Ed eri fragile, fragile, fragile.
Quel giorno in cui sei crollato sulle tue gambe e hai ammesso che eravamo semplicemente due poveri folli, che gli ostacoli erano troppi, che. Che i ragazzi ti sostenevano più di quanto tu non riuscissi a fare con loro, che persino io risultavo essere un sostegno migliore di te, che li allenavi per cosa?
Non le ho riferite, quelle parole: non ne avrei avuto la forza, così ho fatto quel che mi riesce meglio – ho taciuto – e chinato il capo. La forza di raccoglierti, Ukai, quella non l’ho mai avuta.
Eri fragile, in quel momento, e me n’ero accorto solamente io.
 
 
E sei fragile, fragile, fragile.
Come le parole che ho dentro, quelle che dico davanti allo specchio, quelle che non riesco mai a dire a te – d’altronde a te sono sempre piaciute, le parole, gli incoraggiamenti e tutti quei discorsi fatti per rendere l’aria più poetica.
Che poeticità potrai mai trovare, poi, nell’aria che si secca lungo gli argini del campo da pallavolo, nelle parole che si disperdono in questa temporalità strana, inutile, cosa farai domani?
Cosa faremo oggi?
Ti ritroverò affranto, silenziosamente, di fronte all’ennesima fatica, all’ennesimo intoppo che i ragazzi dovranno superare?
Sarai fragile, in quel momento, ma loro non se ne accorgeranno mai.
 
 
E sarai fragile, fragile, fragile.
Perché la fragilità non si spezza sui respiri che ti tiri fuori a fatica anche quando – respirare – è solamente l’ennesima fatica superflua cui devi prostrarti.
E amare è un altro respiro che ti si strozza in gola quando la mattina ti alzi e raccatti i vestiti, come se avessi per davvero bisogno di fuggire.
E fuggire è solamente l’ennesima messa in scena che potrai orchestrare per convincermi che non c’è più tempo per qualunque sentimento potremmo ridurci a provare.
Eri, sei e sarai fragile. Come quella volta in cui ti sei voltato, faccia sul cuscino, e mi hai detto.
Ti amo.
 
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