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Autore: Ellenw    10/02/2021    1 recensioni
La fiction è ambientata nel Mu, dove L e Light, o meglio le loro anime, si ritrovano dopo la morte e dopo aver superato il Rito di Espiazione, e anche se le loro anime sono destinate ad andare in due direzioni diverse, non riescono a stare l'uno senza l'altro.
E nonostante le tenebre, trovano la luce.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: L, Light/Raito | Coppie: L/Light
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Sento un dolore pungente alle scapole, come se qualcosa mi urtasse la schiena, e mi sollevo leggermente sui gomiti mettendomi seduto. In effetti sono semisdraiato sui gradini di una vecchia scala in cemento ricoperta di polvere, in un magazzino in rovina a cui manca una parte del tetto. Alla mia destra si trova una finestra, ma i vetri sono sporchi a tal punto da non riuscire a vederci attraverso, e da cui a malapena passa la luce.
È il luogo in cui sono morto, anche se in quel momento non avevo prestato granché attenzione all’arredamento.
Mi sollevo in piedi afferrando con la mano sinistra la vecchia ringhiera in ferro a lato della scala e nel farlo mi rendo conto che non solo gran parte della mano, ma anche l’avambraccio è quasi totalmente sporco di sangue. Il mio orologio è ancora al polso, anche se decisamente malridotto: il vetro del quadrante è rotto, le lancette sono ferme alle 14:50, e la parte sottostante in cui nascondevo un foglietto di pochi centimetri strappato dal Death Note è ovviamente mancante. Quando ho provato a scrivere il nome di Near, Nate River, Matsuda o qualcun altro dei poliziotti mi ha sparato proprio all’altezza del polso sinistro, e ora in quel punto si trova un foro di proiettile di qualche millimetro.
E chissà, forse incastrato nel mio osso, o nel muscolo, c’è ancora il proiettile, ma sono troppo nauseato per indagare oltre.
Osservando la mia figura mi rendo conto che, nonostante sia quasi totalmente ricoperto di sangue dal petto alle ginocchia, non sento assolutamente nessun dolore né sensazioni fisiche di alcun tipo.
Mi dirigo lentamente verso l’uscita del magazzino, passando tra tubi in ferro arrugginiti e cisterne di benzina abbandonate, e finalmente mi ritrovo all’aria aperta.
Ogni cosa è identica al mondo reale: la strada in cui mi trovo, i depositi, le fabbriche e i container tipici del porto industriale di Tokyo, la rete in ferro alla mia destra, alta qualche metro, che separa il percorso asfaltato dalla baia.
Il tutto illuminato da un sole quasi accecante.
Per un attimo resto immobile e sconcertato ad osservare quello che mi circonda, poi ricordo a me stesso che probabilmente, dopo aver vissuto quasi metà della mia vita posseduto da uno Shinigami, non dovrebbe sorprendermi il fatto che esista un aldilà e che io ci sia dentro in questo momento.
La strada su cui mi dirigo, se davvero ogni cosa qui combacia con il mondo reale, dovrebbe portarmi verso il centro della città.
E percorrendola mi rendo conto che l’unica vera differenza tra questo ambiente surreale e la Tokyo in cui sono cresciuto è la desolazione: non vedo anima viva, e sorrido al sottile gioco di parole che ha scelto la mia mente.
È come mi trovassi in uno scenario post-apocalittico, e io fossi l’ultimo essere umano rimasto sul pianeta. Ma so che non è così.
Dopo parecchio tempo passato a camminare, a guardarmi intorno, a ficcanasare all’interno di locali e negozi in cerca di un segno di vita, mi ritrovo nel bel mezzo del più grande incrocio pedonale di Tokyo, a Shibuya.
Normalmente sarebbe impossibile vedere questo luogo deserto, nemmeno durante le ore notturne. In ogni momento della giornata, le luci dei display luminosi e dei teleschermi illuminavano il quartiere, i taxi erano sempre lì, ad accompagnare a casa ragazzi ubriachi o turisti che si erano persi, o a scortare i lavoratori più mattinieri negli uffici, e i passanti camminavano avanti senza guardarsi l’un l’altro, e senza andare in realtà da nessuna parte.
Ora è tutto immobile, spento, muto, e deserto.
Ricordo che il guardiano, durante il Rito di Espiazione, mi disse che avrei potuto vedere solo le anime che avevo conosciuto durante la mia vita, e che loro avrebbero potuto vedermi, ma che, a causa dell’impurità della mia anima, mi avrebbero evitato, per non rischiare di essere contaminati dal mio peccato a loro volta.
È quindi chiaro che non vedo nessuno poiché, in questo momento, nessuna di quelle anime si trova qui. E, se anche dovessi incontrarne qualcuna, probabilmente nel vedermi scapperebbe a gambe levate come se fossi un appestato.
Che totale assurdità.
Tuttavia, non vedo come chiunque potrebbe carpire la natura della mia anima semplicemente guardandomi.
Ma ho la risposta a questa domanda non appena, dopo qualche chilometro, noto per sbaglio il mio riflesso passando davanti alla vetrina di un negozio.
Mi arresto all’istante. E mi accorgo di aver cacciato un urlo.
Nello specchio che mi offre la vetrina vedo un me stesso identico all’originale, intrappolato nell’aspetto che avevo al momento della mia morte. Ma, dietro di me, si staglia un’enorme nuvola nera di diversi metri che si muove lentamente come se stesse bruciando.
Mi volto di scatto, ma non vedo assolutamente nulla. Dietro di me solo gli hotel e i grattacieli che mi circondano.
Torno a guardare il mio riflesso. L’ombra nera è ancora lì, dietro di me.
E capisco che, anche se io non mi accorgo di essa e non posso vederla alle mie spalle, quella specie di ammasso di nubi nere dietro di me c’è, e probabilmente ogni altra anima in questo aldilà è in grado di vederla.
Inizio a correre di scatto, nell’inutile speranza che distanziando l’ombra, essa non mi seguirà.
Corro a perdifiato nel bel mezzo della città per non so quanti chilometri, fino a quando non sento bruciare l’aria nei polmoni, con le gambe che sembrano pesantissime e la testa sempre più leggera. Mi fermo e guardandomi intorno, cerco uno specchio o una possibile fonte di riflesso.
Dall’altro lato della strada, alla mia destra, noto un edificio imponente, interamente ricoperto di vetro scuro, e mi dirigo verso di esso.
Constato dopo qualche secondo che le mie vane speranze non sono state ripagate: l’ombra gigante è ancora lì, alle mie spalle, che ondeggia in tutte le direzioni come a deridermi. E mi pare di sentirne il peso sulle spalle, come se mi schiacciasse.
Non ha una forma particolare, è alta circa tre metri e mezzo e larga altrettanti, se non di più, e si muove in modo illogico e casuale, come una fiamma nera che brucia ma non si spegne mai.
Questa è l’eredità di Kira.
So che questa nebulosa nera è il pegno che porterò in eterno per le morti che ho causato, e per il peso di tutte le anime immonde degli assassini che ho eliminato semplicemente con una penna e un quaderno.
Tuttavia, non è abbastanza per farmi provare il minimo rimorso riguardo a quello che ho fatto. Quelle persone erano malvagie, e io ho liberato il mondo dalle loro azioni: chissà, forse, tirando le somme, ho salvato più vite di quante non ne abbia soppresse.
Se l’ombra è il prezzo pagare, non posso che accettarlo.
Ritorno sui miei passi, cercando di notare alle mie spalle un segno o un movimento qualsiasi dell’ombra, ma niente mi farebbe pensare che sia lì se non lo sapessi con certezza.
Procedo immerso nei miei pensieri di qualche passo e poi, colto da una sensazione di panico improvviso, mi volto. E il dubbio che mi aveva attraversato la mente diventa in un attimo certezza.
Non mi capacito del fatto di non essermene accorto prima, ma riconosco immediatamente l’edificio a cui mi sono avvicinato diversi minuti fa, e da cui mi stavo allontanando senza rendermene conto.
Il vecchio quartier generale è a pochi metri da me, e alzando lo sguardo riconosco l’architettura dell’edificio e di tutti i suoi piani, interamente rivestiti in vetro antiproiettile (ne sono sicuro), che L aveva fatto costruire appositamente per indagare sul caso Kira con la sua squadra.
A pochi metri da me riconosco il sottopassaggio che porta al parcheggio interrato.
Sento una stretta al cuore.
Dopo la morte di L e di Watari, nessuno della task force giapponese se la sentiva di continuare ad utilizzare questo quartier generale, dato che apparteneva ad L; per questo abbiamo deciso di continuare le indagini altrove, sommato al fatto che entrambi erano morti in questo luogo, e che a quel punto aveva più l’atmosfera di una tomba piuttosto che di un centro di polizia.
Sono morti qui.
All’improvviso questo pensiero mi colpisce come un fulmine.
E se ogni anima si risveglia nel luogo in cui è morta, allora..
Scatto verso le porte d’ingresso e inizio a correre su per le scale saltando tre gradini alla volta, senza permettermi minimamente di pensare al motivo per cui lo sto facendo.
Non mi rendo conto di star trattenendo il fiato fino a quando non mi ritrovo di fronte alla porta scorrevole circolare della sala computer.
Una voce nella mia testa mi suggerisce che sono ancora a tempo per tornare indietro e scappare il più lontano possibile, ma dentro di me so che non posso, e non voglio, per niente al mondo, rinunciare a questo momento.
Percepisco come un filo invisibile, un magnete, che mi attira oltre questa porta.
E l’attrazione si fa più forte man mano che mi avvicino.
La porta si apre, e dopo quasi cinque anni rivedo questa stanza. Il pavimento in linoleum grigio, i computer allineati sulla scrivania, il grande schermo sopra di essi che mi osserva, nero e muto: è come una fotografia, tutto è identico all’ultima volta che sono stato qui.
Quasi non mi accorgo dell’ombra che sbuca dal corridoio a sinistra dei computer.
Il suo sguardo si ferma su di me per una decina di secondi, per poi sollevarsi sopra la mia testa e alle mie spalle, inchiodato e spaventato dalla nube nera che segue ogni mio spostamento.
“Dio mio..” sussurra Watari con una voce strozzata.
Ha gli occhi sgranati e gli tremano evidentemente le mani, tra cui regge un libro che lascia cadere a terra.
È chiaramente terrorizzato.
Terrorizzato da me.
Come se da morti potrebbe succederci ancora qualcosa. Bè, non si sa mai.
È esattamente come lo ricordo, con i baffi bianchi, gli occhiali, e il suo classico completo nero, che lo fa sembrare un maggiordomo, sminuendo quello che so essere un inventore, nonché un uomo dalla profonda umanità e generosità.
Anche lui, come mio padre, è morto invano.
Dopo quelli che sembrano minuti di paralisi e terrore, finalmente l’uomo sembra ritrovare la parola.
“Non dovresti essere qui”
Probabilmente mi odia, anche se un’anima pura non dovrebbe essere in grado di odiare, dopo avere ottenuto la redenzione.
Immagino però che trattandosi di me possa fare un’eccezione. E lo capisco, davvero.
Gli ho portato via l’unica persona al mondo che amava come un figlio.
Serro le labbra e cerco di non dargli a vedere quanto in realtà sia scosso da questo incontro. Ma ormai sono qui, e decido di andare dritto al punto.
Lui dov’è?” chiedo.
“Non credo che dopo tutto quello che hai fatto tu abbia il diritto di avanzare pretese, Light.”
“Voglio vederlo. Devo vederlo.” Le mie parole diventano quasi un sussurro mentre cerco di mantenere il controllo della mia voce, che nonostante questo ha un suono tremante. “Almeno una volta”
Vedo Watari che stringe i pugni lungo i fianchi, la sua espressione è dura.
“Siamo morti a causa tua. Lui è morto a causa tua. Non ti basta questo? Non ti basta aver rovinato le nostre vite, vuoi tormentarci anche nella morte?!”
Il suo sguardo è accusatorio, la sua voce di un’ottava più alta del normale.
Distolgo lo sguardo e lo inchiodo al pavimento, incapace di guardarlo negli occhi.
“Non nego quello che ho fatto e, anche se non mi crederai, mi dispiace immensamente.” Alzo lo sguardo di nuovo verso di lui e nei suoi occhi vedo solo delusione, ed è come una lama che mi trafigge. “Ti do la mia parola: se L mi dirà di andarmene, non mi vedrete mai più. Ma non me ne vado senza prima vederlo”
“Non permetterò che ci trascini nel peccato, meritiamo la pace e tu non la distruggerai una seconda volta”
Lo osservo, e percepisco il dolore che traspare dal suo sguardo, più che dalle sue parole.
“Watari, con chi stai parl-”
Al suono di quella voce ho un sussulto e mi volto di scatto.
E lui è lì, a pochi metri da me, che mi fissa attonito come un gufo.
All’improvviso mi viene da ridere e da piangere nello stesso momento, ma non riesco a parlare, a respirare, a muovermi. Non riesco a staccare i miei occhi dai suoi.
Quante volte ho sognato questo momento? Forse migliaia. Non passava notte in cui questo volto non popolasse i miei sogni, e i miei incubi.
Ma mai, mai, avrei immaginato di rivederlo.
Mai avrei immaginato che Dio, se esiste, potesse fare un regalo tanto grande a uno come me.
E invece eccolo qui, di fronte a me, più o meno reale.
Distolgo per un attimo lo sguardo da quegli occhi neri e magnetici e lo osservo: ha quella posa inclinata in avanti che lo contraddistingue, i piedi nudi, le magre braccia lasciate cadere lungo i fianchi, i jeans scoloriti e i capelli neri come il petrolio, spettinati e che sembrano andare in ogni direzione. La sua carnagione è persino più pallida di come la ricordavo, e noto che non ha perso le profonde occhiaie che circondano quei due profondi buchi neri che sono i suoi occhi.
Noto che i suoi occhi si staccano dal mio volto osservando il mio petto e il suo sguardo ha come un guizzo alla vista delle macchie di sangue che coprono gran parte della mia figura. Solo in un secondo momento sembra notare l’ombra dietro di me, ma, a differenza di Watari, non sembra esserne stupito o spaventato.
E poi di nuovo i suoi occhi incrociano i miei.
Ed è come se qualcosa in me tornasse al suo posto, come se tutto quello che abbiamo passato potesse venire cancellato in un solo istante.
Riesco a capire quello che sta provando anche se dalla sua immagine non trapela alcuna emozione. Stupore, gioia, dolore, rimorso, incertezza, odio, amore.
Sono sempre riuscito a leggergli dentro con estrema facilità, là dove gli altri non vedevano nulla, io vedevo tutto. E vedevo quello che loro non vedevano semplicemente perché era come se, in lui, vedessi me stesso. Era come se, per la prima volta in vita mia, avessi trovato una persona che parlasse la mia stessa lingua. Poi, ho ucciso quella stessa persona per paura che potesse uccidere me.
Non mi rendo conto che sto piangendo finché non sento la scia delle lacrime scorrere lungo le guance. E quasi mi metto a ridere. Devo essere pazzo.
Dio, valeva la pena morire solo per questo momento.
E, alla fine, sono le mie parole a rompere il silenzio.
“Ciao”
  
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