria
Gradenigo Donado sua sposa e i suoi nove figlioli, indegni rivali che
avevano
la fortuna di tenerselo tutto per loro: fosse stato per lui, si sarebbe
accoccolato
ai suoi piedi come Maria di Betania ad ascoltarlo parlare per ore e ore
e di
fatti per l’intera serata lo tallonò inclemente,
lavorandosi poi ben bene il
cugino dell’ambasciatore, sier Francesco, anch’egli
peritissimo nelle lettere
classiche, soltanto di carattere meno estroverso rispetto al parente,
un
pensatore più che un uomo d’azione e come sier
Hironimo anch’egli propendeva a
preferire la subdola mischia della politica [1]. La scelta del giovane
Miani
d’affiancarsi a sier Francesco si rivelò
azzeccata, togliendolo d’impaccio e
perciò accaparrandosi la sua simpatia: sul volto del
trentacinquenne patrizio,
infatti, trapelava un certo disagio nel ritrovarsi in un ambiente
così frivolo,
per quanto colto. Cicalando del più e del meno, Hironimo
aveva scoperto che
tale malinconia d’animo era dovuta alla prematura scomparsa
della moglie del
Donado, fatto che l’aveva reso particolarmente devoto
soprattutto al momento di
prendere una seconda moglie, madona Maria Zustignan Donado, verso la
quale sier
Francesco nutriva una grandissima stima ed affetto.
Peccato
che il giovane Miani commise la sconsideratezza, mentre
l’indomani raccontava agli amici Marco, Piero e Polo
Contarini ogni dettaglio
della serata, quanto ammirasse il loro barba sier Hironimo, tessendogli
estasiato
ogni lode alla stregua d’una fanciulla innamorata e pertanto
scatenando una
gelosia furiosa in Marco, già di suo frustrato per la sua
incapacità
d’eguagliare la bravura letteraria dell’illustre
zio, figurarsi adesso che
scopriva quest’ultimo avergli insidiato colui che
già considerava il cor suo.
“Bestia,
allora sposatelo alla persiana e fuora de là col
diaol!”,
gli urlò Marco in lacrime, quasi spezzando in due il suo
arco d’addestramento.
Meno male che si trovavano al Lido, lontano da orecchie indiscrete
ch’avrebbero
potuto equivocare. “Io ti voglio più bene di lui e
a scuola ti ho sempre
aiutato in latino, razza d’ingrato somaro! E tu ora mi fai la
baldracca e gli
scodinzoli dietro? Ma chi sono io per te? Una latrina da usare al
bisogno?”,
prese il ragazzino a singhiozzare, aggrappandosi disperato al maggiore,
quando
questi l’abbracciò per consolarlo.
Porta
pazienza, non ha che quattordici anni, si
ricordò Hironimo mentre gli prometteva fedeltà
eterna e gli accarezzava il
capo, ricordandosi di come, alla medesima età del Contarini,
egli si fosse
scatenato in scenate di gelosia ancora più assurde e
melodrammatiche.
Certo
però sembrava quasi una maledizione, che l’uomo
fosse
destinato, due casi su tre, ad affezionarsi a chi di rimando non se lo
filava
manco di striscio.
Facilissimo,
dunque, desiderare “l’altrui” …
***
Il
rapporto tra Hironimo e Jacomo Corner di sier Zorzi il cavalier
si poteva riassumere in amici-nemici. Di caratteri simili ma
provenienti dai
poli opposti del patriziato veneziano, i due giovanotti riuscivano a
divertirsi
e bighellonare assieme, per poi un attimo dopo accapigliarsi ed
insultare loro
e i rispettivi antenati fino alla fondazione di Venezia.
Il Miani
invidiava al Corner la sua ricchezza ed appartenenza ad
una delle famiglie più influenti e meglio imparentate della
Serenissima; mentre
Jacomo invidiava il carisma naturale e la facilità con cui
Hironimo tesseva
amicizie, creandosi un piccolo suo seguito personale. Pur in generale
soddisfatti di sé, mal sopportavano ciò che
l’altro possedeva e non perdevano
occasione di ricordarselo a vicenda, talora crudelmente. Ad esempio, il
Corner
rimarcava inclemente i modesti mezzi economici del Miani;
quest’ultimo, invece,
gli chiedeva se gli bruciasse la palese predilezione di suo padre verso
i suoi
fratelli Francesco e Marco Corner.
Magre
vittorie di Pirro, poiché nella vita reale, alla fine, la
spuntava sempre e comunque Jacomo, favorito da ciò che
contava di più al mondo,
ossia danaro e posizione sociale.
Sicché,
il giorno in cui dinanzi al doge sier Lunardo Loredan
venne annunciato a Palazzo Ducale il fidanzamento ufficiale tra Marina
Morexini
q. sier Orsato e Jacomo Corner, Hironimo, ricevuta la notizia, non si
sorprese
del rictus nervoso che gli attraversò il viso, scendendo
fino alla mano mentre,
senza accorgersi, piegava in due la penna.
Da anni
non provava alcun sentimento verso Marina e, sicuro, un
poco rimpiangeva di non aver tentato (molto arditamente)
di
proporsi a sua madre come candidato alla sua mano; tuttavia lo
infastidì che,
tra tutti gli scapoli di buona famiglia, proprio Jacomo Corner avesse
dovuto
spuntarla. E al Miani sarebbe andato bene perfino un qualsiasi Corner,
ma
non quel Corner, il cocco di zia
Ysabeta, quello per le cui
marachelle lui finiva puntualmente punito, anche quando non era colpa
sua,
uscendone Jacomo sempre innocentino e perdonato.
“Era
ovvio che la pronipote del fu Serenissimo Agustin Barbarigo
si maritasse in una famiglia a sua volta discendente da Dogi, quale la
nostra –
e per nostra intendo sia i Corner che i Morexini. In fede mia, non
avrei potuto
sperare migliore alleanza per il mio Jacomo: vi immaginate? La
fanciulla più
ambita di Veniexia sarà sua moglie! Quale lustro
guadagnerà in società, come
gli assicurerà una spedita carriera politica! Per fortuna,
che abbiamo deciso
di fidanzarli in largo anticipo: costasse quel che costasse, questo
sponsalicio
dev’essere l’unico degno di nota
dell’anno, nessuno dovrà batterlo in fama e
lusso, addirittura nessuno dovrà avere perfino il coraggio
di sposarsi, tanto
abbaglieremo la città!”
“Sicché
per un anno vivremo tutti da Turchi!”, bisbigliò
Hironimo
all’orecchio di suo zio sier Batista, che grugnì
paonazzo in volto, sforzandosi
di non ridere. Sua moglie, madona Morexina, invece era divenuta
anch’ella
rossa, ma per differente motivo.
“La
tradizione indicherebbe l’abito nuziale o di raso bianco o di
panno d’argento, ma considerata la superiore
nobiltà della sposa, dire che
sarebbe più auspicabile del rastagno d’oro. Uguale
discorso per mio figlio,
ovviamente. Una tal giovane ed avvenente coppia ha il diritto
d’essere
celebrata nello sfarzo più assoluto …”
e per interminabile tempo madona Ysabeta
si vantò e si vantò e si vantò di
quell’illustre unione, che per la prima volta
dacché s’aveva memoria, sua sorella minore madona
Morexina si ribellò alla
maggiore e, battendo la mano sul cuscino del sedile dentro la felze,
esclamò
inviperita:
“Sancte
Marce! Un’altra Marina si sposa oggi, nostra sorela:
potreste almanco spender una parola di felicitazioni per lei, o vi
costa
troppo?”, e sbuffando sdegnata prese a mangiucchiarsi
stizzita l’unghia, suo
marito sier Batista che la rimirava adorante ed Hironimo genuinamente
colpito
da tanto fegato, avendola sempre creduta succube della sorella maggiore.
Ultimamente,
anzi, da quando madona Ysabeta Morexini Corner aveva
incominciato a maritare figli e figlie, un inaspettato spirito di
rivalsa aveva
piantato radici in madona Morexina, prefissandosi d’accasare
tutte e quattro le
sue figliole, costasse quel che costasse.
“Il
prossimo anno, abbiamo deciso di far sposare Lugrezia a sier
Jacomo Contarini. Non vi pare meraviglioso?”
“Invitatelo
al matrimonio di mia figlia Maria con sier Zuanne
Querini di Stampalia e Amorgo!”
Oppure
…
“Che
ne pensate, sorela? Raso o seta per l’abito nuziale della mia
Biancha?”
“Ecco,
io per mia nuora Maria avevo pensato a del raso …”
“Ma
come? E alla povera Querina più non ci pensate?”
Se madona
Ysabeta avesse chiamato barbona vagabonda sua sorella,
certamente l’avrebbe insolentita di meno, ché la
mera menzione al mancato
fidanzamento di sua figlia Querina aveva immediatamente zittito madona
Morexina, pietrificata sul posto. La granitica volontà della
patrizia di
maritare suo figlio Carlo alla ricca ereditiera Maria da Molin del fu
sier
Amadio l’aveva totalmente distratta dalla ricerca
d’un marito per la sua
seconda femmina. A complicare la già delicata situazione,
Carlo s’adoperava in ogni
modo a stracciare i nervi dei genitori, rivelando un carattere meno
remissivo
e pacato di quanto si fosse finora creduto, protestando la sua
contrarietà a
quelle nozze e adducendo un’infinità di deboli
scuse per sottrarvisi, quali il
non aver nemmeno compiuto ventun anni. Sier Batista lo fissava
stralunato,
incapace di concepire tanta irriconoscenza in quel suo figlio
prediletto: la
Molin possedeva terre, case, un cospicuo patrimonio liquido; era
giovane,
virtuosa e piuttosto carina, certamente più obbediente del
suo futuro consorte.
Insomma, che diamine pretendeva di più? Così
ripagava i suoi sforzi?
“Vuoi
divenire l’erede e prossimo capofamiglia? Impara ad
assumerti le tue responsabilità! Un uomo non è
tale se non è sposato! Puto
rimane, di nome e di fatto!” [2]
Ogni
giorno era un dramma a Ca’ Morexini, tra pianti, grida,
recriminazioni, porte sbattute, vasellame infranto per terra, promesse
di
buttarsi giù in canale o di vestirsi frate e contro-promesse
d’assassinio, in
caso d’attuazione delle preditte.
“Finché
io respiro e finché tu vivrai in questa casa, perdio, se
non m’obbedirai! Anni di sacrifici e sofferenze per dare a
te, disgraziato d’un
barabba, e ai tuoi fratelli e alle tue sorelle ogni
possibilità d’emergere,
d’avanzare in società! E tu mi ringrazi
sciorinandoti in capricci come l’ultima
delle donnicciole? Guarda tua sorella Maria! Ha protestato quando le ho
detto
di sposarsi sier Zuanne? No! Come puoi ripagare tutto il bene che ti ho
fatto,
con tanta meschina disobbedienza? Mi deludi, Carlo, mi deludi
grandemente! Non
pensi ai tuoi fratelli minori? Alle tue sorelle ancora zitelle? Uh? Se
dovessi
morire domani, come te la caveresti a mantenerli?”
“Sior
Pare, non mi costringete, vi supplico! Non la voglio! Non la
voglio! Maritatela a Nicolò o ad Hironimo o meglio ancora a
Piero! Sì, Piero è
certamente il più adatto al matrimonio rispetto a
me!”
“Sacramento!
Alzati e vattene via, mi fai venire la nausea!”
Un giorno
sier Batista s’era perfino
presentato fuori di sé a Ca’ Miani, inveendo
contro il figlio e la fortuna e
domandando soccorso a Marco, acciocché persuadesse il cugino
a piegarsi alla
volontà paterna. “Fallo ragionare, prima
che lo strangoli!”, aveva
tuonato frantumando nel pugno il biscotto offertogli. “E’
mia moglie che me
l’ha rovinato! Quella bacia-altari, quella pizzocchera, altro
che donna da
conto! Donna da prete! Con tutti quei rosari, Messe, devozioni,
pellegrinaggi,
padri predicatori e cialtronerie varie gli ha raffreddato gli umori!
Quale maschio,
che tale si possa dire, rifiuta a venti e uno anni di sposarsi una
bella
giovane?! Cos’ha, mio figlio, neve al posto del
sangue?”
“Vi
prego sier Marco”, l’aveva
supplicato madona Maria Baxadona da Molin, zia di Maria da Molin e
giunta
assieme al “da Lisbona”, “aiutateci
a convincerlo: voi possedete un grande
ascendente su sier Carlo. La mia nezza Maria è talmente una
cara e brava
figliola, virtuosa ed obbediente. Sarà per lui
un’ottima moglie”, aveva
appassionatamente
elogiato le virtù della fanciulla ed Hironimo aveva stretto
sospettoso gli
occhi davanti al modo in cui la Baxadona appoggiava una mano
sull’avambraccio
di Marco, mentre l’altra gli accarezzava il polso.
L’apice
di tal malessere s’era raggiunto una domenica pomeriggio:
il gineceo di Ca’ Morexini s’era ritirato sotto la
pompeiana in giardino,
mentre gli uomini deambulavano, chiacchierando tra di loro,
quand’ecco che le
voci femminili sovrastarono quelle maschili, coprendole. Voltandosi, i
presenti
capirono che la conversazione stava vertendo sull’abito da
comandare al sarto
per il prossimo matrimonio tra la cugina Biancha Corner e sier Vicenzo
Priuli.
Maria Morexini Querini, accarezzandosi il pancione, aveva esclamato
giovale di
non saper ormai più cosa indossare di nuovo e di come la
moda cambiasse tanto
in fretta, quanto le alleanze politiche. Al che madona Morexina aveva
ribattuto
che quello corrispondeva ad un problema universale, tranne forse per le
sorelle
minori. Querina, sentendosi presa in causa, esigette immediatamente
spiegazioni
e sua madre, alzando le spalle, le spiegò che, dovendo
indossare gli indumenti
da fanciulla, non avrebbe dovuto tanto scervellarsi sulla scelta
dell’abito, il
quale doveva apparire appunto semplice e sobrio. Querina allora si
morse a
sangue il labbro, strinse i pugni e rinfacciò furente alla
genitrice, se fosse
giusto che alla sua età dovesse
ancora vestirsi da zitella. Invece
di sprecare tempo, fiato ed energie con quella testa dura di suo
fratello
Carlo, perché non le cercavano marito? Un uomo si poteva
sposare a qualsiasi
età, lei no, perché quell’ingiustizia?
E senza lasciar spazio di replica ad una
sconvolta madona Morexina, sua figlia chiuse forzatamente la questione
in un
acuto pianto isterico, allontanandosi poi via di corsa dal giardino e
rispondendo uno sgarbatissimo “Indove ghe
vojo!” alla domanda
del padre: “Indove
corestu?” mentre saliva le scale a due a
due.
Hironimo
non aveva resistito a ricorrere la cugina, raccogliendo
lungo la via la scuffia di seta e lo zendale dei quali Querina, nella
sua
frustrazione, s’era spogliata.
“Suvvia,
Rina, non piangere: mica sei una vecchia carampana, non
hai ancora diciott’anni, non dirmi che adesso smani di
legarti a qualche
scalzacane qualsiasi e soprattutto di sorbirti una suocera
rompiscatole?”
“Oh,
Momolo! Non capisci? Hanno già un’altra figlia cui
pensare!
Maria da Molin di qua, Maria da Molin di là, Maria, Maria,
Maria! Quella
schifosa racchia ormai mi ha sostituita, non pensano che a portarla in
questa
casa e che importa se nel frattempo io vi marcisco, murata viva senza
veder un
sol cristiano?”
“Ed
io chi sono? Un turco?”
“Sei
mio cugino!”
“Dunque
peggio?”
Querina,
sollevandosi sui gomiti, gli sorrise debolmente,
stropicciandosi gli occhi arrossati. Hironimo ne approfittò
per sedersi accanto
a lei sul letto. “Il tuo sior Pare mio barba
è ricco, ha una carriera tutta
in salita a Palazzo, è imparentato bene qui a Veniexia.
Certamente qualcuno
d’interessato ci sarà.”
“E
allora perché il mio sior Pare non fa niente per cercarmi
questo qualcuno? La verità è che si sono
rassegnati tutti, qui. Sono una causa
persa per loro! Non fanno che parlare del fidanzamento di Carlo, io non
esisto
più per loro! Sono divenuta un’ombra in questa
casa! Ho deciso: prendo il velo
e morta là!”
“Oh,
bella, in convento sì ch’avresti uomini a palate
con cui
consolarti”, commentò
Maria, giunta in un secondo momento,
rallentata infatti dal ventre rigonfio. “Magari
madona Franceschina
nostra parente avrà ancora qualche nome da
suggerirti!”
“Mariuccia!”, la rimproverò Hironimo, per niente
divertito
dal sarcasmo della cugina, la quale, imperturbabile, prese posto al
fianco di
Querina e l’apostrofò perentoria:
“Innanzitutto,
smettila di piangere: ti fa brutta. E finiscila
anche con queste tue scenate da tragedie senechiane, ne ho
già abbastanza di quelle
di nostro fratello Carlo. Non sono degne di te e ti creano fama di
femmina
instabile, chi poi se la prende in casa una così?”
“Il
tuo sior Pare mio barba ti vuole molto bene: se ancora non ti
ha presentato un nome, sarà perché vuole
sceglierti bene il tuo futuro marito!”
“Esatto.
Mio marito Zuanne già gli sta proponendo dei suoi
conoscenti, sebbene, lo confesso, a me nessuno di loro piaccia
…”
“Sul
serio, Mariuccia?”
“Non
ti mentirei mai!”
E con
l’immagine della cugina Querina piangente marchiata a fuoco
nella memoria, che Hironimo s’era presentato alla porta di
casa di Luzia
Trivixan, spiegandole il tutto e domandandole aiuto.
“Tesoro,
sono una cantante, una maestra di canto e musica e una
cortigiana honorata, mica una sensale di matrimoni!”
“Voi
però possedete una fitta rette di amicizie e conoscenze: di
sicuro avrete sentito, tra una chiacchierata e l’altra, o tra
i vostri allievi,
di un qualche scapolo desideroso di sposarsi!”
“Sistemarsi,
casomai. Non tutti sono mossi dall’affetto, lo sai.”
“Sono
sicuro che voi saprete ben discernere le pecore dalle capre.
Vi prego! Vi pagherò per il disturbo, farò tutto
quel …”,
ma un
dito sulle labbra lo zittì.
“Accetto
perché mi piacciono le sfide: parola d’onore,
presto a
Ca’ Morexini si mangeranno confetti!”
D’impeto,
senza pensarci, Hironimo le baciò la bocca, in un
rumoroso schiocco, e poi la sollevò di peso in aria, tra i
risolini e le deboli
proteste della cortigiana, ringraziandola di cuore.
Appunto
perché Luzia Trivixan gli aveva promesso di trovargli un
partito decente e non un gretto cacciatore di dote, che la sua ricerca
si
rivelò lunga ed ardua.
Nel
frattanto, una nuova diatriba rinfocolava la silente ed
infinita faida tra madona Ysabeta e madona Morexina, stavolta
però non per loro
figlie, bensì per la propria sorella Marina ed era stata
quest’ultima
discussione la proverbiale goccia, ch’aveva fatto traboccare
il vaso, portando
madona Morexina a chiamare finalmente il diavolo per il suo nome e a
rimproverare la sorella maggiore, accusandola di
superficialità: certo che
sistemare la prole rimaneva la loro priorità di mogli e
madri; tuttavia si
poteva anche dimostrare empatia e solidarietà al di fuori
dell’immediata
famiglia.
Anche
perché la povera madona Marina Morexini sul serio si
meritava ogni augurio di felicità: il 29 marzo del 1508, la
patrizia era
rimasta vedova di sier Piero Vituri, senza figli e senza alcun
sostentamento
economico ad eccezione della sua dote. Il defunto marito aveva infatti
escluso
dal testamento sia lei sia i suoi nipoti, figli della sorella madona
Ysabeta
Vituri Griti, donando ogni suo bene ai frati Certosini e alla Scuola di
San
Marco. [3] Sicché, disperata dalla magra prospettiva di
rientrare nella casa
paterna e di vivere della carità dei suoi fratelli sier
Thadio ed sier Anzolo
Morexini, madona Marina aveva coraggiosamente deciso di scoprire alcuni
riccioli di capelli da sotto la scuffia nera, mentre si recava a Messa
o
attraversava campi, campielli e calli, supplicando un miracolo dal
Cielo che
qualcuno, notando la sua disponibilità a seconde nozze,
l’avvicinasse. [4]
Per
fortuna della vedova Vituri, suo cognato sier Batista
sguazzava in uno stato di grazia: tramite il solido supporto (consiglio
fraudolento) di suo nipote Marco Miani e di madona Maria Baxadona da
Molin era
riuscito (con le cattive) a far firmare (a forza) il contratto nuziale
al suo
(recalcitrante) figlio Carlo, nel quale s’impegnava
ufficialmente d’impalmare
la giovane, morigerata e benestante Maria da Molin del fu sier Amadio,
sicché
poteva ben dirsi soddisfatto e disposto ad aiutare il prossimo, anche
per
tranquillizzare madona Morexina, in pena per la sorte amara della
sorella.
Il caso
aveva voluto, che un amico del “da Lisbona”, sier
Alvixe
Malipiero, stesse anch’egli cercando una compagna, soffrendo
particolarmente la
solitudine dopo la morte della prima moglie e soprattutto dopo le nozze
dell’unica sua figliola, Malipiera, in sier Piero Marzello,
celebrate sette
anni addietro. “La dote è
conforme al rango di madona e la sua famiglia
– già lo sapete - ben imparentata.” Tranne
per quella seguace
d’asmodeo dell’ex-monaca madona Franceschina
Boldù Morexini, ma stando a sier
Anzolo Morexini, il matrimonio l’aveva ben esorcizzata dal
mal del puttanesimo. “Certo,
però, che se cercate una discendenza, temo che la siora mia
cugnada non sia
un’agnellina di primo pelo.” Sier
Alvixe aveva subito chiarito, che,
alla sua età, ormai gli unici pargoli da tenere in braccio
erano i suoi
nipotini e comunque non voleva compromettere il patrimonio con altri
eredi.
Sier Batista e sier Alvixe s’erano allora stretti la mano e
il Malipiero aveva
poco dopo iniziato le brevissime trattative di matrimonio, dove nessuno
aveva
osato obiettare alcunché contro quell’unione.
Galeotto fu il matrimonio tra
Carlo Morexini e Maria da Molin, che permise alla loro zia Marina
d'incontrare
e conversare industurbata con sier Alvixe Malipiero, quest'ultimo
sornionamente
aggiunto alla lista degli invitati. I due si piacquero al primo sguardo
sicché,
infischiandosene di ogni rispetto verso il defunto marito, la vedova
Vituri
manco aveva atteso la fine dell’anno di lutto per risposarsi,
a sua detta lei
per prima ingiuriata da sier Piero, che nella sua infinita
crudeltà l’aveva
defraudata persino di un tetto sotto cui stare. Non gli doveva
né lutto né
lacrime.
Le nozze,
quindi, si celebrarono nella casa paterna di madona
Marina e si trattò di una cerimonia molto semplice e
tranquilla, non suscitando
l’età dei due sposi molto interesse tranne negli
abitanti di Santa Maria
Formosa, dove abitava sier Alvixe. Si volle concludere lo sponsalicio
in un
giorno, iniziato alla mattina con l’inanellare della sposa,
seguito da una
gustosa colazione mattutina, per poi trasferirsi in gondola a
Ca’ Malipiero; si
partecipò ad una commuovente orazione nella chiesa
parrocchiale ed infine si
concluse la giornata in un sostanzioso banchetto e balli a
volontà.
E lo
sfogo di madona Morexina era avvenuto appunto
durante il tragitto in gondola, poiché figurarsi se madona
Ysabeta non aveva
trovato qualcosa su cui criticare, vuoi che fossero le ghirlande a sua
detta
striminzite e mezze secche, o la qualità mediocre del cibo,
o le calze rosse
dei gondolieri, o l’abito di raso verde di madona Malipiera
Malipiero Marzello,
o l’acconciatura di madona Helena Mozenigo Malipiero, cognata
di sier Alvixe, o
i gioielli, ventalini, calcagneti e cagnetti delle sorelle dello sposo
- videlicet le madone Biancha Malipiero
Zorzi, Cecilia
Malipiero Pasqualigo, Helena Malipiero Venier e Paula Malipiero
Bondumier
– ma mai quando aveva commentato
all’orecchio di sua cognata madona
Contarina Contarini Morexini: “Sono sicura
di averglielo già visto
indosso, magari alla Sensa? O all’ultima cena dogale, quando
il fu sier Piero
era ancora vivo?” riferendosi
all’abito di seta rosso della sposa.
“Perché
non riesce mai ad essere contenta per gli altri?”,
borbottò madona Morexina a sua cognata madona Leonora
durante la cena, tra un
boccone e l’altro d’oca allo spiedo. “Mia
sorea ha ottenuto tutto ciò che
desiderava dalla vita: un matrimonio illustre, numerosa prole ben
piazzata in
società, danaro, terre, palazzi … Ha conosciuto
il bel mondo d’Italia sia prima
che dopo la calata del Roy di Franza … Cos’ha
insomma da sminuire e criticare
costantemente il suo prossimo, quando già lei si trova in
cima alla gerarchia?”
La vedova
Miani sorseggiò placida il suo vino, tacendo e lasciando
parlare a ruota libera la cognata, la quale più di una
risposta necessitava di
una spalla su cui piangere e sfogarsi.
“Tutta
colpa del mio sior Pare, che l’ha viziata: Betia di qua,
Betia di là, a lei i migliori vestiti e gioielli, i migliori
precettori e
maestri di danza e di musica, mentre a noialtre gli avanzi!”,
proseguì infatti
madona Morexina, impironando feroce un pezzo di carne. In effetti,
nascere
ultima femmina aveva relegato la donna in fondo alla lista delle
priorità
paterne, dovendo lei accontentarsi spesso e volentieri delle briciole
delle
sorelle, costantemente sminuita e pertanto aveva sviluppato fortissimi
complessi d’inferiorità, nonché un
carattere sostanzialmente debole e
accondiscendente. Eppure, col suo visetto da eterna adolescente,
piccolina e
minuta, avrebbe potuto far girare tutte le teste maschili di Venezia,
se
soltanto fosse stata un pelino più sicura di sé e
meno brontolona. “Le risate
che si fece Ysabeta, gli sbeffeggianti strali, poiché fui
l’ultima a sposarmi!”
Al che
Madre aggrottò la fronte, non ritornandole i conti:
“Non fu
vostra sorella Marina?”, ma non volendo rigirare il coltello
nella piaga, colse
piuttosto l’occasione per perorare la causa della nipote:
“Appunto per questo,
perché conoscete l’amarezza
dell’indifferenza sia materna che paterna dovreste
aiutare la povera Querina. Capisco che dovevate pensare a sistemare prima Mariuccia e Carletto, tuttavia l’impressione che le date è di
trascurarla.” Ne aveva
discusso ovviamente col suo fratellastro sier Batista, il quale aveva
accettato
le critiche ma al contempo le aveva spiegato come la faccenda non fosse
di
facile soluzione, temendo il “da Lisbona” in un
cattivo affare per la figlia.
“Mi
chiamava la vecchierella, anche
s’ero la minore!”,
continuava imperterrita e petulante madona Morexina, sorda ai
suggerimenti
della cognata e dimentica del fatto d’aver scalzato sua
sorella Marina in
tempistica matrimoniale, sposandosi prima di lei e neanche un cattivo
partito,
anzi. Ma se quando per tutta la vita s’era abituati a
guardare il bicchiere
mezzo vuoto …
“Ih,
basta rivangare il passato e focalizzatevi sul presente”, la
interruppe madona Leonora, dandole la giusta (simbolica) tirata
d’orecchie.
“Avete donato a mio fradelo vostro marido sette figlioli
ma-sci e quattro belle
pute; avete allevato amorevolmente un figliastro
ch’è adesso amico del Sofì e
già siete una nonna felice! Vostra sorea mia cugnada
è soltanto una grande
materialista, che non riesce a trovare altra soddisfazione se non in
ciò che
può toccare e comperare. Vi siete costruita una vita serena
e piena di
soddisfazioni, in nulla dovete sentirvi inferiore ad Ysabeta!”
Sua
cognata appoggiò le posate, afferrando emozionata le mani
della cognata. “Siete davvero così buona e
così saggia! Vorrei possedere
un’ombra del vostro stoicismo!”
La vedova
Miani le rifilò un sorriso tirato, di circostanza: la
sua fermezza d’animo l’aveva acquisita a prezzo
altissimo, la morte del suo
amato Anzolo, e dubitava che madona Morexina avrebbe desiderato
ottenerla
attraverso uguale percorso.
“Ancora
congratulazioni, siora Amia”, baciò Hironimo sua
zia
Marina su ambedue le guance, la quale gli elargì un
sorrisone a trentadue
denti.
“Grassie,
tesoro! Sei molto caro!”, gli accarezzò lei la
guancia.
Poi, però, il suo volto si rattristò un poco:
“Mi dispiace davvero che i tuoi
fratelli non siano potuti venire, mi avrebbe fatto davvero piacere
vederli!
Siete cresciuti troppo in fretta, mi par ieri d’aver
partecipato ai vostri
battesimi!”
“Lucha
e Carlo li hanno trattenuti degli affari a Fanzolo, si
scusano moltissimo, quanto a Marco …”,
tentennò Hironimo, cercando in fretta un
modo per glissare sullo spinoso argomento familiare, “mia
cugnada sua mojer
Helena ultimamente non si sentiva bene, un raffreddamento di stomaco, e
così
lui ha deciso di restarle accanto. Tuttavia”,
cambiò tono in uno più allegro,
“vi porgono tutti le loro congratulazioni ed Helena vi relega
un rotolo di
merletto fatto da lei, da applicare al collo e alle maniche della
camicia.”
Madona
Marina lanciò un deliziato gridolino. “Che puta
pretiosa!
Lo stesso disegno che piaceva a me?” e dinanzi
all’energico cenno affermativo
del nipote acquisito, la nobildonna spiegò entusiasta alla
figliastra
Malipiera, con la quale oramai erano divenute tutte un
ciccì-coccò: “La siora
cugnada di Momolo è una greca di Costantinopoli, abilissima
nel ricamo, delle
vere mani d’oro! An, non vedo l’ora
d’aprire i doni nuziali, così da mostrarlo
per mano!”
La
giovane donna si ritrovò d’accordo, incuriosita da
tanta
bravura. “Sier Hironimo”, si rivolse poi al nipote
della matrigna, “temete sia
troppo sfacciato da parte mia, invitare la siora vostra cugnada a casa
mia per
ricamare un poco assieme? Ovviamente, quando si sarà
rimessa.”
“Sono
sicuro che apprezzerà moltissimo la vostra
compagnia”, la
rassicurò Hironimo, contento di poter offrire ad Helena
un’occasione per
svagarsi e conoscere altre nobildonne, al di là della solita
cerchia
famigliare, invece di trascorrere ore in ginocchio davanti agli altari,
pregando per improbabili miracoli. Quand’ecco che il giovane
impallidì,
rendendosi soltanto ora conto del timido rigonfiamento del ventre di
madona
Malipiera, ben camuffato dai morbidi panneggi della gonna di raso
verde. “An …
non … non avevo … le mie felicitazioni,
patrona”, farfugliò a disagio da quella
scoperta e alle potenziali reazioni ch’avrebbe potuto
scatenare in Helena.
“Vi
ringrazio, mio marito ed io siamo molto contenti di questo
nuovo puttino”, reclinò graziosamente il capo la
futura madre, allungando la
mano al consorte sier Piero Marzello, il quale aveva raggiunto la
moglie dopo
un giro di chiacchierate cogli altri invitati. “Nevvero,
carissimo?”
“Assolutamente”,
confermò il ventisettenne patrizio, appoggiando
ambedue le mani sulle spalle di madona Malipiera. “E stavolta
spero sia una
femminuccia, della vostra stessa bellezza!”
Sua
moglie schioccò divertita la lingua, scuotendo ilare il
capo.
“An, io invece spero in un altro maschietto, però
non col vostro caratteraccio,
o mi farà impazzire!”
“Ma
…!”, protestò l’uomo e madona
Malipiera, madona Marina ed
Hironimo risero di cuore alla battuta. Dopodiché, adducendo
un’abile scusa, il
ragazzo si congedò dalla famigliola e si diresse verso il
gruppetto di ospiti
nella sala accanto: le sue orecchie avevano captato della musica e gli
era
venuta una gran voglia di ballare.
Inoltre
aveva una missione da portare a termine. “Su, Querina,
suonano una piva!”, esclamò, pigliando il polso
della cugina e trascinandola
nella stanza attigua, cercando con lo sguardo l’amico di sier
Piero Marzello.
“Momolo,
non credo …! Aspetta, ciò!”
“Carissimo”,
abbracciava sier Alvixe Malipiero l’amico e
neocognato sier Batista, “vi ringrazio ancora per avermi
consigliato Mari-ehm,
vuostra cugnada: è di buon cuore, savia e d’ottima
compagnia. Va d’accordissimo
con la mia Melina e adora i miei due nipotini, meglio di
così? Sier Piero
Vituri – a chi Dio perdoni –
non se la meritava proprio questo
gran bel pezzo di donna!”
“Amen,
amico mio, amen!”, gli batté sulla spalla il
Morexini,
riempiendo allo sposo di nuovo il bicchiere di garba, un malvasia amara
dall’Epiro. “Lasciare l’intero patrimonio
ad estranei? E quando mai s’è sentita
una pazzia del genere? Credetemi, a sier Piero hanno fatto il lavaggio
del
cervello: ecco perché io, in casa mia, non voglio
né preti né suore né monaci,
né tantomeno permetterò a nessuno dei miei figli,
finché vivrò, di prendere i
voti! [5] Già in famiglia ci è toccata
un'ex-suora per colpa di quello
screanzato di Vicenzo ... Ma adesso ditemi: sul serio non vi dispiace,
che la
vostra nuova mojer possa avere delle difficoltà a darvi dei
figli?”
“Batista,
onestamente, a cinquantotto anni mi metto a fare il
padre?”, arcuò scettico il sopracciglio il
Malipiero, bevendo una grossa
sorsata di vino. “Lasciamo ai giovani tal
privilegio”, disse, guardando
amorevolmente la figlia e il genero, intenti a scherzare assieme a sier
Zuanne
Querini e a madona Maria sua moglie, confrontandosi le due matrone la
curva dei
rispettivi pancioni.
Il
“da Lisbona” soppesò a fondo le parole
dell’amico:
contrariamente a lui, il suo ultimogenito Francesco l’aveva
inaspettatamente
avuto a sessantatre anni e l’esperienza gli era bastata, al
punto ch’aveva
detto chiaro e tondo a sua moglie che soltanto legandolo al letto
l’avrebbe
costretto a concepire un altro figlio, infierendo poi dandole della
vecchia. A
onor del vero, lui si sarebbe fermato anche a Lorenzo, non volendo
infatti
rischiare stupidamente la vita di Morexina, privando prematuramente i
suoi
pargoli della madre. Peccato che la scoperta della sua tresca con Luzia
Trivixan avesse risvegliato nella moglie una strana ed inquietante
libidine,
sicché Ferigo, Marinella, Donatella e Francesco erano nati,
quest’ultimo appena
tre anni addietro.
“Se
vengono, vengono. Altrimenti … ci si accontenta,
perché farne
una malattia? Guardate il caro sier Marco Antonio Morexini: ben due
matrimoni
sterili alle spalle e s’è lasciato scoraggiare?
No, ha adottato una neonata
abbandonata alla Pietà, che lui e sua moglie madona Donata
adorano come se
fosse sangue loro. Non tutti vengono benedetti da figli e a coloro che
ne
hanno, non sempre viene concesso di vederli crescere
…”, sospirò sier Alvixe,
ripensando alla sua nidiata di pulcini, della quale rimaneva soltanto
Malipiera. “Ma via con la malinconia! Stasera si festeggia
incipit vita nova!”
Sier
Batista levò in alto il bicchiere. “E il vostro
è il
matrimonio più facile in assoluto, neanche vi dovete
preoccupare di rassicurare
la sposina!”, sghignazzò complice.
“Attacco diretto e frontale, si suol dire,
senza pietà!”
“La
mia mojer avrà pur la sua età, ma tutta in
esperienza! Peggio
per il fu sier Piero, meglio per me!”, se la rise sier
Alvixe, suggendo malizioso
un sorso di garba, mentre il cognato si strozzò per poco col
suo.
“E
come …?”, sbiascicò, nettandosi gli
angoli della bocca. E
dinanzi alla lunga e significativa occhiata da parte del Malipiero
… “No!”,
esclamò stupefatto. “Davvero?!”
“Ciò!”,
confermò quell’altro e il Morexini si
portò le nocche alla
bocca, guardandosi a destra e a manca, incredulo e divertito oltre ogni
limite.
“Vi giuro che non l’avevo minimamente pianificato.
Madona Marina ed io stavano
discutendo sul trasporto dei suoi cassoni col corredo, quando, prima di
rendermene conto, m’ha calato giù le braghe,
m’ha spinto sul letto e m’è
saltata addosso!” Tanto ormai non c’era
più alcuna verginità da provare, sulla
carta praticamente figuravano già coniugi e la futura moglie
s’era rivelata infine
un’eccellente amazzone, quindi i formalismi potevano anche
risparmiarseli. Da
quella posizione l’uomo aveva ben potuto constatare quando la
Morexini si
mantenesse ancora soda, col suo bendiddio di senato lì a
portata di mano, che
lo supplicava d’impastarlo e baciarlo.
“E
nessuno in casa ha detto niente?”
“An
… credo fossero tutti usciti per la Messa … an,
no! C’era
madona Franceschina, però dalla sua espressione non mi
sembrava essersi accorta
d’alcunché.”
Il
“da Lisbona”, dubitando assai della cosa vista la
fama della
donna, preferì servirsi d’altro malvasia e non
commentare.
“Beh,
che dire? A notti felici, amico mio!”
“A
notti felici!”, rispose al brindisi sier Alvixe, bloccandosi
però all’improvviso. “Dite,
Batista”, e indicò malizioso il gruppo di giovani
intenti a danzare una pavana, “non m’inganno o
vostra figlia Querina è già alla
quinta danza con sier Daniel?”
“Con
sier … chi?!”, si girò di scatto il
Morexini, fallendo di
spaccare il bicchiere a furia di stringerlo, alla ricerca del fellone
seduttore
per tirargli il collo.
Dal canto
suo Hironimo, con la scusa di volteggiare accompagnando
l’avvenente madona Fontana Malipiero Barozzi nipote di sier
Alvixe, [6]
gongolava soddisfatto del buon esito di quel suo intrigo: Luzia
Trivixan, tra
una ciacola e l’altra col cavalier sier Domenego Trivixan,
aveva appreso come
sier Francesco Zustignan “dalle Canove” stesse
cercando moglie per uno dei suoi
cinque figli. Fatalità, dei potenziali candidati, Daniel
Zustignan era amico
del nipote del cavaliere, sier Piero Marzello, che guarda caso era il
genero di
sier Alvixe Malipiero e con po’ di moine da parte di madona
Malipiera, messa al
corrente della congiura, il giovane Zustignan era stato invitato alle
nozze.
Cura di Hironimo era stata di spingere la sua germana Querina a ballare
e
conversare quanto più possibile con Daniel, alternandosi con
i suoi complici
sicché, a neanche metà festa nuziale, la Morexini
già era cotta per il patrizio
e quest’ultimo la tallonava neanche si fosse trasformato
nella sua ombra. E il Miani
vibrava di perverso gusto nel contemplare la faccia perplessa e
bellicosa di
suo zio Batista, il quale, a giudicare dal fitto gesticolare di sier
Alvixe,
già si stata informando sulla vita,
morte e miracoli di Daniel
Zustignan, sui suoi genitori e le famiglie dei rispettivi genitori; sui
beni
immobiliari ch’avrebbe potenzialmente ereditato; sulla sua
posizione a Palazzo
Ducale e sulla sua disponibilità di denaro liquido. Il
“da Lisbona” si sarebbe
trasformato nella più spietata copia del Missier Grando
– poco ma sicuro – e
ciononostante tenne per sé la sua nascente, ostile
diffidenza verso il giovane
patrizio, lasciandolo tranquillo a godersi la festa: c’era
tempo e modo per
interrogarlo e sbatterlo, strizzandolo, peggio d’una camicia
stesa al sole.
Quando
Hironimo si recò al tavolo per servirsi da bere,
s’era
appena terminato di ballare la pavana e sua zia Marina stava chiedendo
ai
suonatori un brano più allegro, forse una gagliarda. Il
ragazzo sbuffò,
dilaniato dalla voglia di ricongiungersi al resto dei ballerini e di
rinfrescarsi il gargarozzo. Hé, forse un turno poteva anche
saltarlo, aveva
danzato almeno una volta con tutte le nobildonne lì
presenti, due s’erano sue
parenti e tre di fila con madona Fontana, tanto bella quanto spiritosa,
gli
raccontava certi pettegolezzi da sbellicarsi, in primis sugli infiniti
amori di
sier Piero Bembo, l’eterno innamorato.
Il
patrizio fece quindi per afferrare la pasciuta ampolla di
vetro, quando una mano più lesta della sua gliela sottrasse
da sotto il naso e
i due giovani sussultarono nel ritrovarsi inaspettatamente gomito a
gomito.
“Ne
vuoi?”, gli offrì Jacomo Corner, interdetto quanto
l’altro.
“Non
mi piace il vino bianco”, mentì rapido Hironimo,
afferrando
alla cieca l’ampolla di rosso e servendosi sempre mantenendo
un guardingo
contatto di visivo col cugino alla lontana.
Il
giovane Corner fece spallucce, riempiendosi il bicchiere.
“Che
ne pensi di questo matrimonio?”
“Molto
domestico”, rispose vago il Miani, riempiendosi la bocca di
vino, onde parlare il meno possibile. Due volte su tre, quando Jacomo
intavolava un discorso, i due finivano per discutere e una su tre
degenerava in
un vero e proprio accapigliarsi.
“No,
no, io intendevo del matrimonio di per sé”, lo
corresse il
Corner, insistente. “Per me la siora Amia
non avrebbe dovuto
risposarsi, troppo vecchia. E sier Alvixe Malipiero? A che pro
risposarsi, se
la moglie non può generare alcuna prole? La tiene per
lussuria? S’è così poteva
prendersi una concubina, una moglie sterile non serve a
nulla.”
Jacomo
non l’aveva fatto apposta, non poteva sapere ciò
che stava
accadendo tra le mura di Ca’ Miani, nondimeno le orecchie
d’Hironimo presero a
fischiargli ugualmente e il sangue a risalirgli bollente al cervello:
era
esattamente per colpa di gente come il Corner, che Helena si stava in
quel
momento dannando l’anima, nel disperato tentativo di
partorire un terzogenito.
“Beh,
il nostro lontano parente sier Marco Antonio, uomo
stimatissimo a Veniexia, non è riuscito ad avere figli da
ben due mogli. Al che
vien da pensare che o sia stato davvero sfortunato o che il problema
fosse lui.
Eppure, mi pare che nessuno l’abbia mai chiamato
“impotente”, “inutile” o che
sua moglie madona Donada abbia mai espresso il desiderio di divorziare
da lui”,
sibilò Hironimo, ingollando altro vino. Il mondo invero
ruotava storto: brave
persone desiderose di figli più di qualsiasi altra cosa, ne
rimanevano invece
privati, mentre gente che manco si meritava l’appellativo di
genitori, figliava
al contrario peggio dei conigli.
“Ha
adottato una bambina”, fu la secca risposta di Jacomo.
“Sier
Alvixe già possiede una figlia legittima e gli
basta”,
ribatté il Miani. “E noi dobbiamo farci un bel
tegamino d’affaracci nostri, tu
per primo. Non sei ancora sposato e già pontifichi sugli
altrui matrimoni?
Aspetta almanco un lustro e dopo condividerai opinione ed
esperienza!”
“Invero”,
sogghignò l’altro patrizio, bevendo a sua volta.
“Come
mai non vedo qui tuo fratello Marco?
Dov’è?”, si guardò
teatralmente attorno,
già notagli l’assenza del cugino acquisito.
La dita
d’Hironimo presero a tamburellare nervosamente sul vetro,
annusando puzza di bruciato in quell’apparentemente innocua
domanda. “A casa
con la sua mojer.”
“Sicuro?”,
alluse malizioso l’altro. “E’ questa la
scusa
oggidì? A casa con la mojer?”
“Quale
scusa?”, ripeté bellicoso il Miani, digrignando i
denti.
“Quando siamo usciti, si trovava nei suoi appartamenti. Mia
cugnada non godeva
oggi di buona salute e Marco, quale marito degno di tal titolo, ha
preferito
rinunciare alla festa per prendersi cura della consorte.”
Il
giovane Corner scosse il capo, ridacchiando dinanzi alla palese
ingenuità (secondo lui) del cugino alla lontana.
“S’è già stufato della greca,
vero? Oppure è la greca, che s’è
stufata di lui? Dicono essere le orientali
molto focose, per via della penuria di uomini … Lo puoi
confermare?”
Hironimo
appoggiò con eccessiva veemenza il bicchiere sul tavolo,
macchiando di qualche gocciolina rossa la tovaglia sottostante. Come si
permetteva quel disgraziato di speculare sul matrimonio di suo
fratello,
insinuando poi infedeltà da parte di ambedue i coniugi? Non
sapeva niente dei
problemi che stavano attraversando, della disgrazia abbattutasi sulla
cognata e
sull’ignaro suo marito! Non aveva asciugato le lacrime
d’Helena, né dovuto
sopportare i malumori di Marco, né tantomeno mediare di
continuo tra loro due!
E cos’era infine quel dare, tra le righe, della poco di buono
alla greca,
povera infelice che per amor di Marco si sarebbe squarciata il petto?
Come
osava? Come …?
L’annuncio,
più goliardico che solenne, dell’ora di metter a
letto
gli sposi zittì Hironimo, impedendogli una pronta replica e
male gliene
incorse, ché forse quella sarebbe stata meno velenosa della
seconda da lui
proferita.
“Che
buffonata!”, commentò tra sé e
sé Jacomo, ma abbastanza per
l’altro giovane da udire perfettamente ogni sua parola.
“Come se dopo ci fosse
poi qualcosa da mostrare sulle lenzuola”, disse e
s’avviò a raggiungere i suoi
fratelli.
Sennonché
Hironimo lo tallonò speditamente e gli si piazzò
davanti, un’espressione assassina sul volto.
“Chissà se ci
sarà qualcosa da vedere anche sulle lenzuola di tua moglie
…”, e gli sorrise
obliquamente, il fuoco di una crudele rivalsa bruciante nelle viscere,
come se
tutti gli sgarbi ed umiliazioni ingeriti vi si fossero concentrati,
alimentando
questo bolo per poi scagliarlo contro il rivale a guisa di drago.
Le mani
del Corner si mossero convulsamente e questi avanzò
irritato verso Hironimo, costringendolo petto contro petto.
“Tu non vedrai un
bel niente, perché neanche sei invitato … Non sei
famiglia, grazie a Dio …”,
gli sputò il suo veleno. “Non sareste
null’altro se non un imbarazzo, voialtri
Miani di San Vidal, discendenti di
pescatori istriani che manco
avrebbero dovuto sedere in Maggior Consiglio! Figli di un vigliacco
suicida,
nipoti di un cospiratore esiliato e pronipoti di un delinquente
truffatore!
Poveracci senza né arte né parte costretti a
sposarsi le straniere per riprodursi,
poiché nessun patrizio veneziano sano di mente concederebbe
a tal pezzenti la
mano della propria figlia, a gente che deve accontentarsi di piccoli
incarichi
per sopravvivere o confidare nella generosità degli
zii”, elencò inclemente
Jacomo ad Hironimo, distorcendole, tutte le pecche della sua famiglia,
sottolineando accortamente il ramo, onde non infamare gli estinti Miani
di San
Cassian e i Miani di San Giacomo dell’Orio. “Si
racconta che tu trascorra molto
tempo con la Luzia Trivixan: come puoi permetterti le sue tariffe?
È sempre lo
zietto che paga? A meno che tu non gli scuota, di nascosto, la coda di
volpe
della Trivixan, alle sue spalle, il che non mi sorprenderebbe. A meno
che … ” e
qui gli occhi del Corner assunsero un luccichio maligno, “lei
non ti stia
impartendo qualche trucco del mestiere, cosicché tu possa
divertire meglio i
tuoi … benefattori?”
A tali
parole Hironimo tremava da capo a piedi, ogni nervo
pizzicato e rivoltato dai risolini crudeli di Jacomo. Il giovane si
continuava
a ripetere di non badarci, di dominare l’ira bestiale che gli
graffiava dentro
il petto e di zittire la seducente vocina alle orecchie, la quale gli
suggeriva
d’afferrare il Corner per la gola e di cavargli gli occhi.
Avrebbe potuto
intimargli di andare al diavolo; avrebbe potuto rinfacciargli che la
sua
famiglia era tanto onorata quanto la sua, sempre in prima fila ad
obbedire alla
Signoria; avrebbe potuto vantarsi che almeno lui la Trivixan
l’aveva baciata –
anche se in circostanze torbide – mentre Jacomo di lei non
n’avrebbe manco
annusato da lontano il profumo dei capelli.
Invece,
la parte d’anima nera d’Hironimo puntò
subito là dove
sapeva far male, là dove un uomo più facilmente
risultava vulnerabile e prono
ad incassare senza possibilità di difesa, non immediata
almeno. E quell’antico
ricordo, quella bagatella adolescenziale relegata nel dimenticatoio,
d’un
tratto riaffiorò provvidenziale dalla sua mente e si
trasformò in un’arma
micidiale.
“Mi
dispiace per te - caro ti
- però mi
trovo su quella lista degli invitati, che ti piaccia o meno.
E’ stata proprio
la tua novizza ad insistere e non perché siamo quasi vicini
di casa, no, l’ha
fatto per ringraziarmi in memoria dei bei tempi del
convento!” ed Hironimo
indietreggiò enfaticamente, ammirando pieno di crudele gusto
il lento lavoro
del dubbio corrodere dall’interno Jacomo, i cui lineamenti si
deformavano in
un’interessante gamma d’espressioni, dal rabbioso
all’umiliato; dallo scettico
all’incredulo. “Come? Marina non te l’ha
mai raccontato?”, simulò ignoranza
Hironimo, non concedendo un attimo di respiro all’avversario.
“Mi recavo ogni
giorno al convento e ti assicuro che lei traeva un enorme piacere dalla
mia compagnia …”
“Menti
…”, ringhiò sottovoce il Corner, la cui
mano vagava
meccanicamente ora alla cintura, in cerca forse del mancante stiletto,
ora a
qualche spanna dallo zipone del Miani, incerto dove e come afferrarlo e
quanto
fargli male. “Sei un bugiardo e uno sciocco, se pensi
ch’io creda ai tuoi
puerili tentativi d’ingelosirmi! O d’infangare
l’onore della mia sposa!”
Hironimo
aprì la bocca in finta sorpresa, reclinò vezzoso
il capo
e, congiungendo le mani dietro la schiena, dondolò di
qualche passo indietro.
“Querina”, chiamò la sua zermana,
intenta a parlottare assieme ad alcune
nobildonne. “Vien qua!”, le intimò.
Accortasi
del richiamo, la ragazza si congedò dalle sue compagne e
trotterellò allegra accanto al cugino, il quale la cinse per
la vita,
schioccandole un tenero bacio sulla fronte. “Querina,
colombella mia, il tuo
zerman Jacomo qua mi sta accusando di mentire: è vero o no,
che venivo sempre a
visitare Marina al convento?”, le chiese gravemente Hironimo,
al che Querina,
dopo essersi posta meditabonda due dita sotto il mento,
esclamò
affermativamente, sovvenendosi all’improvviso:
“Ma
certo che sì! Era il mio ultimo anno di convento,
però mi
ricordo benissimo delle tue visite! Momolo”,
spiegò ingenuamente la Morexini
all’impietrito cugino, “ci teneva molta compagnia,
anche perché al convento
studiava pure sua nipote Leonora. Le sue visite erano il momento
più bello di
tutta la giornata e sempre la Marina mi confidava: non
vedo l’ora che
sia già domani, così da rivederlo!”
e, prendendo la mano del promesso
sposo, tramite la sua innocenza gli inferse il colpo di grazia:
“Jacomo caro,
spero che tu possa divertire Marina, tanto quanto la divertiva nostro
cugino
Momolo!”
Gli occhi
iniettati di sangue, la bile risalitagli alla gola e
incurante del luogo e di ogni conseguenza, il Corner allungò
di scatto l’altra
mano in avanti per afferrare il collo d’Hironimo, il quale
reagì bloccandogli
il polso e al contempo spingendo via Querina, che l’altro non
la coinvolgesse
nella lotta. L’urletto sorpreso e dolorante della fanciulla
attirò l’attenzione
di Carlo e Nicolò Morexini, Daniel Zustignan, Andrea Corner
e di Thomà
Malipiero fratello di madona Fontana, i quali circondarono rapidissimi
e
compatti i due contendenti e li separarono senza dare troppo
nell’occhio,
intanto che con una scusa li allontanavano dalla stanza, lontano da
occhi
indiscreti.
“Cosa
v’è saltato in testa?”, li apostrofarono
a momenti in coro.
“Volete dare spettacolo?”
“Ha
incominciato lui, non ho fatto altro che difendermi!”, si
giustificò prontamente Jacomo Corner, le nari dilatate e il
viso ancora
paonazzo. “Una tal feccia dovrebbero gettarla nelle Orbe a
vita natural
durante!”
“Bugiardo
vigliacco!”, berciò Hironimo, trattenuto a
malapena per
le braccia dagli sbuffanti Nicolò Morexini e Daniel
Zustignan. “Mi hai
provocato tu per primo!”, gli sputò sullo zipone e
Andrea Corner dovettero
tuffarsi per riacciuffare il fratello, impedendogli in tempo di mordere
il naso
dell’insolente suo sbeffeggiatore, adesso sollevato di peso
da Nicolò Morexini,
per spingerlo via lontano da Jacomo.
“Tu,
lurido cane impestato, hai vituperato la mia fidanzata!”
“Tu,
marcia otre di sterco, la mia famiglia!”
E i due
rivali si gettarono in avanti, mirando ai rispettivi pomi
d’Adamo e trascinando seco i giovani uomini che, puntando i
piedi, opponevano
resistenza in direzione opposta, grugnendo nell’arduo compito
di tenerli
distanti l’uno dall’altro. Hironimo, mulinando il
braccio a guisa di gatto,
riuscì a ghermire una pingue ciocca di capelli di Jacomo,
strattonandola feroce
nel tentativo di strappagliela, mentre il Corner gli piantava le unghie
nella
carne onde costringerlo a mollare la dolorosissima presa. Scalciava
mirando
agli stinchi del Miani, colpendo all’occasione anche
Nicolò Morexini e Daniel
Zustignan. Iniziarono a volar a caso pugni e sberle, le quali, oltre ai
due
avversari, inclusero anche il malcapitato finito nella loro
traiettoria, tra
guaiti di protesta e imprecazioni. Sfidando codesti strali, Carlo
Morexini si
pose imperioso in mezzo ai litiganti, spintonandoli di malagrazia e
puntando
perentorio i palmi delle mani contro il petto d’Hironimo e di
Jacomo, in modo
da impedire ogni probabile riavvicinamento.
“Possibile
che voi due non possiate rimanere da soli in una
stanza, senza finire a parole o alle mani peggio d’un branco
di bifolchi
gallinari?”, sbuffò il Morexini, fulminando con lo
sguardo i suoi cugini
germani. “Siete imbarazzanti! E tu ancora di più,
Jacomo! Hironimo t’è minore
di tre anni e inoltre tu fra poco ti sposi, ergo dovresti dare il buon
esempio
e dimostrarti abbastanza maturo, da non pigliare sempre e troppo sul
serio le
sue monade!”, berciò spazientito e senza degnarsi
d’ascoltare la replica del
Corner – poiché manco gli interessava –
il patrizio si voltò verso il Miani,
ché mica gli sfuggiva, nossignore. “E tu, datti
una calmata! O sei talmente
stupido da non riuscire ad intavolare almanco una conversazione civile?
Sei un
litigioso, un violento! Vergognati!”
Sentirsi
rimproverare così, dal suo cugino germano preferito,
sparse ulteriore sale sulle ferite di Hironimo: l’euforia
della previa vittoria
ottenuta su Jacomo scemò rapidamente e si mutò in
un’amara sconfitta, visto che
Carlo era giunto alle conclusioni sbagliate, misinterpretando in totum
le sue
ragioni. Litigioso? Violento? Quel tanghero innominabile aveva sparlato
a
vanvera di situazioni familiari che neppure conosceva, vituperando poi
il suo
casato, perché bisognava dunque biasimare Hironimo, se lui
aveva logicamente
perso le staffe?
“An,
eccovi qua! Cosa ci fate qui nascosti?”,
s’affacciò all’uscio
sier Hironimo Malipiero, il fratello minore di sier Alvixe e padre di
Thomà, osservando
in bonaria aspettativa i volti colpevoli e chini dei giovani
lì presenti.
“Momolo!”, esclamò poi genuinamente
preoccupato, indicando l’interpellato in
questione. “Cosa t’è successo? Stai
…” e l’uomo si portò due dita
al naso,
prontamente imitato dal Miani, che soltanto in quel momento
s’accorse
dell’epistassi scendergli fino in bocca. “Seguimi,
ti faccio portare dell’acqua
fredda e un panno”, s’offrì solerte,
sennonché, tappandosi le nari gocciolanti,
Hironimo bofonchiò adirato:
“Sto
bene.”
“Ma
…
“Sto
bene! Sul serio, non vi disturbate!”, gli gridò
snervato il
ragazzo, il quale si scrollò di dosso i parenti e
s’aprì collerico un varco tra
loro, attraversando di corsa il salone principale fino al portone
d’ingresso di
Ca’ Malipiero. Hironimo camminò esagitato fino al
primo pozzo reperibile e lì
si fermò, appoggiando ambedue le mani sulla pietra bianca.
Respirò a fondo
l’aria pesante e dal retrogusto metallico, ingollando la
rabbia e le lacrime da
essa provocategli, il corpo un unico fascio di nervi.
Ingiusto,
ingiusto, era così ingiusto che Jacomo Corner se la
cavasse ogni volta con così poco, uscendone puntualmente
vincitore lui, il
povero santarellino, l’agnello sacrificale,
l’innocente martire vittima di quel
gran diavolo di Momolo! Mentre al contrario, quella bestia,
quell’infame, quel
tiranno di Momolo si ritrovava doppiamente punito, la reputazione
più nera del
carbone! Oh, ma se Hironimo si sarebbe vendicato! Eccome! Gli avrebbe
restituito tutto in un sol colpo, ovviamente aggiungendo gli interessi,
per i
rospi ingoiati!
Hironimo
non s’accorse di come avesse preso a prendere a pugni il
bordo del pozzo, né di come il candore della pietra
d’Istria si stesse
macchiando di rosso, unendosi il sangue delle mani a quello del naso.
Continua
…
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Un
po’ di noticine:
[1] Breve riassunto della dinamica famigliare:
Andrea Donà (Donado) aveva contratto due matrimoni: dal
primo, con Maria da
Canal, aveva avuto tra i vari figli Antonio, padre di Girolamo, Andrea
e Alba
Donà, rispettivamente in questa storia ambasciatore a Roma,
podestà a Treviso e
madre di Marco Contarini amico del Nostro. Girolamo e Andrea a loro
volta
avrebbero sposato due sorelle, Maria e Francesca Gradenigo di Alvise.
Dalla
seconda moglie Camilla Foscari del Doge Francesco, Andrea senior aveva
avuto
Alvise dal quale nacque Francesco Donà,
quest’ultimo destinato a divenire Doge
nel 1545.
[2]
Puto rimane, di nome e di fatto! = gioco di
parola, con “puto” che si riferisce sia a
“bambino/ragazzo”, ma anche a
“scapolo”.
[3] Riguardo a tale avvenimento, riporta il
Sanudo: (29.03.1508) Morite
sier Piero Vituri, era savio a terra ferma, stato assa’
amallato. Fece uno
testamento, che dete molto che dir a la terra: privò li
fiuli di soa sorella, e
lassò heriedi li frati di la Certosa et la scuola di San
Marco etc., ut in
ipso.
Posso
anche capire escludere i nipoti dal testamento, ma neanche
un lascito alla moglie, la quale manco è menzionata? Mah.
[4] era tradizione a Venezia, che una vedova
portasse una scuffia nera (fuori come in casa), nascondendo le trecce,
indossandovi
sopra un pesante paneselo nero lungo fin quasi al sedere, il petto
coperto da
una spessa camicia accollata, senza ovviamente nessun gioiello,
tant’è vero che
i forestieri scambiavano le vedove veneziane per delle monache.
Tuttavia, se la
signora si sentiva pronta a convolare nuove nozze e voleva comunicarlo
pubblicamente ma con discrezione, allora incominciava a mitigare tale
rigore,
magari usando una camicia più sottile, qualche catenina o
anellino d’oro e
ovviamente, mostrando qualche ciocca di capelli da sotto il velo e la
scuffia.
[5] E quelle di G. Battista Morosini, mica erano
parole al vento o le antenate del politicamente corretto! Proprio non
voleva
sapere i figli negli ordini religiosi - almeno i maschi. Infatti, suo
figlio
Nicolò prese i voti soltanto dopo la morte del padre,
avvenuta nel gennaio del
1518; suo fratello Federico avrebbe voluto imitarlo, morendo purtroppo
a soli
22 anni sempre nel settembre del 1518. Quanto al fratello minore
Girolamo, fu
protagonista d’un epico scontro padre-figlio. Narra il Sanudo
a riguardo (2
gennaio 1515): “E’ da saper: eri nel
monastero di San Spirito, per don
Francesco Valier prior, fo vestito frate sier Hironimo Morexini di
Batista,
qual veniva a Consejo, era di età anni … (27
anni, ndr.) et ha
voluto esser chiamato don Hironimo. Il padre prima fe’ ogni
resistentia, poi si
acquietò, et fu contento si vestisse.” Dev’essere
stato uno
spettacolo memorabile, se è finito nelle cronache del
Sanudo, così come sarebbe
interessante capire, come abbiano persuaso il Battista a calmarsi!
[6]
Fontana Malipiero Barozzi.
Piccolo angolo di pettegolezzo:
Fontana, figlia di Girolamo Malipiero e di Elena Mocenigo, nipote di
Alvise
Malipiero (e dunque cugina di Malipiera) diverrà madre, nel
1514, della
celebre Elena Barozzi, reputata una delle
donne più belle di
Venezia. Pittori quali Tiziano e Giorgio Vasari ne fecero la loro musa
e di
fatti s’ipotizza che “La Bella” di
Tiziano possa essere proprio Elena, poiché
la data d’esecuzione del ritratto, 1536, coincide proprio con
le nozze della
nobildonna col patrizio Antonio di Marco Zantani (o Centani), famoso
protettore
delle arti musicali, nel cui salotto si riunivano compositori e
musicisti tra
cui Girolamo e Annibale Parabosco, Claudio da Correggio, Baldassarre
Donato,
Francesco Londarit e Perissone Cambio. Enea Vico lo menziona nella sua
opera
"Discorsi sopra le medaglie". Non meno importante, Antonio Zantani
è
anche ricordato per aver fatto ricostruire l'Ospedale degli Incurabili
nel
1560, fondato tra il 1517 e il 1522 da Maria Malipiero, Marina Grimani
e San
Gaetano da Thiene e della cui gestione il Nostro divenne responsabile
nel 1531.
Ritornando
ad Elena Barozzi Zantani, la sua bellezza era tanto
nota da essere immortalata non solo nella pittura, ma anche nei versi:
il poeta
Lelio Capilupi le dedicò la ballata: “Ne l'amar e
fredd'onde si bagna” mentre
Fortunato Spira nei suoi versi la paragonava alle bellezze mitologiche
della
Grecia Antica e Giambattista Dragoncino alla "vaga Isotta da le trecce
bionde".
Ma fu la
sua relazione con Lorenzino de’
Medici a
sancirne la fama storica: il Medici, in fuga per l’assassinio
del duca
Alessandro de’ Medici, aveva riparato a Venezia, in Campo San
Polo per
l’esattezza, dove abitava Elena. I due divennero amanti,
malgrado le giuste
contrarietà del marito Antonio. Stando ad Orazio Toscanella,
Lorenzino avrebbe
perfino schiettamente chiesto allo Zantani di divenire suo "compare"
al che il patrizio gli rispose: "Abbiate pazienza, se voglio essere il
solo padre dei miei figli." In ogni modo, dalla relazione tra Elena e
Lorenzino nacque Lorenzina, figlia postuma
del Medici, il quale
perì assassinato dai sicari di Cosimo de’ Medici.
La bimba venne allevata dalla
famiglia di Elena e sposò in seguito Giulio Colonna.