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Autore: Roanoke_Wilde    04/03/2021    1 recensioni
Prima di poterci ripensare, si rifugiò in quei pensieri che sapeva avrebbero riempito fino all’orlo la sua mente e, con un po’ di fortuna, l’avrebbero accompagnato nell’incoscienza bandendo il dolore. Quei pensieri, lo sapeva benissimo, erano l’unica cosa in grado di distrarlo dall’emicrania – ed erano l’unica cosa che si era ripetutamente ripromesso di far sparire, di seppellire, di dimenticare ogni volta che indossava il suo elmo e il suo Credo.
Avrebbe rievocato la sua casa, e chi era stato un tempo, prima della Tribù.
Avrebbe rievocato la notte in cui i suoi genitori erano morti e il suo destino di Mandaloriano era stato suggellato.
Allora, forse, avrebbe ritrovato la via per andare avanti.

[Missing Moments // Kid!fic // Introspettivo // PoV Din // Traduzione di _Lightning_]
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Din Djarin, Nuovo personaggio
Note: Kidfic, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Fan Art: shima_spoon // Graphic: _Lightning_

Capitolo 2

Resistere
 


Per un solo attimo, Din e i suoi genitori rimasero congelati sul posto.

E in quell’attimo d’immobilità, una seconda esplosione inviò un’altra onda d’urto devastante attraverso il terreno, sotto i loro piedi, nelle loro ossa. Fu seguita dalle inconfondibili raffiche di fucili blaster. Din sobbalzò violentemente al secondo boom – ancor più rispetto al primo – e si voltò verso sua madre, con occhi e bocca sbarrati.

«Amma–» sussurrò.

Quando lei abbassò lo sguardo nel suo, Din capì che era questo – questo – che non andava quel giorno. C’era qualcosa di terribile, nei suoi occhi, qualcosa di sbagliato, qualcosa che rifletteva ciò che stava provando lui, e allo stesso tempo molto più grande. Sua madre aveva paura. Lui aveva paura.

«Prendilo,» disse suo padre all’improvviso, riportando di colpo tutti e tre alla realtà, e alzando la voce oltre la tempesta di spari che proveniva da qualche parte nel cuore del villaggio. Anche lui aveva gli occhi ingigantiti dalla paura quando guardò sua madre, quando gesticolò di nuovo verso di lui.

«Prendilo!»

Sua madre scattò in azione, allora, proprio quando una terza esplosione spezzò l’aria. Lo prese per mano e lo sospinse in avanti, verso ovest.

«Vieni, Din! Vieni!» sibilò.

Din sentiva i piedi di piombo, e gli batteva così forte il cuore che riusciva a sentirlo rimbalzare contro le costole a ogni pulsazione, ma obbedì. Obbedì e incespicò sulla sua scia mentre lei spiccava in una corsa, lasciando indietro suo padre.

Un’altra esplosione scosse la terra, e stavolta vide un lampo di luce a seguirla, con un pennacchio di fumo grigio e acre che si levò dal luogo della detonazione e fiamme rombanti che svettarono al di sopra della schiera di case alla sua sinistra. E sentì le urla. Din voltò qua e là la testa mentre la gente iniziava a invadere la strada, barcollando o fuggendo dal luogo delle esplosioni, coi vestiti stracciati e sporchi di terra, i volti cinerei e pallidi di terrore.

«Dada!» gridò, in cerca della sua figura familiare, sapendo che anche questo era sbagliato. Non avrebbero dovuto allontanarsi da lui. Era tornato indietro – probabilmente per aiutare i loro ospiti – ma lui e sua madre avevano bisogno di lui, qui. «Dada!»

Sua madre serrò la stretta sulla sua mano e, quando Din alzò lo sguardo su di lei, con l’adrenalina che gli scorreva fino alla punta delle dita, vide una forza così feroce, nei suoi occhi, che non ebbe altra scelta se non fidarsi del fatto che lei sapesse cosa stava facendo.

«Non fermarti! Ci raggiungerà!» la sentì dire, ovattata – proprio quando apparve il primo droide.

Sbucò alla loro destra, seguendo la fiumana in fuga dalle esplosioni. Era alto, scuro e lucente, con una gobba smussata al posto di un collo o delle vere e proprie spalle. Din lo guardò e, mentre tentava disperatamente di tenere il passo con quelli molto più ampi di sua madre, il droide alzò un braccio, prese la mira e...

Din risucchiò un respiro e chinò la testa quando il colpo di blaster eruttò dal suo braccio e si schiantò nella schiena della persona più vicina. L’uomo non ebbe nemmeno il tempo di gridare, prima di accasciarsi a terra e rimanere immobile, i vestiti fumanti. Din inciampò, con gli occhi ineluttabilmente fissi su quell’immagine, e quasi trascinò sua madre con sé.  Mentre loro due recuperavano in qualche modo l’equilibrio, a
ltri colpi si susseguirono – alcuni trovarono i loro bersagli nella carne viva, altri si abbatterono sugli edifici attorno a loro, staccandone dei pezzi e lasciando dietro di sé scie annerite sulla pietra liscia.

Din ansimava ormai in respiri rapidi e pesanti; mosse le gambe più in fretta, con l’adrenalina che s’impennava in ondate pulsanti che gli rubavano aria e autocontrollo e che spronavano i suoi piedi l’uno davanti all’altro ancora e ancora anche se faceva così male.

E poi suo padre fu di nuovo lì, proprio accanto a lui. Anche lui era affannato, ma si muoveva con una precisione che né Din né sua madre sembravano possedere. Lo prese in braccio di peso e scattarono in avanti, e si strinse d’istinto a lui. Nascose il volto nella sua spalla, inghiottendo grandi boccate d’aria che portavano con loro il suo odore, e cercò di ignorare le urla e i boati e lo scoppiettio delle armi.

Tutti e tre avanzarono sbandando a destra e a manca attraverso le vie, una svolta dopo l’altra, schivando persone in fuga da ogni parte. Din realizzò ben presto che erano diretti verso la piazza del mercato più piccola – era uno dei luoghi più lontani dal punto in cui erano partite le esplosioni.

A un certo punto, mentre ondeggiava al ritmo dei movimenti disperati di suo padre, Din osò alzare lo sguardo, ma richiuse gli occhi quasi all’istante. C’era fumo ovunque. Una foschia densa di polvere soffocante, sollevata dalla gente e dai droidi – che vedeva ancora dietro di loro, intenti a sparare nella folla – aleggiava ovunque. C’erano corpi sparsi per le strade, altri che ostruivano gli ingressi delle case.

Corpi di vicini.

Corpi di amici.

Din percepì un groppo solido formarsi in gola, tagliandogli l’aria, a preannunciare le lacrime. Binh e Mai erano là fuori. E sua omma[1]. I suoi maestri. Gli altri membri del Cadre.

Cosa stava succedendo? Perché li stavano attaccando?

Quando suo padre inciampò e quasi cadde per la seconda volta, col fiato spezzato, lo sentì di nuovo stringere la presa su di lui.

«Resisti,» esalò, così piano che Din riuscì a malapena a sentirlo oltre il ruggito di quella devastazione. Resisti.

Din strinse la presa con braccia e gambe – usando tutta la forza che gli riuscì di raccogliere – e sentì sua madre posare una mano sulla sua, come ad assicurarsi che lui fosse ancora lì, ancora sano e salvo. Poi, sbucarono nel passaggio principale che serpeggiava attraverso la piazza del mercato – dove furono accolti da ancor più caos di quanto ne avessero visto finora.

Din non guardò, quando emersero in quello spazio relativamente aperto, dove il cielo un tempo terso era ora assediato da densi agglomerati di fumo nero, dove navi sconosciute stavano riversando fuoco e distruzione dall’alto.

Ma lo percepì.

Lo udì.

C’era gente che urlava – da qualche parte si udivano anche dei pianti, di bambini o forse neonati. Esplosioni cadenzate, più gravi e forti di qualunque tuono avesse mai sentito, facevano tremare la terra sotto i loro piedi. Gli edifici vomitavano ondate di macerie aguzze e fuliggine mentre cedevano sotto i colpi che arrivavano da ogni parte possibile. Tutto puzzava di fuoco e morte e fumo – eccetto suo padre.

Per tutto il tempo di quella corsa, Din si aggrappò a quell’odore conosciuto e al tepore dell’uomo sotto di lui, costringendosi a estraniarsi dalle persone che cadevano attorno a loro, dai droidi che miravano con impassibile precisione, e dalle navi a forma di disco che sfrecciavano sopra di loro. Riuscì a ricacciare le lacrime dentro di sé, dove non minacciavano più di rubargli l’aria.

Quando raggiunsero la botola del magazzino, si sentì rintronato.

Nulla ebbe più senso, quando suo padre lo fece scivolare a terra, con gli occhi enormi, i capelli scarmigliati che gli incorniciavano i lineamenti contratti dal panico. C’era troppa luce, troppo rumore, quando sua madre si inginocchiò davanti a lui, col respiro frenetico che le sfuggiva in folate raschianti. Nulla ebbe più senso, quando si accostò a lui per abbracciarlo, avvolgendolo nel suo profumo delicato e oscurando tutto il frastuono e il dolore e il fuoco per un istante fugace.

«Ti voglio bene,» sussurrò, così vicino al suo orecchio che la udì chiaramente. Poté sentire il suo battito attraversare il suo corpo, quando alzò in automatico le braccia per ricambiare la stretta.

Ma tutto iniziò ad avere orribilmente senso quando i suoi genitori lo aiutarono a scendere nella botola, lasciandolo cadere contro le casse bianche all’interno – e non scesero per raggiungerlo.

Entrambi sembravano ancora così spaventati, con le spalle alla guerra dietro di loro, ma adesso c’era qualcosa di fermo e risoluto nel loro sguardo. Era qualcosa che Din credeva di aver già visto prima, in forma più mite, quelle volte in cui aveva detto una bugia o disobbedito–

Era una domanda.

Quale domanda?

Din agì di nuovo d’istinto, senza capire. Tese una mano verso suo padre, così come aveva fatto in camera, a casa loro, così poco tempo prima. Aveva le parole per richiamare i suoi genitori sulla punta della lingua, perché voleva che fossero lì con lui. Aveva bisogno di averli lì con lui.

Ma le parole non arrivarono.

Perché non si stavano nascondendo con lui?
Perché se ne stavano andando?


Le ante della botola si chiusero, lasciandolo in un’oscurità che sembrò più pesante di qualunque cosa avesse mai percepito prima di allora. Rimase seduto lì, col suo stesso respiro assordante nelle orecchie, per quella che sembrò un’eternità – anche se furono solo pochi secondi.

L’esplosione finale, quella che avrebbe davvero ricordato, arrivò mentre guardava la lama di luce tra le ante della botola, aspettandosi di vedere da un momento all’altro i suoi genitori che la riaprivano e lo aiutavano a uscire. Sobbalzò contro le casse quando l’intero magazzino fu scosso e della polvere si riversò all’interno, dalla fessura di luce fumosa.

Di nuovo, le parole per richiamare i suoi genitori si accavallarono dentro di lui, ma la sua bocca si era fatta completamente asciutta. Era tutto sbagliato. I droidi non avrebbero dovuto attaccare–

Lui e i suoi genitori e Binh e Mai non avevano fatto niente–

Perché stava succedendo?

Gli si congelò il respiro in gola quando un’ombra si stagliò nella fessura di luce. Seppe cos’era prima ancora che le porte si aprissero: quei clangori e cigolii metallici potevano appartenere a una sola cosa. Così, quando vide il droide incombere su di lui, puntandogli contro la sua arma, si ritrasse soltanto contro le casse, chiuse con forza gli occhi, pregò che i suoi genitori tornassero anche se lui non c’era più–

Ma l’acuto colpo di blaster non fu seguito da alcun dolore o buio, e la luce che gli inondava gli occhi serrati cambiò, divenne più intensa. Aprì gli occhi, e quello sopra di lui non era un droide – era un uomo in armatura.

Din alzò lo sguardo e quasi si aspettò che gli sparasse, ma così non fu. Invece, il guerriero si protese verso di lui e allungò una mano – come Din aveva teso una mano verso suo padre quando le porte della botola si stavano chiudendo.

L’uomo in armatura gli fece un gesto impellente con le dita – vieni.

E, senza pensare, col corpo che agiva d’istinto spronandolo a stringere quella mano che doveva essere di suo padre, Din si alzò e avvolse le dita attorno al ruvido guanto del suo salvatore.

L’uomo lo issò fuori dalla botola e Din fu gettato nel mezzo dell’aria sporca di battaglia del suo villaggio. C’erano più corpi riversi attorno a loro, più danni di solo pochi minuti prima per via dell’ultima esplosione, più polvere e fumo e caos...

Dov’erano i suoi genitori?

Ma c’erano anche molti guerrieri come quello che l’aveva appena salvato dal droide. Scendevano dal cielo, accerchiavano i droidi e li facevano a pezzi, difendendo i pochi gruppi di abitanti che erano riusciti a sopravvivere chissà come fino ad allora. Din li osservò mentre respingevano i droidi e mettevano fine al massacro che era sembrato senza speranza fino a pochi momenti prima. In quel secondo, il mondo gli si riversò in testa in lampi di colore e suoni e odori che non avevano molto significato, se non il sollievo – il sollievo che tutto quel bruciore forse era finito, che i suoi genitori–

Din vide un altro guerriero in armatura di fronte a lui girarsi, guardare quello che l’aveva salvato e fare un gesto della mano verso il cielo.

Din guardò il suo salvatore. Scrutò quell’elmo insondabile e lasciò scorrere lo sguardo sulla sua superficie scalfita, cercò di trovare gli occhi dell’uomo che c’era dietro. E, anche se non li trovò, si accorse che d’un tratto non importava più chi ci fosse sotto l’elmo o perché l’uomo l’avesse salvato.

Perché, davanti a sé, Din vedeva suo padre inginocchiato nella loro camera da letto, a casa. Vedeva la luce del mezzogiorno che filtrava dalla finestra, sentiva la presenza dei loro ospiti misteriosi in cucina. Sentiva la voce di suo padre, pacata e intensa.

Ti fidi?

Annuì – se solo nel ricordo o nel presente, non avrebbe saputo dirlo. Sapeva solo che, , si fidava. Che doveva farlo. Che tutto era sbagliato, tranne quella fiducia. Quella fiducia l’avrebbe tenuto in vita – suo padre l’avrebbe tenuto in vita.

Non ricordava molto, dopo quel momento. Riusciva a richiamare con vaghezza il modo in cui il terreno aveva preso a girare quando l’uomo in armatura era decollato, librandosi più in alto di quanto Din fosse mai stato prima. Ricordava lo strano calore dello spallaccio metallico sotto la sua pelle, e il modo in cui si stringeva sempre più forte, man mano che si allontanavano da terra, con lo stomaco che si accartocciava per molto più della semplice paura.

Ricordava di aver colto solo uno scorcio fugace di vesti rosse per terra, molto più sotto, non lontane dalla botola in cui era nascosto.

E ricordava di aver sentito una parola ripetersi nella sua testa all’infinito. Era diventata un mantra, mentre l’unico mondo che Din avesse mai conosciuto si allontanava rapido, e lui e il suo salvatore facevano breccia oltre il fumo, nel cielo terso:

Resisti.
 

________________

[Il Presente]
ca. 9 ABY
________________


 
Din ebbe quasi un attacco di panico, quando schiuse gli occhi.

Non aveva indosso l’elmo e non aveva idea di dove fosse lui – solo che non era la Razor Crest, praticamente l’unico luogo in cui sarebbe stato libero di stare a capo scoperto senza temere spettatori. Ma dopo pochi secondi nella penombra tetra, secondi in cui riuscì a individuare quella particolare, odiosa crepa umidiccia sul soffitto, si ricordò di essere al Rifugio. Che era al sicuro. Che, anche se non ricordava di essersi tolto di nuovo l’elmo, non era un problema se non lo indossava.

Riusciva a respirare...

... solo che, in realtà, non riusciva affatto a respirare, visto che la sua gola era riarsa e dolente, oltre a sembrare innaturalmente chiusa.

Si obbligò a mettersi in una posizione almeno vagamente seduta e tentò di risucchiare un respiro, con un risultato che suonò come un topo rago asfittico. Lottò per qualche momento – col cuore che pompava sangue nelle vene a un ritmo sempre più vertiginoso – finché, finalmente, l’aria si fece strada a stento nei suoi polmoni, e riuscì a respirare di nuovo.

Certo, gli sembrava ancora di inghiottire sabbia con ogni respiro, ma almeno, là in mezzo, c’era anche un po’ d’aria.

«Kriff.»

Rimase seduto lì per un minuto buono, fissando la superficie irregolare delle pareti attorno a lui, e lasciò che il livello d’ossigeno nel sangue tornasse entro una soglia ragionevole. Quando fu certo che non sarebbe svenuto provando a muoversi, rivolse l’attenzione all’altro problema che – da qualche parte nei recessi del suo cervello – lo stava pungolando.

La sua gamba.

Era incredibilmente rigida, ed era abbastanza sicuro che in parte dipendesse dalla quantità di sangue rappreso e incrostato sui pantaloni e sul lenzuolo sottostante. L’altro motivo era probabilmente l’immobilità prolungata e, tirando a indovinare, una lieve infezione.

«Kriff

Prima di poterci ripensare in luce della sua ultima scoperta, Din afferrò l’elmo e se lo calcò in testa, sussultando con una smorfia nel sentirlo sfregare contro qualche livido piuttosto esteso sulla nuca. Quelli erano un regalino dello zabrak su Utapau, ne era certo. Quel trafficante era un bruto fatto e finito.

Inghiottì un altro respiro stentato e richiamò in sé una buona ventata di forza, che lo spinse a rimettersi in piedi così rapidamente da bloccarsi per la sorpresa. Ondeggiò un poco, strinse i denti, chiuse gli occhi a contrastare il rollio nauseante della roccia sotto ai suoi piedi.

Quando li riaprì, si sentì incoraggiato dal fatto di essere ancora in posizione eretta, anche se la sua gamba ferita irradiava stilettate di dolore a ogni nervo esistente tra le dita dei piedi e l’anca. Poteva farcela. Doveva farcela, se non altro perché aveva urgente bisogno di un sorso d’acqua per ripulirsi la gola, adesso. E, sì, se voleva davvero riprendersi avrebbe anche dovuto costringersi a mandar giù qualche boccone.

Il solo pensiero gli fece venir voglia di collassare di nuovo sul letto, e l’unica cosa che lo tenne diritto furono i ricordi che aveva appena rivissuto: quei ricordi che non aveva alcun diritto di rievocare a quel punto della sua vita – lo sapeva. Non era più un bambino da ormai molto tempo, e di certo non era il bambino di quei ricordi da ancor più tempo. Era stato stupido riaprire cicatrici così spesse.

Fece un passo, gettando il proprio intero peso in avanti per contrastare quell’ammasso di carne poco collaborativo che doveva essere la sua gamba. Chiazze di buio gli punteggiarono la vista, ma le ignorò, con l’immagine di Aq Vetina che appariva all’improvviso ondeggiando sotto di lui, lontana.

Aveva decisamente la febbre.

Non era più su Aq Vetina, ovviamente.

Fece un altro passo, e adesso era proprio di fronte alla tenda che celava l’ingresso della sua alcova. Tese una mano per stringerla sul telo...

E l’istante dopo stava caracollando in avanti, con la gamba ferita che cedeva all’altezza del ginocchio, in sincrono col respiro che si rinchiudeva di nuovo in fondo ai polmoni. Nel cadere strappò il tessuto dagli agganci, e tutto ciò che vide attraverso il visore fu un mondo bizzarro, inclinato. Vide roccia, un trovatello con l’elmo in testa che schizzava via lungo il tunnel, raggi di sole che filtravano da una delle finestre in alto – allora era l’alba passata.

Ma non riuscì a concentrarsi troppo a lungo su quei dettagli.

Ricordò qualcos’altro del giorno in cui l’avevano salvato...

Non aveva pianto, la notte in cui erano morti i suoi genitori.

Solo dopo aver dormito, per poi risvegliarsi in uno strano luogo, circondato da guerrieri in armatura, aveva pianto.

Non era stato nemmeno per via dello spaesamento, della paura, e nemmeno per l’immagine dei corpi dei suoi genitori riversi sul terreno ormai lontano.

Aveva pianto – da bambino, così tanto tempo prima – perché, mentre se ne stava seduto nell’accampamento dei suoi salvatori, si era accorto di avere uno strappo slabbrato sul ginocchio della sua tunica rossa. Non ricordava come si fosse strappata, ma eccolo lì: largo e orribile e probabilmente irreparabile.

Il tessuto si era strappato – ricordò Din mentre l’oscurità si affacciava di nuovo su di lui – ed era bastato quello, per romperlo del tutto.


 


(Giovanni 14:27)


Note di traduzione: 
[1] Omma: in originale, grandamma, col significato di "nonna". Oma è nonna in tedesco, quindi ho fatto una fusione con l’originale amma per mamma.

Note della Traduttrice:
Cari Lettori, rieccoci qui!
Tradurre questo capitolo è stato un po' un colpo al cuore, per motivi che credo possiate facilmente immaginare... spero di aver restituito l'intensità dell'originale ♥
Non siate timidi nel lasciare un commento: ho preso accordi con l'autrice per riportarle i commenti in traduzione, quindi le arriveranno! In alternativa, non dimenticate di lasciarle un kudos, trovate sempre il link a piè di pagina.
Grazie per aver letto, e al prossimo capitolo!

-Light-

PS. D'ora in poi (e nei capitoli precedenti) troverete dei versetti/citazioni bibliche a fine storia, in quanto l'autrice mi ha espressamente chiesto di riportarli. Ci tiene molto e sono collegati alla storia, quindi dateci un'occhiata, se vi va ♥


 
   
 
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