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Autore: _aivy_demi_    22/02/2021    21 recensioni
Una ragazza sbadata, disordinata e senza alcun pelo sulla lingua.
Un ragazzo famoso, allontanatosi dalla propria città in cerca di qualcosa.
Si incontrano, si detestano fin da subito.
Una simpatica commedia romantica het piena di malintesi, incontri fortuiti (e non), umorismo e una punta di ironia che non guasta mai.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Singing

is the answer

 

 

23 – Grethe




«Stai zitta, fatti i cazzi tuoi…» le parole di Raon s’erano ridotte a un semplice sussurro, nel tentativo di non farsi sentire, di non farsi scoprire. «Non dire cose del genere quando c’è lui vicino, ti prego, non fare la stronza.» Era visibilmente arrossita, le guance rosee avevano assunto un colorito sorprendentemente acceso.
Aya la scosse osservandola con la dovuta attenzione, cercando di cogliere quella verità che cercava da qualche tempo. No, non stava parlando di quell’antipatico tizio che avevano incontrato in fumetteria, decisamente no: Per Fredrik Åsli stavolta non era coinvolto. L’imbarazzo che aveva colto sul suo volto era causato da ben altro.
«Aspetta, vuoi dirmi che?» indicò infatti con il capo la stanza della biblioteca dove ancora risiedeva Tae, docile nei modi, sarcastico nelle parole, carino forse, ma nulla di più. Questo ciò che pensava senza mezzi termini. «Sul serio? Raon, davvero?»
La ragazza osservava il pavimento piastrellato, seguendo le fughe con interesse incredibilmente profondo.
«Ma non ha senso, e Åsli
Piccata, l’altra alzò lo sguardo e la fulminò, incapace di nascondere il malcontento e tante altre cose non dette che certo l’amica non avrebbe potuto immaginare.
«Lui potrebbe anche andarsene a fare in culo, sul serio.»
L’aveva detto.
Dopo quel bacio amaro dal sapore mischiato d’alcool e nicotina, umido, che si è portato dietro più domande irritanti che risposte soddisfacenti, dopo aver accantonato la cosa come fosse stato un semplice gesto impulsivo dato dall’irrazionale bisogno di contatto fisico, si era ripromessa di non pensarci più. Durante la convalescenza aveva deliberatamente evitato di rispondere a quei messaggi, aveva soltanto colto l’anteprima di qualcuno di essi per poi bloccare lo schermo. Lo aveva fatto apposta? Certo. Non avrebbe risposto ancora, ovviamente. Aveva ben altro a cui pensare rispetto ad un instabile ragazzino troppo cresciuto con la pappa sempre pronta e la testa piena di sé. Un ego smisurato, un bisogno ossessivo di trovare risposte addosso agli altri e mai dentro se stesso. Questo pensava. Tae invece era… era diverso, si disse in quel momento guardandolo voltato verso i libri, intento a studiare per un esame di chissà quale corso. Da quanto era lì? Da dove veniva? Quanta strada doveva percorrere per venire a studiare? E poi, la facoltà a cui era iscritto? Si rese conto di non conoscere nulla di lui né della famiglia.
Sapeva solo che era gentile, premuroso, forse un filino cinico e un chiacchierone. Bastava?
«Raon
Sì, bastava.
«Raon, ehi, mi senti?»


«Mi allunghi ancora un sorsetto, signor Per Fredrik.»
Åsli scosse la bottiglia constatando con una certa punta di divertimento quanto liquido fosse stato trangugiato dai due in quel tempo indefinito. Infine Raon aveva contattato sua nonna al telefono, anche se alla richiesta di raggiungerla senza nemmeno confermare luogo e ora, la ragazza aveva rifiutato per una sessione di studio. Il telefono s’era poi spento, lasciando cadere la chiamata. Aveva riso Luciye, ammettendo di non aver nemmeno pensato di caricarlo prima di uscir di casa e andare a passeggiare con le gambe stanche: non abbastanza da evitarle di raggiungere l’ex appartamento.
«Ne è sicura? Penso abbia bevuto abbastanza, mi rifiuto di servirle ancora da bere.»
Rassegnata la donna poggiò il bicchierino e raccolse le proprie mani in grembo, rovesciando all’indietro il capo sul divano: sospirò, lasciandosi andare ai ricordi socchiudendo le palpebre rugose. Le labbra si incresparono in un sorriso tirato, lasciando fuoriuscire le parole in un monologo che voleva non essere interrotto in alcun modo.
«Sa, i suoi occhi mi ricordano molto quelli Grethe
I pochi secondi successivi lasciarono il tempo al ragazzo di metabolizzare: Grethe Jensen era sua nonna, la madre di sua madre. Luciye la conosceva dunque. Doveva stupirsene? Stupirsi di come Benedikte avesse indirizzato il figlio in quella precisa città, in quel quartiere fuori mano, distante dal centro, dai maggiori luoghi di divertimento, lontano da casa propria abbastanza da non trascinarsi dietro i problemi? Fallito miseramente poi. Sapeva quando dare la giusta attenzione alle informazioni, e quello era il momento adatto.
«Chiari, lucidi, immensi. Per, lei è squisitamente bellissimo, proprio come sua nonna. Rivedo in lei la sua determinazione, il suo essere ribelle, stanca della vita che le stava troppo stretta.» Una seconda pausa, più breve: Luciye si accoccolò chiudendo definitivamente gli occhi, biascicando assonnata un’ultima frase: «dovevamo scappare assieme, io e lei.»
Il russare si mangiò quasi le ultime lettere, ma la parola “lei” era stata colta chiaramente.
Åsli si sedette sul tappeto di fronte al tavolino dove ancora giacevano umide le ultime gocce di liquido alcolico in bicchieri abbandonati, la bottiglia accanto vuota per tre quarti. Alzò la testa al soffitto senza dire niente, non voleva disturbare la vecchietta che s’era addormentata, complici l’assunzione di una dose decisamente interessante di liquore e la camminata precedente. Era passata a trovarlo appositamente per rivelare quelle informazioni? Avrebbe mentito a se stesso dicendo di non voler interessarsi a ciò che era stato detto: era coinvolta la sua famiglia, la famiglia di sua madre, come era coinvolta quella di Raon.
Che fosse così stupido da non ricordare parte dell’infanzia, una parte fondamentale, in cui loro avevano intrecciato il quotidiano, dividendo settimane intere o mesi forse? Poteva essere, ma in quel caso l’unico stupido non era lui. Si alzò insicuro sul da farsi, stava metabolizzando le poche nozioni apprese mischiandole con un fumoso tentativo di scavare nella memoria. Raccolse tra le mani la cornice della foto di Raon, era certo l’anziana l’avesse notata prima, ci aveva buttato lo sguardo soffermandosi qualche secondo di troppo. Osservò l’immagine sforzandosi di ripescare qualcosa, andava bene qualunque cosa. Qualunque altra.
Come aveva fatto la volta scorsa? Era in post sbornia forse, o ubriaco. Nel dubbio raccolse ciò che era avanzato in un paio di bicchieri e mandò giù. Se avesse funzionato sul serio, se ne sarebbe accorto a breve. Reggeva relativamente bene ciò che assumeva, che fosse un bene o meno, fino alla penultima goccia – perché la colpa era sempre dell’ultima, d’altronde; girovagò alla ricerca di una coperta con cui avvolgere il corpo della signor, si sporse poi e le carezzò i capelli sbiancati dal tempo ponendosi la domanda più semplice che il cervello perso potesse concepire: perché Raon e la madre erano orientali di origine – era palese, i tratti distintivi erano evidenti – ma la padrona di casa portava un nome europeo?
«Come ho fatto a non chiedermelo prima? Quante cose nasconde, in realtà?»
“Più di quelle che pensi, idiota.” Il proprio pensiero esaustivo concluse la breve crisi di notizie.


«Avete intenzione di studiare, sì o no?» Tae s’era presentato con la tracolla carica del lavoro delle ore precedenti, visibilmente stanco ma con una espressione poco tesa. Pareva ben sicuro delle nozioni apprese, contrariamente ad Aya che andava facilmente in crisi e ormai l’esame era vicino, troppo vicino.
«Ovvio, siamo qui per questo, giusto RaonAya cercava supporto, ma voltando lo sguardo trovò l’altra torturare l’orlo della manica dello sgargiante maglione a quadri che indossava. «Anche perché abbiamo l’appello tra meno di una settimana. Te lo ricordi? Io non ho intenzione di aspettare il prossimo, devo prepararmi.»
«Eh? Ah, beh, cazzo è vero…» Si rabbuiarono quei sottili occhi scuri, per poi illuminarsi all’idea salva giornata. «ormai è tardi, andiamo a mangiare?»
«Raon, dobbiamo studiare, devo recuperare un sacco di appunti, poi le immagini, il libro. Dobbiamo sapere tutto, altrimenti non pass-»
«All you can eat, dai.»
Tae sbuffò divertito alla proposta, quando una signora dal buon bagaglio d’età gli si avvicinò picchiettando il dito artritico sulla spalla, lamentandosi della confusione perpetrata; ella sistemò gli occhiali a mezzaluna sul profilo aquilino, riducendo le palpebre a due fessure ed indicando l’uscita. Una indistinta minaccia riguardo all’esclusione obbligatoria e lo stracciare delle tessere ipotetiche le uscì in un soffio, mentre i tre uscivano scoppiando a ridere poco dopo.
«Allora? Io ho fame, una gran fame.»
«Non mi stupisce, sai? Io opterei volentieri per un giap… un cin… Ehm, Tae, giusto? Per non fare gaffe…»
«Sono coreano, tranquilla. Kim Tae, piacere.»
«Io sono Aya Grady, piacere.» strinse la mano che le era stata porta, ancora poco convinta. Era un nemico, lo stava identificando come colui che poteva seriamente rovinare il quadretto futuro che aveva immaginato per Raon e Åsli, nonostante i due fossero peggio di cane e gatto. La strinse forte, pensando a quanto potesse essere un intruso nei fili che stava tessendo nella storia perfetta.
«Vi chiedo solo di non portarmi in uno di quei vostri locali dove pensate davvero di conoscere il cibo orientale, vi prego. Vi ci porto io, piuttosto, detesto mangiare schifezze.»


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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