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Autore: Hoel    08/02/2021    4 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
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Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 10.11.2021

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Capitolo Ventiseiesimo

Confiteor

(Non desiderare la donna altrui; Non desiderare la roba d'altri.)

Parte 2

 

 

 

 

Ma la tentazione! La tentazione dell’amor profano!

A quello il ragazzo ci cogitava parecchio, da sveglio e dormiente, peccato che l’implementazione non accadesse ai suoi termini, indifferente egli agli sfottò dei suoi amici che lo definivano uno “schizzinoso”: a lui le prostitute comuni non dicevano niente, piuttosto lo disgustavano, quei fantocci imbellettati, volgari e indifferenti. Perché accontentarsi di polenta, quando si poteva assaggiare pane bianco? Tecnicamente, anche Luzia Trivixan apparteneva alla categorie delle peripatetiche, eppure nessuno la insultava né dopo averla posseduta i suoi clienti si dimenticavano di lei, ritornando invece ancor più bramosi di prima, perennemente insoddisfatti. E lei, crudele, li tormentava, si negava, si dava ora generosa ora avara; con intuito pazzesco inquadrava l’uomo e gli ritorceva contro le sue debolezze, trasformandosi nella donna che voleva.

Trascorrendo i pomeriggi con la cantante, onde migliorare le sue competenze di liutista dilettante o semplicemente per chiacchierare, Hironimo aveva avuto modo di studiarla con comodo, cercando di vedere al di là dell’aura di pura prorompente femminilità emanata dalla cortigiana honorata. S’era sorpreso di scorgervi, dietro all’ingannevole civetteria e aria da perpetua bambolina, uno spirito intrepido e avvezzo alla guerra di sopravvivenza. Il mondo di Luzia tanto era bello quanto effimero, un unico passo falso e lei poteva perdere in un battibaleno quanto conquistatosi a fatica.

Sicché ella aveva col tempo sviluppato la medesima fredda razionalità di un condottiero, che studia il piano d’attacco avanti ordinare la carica: Luzia progettava spietata la maniera di sbaragliare l’insidiosa concorrenza delle colleghe e sceglieva accuratamente i suoi clienti, infischiandosene del rango, età e patrimonio di chi rifiutava, badando più ai benefici a lungo termine che a breve. Se l’arciere tendeva la corda dell’arco, di persona lei accordava il suo preziosissimo liuto, ascoltando attentissima la tonalità giusta; i suoi elegantissimi e preziosi vestiti corrispondevano alla sua armatura, i gioielli il suo vessillo, la schiera esotica di famigli, suonatori, ballerini e acrobati la sua compagnia di ventura. Al posto di una spada, la cortigiana honorata brandiva i suoi eccentrici ventagli, gli alti calcagnetti il suo destriero e l’arguzia mascherata da superficialità lo scudo dietro cui ripararsi.

Hironimo l’aveva definita, non a torto, un’opera d’arte vivente, perché rispecchiava perfettamente la natura di Luzia, la quale non viveva in pigro e decadente lusso al pari di una concubina da harem, bensì lavorava costantemente al miglioramento di sé, informandosi su ogni minuscolo aspetto del mondo che la circondava, acciocché nessun cliente la pigliasse mai impreparata. S’informava sulle mode correnti e lei stessa improvvisava il suo stile; arrivava a leggere fin quasi all’alba gli ultimi saggi e produzioni letterarie, in contemporanea alle otto ore giornaliere di prove di canto, esercitandosi fino allo sfinimento e trasformandosi lei stessa in uno strumento d’affinare, fino a giungere alla perfezione di cui parlava il giovane Tician. Hironimo era giunto alla conclusione, che l’unico vero amore di Luzia fosse la musica e la necessità di continuare a coltivarlo, unito alla consapevolezza della caducità della sua bellezza fisica, portavano la Trivixan a discutere coi suoi protettori e clienti anche d’economia, su quali investimenti puntare i suoi guadagni, così da capitalizzarli e vivere tranquilla la sua vecchiaia. Alternava concerti a lezioni private, sia di canto che di musica e Hironimo si chiedeva quando lei dormisse e mangiasse. 

Il patrizio tuttavia amava quella sua determinazione, quell’inesauribile energia e chiarezza dell’obiettivo e un poco ammise d’invidiare Luzia, desiderando poter possedere tali qualità, invece di bighellonare con la sua vita, ancora incerto quale strada intraprendere. Le persone sicure di sé e dalla forte personalità l’avevano sempre affascinato, portandolo a frequentarle, forse nella speranza d’imparare anch’egli qualcosa da loro. Luzia, aggiungendo il fattore femminile, gli conferiva poi una dolce sensazione di sicurezza e maturità, quasi di protezione. Allo stesso tempo, gli piaceva come non lo trattasse con accondiscendenza, ragionando alla pari e se la cortigiana honorata non aveva mai pianificato di sedurlo, esattamente grazie alla vivacità del suo intelletto aveva irretito il ragazzo, divenendo inavvertitamente l’oggetto dei suoi desideri.

Ammirazione e passione si fusero quindi in Hironimo, influenzando il suo modo di suonare, cambiando la voce del liuto da precisa e senz’anima a languida e malinconica, imitando l’umore del suo suonatore. E poiché appunto l’esecuzione di un brano musicale non si riduce a suonare la nota giusta, bensì a dargli un’interpretazione, uno spirito unico e vivo, che la cantante talora aggrottava la fronte, quasi colta di contropiede da un sospetto o una rivelazione, per poi scuotere il capo. In altre occasioni, invece, lei lo spiava di sottecchi, indecifrabile peggio d’una sfinge, e allora Hironimo sbagliava apposta per distrarla, temendo che lei gli leggesse i pensieri e che o lo cacciasse o assecondasse il suo capriccio. Fosse la Trivixan appartenuta ad altri uomini, il ragazzo non avrebbe esitato a raccogliere la sfida, stuzzicato dalla competizione di rendersi il più meritevole agli occhi di lei e di rubarla per sé. Peccato, però, che lei fosse mantenuta anche da suo zio Batista e se dei suoi amici Hironimo se ne fregava altamente, di lui no, già egli se ne approfittava sfacciatamente della sua generosità e fiducia, non poteva adesso mettere le mani sull’unica cosa che gli era stata proibita, seppur implicitamente. Sapeva d’essere talora un ingordo egoista, ma non fino a quel punto. O almeno sperava.

“Sei distratto oggi, Momolo”, gli fece notare Luzia, chiudendo sbuffando lo spartito ed invitandolo a riporre il liuto, le orecchie infastidite dalla sfilza d’accordi sbagliati ma peggio ancora dell’esecuzione fuori tempo. “Meglio smettere, prima che mi sanguinino le orecchie! D’accordo che il brano parla d’addii ai propri amori, però sarebbe in chiave ironica, mica tragica!”, lo burlò dolcemente, aprendo la finestra e permettendo ad un po’ d’aria fresca di circolare nel suo studiolo privato. “Se ci recassimo in giardino per sgranchirci un po’ le gambe?”

Hironimo s’ingobbì, storcendo imbarazzato la bocca. “Mi dispiace”, mormorò contrito, giocherellando con un laccetto del suo zipone. “Vi giuro che m’ero esercitato a casa”, aggiunse, non volendole dare l’impressione d’aver disertato gli esercizi assegnatigli. I maestri di musica costavano cari e Luzia – su istruzione del suo amante e protettore – gli insegnava pressoché gratuitamente. Il ragazzo non desiderava pertanto apparire né un fannullone né un ingrato.

“E di che ti scusi?”, liquidò la donna la faccenda tramite uno svolazzo di mano. “Abbiamo tutti i nostri giorni cupi. L’importante è non indugiarvi troppo”, gli sorrise incoraggiante. La cortigiana honorata si sedette su di una panca foderata di cuoio e ricoperta di cuscini di velluto, invitando il ragazzo a seguirla. Gli porse una coppa di ceramica, dal cui liquido all’interno proveniva un pungente profumo di rose e di menta. “Una miscela appena giunta dalla Siria: vostro cugino sier Andrea l’ha regalata al vostro sior Barba, il quale gentilmente ne ha condivisa una parte con me.”

Hironimo, all’udir la storia di quella deliziosa bevanda, mancò per poco di soffocarsi, andandogli di traverso, neanche lo zio Batista avesse pianificato di strangolarlo indirettamente, reo di nutrire pensieri lascivi sulla sua mantenuta.

“Raccontami.”

“Stupidaggini da ragazzini”, nicchiò il giovane Miani, roteando la coppa, lo sguardo ostinatamente abbassato. “Nulla su cui perderci il sonno …”

“Eppure capaci di rubarti il buonumore”, ribatté paziente la cantante,  bevendo con garbo il suo infuso, il mignolo ben teso e alzato, un’abitudine simpatica e un pelino infantile, che suscitava i sorrisi bonari dei suoi protettori e clienti.  “Niente che ci ferisce è stupido e non m’importa se tu la giudichi una fesseria da tosatèli, ti ascolterò ugualmente e volentieri.”

Ed ecco un altro aspetto ch’aveva ammaliato Hironimo, quella pazienza e oggettività dimostratagli nel sentire le sue confidenze, senza sfotterlo né indorargli la pillola se necessitava d’un consiglio.

Sospirando a disagio, il ragazzo tentò di vociare quanto lo stesse turbando, augurandosi di non suonare ridicolo: “E’ che …  è che mi vergogno della mia pateticità.”

“Pateticità?”, ripeté confusa la cortigiana, stringendo gli occhi.

Hironimo annuì. “Tutti i miei amici seducono tranquillamente ogni donna a loro congegnale mentre io … io neppure riesco ad aprir bocca senza coprirmi di ridicolo … Forse, forse i miei maggiori hanno ragione, quando sostengono come ci sia qualcosa di storto in me …” e ogni volta gli insulti, seppur proferiti ridendo, lo ferivano profondamente e lo impestavano di folle rabbia. A nulla serviva riempire di (molto virili) pugni lo sfrontato di turno, perché se in questo modo la sua immagine davanti agli amici si rafforzava, quella che lui aveva su di sé diminuiva, aumentando quella sua insicurezza tipica dell’adolescenza.

“Ciacole, ciacole”, sentenziò inaspettatamente Luzia, dopo un lungo silenzio di riflessione. “Non c’è niente di anormale in te e i tuoi amici sono degli stolti, perché non s’accorgono come tu al contrario sia molto chiacchierino e disinvolto con ogni donzella, basta che chiedano conferma alla Fantina …”, gli confidò, arcuando maliziosa la bocca. Occhio sempre vigile, alla cantante non erano sfuggite le furtive occhiate di Hironimo alle sue ballerine o acrobate durante le prove generali prima di una festa: esibendosi quest’ultime seminude, non gliene faceva certo una colpa, semmai la divertiva. Una tra le più spigliate, Fantina, con la scusa di far sentire al giovane quanto le battesse il cuore a furia d’esercitarsi, gli aveva posto la mano all’altezza della tetta sinistra, roteandola in un invitante massaggio e il ragazzo, ridendosela, aveva dichiarato non sentire al contrario niente, appoggiandole l’orecchio al petto, mentre quella gli spostava il viso in posizione frontale tra i seni, emettendo una serie di risolini acuti non appena egli aveva preso a soffiare e vibrare le labbra, provocandole un piacevole solletico.

Hironimo arrossì violentemente, colto in fallo e maledicendosi per quella scherzosa ripicca al giochetto della vivace ballerina.

“Il problema è casomai quando detta donzella t’interessa, allora sì che ti blocchi! E non negare, perché sai che ho ragione!”, esclamò trionfante la cortigiana honorata. “Quando una non ti piace sul serio, non temi la sua reazione o giudizio. Al contrario, se la desideri … Non molti uomini sono capaci di mettersi in gioco, sai? Specie se la potenziale amante può rifiutarli. De diana, tutti sono dei grandi seduttori con le prostitute, no?”, ridacchiò, strizzandogli maliziosa l’occhio.

“E il mio sior Barba?”, inquisì d’un tratto brusco il ragazzo. “Come vi ha sedotto?”

“An, quesito difficile”, non si scompose la Trivixan, riempiendosi di nuovo la coppa di quel dolcissimo infuso. “Non certo coi suoi soldi né la sua posizione sociale, poiché annovero tra le mie fila  patroni più danarosi e socialmente meglio piazzati di lui. Ama molto appassionatamente, però con incostanza … No, se avessi puntato solo sulla passione fisica, a quest’ora avrei già perduto il tuo sior Barba. E’ la mia mente ciò ch’egli adora di me: vedi, la tua siora Amia possiede molte qualità e lui le vuole un bene dell’anima, solo che lei è troppo rigida e limitata di pensiero, mentre il tuo sior Barba è un irrequieto vulcano d’idee. Lui apprezza ch’io gli tenga testa intellettualmente ed anch’io amo ciò, sicché abbiamo stretto codesto matrimonio persiano, anche quando la passione fisica scemerà. Io so che lui va con altre donne, eppure torna sempre da me.”

L’unica tuttavia che Luzia gli aveva categoricamente precluso era Francesca Ordeaschi, la sua odiatissima rivale. Alla scoperta  di come sier Batista avesse partecipato ad una festa in cui lei aveva presenziato, la sua amante si era trasformata in una delle Erinni, sputandogli addosso i peggiori insulti e minacciandolo d’accopparlo di sua mano, piuttosto che cederlo alla concorrenza. Il Morexini (che sul serio manco se la filava l’Ordeaschi, troppo volgare per lui) aveva ascoltato calmissimo, lasciandosi scivolare di dosso ogni invettiva, già allenato dalla sua Santippe. L’unico momento in cui aveva perduto la pazienza, fu quando lei in sberleffo gli aveva ripetuto, imitandolo alla perfezione, le sue motivazioni, ossia che aveva bisogno di crearsi una solida rete d’amicizie a Palazzo per favorire la sua carriera politica in ascesa e attorno a Francesca Ordeaschi gravitavano appunto quei pezzi da novanta.

E allora fuori da casa mia! Vi odio, vi disprezzo, mi fate schifo! Su, su correte cagnolino, correte da lei! Io tanto mi strapazzo per divertire vossioria, io che vi ho donato i miei migliori anni, che ho sperato – Dio mi perdoni! – in una minuscola prova di fedeltà vostra, mi vedo ripagata così: l’Ordeaschi schiocca le dita, vossioria perde la testa e zampetta scodinzolante da lei!”

“Parlo al muro, forse? Non me ne cale un accidente di quella baldracca, bensì della gente che lei frequenta! Vi giudicavo più intelligente, ma a quanto pare la gelosia vi ha rivelato per la donnetta di bassa lega quale siete!”

“Visto che scopate anche quelle, non dovreste amareggiarvi!”

“Attenta a non infastidirmi: non siete l’unica puttana a Veniexia …”

“E voi non siete l’unico patrizio: della vostra razza, ne ho già cento in lista d’attesa. Meglio per loro che si sia liberato un posto, almeno mi divertirò di più e non dovrò più sopportare un vecchio noioso e impotente come voi!”

E via così finché, non ottenendo nulla a parole, sier Batista era passato alle vie di fatto e, pigliata la cortigiana, l’aveva costretta sulle sue ginocchia, chiappe all’aria, e sollevatale le gonne l’aveva sculacciata per bene per la sua linguaccia. Caricatasela poi sulle spalle e gettatala di peso sul letto, le aveva ben esplicato tra le lenzuola come lui la preferisse sopra ogni altra amante; come fosse tutt’altro che vecchio, noioso e impotente e che mai più si ritornasse sull’argomento. In Senato, il giorno successivo, si era chiesto al “da Lisbona” il perché dei graffi sulla guancia, segni che lui aveva giustificato frutto di un’accesa discussione con la gatta di casa. Felino che, dopo una settimana di bronci e dispetti, gli era ritornata tutta morbida e ronronnante sulle ginocchia, sotto solenne giuramento di non toccare l’Ordeaschi manco sotto minaccia di morte.

“In quest’aspetto, tu gli assomigli molto: ti piace sì un bel visetto, ma ancor di più lo spirito di una persona.”

Appoggiando la coppa sul tavolino smaltato di foggia orientale, Hironimo si passò una mano sulla fronte, grattando via i pensieri. “Mi si rimprovera che sono troppo accondiscendente verso le donne, permettendo loro di pestarmi i piedi e pure scusandomi quando lo fanno”, proseguì nella sua confessione, riversando il pus accumulato negli ultimi mesi e sentendosi un poco indegno di quel paragone con lo zio, il quale non si tirava mai indietro dinanzi alla sfida di una nuova conquista. “Mi hanno detto, che forse dovrei essere più – cito - rude e aggressivo nei loro confronti, poiché così piace a loro. Che mi lascio trattare alla stregua di uno straccio, piuttosto d’impormi e farmi, secondo costoro, rispettare …”

“Boff, l’uomo lo vogliamo rude e aggressivo forse in letto, ma ti assicuro che nella vita reale lo preferiamo gentile e premuroso”, su quel punto l’assicurò un’intransigente Luzia, la quale l’ascoltava un poco in pena, affezionata com’era all’animo sensibile di quel ragazzo, in fin dei conti più buono e puro di tanti approfittatori e marpioni in cui s’era imbattuta. E ribolliva di rabbia nell’udire quelle sue insicurezze e recriminazioni, inculcategli da gente che neanche gli arrivava alle caviglie. In molti preferiscono essere amati e prendere dagli amati, in una sorta di comodo e passivo egoismo; in pochi invece preferiscono dare e amare, sbilanciandosi ed esponendosi alle delusioni ed Hironimo si ritrovava in questa seconda categoria, degli spiriti amanti, che traevano la loro felicità in quella della persona amata, piuttosto che alla propria soddisfazione personale. E per questo, ahimè, venivano spesso o ridicolizzati o sfruttati.

Teneramente la cantante afferrò Hironimo per le spalle e lo invitò ad accomodare il capo sul suo grembo, scostandogli delicata delle ciocche scure dalla fronte. “Come sostiene Marsilio Ficino, solo Venere domina Marte e lui non domina mai lei: dunque, un uomo che maltratta la sua donna non vale niente, se perfino lo sterminatore di uomini si accoccola mansueto e rilassato accanto alla sua”, gli spiegò, distendendo una piccola ruga scettica sulla fronte del giovane. “Tu non sei debole, Momolo, ti ho visto combattere alla Guerra dei Pugni contro opponenti il doppio di te; non sei né stupido né una scartina. I veri amatori non si vantano mai delle loro conquiste e chi afferma di non aver mai sofferto d’amore, allora è un bugiardo perché non è vero, chi veramente ama soffre, poiché non si esiste più, ci si annulla nella cosa amata e viceversa. In amore è facile prendere, ma difficile dare”, ammise la donna, accarezzandogli la testa, colta da antica malinconia.

Ripensava al suo Alexandro, alla sua eroica rinuncia di carriera, quando, anni addietro, la marchesa Isabella d’Este gli aveva proposto impiego a corte, a patto però ch’abbandonasse Luzia, sostenendo che di cantori e amanti a Mantova ne avrebbe avuti a bizzeffe. Egli, allora, le aveva intimato di tagliargli la mano e così assumerlo, poiché senza la sua musa, egli non poteva lavorare. Una scelta sciocca, se analizzata freddamente, rifiutare una sì allettante offerta per amor di una cortigiana; eppure … eppure …

“E poi neanche a me piacciono gli spacconi, i gretti e i volgari, il cui unico pensiero fisso si riduce al coito. Bleah, cani in calore e senza qualità … ”, si scosse Luzia dal suo incantamento. Nei suoi lunghi anni da professionista ne aveva viste di cotte e di crude e udite di ben peggio. Per questo motivo aveva lavorato tenacemente per elevarsi dall’anonima marmaglia delle prostitute, per dedicarsi alla sua arte in tutta tranquillità, senza scendere a scabrosi compromessi. Se i suoi clienti desideravano una serata più piccante, sapeva dove procurare loro le ragazze ma se volevano giacere con lei, scaltramente li indirizzava nelle posizioni a lei consone, facendoli però credere ch’erano stati loro stessi a sceglierle. Una volta presili saldamente per il pene, gli uomini non capivano più niente, altro ch’esperti dominatori. E a coloro che si lamentavano di lei, rinfacciandole come con minor tariffa ottenevano miglior mercanzia ai bordelli, Luzia, ridendoli in faccia, replicava sfrontata su cosa li trattenesse allora a casa sua; sul perché si fossero scomodati a dirglielo, perdendo così tempo prezioso ch’avrebbero potuto meglio impiegare in letti più economici.

“Quegli infoiati là io li cedo assai volentieri alle cortigiane di lume o alle comuni meretrici. Da loro non c’è da guadagnarci alcunché di concreto e molto spesso chi si pavoneggia a voce alta, poi si scopre essere un incapace a letto, più veloce di un gatto affamato.”

Hironimo grugnì sotto i baffi alla battuta.

“Non vergognarti mai di chi sei, Momolo: quando lo fai, loro hanno vinto. Il mondo è pieno di vigliacchi pronti ad azzannarti, ma guaiscono spaventati non appena mostri il pugno! Mia madre, oltre al mestiere, m’ha insegnato a sapere come voglio esser trattata: vedi qualcuno che mi chiami apertamente in faccia “troia” o “puttana”? Uomini arrapati che mi palpeggiano? O che mi fischiano dietro? No, perché il mio atteggiamento glielo impedisce, sanno che se s’azzardano, ci saranno conseguenze gravi per loro. E se ciò non bastasse, i miei bestioni li acconciano per le feste”, dichiarò bellicosa la cortigiana honorata, la quale appunto onde evitare visite sgradite o aggressioni da parte di pretendenti respinti o di rivali, deambulava per le calli accompagnata dai suoi bravi, omaccioni provenienti dallo Stato da Mar, tanto truci cogli estranei quanto mansueti con la padrona. “Non cedere dinanzi ai giudizi di nessuno, conosci te stesso e vai avanti per la tua strada.”

“Quale strada?”, obiettò Hironimo, stringendo la bocca in una linea dura. “Quando il mio sior Pare era vivo, non avevo alcun dubbio quale essa fosse, poiché progettavo di seguire le sue esatte orme. Dopo la sua morte … non capisco più nulla, questo mondo mi sembra di vederlo da una lente di vetro, distorto e assurdo, e ciononostante io voglio fare qualcosa, rifiuto di starmene con le mani in mano, voglio … voglio poter esser d’aiuto e apprezzato come lo era stato il mio sior Pare … Lo stesso anche in ambito amoroso”, e reclinò all’indietro la nuca, cercando lo sguardo della cantante. “Il mio sentimento finisce sempre unilaterale e … e se invece viene ricambiato, è perché lei ha pietà di me. Ecco perché mi appellano un patetico sfortunato.”

“Pietà, lussuria, amore sincero …”, elencò spassionatamente la donna, cancellando la conta nell’aria tramite uno svolazzo della mano,  “che importa il modo, quando l’amata è tua? In guerra ed in amore tutto è concesso!”, disse tenera, inclinando il viso su quello del ragazzo, che allungò la mano, attorcigliando un ricciolo rosso tra le sue dita e rigirandolo pensoso.

“Affermate il vero, patrona”, soffiò d’un tratto roco, gli occhi nerissimi incatenati a quelli turchesi di lei. “Ovunque al mondo è violenza ed io non voglio portarla tra me e la mia amata”, mormorò, disegnando con la punta del dito il profilo della cantante, accarezzandole la pelle morbidissima della guancia. Allo stesso modo non desiderava far del male a nessuno e ciononostante, in lui percepiva spesso una forza perversa, che lo spronava alla malvagità, terrorizzandolo e costringendolo a domandarsi che cosa sarebbe successo il giorno, in cui avesse perduto il controllo.

Voleva soltanto amare ed essere amato, perché doveva suonare strampalata come idea e così difficile da capire da parte degli altri?

Puntellandosi sui gomiti, Hironimo affondò le sue dita tra le trecce rosse di Luzia, chinandola su di lui e iniziando un bacio un poco rovescio, i rispettivi nasi in direzione opposta. Le labbra del ragazzo emulavano in finezza la forza di due eserciti in pieno scontro frontale, avanzando e conquistando il morbido territorio pregno dell’euforia della prima uccisione. Si sistemò sul fianco, trascinando Luzia a sé, la sua preda di guerra, petto contro petto, leccandole lungo il collo e i denti mordicchianti il lobo del delicato orecchio. Finché le posizioni non s’invertirono e lei si ritrovò accoccolata sulle sue ginocchia, prigioniera tra le sue braccia e la gonna abbastanza sollevata da intravedere le braghesse, assecondando diligente i suoi movimenti, senza però prendere alcuna iniziativa, in paziente attesa che l’audace slancio del giovane s’esaurisse e lui realizzasse il peso del suo gesto.  

… la Trivixan è roba del sior Pare …

Hironimo si fermò a mezz’aria dall’elargire l’ennesimo bacio a Luzia, mordendosi e tirando la pelle delle labbra ora gonfie ed arrossate, osservando il viso impassibile della cantante, la camiciola di seta abbassata e aperta fin a scoprire quasi completamente il petto, i nastrini sciolti delle braghesse. Il ragazzo sospirò, serrò frustrato i denti, maledicendo tra sé e sé la sua mancanza di autocontrollo, il suo impulsivo egoismo. Baciò con estrema delicatezza ciascuna palpebra della Trivixan, le cui ciglia tremarono impercettibilmente da un lieve solletico, intanto che le sistemava le spalline e la camiciola, in un goffo tentativo di rivestirla.

“Patrona, mi piacete assaissimo e vi desidero d’ugual intensa maniera.”

“Sì.”

“Ma amo troppo il mio sior Barba per ripagare la sua fiducia coll’inganno.”

“Sì.”

“Vi domando perdono.”

“Sei perdonato”, lo rincuorò gentile la cantante, sciogliendosi piano dall’abbraccio del confuso e rammaricato patrizio. Nelle sue iridi turchesi egli non vi lesse alcun biasimo né rancore né delusione. Forse un pelino d’incertezza, come se l’intera situazione stesse risultando anche a lei sconosciuta ed ostica. “Ed è già dimenticato”, si riprese la cortigiana honorata, alzandosi dalla panca e lisciandosi le pieghe della gonna sgualcita.

“Suppongo non mi vogliate più vedere.”

Luzia gli scoccò un’occhiataccia, intanto che si acconciava alla bell’e meglio i capelli spettinati. “Non fare lo sciocco. La pavana si balla in due, la colpa è in parte anche mia”, lo rimproverò aspra. “A furia di frequentare uomini piuttosto maturi, avevo quasi scordato quanto i giovani fossero irruenti ed irresponsabili …”, dichiarò pragmatica, riprendendo posto accanto ad Hironimo una volta terminata la rapida toeletta, ancora indeciso se rimanere o scappar via dopo quella figuraccia. “Mentre tu m’hai appena dimostrato, che sei l’eccezione che conferma la regola.”

“Non datemi troppo credito, patrona”, si schermì severo il ragazzo, studiandosi avvilito la punta delle scarpe,  “se foste stata la donna di qualcun altro, qualcuno magari a me in odio, non mi sarei trattenuto.”

La cortigiana honorata rimase in silenzio per una manciata d’istanti, l’espressione guardinga ed indagatrice. Sporgendosi verso di lui, gli pose due dita sotto il mento e scandagliò accuratamente negli abissi di quelle iridi nerissime. “Anche in quel frangente, ti saresti fermato. Non sei un malvagio, è il diavolo che vuol fartelo credere.”

“Che?!”

Ma Luzia non gli fornì ulteriori dettagli: riacquistata la sua aria da finta civetta, scattò in piedi e gli tese la mano, reclamando imperiosa il suo braccio. Costì avvinghiati, i due si diressero a gran passi verso la sala di rappresentanza, gremita di un frenetico viavai di servitori impegnati a decorarla. Osservando soddisfatta l’avanzamento dei lavori e fornendo ogni tanto qualche dritta, la cortigiana honorata suggerì una controproposta ad Hironimo: “Invece, se proprio vuoi far penitenza, aiutami ad elaborare un’efficace vendetta contro quello spergiuro d’Ottaviano Petrucci, quella viscida serpe d’Urbino!”

“L’editore musicale?”, si svegliò dal suo incantamento il ragazzo, riconoscente a Luzia per aver cambiato argomento e rotto l’imbarazzo, che lo stava divorando vivo.

“In tutta la sua odiosa persona!”, sbuffava a guisa di toro la Trivixan. “Tra i suoi numerosi progetti futuri, ha incluso una nuova raccolta di frottole, ricercari e danze del compositore milanese Joan Ambrosio Dalza e mi aveva giurato – ripeto – giurato sul suo onore, che mi avrebbe procurato in esclusiva una copia inedita di una pavana alla venetiana, per suonarla al mio prossimo ricevimento ufficiale. E l’ha fatto, secondo te? No! Che figura farò coll’ambasciatore sier Hironimo Donado? Ti pare si mantengano così le promesse, Momolo? E ad aggiungere l’insulto all’ingiuria, fonti mie certissime hanno sentito suonare a casa della Francesca Ordeaschi – becha fotua, cancara proditora! – un saltarello alla ferrarese sempre del Dalza! Ti pare giusto? Ci scommetto il mio diamante più grosso, che il signor Ottaviano s’è lasciato coglionare da quella pezzente! An, mare de diana! Ma se pensa di cavarsela … di sfuggirmi … Domani sera a cena gli farò vedere i sorci verdi, altroché! Non permetto a nessuno di burlarsi di me, men che meno ad un marchigiano papalino imbrattatore di fogli!”

Veramente Luzia Trivixan si comportava come se nulla tra loro fosse accaduto, avendo sviluppato, grazie alla sua professione, una spessa corazza che l’aiutava a lasciarsi scivolar via ogni cattiveria, delusione e dispiacere. Per il resto del pomeriggio non accennò mai più al bacio, né permise che Hironimo si fustigasse oltre il necessario, tenendolo occupato e riprendendo la lezione interrotta di liuto, esercitandosi assieme su di una versione da lei stessa arrangiata di Adieu mes amours del franco-fiammingo Josquin des Prez, il princeps musicorum.

“E stavolta leggerezza, Momolo”, gli pizzicò giocosa la guancia la cortigiana, dopo avergli corretto la postura delle dita. “In fin dei conti, il nostro amico si sta lagnando che, non avendo più danari, dovrà momentaneamente abbandonare i suoi divertimenti amorosi!”

Adieu mes amours, a Dieu vous command,
Adieu je vous dy jusquez au printemps …

Luzia Trivixan era sì una commediante, una maschera che s’adattava alle circostanze, però sempre con Hironimo si dimostrò spontanea e sincera, sicché, dopo gli iniziali timori e rimorsi, il ragazzo poté rilassarsi e confidare nell’effettivo perdono da parte della cortigiana honorata e soprattutto nel suo silenzio circa l’accaduto con suo zio sier Batista.

I loro incontri pomeridiani, per quanto diminuiti, conservarono lo stesso tono complice e brioso e il giovane Miani si divertì come un matto a sentire il colorito resoconto della cantante, quando gli descrisse i tormenti cui aveva sottoposto il signor Petrucci, talmente bistrattato da accordarle speditamente tutti gli spartiti di cui ella necessitava, per organizzare una piccola festa in onore dell’ambasciatore sier Hironimo Donado “dalle Rose”, noto “suminus patronus” dell’arte, e il cavalier sier Domenego Trivixan, da poco rimpatriati.

Un piccolo trionfo per Luzia, specie nei confronti della sua peggior rivale, Francesca Ordeaschi, ed Hironimo le fu davvero riconoscente d’averlo incluso a quella festa esclusiva, laddove la cortigiana honorata era riuscita ad invitare la meglio Venezia, sia politicamente che dal punto di vista culturale.

In particolare, perché il giovane Miani ebbe modo d’incontrare finalmente di persona l’ambasciatore sier Hironimo Donado, un fratello di madona Alba amica di Madre e zio del suo amico fraterno Marco Contarini. Conversando con lui, Hironimo capì da chi Marco avesse ereditato la sua amabile gentilezza e velleità poetiche e da chi suo fratello minore Piero la sua precoce bravura in latino e in greco, ammettendo anche una certa somiglianza nei tratti somatici: la veste di broccato e la ricca collana al collo risaltavano in sier Hironimo il suo corpo vigoroso e il viso bellissimo, dolce e benevolo e ben presto Hironimo appurò quanto tanta beltà fisica s’accompagnasse a quella dell’animo.

Felice connubio tra prestigio politico e impegno culturale, il Donado “dalle Rose”, oltre ad aver ricoperto importanti cariche per conto della Signoria, era anche dottore in artibus, poeta lirico, d’elegie e satire; saggista, filosofo e appassionato di studi d’astronomia e di musica, tanto che Ottaviano Petrucci gli aveva dedicato, il 15 marzo 1501, la prima edizione dell’Odhecaton. Amico di Giovanni Pico della Mirandola, d'Angelo Poliziano, di Galeazzo Facino, di Marsilio Ficino e dello stesso Lorenzo il Magnifico, d’Almorò Barbaro e di Piero Bembo, della bellissima Cassandra Fedele Mappelli e di moltissimi altri umanisti veneziani ed italiani, non esisteva un argomento in cui sier Hironimo non fosse preparato, spaziando agilmente dalla letteratura alle scienze, senza tuttavia apparire spocchioso o pedante, anzi, per la prima volta in vita sua il giovane Miani riusciva a capire concetti – tipo l’unità dell’intelletto o l’immortalità dell’anima secondo Aristotele -  che neppure prendendolo a scudisciate si era stati capaci d’insegnargli. Questo perché, se interrotto da una sua domanda, l’ambasciatore non si scocciava, semmai ripeteva e semplificava per facilitargli la comprensione.

“Purtroppo, non si possono servire due padroni”, gli confidò malinconico sier Hironimo, spesso e volentieri trascinato via dal suo otium culturale dai turbini della politica. “Per questo, quando troverai la tua vera vocazione, devi perseguirla più tenace d’un bracco, senza distrazioni e compromessi. Altrimenti, si è destinati all’oscurità e ad un precoce oblio.”

Completamente ammaliato dalla sua intelligenza, Hironimo credette d’essersi un poco innamorato di quell’uomo, al punto d’invidiare madona Maria Gradenigo Donado sua sposa e i suoi nove figlioli, indegni rivali che avevano la fortuna di tenerselo tutto per loro: fosse stato per lui, si sarebbe accoccolato ai suoi piedi come Maria di Betania ad ascoltarlo parlare per ore e ore e di fatti per l’intera serata lo tallonò inclemente, lavorandosi poi ben bene il cugino dell’ambasciatore, sier Francesco, anch’egli peritissimo nelle lettere classiche, soltanto di carattere meno estroverso rispetto al parente, un pensatore più che un uomo d’azione e come sier Hironimo anch’egli propendeva a preferire la subdola mischia della politica [1]. La scelta del giovane Miani d’affiancarsi a sier Francesco si rivelò azzeccata, togliendolo d’impaccio e perciò accaparrandosi la sua simpatia: sul volto del trentacinquenne patrizio, infatti, trapelava un certo disagio nel ritrovarsi in un ambiente così frivolo, per quanto colto. Cicalando del più e del meno, Hironimo aveva scoperto che tale malinconia d’animo era dovuta alla prematura scomparsa della moglie del Donado, fatto che l’aveva reso particolarmente devoto soprattutto al momento di prendere una seconda moglie, madona Maria Zustignan Donado, verso la quale sier Francesco nutriva una grandissima stima ed affetto.

Peccato che il giovane Miani commise la sconsideratezza, mentre l’indomani raccontava agli amici Marco, Piero e Polo Contarini ogni dettaglio della serata, quanto ammirasse il loro barba sier Hironimo, tessendogli estasiato ogni lode alla stregua d’una fanciulla innamorata e pertanto scatenando una gelosia furiosa in Marco, già di suo frustrato per la sua incapacità d’eguagliare la bravura letteraria dell’illustre zio, figurarsi adesso che scopriva quest’ultimo avergli insidiato colui che già considerava il cor suo.

“Bestia, allora sposatelo alla persiana e fuora de là col diaol!”, gli urlò Marco in lacrime, quasi spezzando in due il suo arco d’addestramento. Meno male che si trovavano al Lido, lontano da orecchie indiscrete ch’avrebbero potuto equivocare. “Io ti voglio più bene di lui e a scuola ti ho sempre aiutato in latino, razza d’ingrato somaro! E tu ora mi fai la baldracca e gli scodinzoli dietro? Ma chi sono io per te? Una latrina da usare al bisogno?”, prese il ragazzino a singhiozzare, aggrappandosi disperato al maggiore, quando questi l’abbracciò per consolarlo.

Porta pazienza, non ha che quattordici anni, si ricordò Hironimo mentre gli prometteva fedeltà eterna e gli accarezzava il capo, ricordandosi di come, alla medesima età del Contarini, egli si fosse scatenato in scenate di gelosia ancora più assurde e melodrammatiche.

Certo però sembrava quasi una maledizione, che l’uomo fosse destinato, due casi su tre, ad affezionarsi a chi di rimando non se lo filava manco di striscio.

Facilissimo, dunque, desiderare “l’altrui” …

 

***

 

Il rapporto tra Hironimo e Jacomo Corner di sier Zorzi il cavalier si poteva riassumere in amici-nemici. Di caratteri simili ma provenienti dai poli opposti del patriziato veneziano, i due giovanotti riuscivano a divertirsi e bighellonare assieme, per poi un attimo dopo accapigliarsi ed insultare loro e i rispettivi antenati fino alla fondazione di Venezia.

Il Miani invidiava al Corner la sua ricchezza ed appartenenza ad una delle famiglie più influenti e meglio imparentate della Serenissima; mentre Jacomo invidiava il carisma naturale e la facilità con cui Hironimo tesseva amicizie, creandosi un piccolo suo seguito personale. Pur in generale soddisfatti di sé, mal sopportavano ciò che l’altro possedeva e non perdevano occasione di ricordarselo a vicenda, talora crudelmente. Ad esempio, il Corner rimarcava inclemente i modesti mezzi economici del Miani; quest’ultimo, invece, gli chiedeva se gli bruciasse la palese predilezione di suo padre verso i suoi fratelli Francesco e Marco Corner.

Magre vittorie di Pirro, poiché nella vita reale, alla fine, la spuntava sempre e comunque Jacomo, favorito da ciò che contava di più al mondo, ossia danaro e posizione sociale.

Sicché, il giorno in cui dinanzi al doge sier Lunardo Loredan venne annunciato a Palazzo Ducale il fidanzamento ufficiale tra Marina Morexini q. sier Orsato e Jacomo Corner, Hironimo, ricevuta la notizia, non si sorprese del rictus nervoso che gli attraversò il viso, scendendo fino alla mano mentre, senza accorgersi, piegava in due la penna.

Da anni non provava alcun sentimento verso Marina e, sicuro, un poco rimpiangeva di non aver tentato (molto arditamente) di proporsi a sua madre come candidato alla sua mano; tuttavia lo infastidì che, tra tutti gli scapoli di buona famiglia, proprio Jacomo Corner avesse dovuto spuntarla. E al Miani sarebbe andato bene perfino un qualsiasi Corner, ma non quel Corner, il cocco di zia Ysabeta, quello per le cui marachelle lui finiva puntualmente punito, anche quando non era colpa sua, uscendone Jacomo sempre innocentino e perdonato.  

“Era ovvio che la pronipote del fu Serenissimo Agustin Barbarigo si maritasse in una famiglia a sua volta discendente da Dogi, quale la nostra – e per nostra intendo sia i Corner che i Morexini. In fede mia, non avrei potuto sperare migliore alleanza per il mio Jacomo: vi immaginate? La fanciulla più ambita di Veniexia sarà sua moglie! Quale lustro guadagnerà in società, come gli assicurerà una spedita carriera politica! Per fortuna, che abbiamo deciso di fidanzarli in largo anticipo: costasse quel che costasse, questo sponsalicio dev’essere l’unico degno di nota dell’anno, nessuno dovrà batterlo in fama e lusso, addirittura nessuno dovrà avere perfino il coraggio di sposarsi, tanto abbaglieremo la città!”

“Sicché per un anno vivremo tutti da Turchi!”, bisbigliò Hironimo all’orecchio di suo zio sier Batista, che grugnì paonazzo in volto, sforzandosi di non ridere. Sua moglie, madona Morexina, invece era divenuta anch’ella rossa, ma per differente motivo.

“La tradizione indicherebbe l’abito nuziale o di raso bianco o di panno d’argento, ma considerata la superiore nobiltà della sposa, dire che sarebbe più auspicabile del rastagno d’oro. Uguale discorso per mio figlio, ovviamente. Una tal giovane ed avvenente coppia ha il diritto d’essere celebrata nello sfarzo più assoluto …” e per interminabile tempo madona Ysabeta si vantò e si vantò e si vantò di quell’illustre unione, che per la prima volta dacché s’aveva memoria, sua sorella minore madona Morexina si ribellò alla maggiore e, battendo la mano sul cuscino del sedile dentro la felze, esclamò inviperita:

“Sancte Marce! Un’altra Marina si sposa oggi, nostra sorela: potreste almanco spender una parola di felicitazioni per lei, o vi costa troppo?”, e sbuffando sdegnata prese a mangiucchiarsi stizzita l’unghia, suo marito sier Batista che la rimirava adorante ed Hironimo genuinamente colpito da tanto fegato, avendola sempre creduta succube della sorella maggiore.

Ultimamente, anzi, da quando madona Ysabeta Morexini Corner aveva incominciato a maritare figli e figlie, un inaspettato spirito di rivalsa aveva piantato radici in madona Morexina, prefissandosi d’accasare tutte e quattro le sue figliole, costasse quel che costasse.

“Il prossimo anno, abbiamo deciso di far sposare Lugrezia a sier Jacomo Contarini. Non vi pare meraviglioso?”

“Invitatelo al matrimonio di mia figlia Maria con sier Zuanne Querini di Stampalia e Amorgo!”

Oppure …

“Che ne pensate, sorela? Raso o seta per l’abito nuziale della mia Biancha?”

“Ecco, io per mia nuora Maria avevo pensato a del raso …”

“Ma come? E alla povera Querina più non ci pensate?”

Se madona Ysabeta avesse chiamato barbona vagabonda sua sorella, certamente l’avrebbe insolentita di meno, ché la mera menzione al mancato fidanzamento di sua figlia Querina aveva immediatamente zittito madona Morexina, pietrificata sul posto. La granitica volontà della patrizia di maritare suo figlio Carlo alla ricca ereditiera Maria da Molin del fu sier Amadio l’aveva totalmente distratta dalla ricerca d’un marito per la sua seconda femmina. A complicare la già delicata situazione, Carlo s’adoperava in ogni modo a stracciare i nervi dei genitori, rivelando un carattere meno remissivo e pacato di quanto si fosse finora creduto, protestando la sua contrarietà a quelle nozze e adducendo un’infinità di deboli scuse per sottrarvisi, quali il non aver nemmeno compiuto ventun anni. Sier Batista lo fissava stralunato, incapace di concepire tanta irriconoscenza in quel suo figlio prediletto: la Molin possedeva terre, case, un cospicuo patrimonio liquido; era giovane, virtuosa e piuttosto carina, certamente più obbediente del suo futuro consorte. Insomma, che diamine pretendeva di più? Così ripagava i suoi sforzi?

“Vuoi divenire l’erede e prossimo capofamiglia? Impara ad assumerti le tue responsabilità! Un uomo non è tale se non è sposato! Puto rimane, di nome e di fatto!” [2]

Ogni giorno era un dramma a Ca’ Morexini, tra pianti, grida, recriminazioni, porte sbattute, vasellame infranto per terra, promesse di buttarsi giù in canale o di vestirsi frate e contro-promesse d’assassinio, in caso d’attuazione delle preditte.

“Finché io respiro e finché tu vivrai in questa casa, perdio, se non m’obbedirai! Anni di sacrifici e sofferenze per dare a te, disgraziato d’un barabba, e ai tuoi fratelli e alle tue sorelle ogni possibilità d’emergere, d’avanzare in società! E tu mi ringrazi sciorinandoti in capricci come l’ultima delle donnicciole? Guarda tua sorella Maria! Ha protestato quando le ho detto di sposarsi sier Zuanne? No! Come puoi ripagare tutto il bene che ti ho fatto, con tanta meschina disobbedienza? Mi deludi, Carlo, mi deludi grandemente! Non pensi ai tuoi fratelli minori? Alle tue sorelle ancora zitelle? Uh? Se dovessi morire domani, come te la caveresti a mantenerli?”

“Sior Pare, non mi costringete, vi supplico! Non la voglio! Non la voglio! Maritatela a Nicolò o ad Hironimo o meglio ancora a Piero! Sì, Piero è certamente il più adatto al matrimonio rispetto a me!”

“Sacramento! Alzati e vattene via, mi fai venire la nausea!”

Un giorno sier Batista s’era perfino presentato fuori di sé a Ca’ Miani, inveendo contro il figlio e la fortuna e domandando soccorso a Marco, acciocché persuadesse il cugino a piegarsi alla volontà paterna. “Fallo ragionare, prima che lo strangoli!”, aveva tuonato frantumando nel pugno il biscotto offertogli. “E’ mia moglie che me l’ha rovinato! Quella bacia-altari, quella pizzocchera, altro che donna da conto! Donna da prete! Con tutti quei rosari, Messe, devozioni, pellegrinaggi, padri predicatori e cialtronerie varie gli ha raffreddato gli umori! Quale maschio, che tale si possa dire, rifiuta a venti e uno anni di sposarsi una bella giovane?! Cos’ha, mio figlio, neve al posto del sangue?”

“Vi prego sier Marco”, l’aveva supplicato madona Maria Baxadona da Molin, zia di Maria da Molin e giunta assieme al “da Lisbona”, “aiutateci a convincerlo: voi possedete un grande ascendente su sier Carlo. La mia nezza Maria è talmente una cara e brava figliola, virtuosa ed obbediente. Sarà per lui un’ottima moglie”, aveva appassionatamente elogiato le virtù della fanciulla ed Hironimo aveva stretto sospettoso gli occhi davanti al modo in cui la Baxadona appoggiava una mano sull’avambraccio di Marco, mentre l’altra gli accarezzava il polso.

L’apice di tal malessere s’era raggiunto una domenica pomeriggio: il gineceo di Ca’ Morexini s’era ritirato sotto la pompeiana in giardino, mentre gli uomini deambulavano, chiacchierando tra di loro, quand’ecco che le voci femminili sovrastarono quelle maschili, coprendole. Voltandosi, i presenti capirono che la conversazione stava vertendo sull’abito da comandare al sarto per il prossimo matrimonio tra la cugina Biancha Corner e sier Vicenzo Priuli. Maria Morexini Querini, accarezzandosi il pancione, aveva esclamato giovale di non saper ormai più cosa indossare di nuovo e di come la moda cambiasse tanto in fretta, quanto le alleanze politiche. Al che madona Morexina aveva ribattuto che quello corrispondeva ad un problema universale, tranne forse per le sorelle minori. Querina, sentendosi presa in causa, esigette immediatamente spiegazioni e sua madre, alzando le spalle, le spiegò che, dovendo indossare gli indumenti da fanciulla, non avrebbe dovuto tanto scervellarsi sulla scelta dell’abito, il quale doveva apparire appunto semplice e sobrio. Querina allora si morse a sangue il labbro, strinse i pugni e rinfacciò furente alla genitrice, se fosse giusto che alla sua età dovesse ancora  vestirsi da zitella. Invece di sprecare tempo, fiato ed energie con quella testa dura di suo fratello Carlo, perché non le cercavano marito? Un uomo si poteva sposare a qualsiasi età, lei no, perché quell’ingiustizia? E senza lasciar spazio di replica ad una sconvolta madona Morexina, sua figlia chiuse forzatamente la questione in un acuto pianto isterico, allontanandosi poi via di corsa dal giardino e rispondendo uno sgarbatissimo “Indove ghe vojo!” alla domanda del padre: “Indove corestu?” mentre saliva le scale a due a due.

Hironimo non aveva resistito a ricorrere la cugina, raccogliendo lungo la via la scuffia di seta e lo zendale dei quali Querina, nella sua frustrazione, s’era spogliata.

“Suvvia, Rina, non piangere: mica sei una vecchia carampana, non hai ancora diciott’anni, non dirmi che adesso smani di legarti a qualche scalzacane qualsiasi e soprattutto di sorbirti una suocera rompiscatole?”

“Oh, Momolo! Non capisci? Hanno già un’altra figlia cui pensare! Maria da Molin di qua, Maria da Molin di là, Maria, Maria, Maria! Quella schifosa racchia ormai mi ha sostituita, non pensano che a portarla in questa casa e che importa se nel frattempo io vi marcisco, murata viva senza veder un sol cristiano?”

“Ed io chi sono? Un turco?”

“Sei mio cugino!”

“Dunque peggio?”

Querina, sollevandosi sui gomiti, gli sorrise debolmente, stropicciandosi gli occhi arrossati. Hironimo ne approfittò per sedersi accanto a lei sul letto. “Il tuo sior Pare mio barba è ricco, ha una carriera tutta in salita a Palazzo, è imparentato bene qui a Veniexia. Certamente qualcuno d’interessato ci sarà.”

“E allora perché il mio sior Pare non fa niente per cercarmi questo qualcuno? La verità è che si sono rassegnati tutti, qui. Sono una causa persa per loro! Non fanno che parlare del fidanzamento di Carlo, io non esisto più per loro! Sono divenuta un’ombra in questa casa! Ho deciso: prendo il velo e morta là!”

“Oh, bella, in convento sì ch’avresti uomini a palate con cui consolarti”, commentò Maria, giunta in un secondo momento, rallentata infatti dal ventre rigonfio. “Magari madona Franceschina nostra parente avrà ancora qualche nome da suggerirti!”

“Mariuccia!”, la rimproverò Hironimo, per niente divertito dal sarcasmo della cugina, la quale, imperturbabile, prese posto al fianco di Querina e l’apostrofò perentoria:

“Innanzitutto, smettila di piangere: ti fa brutta. E finiscila anche con queste tue scenate da tragedie senechiane, ne ho già abbastanza di quelle di nostro fratello Carlo. Non sono degne di te e ti creano fama di femmina instabile, chi poi se la prende in casa una così?”

“Il tuo sior Pare mio barba ti vuole molto bene: se ancora non ti ha presentato un nome, sarà perché vuole sceglierti bene il tuo futuro marito!”

“Esatto. Mio marito Zuanne già gli sta proponendo dei suoi conoscenti, sebbene, lo confesso, a me nessuno di loro piaccia …”

“Sul serio, Mariuccia?”

“Non ti mentirei mai!”

E con l’immagine della cugina Querina piangente marchiata a fuoco nella memoria, che Hironimo s’era presentato alla porta di casa di Luzia Trivixan, spiegandole il tutto e domandandole aiuto.

“Tesoro, sono una cantante, una maestra di canto e musica e una cortigiana honorata, mica una sensale di matrimoni!”

“Voi però possedete una fitta rette di amicizie e conoscenze: di sicuro avrete sentito, tra una chiacchierata e l’altra, o tra i vostri allievi, di un qualche scapolo desideroso di sposarsi!”

“Sistemarsi, casomai. Non tutti sono mossi dall’affetto, lo sai.”

“Sono sicuro che voi saprete ben discernere le pecore dalle capre. Vi prego! Vi pagherò per il disturbo, farò tutto quel …”, ma un dito sulle labbra lo zittì.

Accetto perché mi piacciono le sfide: parola d’onore, presto a Ca’ Morexini si mangeranno confetti!”

D’impeto, senza pensarci, Hironimo le baciò la bocca, in un rumoroso schiocco, e poi la sollevò di peso in aria, tra i risolini e le deboli proteste della cortigiana, ringraziandola di cuore.

Appunto perché Luzia Trivixan gli aveva promesso di trovargli un partito decente e non un gretto cacciatore di dote, che la sua ricerca si rivelò lunga ed ardua.

Nel frattanto, una nuova diatriba rinfocolava la silente ed infinita faida tra madona Ysabeta e madona Morexina, stavolta però non per loro figlie, bensì per la propria sorella Marina ed era stata quest’ultima discussione la proverbiale goccia, ch’aveva fatto traboccare il vaso, portando madona Morexina a chiamare finalmente il diavolo per il suo nome e a rimproverare la sorella maggiore, accusandola di superficialità: certo che sistemare la prole rimaneva la loro priorità di mogli e madri; tuttavia si poteva anche dimostrare empatia e solidarietà al di fuori dell’immediata famiglia. 

Anche perché la povera madona Marina Morexini sul serio si meritava ogni augurio di felicità: il 29 marzo del 1508, la patrizia era rimasta vedova di sier Piero Vituri, senza figli e senza alcun sostentamento economico ad eccezione della sua dote. Il defunto marito aveva infatti escluso dal testamento sia lei sia i suoi nipoti, figli della sorella madona Ysabeta Vituri Griti, donando ogni suo bene ai frati Certosini e alla Scuola di San Marco. [3] Sicché, disperata dalla magra prospettiva di rientrare nella casa paterna e di vivere della carità dei suoi fratelli sier Thadio ed sier Anzolo Morexini, madona Marina aveva coraggiosamente deciso di scoprire alcuni riccioli di capelli da sotto la scuffia nera, mentre si recava a Messa o attraversava campi, campielli e calli, supplicando un miracolo dal Cielo che qualcuno, notando la sua disponibilità a seconde nozze, l’avvicinasse. [4]

Per fortuna della vedova Vituri, suo cognato sier Batista sguazzava in uno stato di grazia: tramite il solido supporto (consiglio fraudolento) di suo nipote Marco Miani e di madona Maria Baxadona da Molin era riuscito (con le cattive) a far firmare (a forza) il contratto nuziale al suo (recalcitrante) figlio Carlo, nel quale s’impegnava ufficialmente d’impalmare la giovane, morigerata e benestante Maria da Molin del fu sier Amadio, sicché poteva ben dirsi soddisfatto e disposto ad aiutare il prossimo, anche per tranquillizzare madona Morexina, in pena per la sorte amara della sorella.

Il caso aveva voluto, che un amico del “da Lisbona”, sier Alvixe Malipiero, stesse anch’egli cercando una compagna, soffrendo particolarmente la solitudine dopo la morte della prima moglie e soprattutto dopo le nozze dell’unica sua figliola, Malipiera, in sier Piero Marzello, celebrate sette anni addietro. “La dote è conforme al rango di madona e la sua famiglia – già lo sapete - ben imparentata.” Tranne per quella seguace d’asmodeo dell’ex-monaca madona Franceschina Boldù Morexini, ma stando a sier Anzolo Morexini, il matrimonio l’aveva ben esorcizzata dal mal del puttanesimo. “Certo, però, che se cercate una discendenza, temo che la siora mia cugnada non sia un’agnellina di primo pelo.” Sier Alvixe aveva subito chiarito, che, alla sua età, ormai gli unici pargoli da tenere in braccio erano i suoi nipotini e comunque non voleva compromettere il patrimonio con altri eredi. Sier Batista e sier Alvixe s’erano allora stretti la mano e il Malipiero aveva poco dopo iniziato le brevissime trattative di matrimonio, dove nessuno aveva osato obiettare alcunché contro quell’unione. Galeotto fu il matrimonio tra Carlo Morexini e Maria da Molin, che permise alla loro zia Marina d'incontrare e conversare industurbata con sier Alvixe Malipiero, quest'ultimo sornionamente aggiunto alla lista degli invitati. I due si piacquero al primo sguardo sicché, infischiandosene di ogni rispetto verso il defunto marito, la vedova Vituri manco aveva atteso la fine dell’anno di lutto per risposarsi, a sua detta lei per prima ingiuriata da sier Piero, che nella sua infinita crudeltà l’aveva defraudata persino di un tetto sotto cui stare. Non gli doveva né lutto né lacrime.

Le nozze, quindi, si celebrarono nella casa paterna di madona Marina e si trattò di una cerimonia molto semplice e tranquilla, non suscitando l’età dei due sposi molto interesse tranne negli abitanti di Santa Maria Formosa, dove abitava sier Alvixe. Si volle concludere lo sponsalicio in un giorno, iniziato alla mattina con l’inanellare della sposa, seguito da una gustosa colazione mattutina, per poi trasferirsi in gondola a Ca’ Malipiero; si partecipò ad una commuovente orazione nella chiesa parrocchiale ed infine si concluse la giornata in un sostanzioso banchetto e balli a volontà.

E  lo sfogo di madona Morexina era avvenuto appunto durante il tragitto in gondola, poiché figurarsi se madona Ysabeta non aveva trovato qualcosa su cui criticare, vuoi che fossero le ghirlande a sua detta striminzite e mezze secche, o la qualità mediocre del cibo, o le calze rosse dei gondolieri, o l’abito di raso verde di madona Malipiera Malipiero Marzello, o l’acconciatura di madona Helena Mozenigo Malipiero, cognata di sier Alvixe, o i gioielli, ventalini, calcagneti e cagnetti delle sorelle dello sposo -  videlicet le madone Biancha Malipiero Zorzi,  Cecilia Malipiero Pasqualigo, Helena Malipiero Venier e Paula Malipiero Bondumier –  ma mai quando aveva commentato all’orecchio di sua cognata madona Contarina Contarini Morexini: “Sono sicura di averglielo già visto indosso, magari alla Sensa? O all’ultima cena dogale, quando il fu sier Piero era ancora vivo?” riferendosi all’abito di seta rosso della sposa.

“Perché non riesce mai ad essere contenta per gli altri?”, borbottò madona Morexina a sua cognata madona Leonora durante la cena, tra un boccone e l’altro d’oca allo spiedo. “Mia sorea ha ottenuto tutto ciò che desiderava dalla vita: un matrimonio illustre, numerosa prole ben piazzata in società, danaro, terre, palazzi … Ha conosciuto il bel mondo d’Italia sia prima che dopo la calata del Roy di Franza … Cos’ha insomma da sminuire e criticare costantemente il suo prossimo, quando già lei si trova in cima alla gerarchia?”

La vedova Miani sorseggiò placida il suo vino, tacendo e lasciando parlare a ruota libera la cognata, la quale più di una risposta necessitava di una spalla su cui piangere e sfogarsi.

“Tutta colpa del mio sior Pare, che l’ha viziata: Betia di qua, Betia di là, a lei i migliori vestiti e gioielli, i migliori precettori e maestri di danza e di musica, mentre a noialtre gli avanzi!”, proseguì infatti madona Morexina, impironando feroce un pezzo di carne. In effetti, nascere ultima femmina aveva relegato la donna in fondo alla lista delle priorità paterne, dovendo lei accontentarsi spesso e volentieri delle briciole delle sorelle, costantemente sminuita e pertanto aveva sviluppato fortissimi complessi d’inferiorità, nonché un carattere sostanzialmente debole e accondiscendente. Eppure, col suo visetto da eterna adolescente, piccolina e minuta, avrebbe potuto far girare tutte le teste maschili di Venezia, se soltanto fosse stata un pelino più sicura di sé e meno brontolona. “Le risate che si fece Ysabeta, gli sbeffeggianti strali, poiché fui l’ultima a sposarmi!”

Al che Madre aggrottò la fronte, non ritornandole i conti: “Non fu vostra sorella Marina?”, ma non volendo rigirare il coltello nella piaga, colse piuttosto l’occasione per perorare la causa della nipote: “Appunto per questo, perché conoscete l’amarezza dell’indifferenza sia materna che paterna dovreste aiutare la povera Querina. Capisco che dovevate pensare a sistemare prima Mariuccia e Carletto, tuttavia l’impressione che le date è di trascurarla.” Ne aveva discusso ovviamente col suo fratellastro sier Batista, il quale aveva accettato le critiche ma al contempo le aveva spiegato come la faccenda non fosse di facile soluzione, temendo il “da Lisbona” in un cattivo affare per la figlia.

“Mi chiamava la vecchierella, anche s’ero la minore!, continuava imperterrita e petulante madona Morexina, sorda ai suggerimenti della cognata e dimentica del fatto d’aver scalzato sua sorella Marina in tempistica matrimoniale, sposandosi prima di lei e neanche un cattivo partito, anzi. Ma se quando per tutta la vita s’era abituati a guardare il bicchiere mezzo vuoto …

“Ih, basta rivangare il passato e focalizzatevi sul presente”, la interruppe madona Leonora, dandole la giusta (simbolica) tirata d’orecchie. “Avete donato a mio fradelo vostro marido sette figlioli ma-sci e quattro belle pute; avete allevato amorevolmente un figliastro ch’è adesso amico del Sofì e già siete una nonna felice! Vostra sorea mia cugnada è soltanto una grande materialista, che non riesce a trovare altra soddisfazione se non in ciò che può toccare e comperare. Vi siete costruita una vita serena e piena di soddisfazioni, in nulla dovete sentirvi inferiore ad Ysabeta!”

Sua cognata appoggiò le posate, afferrando emozionata le mani della cognata. “Siete davvero così buona e così saggia! Vorrei possedere un’ombra del vostro stoicismo!”

La vedova Miani le rifilò un sorriso tirato, di circostanza: la sua fermezza d’animo l’aveva acquisita a prezzo altissimo, la morte del suo amato Anzolo, e dubitava che madona Morexina avrebbe desiderato ottenerla attraverso uguale percorso.

“Ancora congratulazioni, siora Amia”, baciò Hironimo sua zia Marina su ambedue le guance, la quale gli elargì un sorrisone a trentadue denti.

“Grassie, tesoro! Sei molto caro!”, gli accarezzò lei la guancia. Poi, però, il suo volto si rattristò un poco: “Mi dispiace davvero che i tuoi fratelli non siano potuti venire, mi avrebbe fatto davvero piacere vederli! Siete cresciuti troppo in fretta, mi par ieri d’aver partecipato ai vostri battesimi!”

“Lucha e Carlo li hanno trattenuti degli affari a Fanzolo, si scusano moltissimo, quanto a Marco …”, tentennò Hironimo, cercando in fretta un modo per glissare sullo spinoso argomento familiare, “mia cugnada sua mojer Helena ultimamente non si sentiva bene, un raffreddamento di stomaco, e così lui ha deciso di restarle accanto. Tuttavia”, cambiò tono in uno più allegro, “vi porgono tutti le loro congratulazioni ed Helena vi relega un rotolo di merletto fatto da lei, da applicare al collo e alle maniche della camicia.”

Madona Marina lanciò un deliziato gridolino. “Che puta pretiosa! Lo stesso disegno che piaceva a me?” e dinanzi all’energico cenno affermativo del nipote acquisito, la nobildonna spiegò entusiasta alla figliastra Malipiera, con la quale oramai erano divenute tutte un ciccì-coccò: “La siora cugnada di Momolo è una greca di Costantinopoli, abilissima nel ricamo, delle vere mani d’oro! An, non vedo l’ora d’aprire i doni nuziali, così da mostrarlo per mano!”

La giovane donna si ritrovò d’accordo, incuriosita da tanta bravura. “Sier Hironimo”, si rivolse poi al nipote della matrigna, “temete sia troppo sfacciato da parte mia, invitare la siora vostra cugnada a casa mia per ricamare un poco assieme? Ovviamente, quando si sarà rimessa.”

“Sono sicuro che apprezzerà moltissimo la vostra compagnia”, la rassicurò Hironimo, contento di poter offrire ad Helena un’occasione per svagarsi e conoscere altre nobildonne, al di là della solita cerchia famigliare, invece di trascorrere ore in ginocchio davanti agli altari, pregando per improbabili miracoli. Quand’ecco che il giovane impallidì, rendendosi soltanto ora conto del timido rigonfiamento del ventre di madona Malipiera, ben camuffato dai morbidi panneggi della gonna di raso verde. “An … non … non avevo … le mie felicitazioni, patrona”, farfugliò a disagio da quella scoperta e alle potenziali reazioni ch’avrebbe potuto scatenare in Helena.

“Vi ringrazio, mio marito ed io siamo molto contenti di questo nuovo puttino”, reclinò graziosamente il capo la futura madre, allungando la mano al consorte sier Piero Marzello, il quale aveva raggiunto la moglie dopo un giro di chiacchierate cogli altri invitati. “Nevvero, carissimo?”

“Assolutamente”, confermò il ventisettenne patrizio, appoggiando ambedue le mani sulle spalle di madona Malipiera. “E stavolta spero sia una femminuccia, della vostra stessa bellezza!”

Sua moglie schioccò divertita la lingua, scuotendo ilare il capo. “An, io invece spero in un altro maschietto, però non col vostro caratteraccio, o mi farà impazzire!”

“Ma …!”, protestò l’uomo e madona Malipiera, madona Marina ed Hironimo risero di cuore alla battuta. Dopodiché, adducendo un’abile scusa, il ragazzo si congedò dalla famigliola e si diresse verso il gruppetto di ospiti nella sala accanto: le sue orecchie avevano captato della musica e gli era venuta una gran voglia di ballare.

Inoltre aveva una missione da portare a termine. “Su, Querina, suonano una piva!”, esclamò, pigliando il polso della cugina e trascinandola nella stanza attigua, cercando con lo sguardo l’amico di sier Piero Marzello.

“Momolo, non credo …! Aspetta, ciò!”

“Carissimo”, abbracciava sier Alvixe Malipiero l’amico e neocognato sier Batista, “vi ringrazio ancora per avermi consigliato Mari-ehm, vuostra cugnada: è di buon cuore, savia e d’ottima compagnia. Va d’accordissimo con la mia Melina e adora i miei due nipotini, meglio di così? Sier Piero Vituri – a chi Dio perdoni – non se la meritava proprio questo gran bel pezzo di donna!”

“Amen, amico mio, amen!”, gli batté sulla spalla il Morexini, riempiendo allo sposo di nuovo il bicchiere di garba, un malvasia amara dall’Epiro. “Lasciare l’intero patrimonio ad estranei? E quando mai s’è sentita una pazzia del genere? Credetemi, a sier Piero hanno fatto il lavaggio del cervello: ecco perché io, in casa mia, non voglio né preti né suore né monaci, né tantomeno permetterò a nessuno dei miei figli, finché vivrò, di prendere i voti! [5] Già in famiglia ci è toccata un'ex-suora per colpa di quello screanzato di Vicenzo ... Ma adesso ditemi: sul serio non vi dispiace, che la vostra nuova mojer possa avere delle difficoltà a darvi dei figli?”

“Batista, onestamente, a cinquantotto anni mi metto a fare il padre?”, arcuò scettico il sopracciglio il Malipiero, bevendo una grossa sorsata di vino. “Lasciamo ai giovani tal privilegio”, disse, guardando amorevolmente la figlia e il genero, intenti a scherzare assieme a sier Zuanne Querini e a madona Maria sua moglie, confrontandosi le due matrone la curva dei rispettivi pancioni.

Il “da Lisbona” soppesò a fondo le parole dell’amico: contrariamente a lui, il suo ultimogenito Francesco l’aveva inaspettatamente avuto a sessantatre anni e l’esperienza gli era bastata, al punto ch’aveva detto chiaro e tondo a sua moglie che soltanto legandolo al letto l’avrebbe costretto a concepire un altro figlio, infierendo poi dandole della vecchia. A onor del vero, lui si sarebbe fermato anche a Lorenzo, non volendo infatti rischiare stupidamente la vita di Morexina, privando prematuramente i suoi pargoli della madre. Peccato che la scoperta della sua tresca con Luzia Trivixan avesse risvegliato nella moglie una strana ed inquietante libidine, sicché Ferigo, Marinella, Donatella e Francesco erano nati, quest’ultimo appena tre anni addietro.

“Se vengono, vengono. Altrimenti … ci si accontenta, perché farne una malattia? Guardate il caro sier Marco Antonio Morexini: ben due matrimoni sterili alle spalle e s’è lasciato scoraggiare? No, ha adottato una neonata abbandonata alla Pietà, che lui e sua moglie madona Donata adorano come se fosse sangue loro. Non tutti vengono benedetti da figli e a coloro che ne hanno, non sempre viene concesso di vederli crescere …”, sospirò sier Alvixe, ripensando alla sua nidiata di pulcini, della quale rimaneva soltanto Malipiera. “Ma via con la malinconia! Stasera si festeggia incipit vita nova!”

Sier Batista levò in alto il bicchiere. “E il vostro è il matrimonio più facile in assoluto, neanche vi dovete preoccupare di rassicurare la sposina!”, sghignazzò complice. “Attacco diretto e frontale, si suol dire, senza pietà!”

“La mia mojer avrà pur la sua età, ma tutta in esperienza! Peggio per il fu sier Piero, meglio per me!”, se la rise sier Alvixe, suggendo malizioso un sorso di garba, mentre il cognato si strozzò per poco col suo.

“E come …?”, sbiascicò, nettandosi gli angoli della bocca. E dinanzi alla lunga e significativa occhiata da parte del Malipiero … “No!”, esclamò stupefatto. “Davvero?!”

“Ciò!”, confermò quell’altro e il Morexini si portò le nocche alla bocca, guardandosi a destra e a manca, incredulo e divertito oltre ogni limite. “Vi giuro che non l’avevo minimamente pianificato. Madona Marina ed io stavano discutendo sul trasporto dei suoi cassoni col corredo, quando, prima di rendermene conto, m’ha calato giù le braghe, m’ha spinto sul letto e m’è saltata addosso!” Tanto ormai non c’era più alcuna verginità da provare, sulla carta praticamente figuravano già coniugi e la futura moglie s’era rivelata infine un’eccellente amazzone, quindi i formalismi potevano anche risparmiarseli. Da quella posizione l’uomo aveva ben potuto constatare quando la Morexini si mantenesse ancora soda, col suo bendiddio di senato lì a portata di mano, che lo supplicava d’impastarlo e baciarlo.

“E nessuno in casa ha detto niente?”

“An … credo fossero tutti usciti per la Messa … an, no! C’era madona Franceschina, però dalla sua espressione non mi sembrava essersi accorta d’alcunché.”

Il “da Lisbona”, dubitando assai della cosa vista la fama della donna, preferì servirsi d’altro malvasia e non commentare.

“Beh, che dire? A notti felici, amico mio!”

“A notti felici!”, rispose al brindisi sier Alvixe, bloccandosi però all’improvviso. “Dite, Batista”, e indicò malizioso il gruppo di giovani intenti a danzare una pavana, “non m’inganno o vostra figlia Querina è già alla quinta danza con sier Daniel?”

“Con sier … chi?!”, si girò di scatto il Morexini, fallendo di spaccare il bicchiere a furia di stringerlo, alla ricerca del fellone seduttore per tirargli il collo.

Dal canto suo Hironimo, con la scusa di volteggiare accompagnando l’avvenente madona Fontana Malipiero Barozzi nipote di sier Alvixe, [6] gongolava soddisfatto del buon esito di quel suo intrigo: Luzia Trivixan, tra una ciacola e l’altra col cavalier sier Domenego Trivixan, aveva appreso come sier Francesco Zustignan “dalle Canove” stesse cercando moglie per uno dei suoi cinque figli. Fatalità, dei potenziali candidati, Daniel Zustignan era amico del nipote del cavaliere, sier Piero Marzello, che guarda caso era il genero di sier Alvixe Malipiero e con po’ di moine da parte di madona Malipiera, messa al corrente della congiura, il giovane Zustignan era stato invitato alle nozze. Cura di Hironimo era stata di spingere la sua germana Querina a ballare e conversare quanto più possibile con Daniel, alternandosi con i suoi complici sicché, a neanche metà festa nuziale, la Morexini già era cotta per il patrizio e quest’ultimo la tallonava neanche si fosse trasformato nella sua ombra. E il Miani vibrava di perverso gusto nel contemplare la faccia perplessa e bellicosa di suo zio Batista, il quale, a giudicare dal fitto gesticolare di sier Alvixe, già si stata informando sulla vita, morte  e miracoli di Daniel Zustignan, sui suoi genitori e le famiglie dei rispettivi genitori; sui beni immobiliari ch’avrebbe potenzialmente ereditato; sulla sua posizione a Palazzo Ducale e sulla sua disponibilità di denaro liquido. Il “da Lisbona” si sarebbe trasformato nella più spietata copia del Missier Grando – poco ma sicuro – e ciononostante tenne per sé la sua nascente, ostile diffidenza verso il giovane patrizio, lasciandolo tranquillo a godersi la festa: c’era tempo e modo per interrogarlo e sbatterlo, strizzandolo, peggio d’una camicia stesa al sole.

Quando Hironimo si recò al tavolo per servirsi da bere, s’era appena terminato di ballare la pavana e sua zia Marina stava chiedendo ai suonatori un brano più allegro, forse una gagliarda. Il ragazzo sbuffò, dilaniato dalla voglia di ricongiungersi al resto dei ballerini e di rinfrescarsi il gargarozzo. Hé, forse un turno poteva anche saltarlo, aveva danzato almeno una volta con tutte le nobildonne lì presenti, due s’erano sue parenti e tre di fila con madona Fontana, tanto bella quanto spiritosa, gli raccontava certi pettegolezzi da sbellicarsi, in primis sugli infiniti amori di sier Piero Bembo, l’eterno innamorato.

Il patrizio fece quindi per afferrare la pasciuta ampolla di vetro, quando una mano più lesta della sua gliela sottrasse da sotto il naso e i due giovani sussultarono nel ritrovarsi inaspettatamente gomito a gomito.

“Ne vuoi?”, gli offrì Jacomo Corner, interdetto quanto l’altro.

“Non mi piace il vino bianco”, mentì rapido Hironimo, afferrando alla cieca l’ampolla di rosso e servendosi sempre mantenendo un guardingo contatto di visivo col cugino alla lontana.

Il giovane Corner fece spallucce, riempiendosi il bicchiere. “Che ne pensi di questo matrimonio?”

“Molto domestico”, rispose vago il Miani, riempiendosi la bocca di vino, onde parlare il meno possibile. Due volte su tre, quando Jacomo intavolava un discorso, i due finivano per discutere e una su tre degenerava in un vero e proprio accapigliarsi.

“No, no, io intendevo del matrimonio di per sé”, lo corresse il Corner, insistente. “Per me la  siora Amia non avrebbe dovuto risposarsi, troppo vecchia. E sier Alvixe Malipiero? A che pro risposarsi, se la moglie non può generare alcuna prole? La tiene per lussuria? S’è così poteva prendersi una concubina, una moglie sterile non serve a nulla.”

Jacomo non l’aveva fatto apposta, non poteva sapere ciò che stava accadendo tra le mura di Ca’ Miani, nondimeno le orecchie d’Hironimo presero a fischiargli ugualmente e il sangue a risalirgli bollente al cervello: era esattamente per colpa di gente come il Corner, che Helena si stava in quel momento dannando l’anima, nel disperato tentativo di partorire un terzogenito.

“Beh, il nostro lontano parente sier Marco Antonio, uomo stimatissimo a Veniexia, non è riuscito ad avere figli da ben due mogli. Al che vien da pensare che o sia stato davvero sfortunato o che il problema fosse lui. Eppure, mi pare che nessuno l’abbia mai chiamato “impotente”, “inutile” o che sua moglie madona Donada abbia mai espresso il desiderio di divorziare da lui”, sibilò Hironimo, ingollando altro vino. Il mondo invero ruotava storto: brave persone desiderose di figli più di qualsiasi altra cosa, ne rimanevano invece privati, mentre gente che manco si meritava l’appellativo di genitori, figliava al contrario peggio dei conigli.

“Ha adottato una bambina”, fu la secca risposta di Jacomo.

“Sier Alvixe già possiede una figlia legittima e gli basta”, ribatté il Miani. “E noi dobbiamo farci un bel tegamino d’affaracci nostri, tu per primo. Non sei ancora sposato e già pontifichi sugli altrui matrimoni? Aspetta almanco un lustro e dopo condividerai opinione ed esperienza!”

“Invero”, sogghignò l’altro patrizio, bevendo a sua volta. “Come mai non vedo qui tuo fratello Marco? Dov’è?”, si guardò teatralmente attorno, già notagli l’assenza del cugino acquisito.

La dita d’Hironimo presero a tamburellare nervosamente sul vetro, annusando puzza di bruciato in quell’apparentemente innocua domanda. “A casa con la sua mojer.”

“Sicuro?”, alluse malizioso l’altro. “E’ questa la scusa oggidì? A casa con la mojer?

“Quale scusa?”, ripeté bellicoso il Miani, digrignando i denti. “Quando siamo usciti, si trovava nei suoi appartamenti. Mia cugnada non godeva oggi di buona salute e Marco, quale marito degno di tal titolo, ha preferito rinunciare alla festa per prendersi cura della consorte.”

Il giovane Corner scosse il capo, ridacchiando dinanzi alla palese ingenuità (secondo lui) del cugino alla lontana. “S’è già stufato della greca, vero? Oppure è la greca, che s’è stufata di lui? Dicono essere le orientali molto focose, per via della penuria di uomini … Lo puoi confermare?”

Hironimo appoggiò con eccessiva veemenza il bicchiere sul tavolo, macchiando di qualche gocciolina rossa la tovaglia sottostante. Come si permetteva quel disgraziato di speculare sul matrimonio di suo fratello, insinuando poi infedeltà da parte di ambedue i coniugi? Non sapeva niente dei problemi che stavano attraversando, della disgrazia abbattutasi sulla cognata e sull’ignaro suo marito! Non aveva asciugato le lacrime d’Helena, né dovuto sopportare i malumori di Marco, né tantomeno mediare di continuo tra loro due! E cos’era infine quel dare, tra le righe, della poco di buono alla greca, povera infelice che per amor di Marco si sarebbe squarciata il petto? Come osava? Come …?

L’annuncio, più goliardico che solenne, dell’ora di metter a letto gli sposi zittì Hironimo, impedendogli una pronta replica e male gliene incorse, ché forse quella sarebbe stata meno velenosa della seconda da lui proferita.

“Che buffonata!”, commentò tra sé e sé Jacomo, ma abbastanza per l’altro giovane da udire perfettamente ogni sua parola. “Come se dopo ci fosse poi qualcosa da mostrare sulle lenzuola”, disse e s’avviò a raggiungere i suoi fratelli.

Sennonché Hironimo lo tallonò speditamente e gli si piazzò davanti, un’espressione assassina sul volto. “Chissà se ci sarà qualcosa da vedere anche sulle lenzuola di tua moglie …”, e gli sorrise obliquamente, il fuoco di una crudele rivalsa bruciante nelle viscere, come se tutti gli sgarbi ed umiliazioni ingeriti vi si fossero concentrati, alimentando questo bolo per poi scagliarlo contro il rivale a guisa di drago.

Le mani del Corner si mossero convulsamente e questi avanzò irritato verso Hironimo, costringendolo petto contro petto. “Tu non vedrai un bel niente, perché neanche sei invitato … Non sei famiglia, grazie a Dio …”, gli sputò il suo veleno. “Non sareste null’altro se non un imbarazzo, voialtri Miani di San Vidal, discendenti di pescatori istriani che manco avrebbero dovuto sedere in Maggior Consiglio! Figli di un vigliacco suicida, nipoti di un cospiratore esiliato e pronipoti di un delinquente truffatore! Poveracci senza né arte né parte costretti a sposarsi le straniere per riprodursi, poiché nessun patrizio veneziano sano di mente concederebbe a tal pezzenti la mano della propria figlia, a gente che deve accontentarsi di piccoli incarichi per sopravvivere o confidare nella generosità degli zii”, elencò inclemente Jacomo ad Hironimo, distorcendole, tutte le pecche della sua famiglia, sottolineando accortamente il ramo, onde non infamare gli estinti Miani di San Cassian e i Miani di San Giacomo dell’Orio. “Si racconta che tu trascorra molto tempo con la Luzia Trivixan: come puoi permetterti le sue tariffe? È sempre lo zietto che paga? A meno che tu non gli scuota, di nascosto, la coda di volpe della Trivixan, alle sue spalle, il che non mi sorprenderebbe. A meno che … ” e qui gli occhi del Corner assunsero un luccichio maligno, “lei non ti stia impartendo qualche trucco del mestiere, cosicché tu possa divertire meglio i tuoi … benefattori?”

A tali parole Hironimo tremava da capo a piedi, ogni nervo pizzicato e rivoltato dai risolini crudeli di Jacomo. Il giovane si continuava a ripetere di non badarci, di dominare l’ira bestiale che gli graffiava dentro il petto e di zittire la seducente vocina alle orecchie, la quale gli suggeriva d’afferrare il Corner per la gola e di cavargli gli occhi. Avrebbe potuto intimargli di andare al diavolo; avrebbe potuto rinfacciargli che la sua famiglia era tanto onorata quanto la sua, sempre in prima fila ad obbedire alla Signoria; avrebbe potuto vantarsi che almeno lui la Trivixan l’aveva baciata – anche se in circostanze torbide – mentre Jacomo di lei non n’avrebbe manco annusato da lontano il profumo dei capelli.

Invece, la parte d’anima nera d’Hironimo puntò subito là dove sapeva far male, là dove un uomo più facilmente risultava vulnerabile e prono ad incassare senza possibilità di difesa, non immediata almeno. E quell’antico ricordo, quella bagatella adolescenziale relegata nel dimenticatoio, d’un tratto riaffiorò provvidenziale dalla sua mente e si trasformò in un’arma micidiale.

“Mi dispiace per te -  caro ti -  però mi trovo su quella lista degli invitati, che ti piaccia o meno. E’ stata proprio la tua novizza ad insistere e non perché siamo quasi vicini di casa, no, l’ha fatto per ringraziarmi in memoria dei bei tempi del convento!” ed Hironimo indietreggiò enfaticamente, ammirando pieno di crudele gusto il lento lavoro del dubbio corrodere dall’interno Jacomo, i cui lineamenti si deformavano in un’interessante gamma d’espressioni, dal rabbioso all’umiliato; dallo scettico all’incredulo. “Come? Marina non te l’ha mai raccontato?”, simulò ignoranza Hironimo, non concedendo un attimo di respiro all’avversario. “Mi recavo ogni giorno al convento e ti assicuro che lei traeva un enorme piacere dalla mia compagnia …”

“Menti …”, ringhiò sottovoce il Corner, la cui mano vagava meccanicamente ora alla cintura, in cerca forse del mancante stiletto, ora a qualche spanna dallo zipone del Miani, incerto dove e come afferrarlo e quanto fargli male. “Sei un bugiardo e uno sciocco, se pensi ch’io creda ai tuoi puerili tentativi d’ingelosirmi! O d’infangare l’onore della mia sposa!”

Hironimo aprì la bocca in finta sorpresa, reclinò vezzoso il capo e, congiungendo le mani dietro la schiena, dondolò di qualche passo indietro. “Querina”, chiamò la sua zermana, intenta a parlottare assieme ad alcune nobildonne. “Vien qua!”, le intimò.

Accortasi del richiamo, la ragazza si congedò dalle sue compagne e trotterellò allegra accanto al cugino, il quale la cinse per la vita, schioccandole un tenero bacio sulla fronte. “Querina, colombella mia, il tuo zerman Jacomo qua mi sta accusando di mentire: è vero o no, che venivo sempre a visitare Marina al convento?”, le chiese gravemente Hironimo, al che Querina, dopo essersi posta meditabonda due dita sotto il mento, esclamò affermativamente, sovvenendosi all’improvviso:

“Ma certo che sì! Era il mio ultimo anno di convento, però mi ricordo benissimo delle tue visite! Momolo”, spiegò ingenuamente la Morexini all’impietrito cugino, “ci teneva molta compagnia, anche perché al convento studiava pure sua nipote Leonora. Le sue visite erano il momento più bello di tutta la giornata e sempre la Marina mi confidava: non vedo l’ora che sia già domani, così da rivederlo!” e, prendendo la mano del promesso sposo, tramite la sua innocenza gli inferse il colpo di grazia: “Jacomo caro, spero che tu possa divertire Marina, tanto quanto la divertiva nostro cugino Momolo!”

Gli occhi iniettati di sangue, la bile risalitagli alla gola e incurante del luogo e di ogni conseguenza, il Corner allungò di scatto l’altra mano in avanti per afferrare il collo d’Hironimo, il quale reagì bloccandogli il polso e al contempo spingendo via Querina, che l’altro non la coinvolgesse nella lotta. L’urletto sorpreso e dolorante della fanciulla attirò l’attenzione di Carlo e Nicolò Morexini, Daniel Zustignan, Andrea Corner e di Thomà Malipiero fratello di madona Fontana, i quali circondarono rapidissimi e compatti i due contendenti e li separarono senza dare troppo nell’occhio, intanto che con una scusa li allontanavano dalla stanza, lontano da occhi indiscreti.

“Cosa v’è saltato in testa?”, li apostrofarono a momenti in coro. “Volete dare spettacolo?”

“Ha incominciato lui, non ho fatto altro che difendermi!”, si giustificò prontamente Jacomo Corner, le nari dilatate e il viso ancora paonazzo. “Una tal feccia dovrebbero gettarla nelle Orbe a vita natural durante!”

“Bugiardo vigliacco!”, berciò Hironimo, trattenuto a malapena per le braccia dagli sbuffanti Nicolò Morexini e Daniel Zustignan. “Mi hai provocato tu per primo!”, gli sputò sullo zipone e Andrea Corner dovettero tuffarsi per riacciuffare il fratello, impedendogli in tempo di mordere il naso dell’insolente suo sbeffeggiatore, adesso sollevato di peso da Nicolò Morexini, per spingerlo via lontano da Jacomo.

“Tu, lurido cane impestato, hai vituperato la mia fidanzata!”

“Tu, marcia otre di sterco, la mia famiglia!”

E i due rivali si gettarono in avanti, mirando ai rispettivi pomi d’Adamo e trascinando seco i giovani uomini che, puntando i piedi, opponevano resistenza in direzione opposta, grugnendo nell’arduo compito di tenerli distanti l’uno dall’altro. Hironimo, mulinando il braccio a guisa di gatto, riuscì a ghermire una pingue ciocca di capelli di Jacomo, strattonandola feroce nel tentativo di strappagliela, mentre il Corner gli piantava le unghie nella carne onde costringerlo a mollare la dolorosissima presa. Scalciava mirando agli stinchi del Miani, colpendo all’occasione anche Nicolò Morexini e Daniel Zustignan. Iniziarono a volar a caso pugni e sberle, le quali, oltre ai due avversari, inclusero anche il malcapitato finito nella loro traiettoria, tra guaiti di protesta e imprecazioni. Sfidando codesti strali, Carlo Morexini si pose imperioso in mezzo ai litiganti, spintonandoli di malagrazia e puntando perentorio i palmi delle mani contro il petto d’Hironimo e di Jacomo, in modo da impedire ogni probabile riavvicinamento.

“Possibile che voi due non possiate rimanere da soli in una stanza, senza finire a parole o alle mani peggio d’un branco di bifolchi gallinari?”, sbuffò il Morexini, fulminando con lo sguardo i suoi cugini germani. “Siete imbarazzanti! E tu ancora di più, Jacomo! Hironimo t’è minore di tre anni e inoltre tu fra poco ti sposi, ergo dovresti dare il buon esempio e dimostrarti abbastanza maturo, da non pigliare sempre e troppo sul serio le sue monade!”, berciò spazientito e senza degnarsi d’ascoltare la replica del Corner – poiché manco gli interessava – il patrizio si voltò verso il Miani, ché mica gli sfuggiva, nossignore. “E tu, datti una calmata! O sei talmente stupido da non riuscire ad intavolare almanco una conversazione civile? Sei un litigioso, un violento! Vergognati!”

Sentirsi rimproverare così, dal suo cugino germano preferito, sparse ulteriore sale sulle ferite di Hironimo: l’euforia della previa vittoria ottenuta su Jacomo scemò rapidamente e si mutò in un’amara sconfitta, visto che Carlo era giunto alle conclusioni sbagliate, misinterpretando in totum le sue ragioni. Litigioso? Violento? Quel tanghero innominabile aveva sparlato a vanvera di situazioni familiari che neppure conosceva, vituperando poi il suo casato, perché bisognava dunque biasimare Hironimo, se lui aveva logicamente perso le staffe?

“An, eccovi qua! Cosa ci fate qui nascosti?”, s’affacciò all’uscio sier Hironimo Malipiero, il fratello minore di sier Alvixe e padre di Thomà, osservando in bonaria aspettativa i volti colpevoli e chini dei giovani lì presenti. “Momolo!”, esclamò poi genuinamente preoccupato, indicando l’interpellato in questione. “Cosa t’è successo? Stai …” e l’uomo si portò due dita al naso, prontamente imitato dal Miani, che soltanto in quel momento s’accorse dell’epistassi scendergli fino in bocca. “Seguimi, ti faccio portare dell’acqua fredda e un panno”, s’offrì solerte, sennonché, tappandosi le nari gocciolanti, Hironimo bofonchiò adirato:

“Sto bene.”

“Ma …

“Sto bene! Sul serio, non vi disturbate!”, gli gridò snervato il ragazzo, il quale si scrollò di dosso i parenti e s’aprì collerico un varco tra loro, attraversando di corsa il salone principale fino al portone d’ingresso di Ca’ Malipiero. Hironimo camminò esagitato fino al primo pozzo reperibile e lì si fermò, appoggiando ambedue le mani sulla pietra bianca. Respirò a fondo l’aria pesante e dal retrogusto metallico, ingollando la rabbia e le lacrime da essa provocategli, il corpo un unico fascio di nervi.

Ingiusto, ingiusto, era così ingiusto che Jacomo Corner se la cavasse ogni volta con così poco, uscendone puntualmente vincitore lui, il povero santarellino, l’agnello sacrificale, l’innocente martire vittima di quel gran diavolo di Momolo! Mentre al contrario, quella bestia, quell’infame, quel tiranno di Momolo si ritrovava doppiamente punito, la reputazione più nera del carbone! Oh, ma se Hironimo si sarebbe vendicato! Eccome! Gli avrebbe restituito tutto in un sol colpo, ovviamente aggiungendo gli interessi, per i rospi ingoiati!

Hironimo non s’accorse di come avesse preso a prendere a pugni il bordo del pozzo, né di come il candore della pietra d’Istria si stesse macchiando di rosso, unendosi il sangue delle mani a quello del naso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Un po’ di noticine:

[1] Breve riassunto della dinamica famigliare: Andrea Donà (Donado) aveva contratto due matrimoni: dal primo, con Maria da Canal, aveva avuto tra i vari figli Antonio, padre di Girolamo, Andrea e Alba Donà, rispettivamente in questa storia ambasciatore a Roma, podestà a Treviso e madre di Marco Contarini amico del Nostro. Girolamo e Andrea a loro volta avrebbero sposato due sorelle, Maria e Francesca Gradenigo di Alvise. Dalla seconda moglie Camilla Foscari del Doge Francesco, Andrea senior aveva avuto Alvise dal quale nacque Francesco Donà, quest’ultimo destinato a divenire Doge nel 1545.

[2] Puto rimane, di nome e di fatto! = gioco di parola, con “puto” che si riferisce sia a “bambino/ragazzo”, ma anche a “scapolo”.

[3] Riguardo a tale avvenimento, riporta il Sanudo:  (29.03.1508) Morite sier Piero Vituri, era savio a terra ferma, stato assa’ amallato. Fece uno testamento, che dete molto che dir a la terra: privò li fiuli di soa sorella, e lassò heriedi li frati di la Certosa et la scuola di San Marco etc., ut in ipso.

Posso anche capire escludere i nipoti dal testamento, ma neanche un lascito alla moglie, la quale manco è menzionata? Mah.

[4] era tradizione a Venezia, che una vedova portasse una scuffia nera (fuori come in casa), nascondendo le trecce, indossandovi sopra un pesante paneselo nero lungo fin quasi al sedere, il petto coperto da una spessa camicia accollata, senza ovviamente nessun gioiello, tant’è vero che i forestieri scambiavano le vedove veneziane per delle monache. Tuttavia, se la signora si sentiva pronta a convolare nuove nozze e voleva comunicarlo pubblicamente ma con discrezione, allora incominciava a mitigare tale rigore, magari usando una camicia più sottile, qualche catenina o anellino d’oro e ovviamente, mostrando qualche ciocca di capelli da sotto il velo e la scuffia.

[5] E quelle di G. Battista Morosini, mica erano parole al vento o le antenate del politicamente corretto! Proprio non voleva sapere i figli negli ordini religiosi - almeno i maschi. Infatti, suo figlio Nicolò prese i voti soltanto dopo la morte del padre, avvenuta nel gennaio del 1518; suo fratello Federico avrebbe voluto imitarlo, morendo purtroppo a soli 22 anni sempre nel settembre del 1518. Quanto al fratello minore Girolamo, fu protagonista d’un epico scontro padre-figlio. Narra il Sanudo a riguardo (2 gennaio 1515): “E’ da saper: eri nel monastero di San Spirito, per don Francesco Valier prior, fo vestito frate sier Hironimo Morexini di Batista, qual veniva a Consejo, era di età anni … (27 anni, ndr.) et ha voluto esser chiamato don Hironimo. Il padre prima fe’ ogni resistentia, poi si acquietò, et fu contento si vestisse.”  Dev’essere stato uno spettacolo memorabile, se è finito nelle cronache del Sanudo, così come sarebbe interessante capire, come abbiano persuaso il Battista a calmarsi!

[6] Fontana Malipiero Barozzi. Piccolo angolo di pettegolezzo: Fontana, figlia di Girolamo Malipiero e di Elena Mocenigo, nipote di Alvise Malipiero (e dunque cugina di Malipiera) diverrà madre, nel 1514, della celebre Elena Barozzi, reputata una delle donne più belle di Venezia. Pittori quali Tiziano e Giorgio Vasari ne fecero la loro musa e di fatti s’ipotizza che “La Bella” di Tiziano possa essere proprio Elena, poiché la data d’esecuzione del ritratto, 1536, coincide proprio con le nozze della nobildonna col patrizio Antonio di Marco Zantani (o Centani), famoso protettore delle arti musicali, nel cui salotto si riunivano compositori e musicisti tra cui Girolamo e Annibale Parabosco, Claudio da Correggio, Baldassarre Donato, Francesco Londarit e Perissone Cambio. Enea Vico lo menziona nella sua opera "Discorsi sopra le medaglie". Non meno importante, Antonio Zantani è anche ricordato per aver fatto ricostruire l'Ospedale degli Incurabili nel 1560, fondato tra il 1517 e il 1522 da Maria Malipiero, Marina Grimani e San Gaetano da Thiene e della cui gestione il Nostro divenne responsabile nel 1531.

Ritornando ad Elena Barozzi Zantani, la sua bellezza era tanto nota da essere immortalata non solo nella pittura, ma anche nei versi: il poeta Lelio Capilupi le dedicò la ballata: “Ne l'amar e fredd'onde si bagna” mentre Fortunato Spira nei suoi versi la paragonava alle bellezze mitologiche della Grecia Antica e Giambattista Dragoncino alla "vaga Isotta da le trecce bionde".

Ma fu la sua relazione con Lorenzino de’ Medici a sancirne la fama storica: il Medici, in fuga per l’assassinio del duca Alessandro de’ Medici, aveva riparato a Venezia, in Campo San Polo per l’esattezza, dove abitava Elena. I due divennero amanti, malgrado le giuste contrarietà del marito Antonio. Stando ad Orazio Toscanella, Lorenzino avrebbe perfino schiettamente chiesto allo Zantani di divenire suo "compare" al che il patrizio gli rispose: "Abbiate pazienza, se voglio essere il solo padre dei miei figli." In ogni modo, dalla relazione tra Elena e Lorenzino nacque Lorenzina, figlia postuma del Medici, il quale perì assassinato dai sicari di Cosimo de’ Medici. La bimba venne allevata dalla famiglia di Elena e sposò in seguito Giulio Colonna.

 

 

 

  
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