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Autore: crazyfred    25/02/2021    1 recensioni
{FRANCESCO & EMMA} "La neve aveva assunto l'odore dei suoi baci sotto i portici, del cioccolato, della cannella e delle arance che aromatizzavano i bicchieri bollenti di vin brûlé"
Prosieguo ideale della storia d'amore di Emma e Francesco, dove li abbiamo lasciati alla fine della quinta stagione. La voglia di ricominciare da zero, ma anche di non cancellare quello che è stato, il ricordo indelebile di errori da non commettere più. E chissà, magari coronare il loro amore con un nuovo arrivo...
Ma anche la storia di quella banda di matti che li circonda: Vincenzo, Valeria, ma anche Isabella, Klaus e naturalmente Huber.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Commissario Nappi, Emma, Francesco
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 26 - Ieri e oggi

 



 

Era ormai notte fonda. Sicuramente era passata l'una, forse erano quasi le 2, non lo sapeva con certezza. Dalle 22.32, orario di nascita della bambina, era come se il tempo si fosse fermato. Come se si fosse creata una bolla che li aveva inglobati, lasciando che il mondo continuasse a scorrere per conto suo al di fuori. Aveva tagliato il cordone e l'aveva portata lui stesso nella stanza affianco, per il bagnetto e la prima visita di routine. Emma era e sarebbe sempre rimasta la sua casa, il suo rifugio, Francesco sarebbe stato la mano che l'avrebbe accompagnata e protetta nel mondo che esterno.
Non aveva potuto farle lui stesso il bagnetto, l'ospedale non lo permetteva, ma i suoi occhi, svegli e attenti come se non avesse trascorso una giornata d'attesa e preoccupazione, e le sue orecchie avevano registrato tutto. 3250 grammi per 48 cm, Apgar 9/10. Non ci stava capendo granché, talmente era frastornato dall'emozione, ma i volti della puericultrice e del neonatologo erano più che soddisfatti, doveva essere positivo.
L'aveva riportata da Emma avvolta nella sua copertina e insieme, tutti e tre, per la prima volta, erano rimasti soli per un paio d'ore in uno stanzino accanto alla sala parto, in osservazione. La piccola, sdraiata sul petto nudo della madre si era fatta strada istintivamente verso il seno e piano piano si era attaccata, sempre più convinta. Loro la osservavano incantati, non sapendo dove posare prima lo sguardo, venerandola come un piccolo Buddha.
Alla fine entrambe avevano ceduto alle fatiche del parto e si erano addormentate non appena vennero riportate in stanza.
Francesco invece sentiva ancora l'adrenalina scorrere nel suo corpo, non riusciva a pensare di tornare a casa e stendersi nel letto, né di allungare lo schienale della poltroncina nella stanza di Emma e provare a chiudere gli occhi per qualche ora. Avesse potuto, avrebbe preso Oliver e si sarebbe messo a galoppare lungo qualche radura nei dintorni, per sentire l'aria fresca tagliargli la faccia e il vento scompigliargli i capelli. Ma ora, ai suoi occhi, quell'immagine di libertà sembrava quasi come una fuga e lui era lì per proteggere le sue donne, vegliarle nel riposo. Le sue donne…mentre ci pensava un sorriso gli si irradiava immediatamente  sul volto. Era totalmente felice e pieno di vita, come quando, dopo la fatica della scalata, si arriva in cima alla montagna: affaticati sì, ma ricompensati dalla meraviglia del paesaggio che si apre tutto intorno.
Scese al pianterreno per prendere qualcosa al bar, del resto era dalla colazione del giorno prima che non toccava cibo e, alla fine, dopo quasi venti ore, il suo organismo reclamava di essere sfamato dignitosamente. A quell'ora però, nel deserto dell'ospedale, era già un miracolo che il bar fosse aperto e l'unica opzione era qualche tramezzino freddo. "Le paste arrivano tra qualche ora" spiegò il cameriere. "Un panino prosciutto cotto e formaggio andrà benissimo, grazie" "Glielo scaldo, se vuole" "No no, stia tranquillo".
Andò a prendere una bottiglia di birra nel frigo e si sedette su uno sgabello ad un bancone per le consumazioni addossato al muro, di fianco allo scaffale dei giornali e delle riviste. Intanto rispondeva ai messaggi di auguri che erano arrivati sul telefonino - aveva mandato un messaggio generale sbrigativamente intorno a mezzanotte. Sperava di non svegliare nessuno, data l'ora, ma per lui era come se fosse mezzogiorno. Mangiava, beveva e intanto rideva, mentre sceglieva la foto più bella da mandare agli amici. La sua principessa era nata da un paio d'ore, e già avrebbe potuto riempiere un album con tutte le foto che le aveva fatto: non era sicuro che la sua memoria potesse ricordare ogni dettaglio di quella lunga notte e così affidò i suoi ricordi alla fotocamera. 
 
Arrivò in ospedale dal piccolo monolocale che aveva preso in affitto. Gli avevano detto che Padova era una bellissima città, ma le uniche strade che conosceva erano quelle che percorreva nel tragitto verso il nosocomio e gli sembravano tutte uguali. Forse avrebbe dovuto guardarsi un po' intorno, invece che limitarsi a tenere la testa bassa su marciapiede e asfalto, ma era come se fosse calata la notte da giorni. Salì in reparto meccanicamente, ogni gesto uguale al giorno precedente, in una routine mesta e stanca. Un operatore lo aiutò ad infilare la cuffia, il camice e i calzari. Prima di entrare in stanza il medico di turno lo ragguagliò del bollettino quotidiano; era fiducioso, tutto procedeva secondo la tabella di marcia: non c'era stata febbre, il battito era tornato regolare, c'era stata una risposta agli stimoli esterni e tutta una sfilza di altri valori in miglioramento che avrebbero permesso di completare l'interruzione della sedazione iniziata il giorno prima. Poco a poco, si sperava, si sarebbe risvegliata … in teoria. A Francesco, che non era un medico, di tutti quei dati che gli erano stati elencati interessava fino ad un certo punto; alla domanda "è fuori pericolo?" - la stessa, da giorni - la risposta rimaneva troppo vaga "vediamo … è presto per dirlo … valuteremo del prossimi giorni".
Prese un grosso respiro, fermo davanti alla porta che lo divideva dalla stanza di Emma, ed entrò.
 
La stanza era buia, illuminata solo dal fascio di luce che veniva dalle luci di cortesia del corridoio. Girata sul fianco, Emma dormiva, placida. Di fianco al letto, la culla. Francesco si avvicinò, lentamente, per non svegliarle. Lasciò una lieve carezza con il dorso della mano sul viso di sua moglie. Non so più in che modo amarti, pensò. Fino a neanche ventiquattro ore prima pensava alla nascita di un figlio come un evento straordinario che ti cambia la vita, ma non aveva ancora realmente capito quale atto d'amore estremo fosse per loro due come coppia: il loro amore aveva preso forma e vita, non era solo più per loro ma era visibile ad occhio nudo, si poteva toccare, aveva un profumo irresistibile, dolce e pulito e pochi capelli in testa.
Dalla culla, un piccolo gemito, quasi impercettibile, venne da quel batuffolo di gioia. L'uomo si curvò sulla piccola, imbambolato e rapito, a stento conscio che quella lì dentro fosse davvero sua figlia. Forse, pensava tra sé e sé, sarebbe arrivato qualcuno a dirgli che era il protagonista di qualche esperimento sociale o candid camera e che tutti attorno a lui erano attori, pronti ad interrompere quella sceneggiata da un momento all'altro; alla piccolina però, di tutte le capriole mentali del padre, non interessava niente: si era svegliata e, dopo 9 mesi al caldo in compagnia della mamma, quella culletta con i lenzuolini freschi di cotone non era di suo gradimento. "È ancora presto per svegliare la mamma, principessina" le sussurrò suo padre, posandole un bacio sulla guancia.  Ma la piccola non ne voleva sapere, le gambine sfrenate tiravano via le lenzuola e le braccine tirate verso l'alto, sembravano invitarlo a prenderla in braccio. Francesco non se lo fece dire due volte e, fatte passare le mani sotto la schiena della bambina, facendo attenzione alla testolina, la tirò su portandola contro il suo petto.
 
Entrando nella stanza, Francesco si sentì mancare. La luce fredda del neon, i suoni dei macchinari, l'odore forte del disinfettante erano niente a confronto dell'immagine che aveva davanti a sé. Era passata quasi una settimana ma era difficile farci l'abitudine. Come poteva, del resto, accettare quella situazione? Emma se ne stava distesa nel letto, immobile, diafana, smagrita. Si ripeteva che era solo in un sonno più profondo del normale, ma faceva fatica a crederci lui stesso. Attorno a lei un muro di macchinari per aiutarla a respirare e registrare ogni tipo di cambiamento nella sua situazione. Dietro a quei cavi e a quei tubi, quasi faticava riconoscere la donna che, così piena di vita, lo aveva tirato fuori da quello stato comatoso che era diventata la sua vita dopo la morte del figlio. Ma non poteva tirarsi indietro. Era stata una sua scelta ed era stata così coraggiosa a portarla avanti, conscia di tutti i rischi. E lui doveva rispettarla. Era pronto a giurare di amarla ed onorarla per tutti i giorni della sua vita, anche in quelli brutti anche nella malattia, finché … no, a quella eventualità non voleva pensare. L'avrebbe trattenuta per i capelli se necessario, ma Emma DOVEVA vivere, non c'erano altre opzioni.
Si avvicinò al letto e le sorrise, come potesse vederla. "Ciao amore mio!" la salutò, tentando di ricacciare tutte le lacrime e la voce tremolante e strozzata che in quel momento stavano avendo la meglio su di lui. Era fondamentale, gli avevano detto, che mantenesse un atteggiamento normale, come se nulla fosse successo, che tutto andasse come se fosse un ricovero normale. Le accarezzò la testa, attardandosi sui capelli sciolti che, lunghi, le cadevano sulle spalle. Da un lato, la fasciatura dell'operazione era ancora ben visibile, ma in quel groviglio di cavi e tubi era la cosa meno evidente. Ripensava a quando la loro unica preoccupazione era che la cicatrice fosse il meno visibile possibile: si sentiva così stupido e superficiale.
Si sedette su una sedia che era accanto al letto, prendendola per mano, iniziando a raccontarle di cose stupide, superflue anche, che aveva saputo dagli amici a casa. A lui, in quel momento, interessava meno di zero dei piccoli fatti di cronaca dal paesello, men che meno dei pettegolezzi da parrucchiera, ma era solo per raccontarli a lei che restava al telefono tutti i giorni con Vincenzo, Valeria e Huber e fingeva di essere interessato alla vita di San Candido.
"E naturalmente Leo ti saluta e chiede sempre di te … vuole sapere quando finalmente torniamo a casa perché vuole andare a vedere i lupi prima che faccia la neve. Dobbiamo sbrigarci perché è prevista neve in quota già a fine mese … hai capito, Emma? Tu neanche te lo immagini quanto è bello il lago d'inverno…"
Le strinse la mano tra le sue più che poteva, facendo finta che non fosse un pezzo di ghiaccio, ma non come d'inverno quando basta strofinarle un po' e metterle davanti alla stufa. Si immaginava la palafitta calda, il piumone e qualche altra coperta, il profumo di una zuppa calda sul fuoco e la neve che cadeva fuori silenziosa e lenta. Doveva vederlo, non poteva essere altrimenti.
 
Nelle sue grandi mani, quel corpicino minuscolo quasi si perdeva, col suo palmo riusciva a coprire il culetto e l'intera schiena.  Pur sapendo come fare - paradossalmente era come andare in bicicletta, in men che non si dica aveva ripreso tutti gli automatismi - la maneggiava con cura, quasi fosse di porcellana pregiatissima, un po' per timore di farle male e un po' perché aveva paura che piangesse e svegliasse la madre.
Andò a sedere nella poltroncina di fianco al letto. Lo schienale era già parzialmente reclinato perché Emma aveva insistito che almeno, visto che non voleva tornare a casa, provasse a riposare un po' lì. Ma come potevano venirle in mente certe strane idee? Aveva passato quasi 48 ore senza dormire quando gli aveva detto che sarebbe diventato padre, figurarsi ora che poteva tenere la bambina tra le braccia.
Delicatamente, la fece scivolare leggermente su un lato, in modo da poterla vedere bene. Quel po' di luce che veniva dal corridoio era sufficiente delineare per bene i dettagli di quel piccolo volto. Dei grandi occhioni grigio blu si intravedevano da due finestrelle e nonostante il buio e le smorfiette mentre si stiracchiava, riconosceva i suoi occhi in quelli della bambina. Tutto il resto prendilo da mamma, però, mi raccomando, pensò. Era così che se l'era immaginata una figlia femmina: una piccola Emma, dolce e ribelle, delicata ed intraprendente. "Ehi principessa!" le sussurrò ammaliato. Dubitava che riuscisse a vederlo nitidamente eppure in quella penombra, i loro volti così vicini, sembrava che lo stesse squadrando con cura. "Eh sì" le disse "sono io il tuo papà. Non sono bello come la mamma e sono pure un bel casino" le confessò, la voce dolce e rapita "ma ti prometto che insieme sarà bellissimo"
Nella sua mente progetti di pic nic sul prato, escursioni in montagna, gite in barca, vacanze al mare, pupazzi di neve e castelli di sabbia. Non erano più sogni, speranze, era qualcosa che presto sarebbe diventato realtà. "E poi c'è Leo, il tuo fratellone che non vede l'ora di conoscerti"
 
"Hai capito Emma? Abbiamo scherzato abbastanza, adesso è ora di tornare a casa. Ci sono un sacco di cose che dobbiamo fare insieme" aggiunse "l'hai scritta tu la lista". Quella lista che aveva stilato qualche giorno prima, in cui aveva scritto tutte le cose che avrebbero dovuto fare una volta fuori dall'ospedale, che doveva servire a darle un buon motivo, dieci buoni motivi per tornare. Iniziò a scandire quella lista lentamente, a memoria, guardando in volto quasi potesse guardarla dritta negli occhi, immaginando come sarebbe stato esaudire quei desideri: una notte sotto le stelle sulla Croda del Becco, per vedere dall'alto l'alba che illumina il lago sottostante poco a poco; il tramonto sul mare, magari passeggiando a piedi nudi sulla sabbia che disperde il calore accumulato durante le ore più calde; le lezioni di ballo, ma lui pensava solo a sé stesso che le pesta i piedi, mentre disperatamente lei tenta di insegnargli a ballare almeno un valzer; e poi il giorno del loro matrimonio.
L'avrebbe sposata, quella era una certezza. Non importava come: in un letto d'ospedale, in un ufficio freddo e spoglio del comune, in jeans e maglietta; l'importante era poter dire davanti a tutti che l'amava e che, sì, voleva essere suo per sempre.
Mentre si perdeva nei suoi pensieri, gli sembrò che il suo inconscio volesse accanirsi su di lui, facendogli credere che la mano inerte che stringeva tra le sue ricambiasse la sua stretta, seppur lievemente. Con gli occhi, tanto per essere sicuro che non stesse impazzendo definitivamente, corse alla mano di Emma. "Emma!" la chiamò "Emma!"
La mano si mosse, impercettibile forse agli occhi, ma la pressione, anche se leggera, era distinta al tatto. Lo aveva sperato e desiderato troppo a lungo e ora che stava accadendo stentava a credere che stesse succedendo davvero. Avrebbe  voluto tirarsi uno schiaffo per essere sicuro di non star sognando. "Emma! Emma!" ripeté, alzandosi della sedia, con una mano ancora stretta a quella della sua compagna e l'altra corsa immediatamente sul suo volto. Lei lo faceva sempre con lui e aveva per lui effetto benefico, il calmante per le sue crisi, il porto per le sue tempeste: magari, sperava, valeva lo stesso per lei.
 
"Dovremo trovarti anche un nome" aggiunse, rendendosi conto che non poteva ancora chiamarla per nome "lo so che ti sembrerà strano che in nove mesi non siamo stati capaci di trovarne uno, ma siamo strani, te l'ho detto. Mamma e papà volevano conoscerti e non ci si conosce così, con uno sguardo. Sai quante ne ha dovute passare la tua mamma prima che io capissi che non potevo vivere senza di lei … ho i miei tempi …"
Tenendo quel corpicino stretto al suo corpo, così fragile eppure in grado di fare una cosa così enorme come venire al mondo, in mente gli veniva solo una parola: amore. Ne era così pieno, quasi sopraffatto, da non riuscire a pensare ad altro. Lei era la forma di quello che c'era nei loro cuori, da quel giorno al lago quando era rimasto stranito di fronte a quella ragazza tutta matta fino al giorno in cui aveva corso a perdifiato con Oliver per raggiungerla in strada per impedirle di andare via.
Si ritrovò a raccontarle di quel primo incontro, quello che cambiò totalmente le loro vite, di quei giorni in cui anche gli estranei li scambiavano per una coppia e loro non avevano il coraggio di ammettere nemmeno a sé stessi i loro sentimenti e di quella lunga notte, un po' come quella che stavano vivendo padre e figlia in quel momento, in cui erano rimasti svegli dopo la bella notizia del suo arrivo.
"Ci sono tante cose che dovrò farmi perdonare anche da te" affermò, pensando a quei fratelli che lei non avrebbe mai conosciuto "ma non oggi, oggi non è il giorno per essere tristi. Mi hai resto la persona più felice del mondo, lo sai principessina?"
La piccola stava con le gambette rannicchiate, come una ranocchietta, e i palmi delle manine allargati contro il suo petto, all'altezza del visino. L'uomo non seppe resistere e passò un dito lungo sotto la mano della bambina. Lei, forse per un riflesso, forse no, poco importava, agguantò l'indice del padre tra le sue dita minuscole su cui lui portò le labbra per stamparvi un bacio.
Se qualcuno gli avesse chiesto come si sentiva in quel momento, non sarebbe stato in grado di spiegarlo. Non era felice: di più, molto di più; sentiva che il cuore stava quasi per scoppiare, come se fosse cresciuto di quattro taglie e non ci stava più nel torace. Era come se, per una volta nella sua vita, non ci fossero ombre, né problemi. Era in un'oasi di serenità che, finalmente, non aveva una data di scadenza.
Complice il calore del corpo del padre e la sua stretta forte e sicura, la piccina stava tranquilla, ma faceva fatica a tenere gli occhi aperti: la voce vellutata del padre la cullava verso un dolce sonno ristoratore, e la boccuccia rossa, socchiusa, come a formare un piccolo cuore, ogni tanto si apriva per uno sbadiglio. Francesco posò un bacio sulla testa della piccola, respirando profondamente il suo profumo, dolce, come le caramelle latte e miele che la mamma gli regalava da bambino quando portava a casa un bel voto da scuola. Ecco, se avesse dovuto fare un paragone, profumava di casa, d'infanzia, della sua mamma, il profumo di tutto ciò che di bello conservava nei suoi ricordi. Senza che se ne fosse accorto, una lacrima gli rigava il viso.
"Dormi stellina" sussurrò "tra le braccia di papà sei al sicuro"
 
Le palpebre di Emma erano tremanti e trasmettevano visibilmente tutta la fatica che stavano facendo, dopo giorni, per aprirsi di fronte alla luce artificiale. Lui continuava a chiamarla, doveva tornare da lui, ma la voce da agitata ed impaziente virò verso note più dolci, quasi un sussurro. Stava tornando, non doveva metterle fretta. Per lei, immaginava, era come dover attraversare una strada trafficata senza strisce pedonali. "Sono qui amore" le sussurrò "torna da me, ti sto aspettando"
Emma finalmente aprì i suoi occhi, all'inizio incerti, quasi persi nel vuoto, esitanti di fronte a quel luogo sconosciuto. Lui continuò a chiamarla e, mancandole completamente le forze, il massimo che poteva fare in quel momento era seguire la voce con lo sguardo, tentando di girare la testa debolmente verso di lui. "Ehi!" fu tutto quello che era stato capace di dirle, in un soffio, mentre il suo volto si apriva in un sorriso smagliante, come non faceva da giorni, come forse non aveva mai fatto, di quei sorrisi capaci di riempire di gioia ogni singolo poro della pelle e di luce gli occhi.
Invece di ricambiare, almeno con lo sguardo la sua felicità, Emma chiuse le palpebre e le sue guance si rigarono di lacrime composte, che facevano ancora più male. L'uomo capì che, pur nello stato parzialmente confusionale, era cosciente che qualcosa non andava: intubata, tentava di parlare ma non riusciva, nonostante provasse con tutta sé stessa. Quello sforzo le provocava una fatica enorme e, agitata, provò a dimenarsi ma invano finché, sconfitta, accasciò la testa sul cuscino. L'uomo tentava di consolarla come poteva, in un misto di strazio, che gli lacerava il cuore nel vederla in quelle condizioni, e di gioia lo faceva battere forte.
"Emma, Emma per favore non fare così. Va tutto bene. Va tutto bene" le disse, continuando a  guardarla dritta negli occhi, sorridendole, mentre premeva con tutta la forza che aveva il campanello per chiamare il personale. In lui si fece largo un baleno di consapevolezza: per quanto ne sapeva, poteva non ricordare nulla; lui stesso, in quel momento, per lei, poteva essere un estraneo. "Emma sono io, sono Francesco, mi riconosci?" domandò. Forse era una domanda stupida, forse in quel momento era l'ultima cosa da fare. Ma aveva bisogno di sapere.
"Che succede?" il medico di turno e un infermiere entrarono nella stanza, preoccupati. "Si è svegliata!" rispose. I due si avvicinarono al letto. "Ora deve uscire signor Neri, per favore" lo invitò il rianimatore. "Aspetti un attimo" domandò, implorante. L'uomo, gentile e comprensivo, fece un passo indietro, facendo finta di dare qualche istruzione all'infermiere che era con lui.
"Emma tu sai chi sono, vero?" ma era evidente che la giovane non poteva rispondere. "Basta … basta un cenno o…oppure, mi puoi stringere la mano." Avrebbe giurato che, quei dolci occhi color nocciola, avessero ripreso tutta la luce con cui lui si sentiva amato, ma doveva rimanere con i piedi per terra, poteva essere solo suggestione. La vide chiudere le palpebre lentamente e poi riaprirle e di nuovo sentì quella tenue pressione sul palmo. Era un sì. Le sue mani corsero istintivamente sul suo viso ed era come se tutti i tubi e i macchinari con quel sì si era volatilizzati. Il tempo poteva tornare a scorrere, il suo cuore poteva tornare a battere. Era tutto finito, tutto passato.
"Signor Neri, adesso deve proprio uscire, mi dispiace" "Va tutto bene Emma. Te lo prometto. Io sono qui fuori. Non me ne vado. Hai capito?" Lei chiuse di nuovo gli occhi per annuire e poteva giurare che stavolta quei lucciconi che le riempivano gli occhi non erano di tristezza o angoscia, ma di pura e totale felicità. Lui era con lei, Lei era tornata per restare. Avevano mantenuto le loro promesse.
 
Il reparto tornava a prendere vita. Il personale di turno al mattino si avvicendava con quello notturno accendendo le luci in corsia e dando avvio alle proprie mansioni. In lontananza, dietro la porta chiusa di una delle sale parto, si sentivano le urla di dolore di una donna che stava per diventare madre. Guardando lo scricciolo che aveva tra le braccia si lasciò andare ad un sorriso: ancora non poteva sapere, quella donna, quanta gioia sarebbe seguita a tutta quella fatica.
Emma, nel letto, apriva lentamente gli occhi. La bambina tra le braccia del padre, il suo buongiorno. Sorrise, orgogliosa e felice. Tante volte aveva fantasticato su quel momento ma la realtà superava la fantasia. Lei lo sapeva bene che il suo Francesco non era quello che gli altri conoscevano, ma la paternità gli aveva tolto quel po' di scorza dura che ancora portava su di sé: ogni difesa era crollata; stringeva tra le braccia una fagottina - Huber aveva avuto ragione - di 50 cm ma era lei a tenerlo al guinzaglio. Il suo sguardo era dolce, pacato, la voce calma, rassicurante. È vero, quando aveva desiderato un figlio per lei e Francesco, l'idea di ridargli quello che aveva perso era uno dei motivi che l'avevano spinta a rischiare, ma non era l'unico: quella creatura era come un ponte tra il presente e il per sempre, per proiettare il loro amore verso l'infinito; quando loro non ci sarebbero stati più, una traccia di quell'amore sarebbe rimasto visibile e tangibile.
Rimase a guardarli in silenzio, a godersi lo spettacolo di un papà che, innamorato pazzo, non riusciva a staccare gli occhi dalla sua bambina, nemmeno se lei dormiva tranquilla tra le sue braccia, e continuava a parlarle, come non avessero un'intera vita davanti. Finché Francesco non si accorse di quello sguardo che li vegliava e li ammirava.
"Buongiorno!" mormorò, teneramente. Emma ricambio con un sorriso, strofinando gli occhi gonfi e ancora un po' incollati. "Non l'hai lasciata un attimo, vero?" domandò, ancora assonnata, stiracchiandosi come poteva in quello stretto letto d'ospedale, con un filo di voce. "Come si può resistere?!" la domanda retorica di Francesco. Emma sospirò, ma aveva ragione, lo avrebbe fatto anche lei.
"Quanto ho dormito?" domandò, mettendosi a sedere. Era ancora indolenzita e non pienamente in forze ma voleva prendere in braccio la piccolina. "Cinque ore, più o meno, sono le 6 e mezza" "Pensavo fosse più tardi… meglio così, almeno abbiamo un po' di tempo per stare un po' insieme prima che te ne vai" "Ma io non vado da nessuna parte. Vado a prendere Leo da Vincenzo, lo porto all'asilo e torno" "Uno. Non puoi stare in reparto durante le visite mediche. Due. Non ho bisogno di uno zombie al mio fianco, quindi per favore torna a casa, fai una doccia e dormi un po' ai anche tu che ne hai bisogno." Francesco provò a ribattere ma era chiaro che Emma non era disposta ad accettare compromessi o discussioni. "E ora per favore fai prendere la bambina un po' anche a me …" disse, fingendo gelosia e allungando le braccia. Nel passare tra le braccia del padre a quelle della madre, la piccolina si svegliò. Stiracchiava le braccine, sfilando via involontariamente il berretto che Francesco le aveva messo per tenerle calda la testina, mentre le gambine erano comodamente rannicchiate come se fosse ancora nella pancia di Emma. Forse la luce naturale che filtrava dalle tapparelle era inusuale per lei, nata di notte in una stanza in penombra, perché ad ogni tentativo di aprire gli occhi li richiudeva portando le manine davanti agli occhi. O forse, più semplicemente, non era ancora convinta che svegliarsi fosse la cosa giusta da fare. Poco alla volta però, attirata dalla voce della sua mamma, riuscì ad abituarsi a quella luce naturale e a mostrare ben aperti i suoi occhioni di un meraviglioso blu intenso. Dei piccoli, brevi vagiti furono il suo buongiorno. "Buongiorno anche a te amore della mamma! Buongiorno anche a te! Che c'è … eh?" domandò, con una vocina dolce e leziosa, alla piccola che la guardava incuriosita e attratta da quella voce che già le era familiare "ti sei addormentata in braccio a papà e ora ti svegli in braccio a mamma? Mi sa che ti ci devi abituare, eh? La culla e il carrozzino li vedrai poco poco …"
Prese a posarle baci ovunque, sulle manine, sulle guanciotte, sulla fronte. Era una sensazione meravigliosa. Era amore, certo, ma nulla di comparabile a ciò che aveva sperimentato fino a quel momento: una connessione naturale, perfetta, instancabile, che sentiva crescere esponenzialmente con il passare dei secondi, dei minuti.
Francesco, seduto sul letto di fianco a loro, le ammirava in silenzio, sognante.
"Buongiorno!" un'infermiera interruppe l'idillio entrando nella stanza "Se non vi dispiace alzo un po' la serrandina". Il sole non ancora alto, faceva capolino illuminando i tetti delle case attorno all'ospedale, preannunciando una giornata serena, calda e soleggiata. "Signor Neri, non vorrei ma le devo chiederle di andare via, tra un po' iniziamo il giro delle medicazioni e delle visite e non può stare"
Francesco sbuffò senza farsi troppo vedere né sentire. "Che ti avevo detto?" disse Emma, accarezzandogli la guancia. "Dai, vai da Leo che sono sicura vorrà sapere ogni novità sulla sua sorellina." disse Emma, strofinando la sua mano su quella del marito. "E poi mi prometti che riposi un po'? E non su una panchina fuori dal reparto, eh … che ti conosco, saresti capace di farlo!" Francesco rise, abbassando la testa: lo conosceva troppo bene da anticipare le sue mosse. "Agli ordini!" rispose sornione, posando un bacio sulle labbra della moglie e sulla testolina della figlia. "Vi amo" esclamò. "Anche noi"
L'uomo prese il telefono e le chiavi dal comodino e si diresse verso la porta. Sulla soglia si fermò, indugiando, per portare via con sé un ultimo istante da conservare per tutto il giorno, fino a quando non fosse tornato a far loro visita.
   
 
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