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Autore: muffin12    14/03/2021    2 recensioni
Uno studente in cerca di lavoro, un neo ristoratore che vuole avviare la sua attività, tre panchinari in attesa di un'occasione per svoltare entrano in un bar. Solo che il bar è Onigiri Miya e la barzelletta è troppo vicina alla realtà per essere veramente divertente.
Finite le superiori si entra nel mondo reale. E il mondo reale è pronto per ucciderti.
Storia di come Sakusa sia riuscito a superare l'università, di come Osamu abbia messo in piedi il suo marchio e di come Atsumu, Suna e Komori siano diventati titolari.
Pairing: SakuAtsu, OsaSuna e accenni di inizio OsaSunaKomori.
Genere: Commedia, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Kiyoomi Sakusa, Motoya Komori, Osamu Miya, Rintarō Suna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Anno 2

Suna aprì gli occhi. Non totalmente, una striscia appena quasi del tutto coperta dalle ciglia folte, ma fu abbastanza da farlo gemere. Chi diavolo aveva lasciato le tapparelle mezze alzate? E perché quel maledetto raggio di luce doveva finirgli proprio in faccia?
 
Contrariato strizzò le palpebre, forte abbastanza da vedere lampi bianchi, arricciando il naso in completo disappunto. Non sapeva che ore erano e non voleva scoprirlo, era in vacanza per altri tre giorni e li voleva passare tutti a letto a scopare con il suo ragazzo. E mangiare roba buona cucinata dal suo ragazzo. E coccolarsi con il suo ragazzo, perché il periodo refrattario era una cosa reale e sicuramente sarebbero arrivati al punto in cui avrebbero pianto se chiunque di loro avesse proposto un altro round, quindi sì, non si sarebbe mosso da lì per tre ragioni solide.
 
Non aveva pensato al bagno, lo avrebbe risolto quando fosse sorto il problema. E non intendeva la doccia. Era una professionista lui, voleva puzzare e continuare a rotolarsi in mezzo a roba immonda, la doccia era estremamente sopravvalutata e lo avrebbe allontanato da Osamu per troppo tempo inutile, perché era una scatola di scarpe e non ci sarebbero entrati in due neanche a provarci. Lo diceva per esperienza.
 
No, non si sarebbe decisamente schiodato da quelle lenzuola putride. Ma doveva cambiare posizione perché non si sentiva più le mani sotto il cuscino e il sole lo stava sfidando.
 
Con fare rallentato, quindi, girò il busto e la testa dalla parte opposta, sistemandosi meglio. Il peso del braccio di Osamu sulla schiena lo schiacciava al materasso rendendo difficili parecchi movimenti, ma ci riuscì. Ora la luce era dritta sulla faccia di Samu e gli andava bene. Decisamente bene. Così poteva ammirarlo in tutto il suo splendore di barba mattutina e alito all’antrace.
 
Era davvero bello messo così a stella marina. Specie con il collo pieno segni. Aveva il viso rilassato, la bocca leggermente aperta e un filo di bava che si raggruppava in una pozza sul cuscino. Avrebbe dovuto fargli schifo, perché diamine, quel cuscino era il suo, si erano scambiati di posto tra i rotolamenti della sera prima, e invece no.
 
Cazzo, invece no. Era la cosa più carina che avesse mai visto ed era abbastanza auto consapevole da poter ammettere ad alta voce di avere qualche problema e decidere che non lo avrebbe risolto per niente al mondo.
 
La sera prima Samu non aveva nemmeno avuto modo di disfare la valigia che lo aveva afferrato per il giubbotto appena aveva varcato la porta di casa, lo aveva sbattuto sul letto, gli si era arrampicato sopra e non lo aveva nemmeno spogliato del tutto. Avevano avuto un rapporto urgente e disperato, lui lo aveva pregato come un condannato e Samu lo aveva accolto mordendogli le labbra e le spalle, scambiandosi baci affamati al sapore di sale e rame. Gli era mancato come l’aria ed era finalmente il momento di respirare di nuovo.
 
Dopo avevano rallentato, mangiando un boccone veloce e godendosi la vicinanza in maniera meno selvatica e più profonda, più morbida e consapevole, ma non erano riusciti a staccarsi gli occhi e le mani di dosso neanche per cinque minuti filati.
 
Non si toccavano fisicamente da due mesi. Non lo aveva sentito addosso, dentro, ovunque da circa sei. Era passato troppo, troppo tempo e la distanza pesava parecchio.
 
Avrebbe rivalutato le sue scelte professionistiche solo ed esclusivamente per poterlo bloccare da qualche parte e farlo suo quando poteva, per sentirlo raccontare della sua giornata sdraiato in posizioni strane sul divano, per guardarlo piangere per qualche film strappalacrime in televisione e prenderlo in giro impunemente mentre si soffiava il naso e lo mandava a quel paese, ma sapeva perfettamente che non avrebbe risolto nulla: non se lo sarebbe perdonato nel lungo periodo. E vivere di rimpianti significava non vivere per niente.
 
Ormai era riuscito anche a entrare in qualche partita da titolare, avrebbe aspettato la maledetta filiale di Onigiri Miya a Tokyo per potergli mettere un cazzo di anello al dito. Era pronto e infiocchettato in camera di Motoya da circa tre settimane, perché Samu aveva l’anormale capacità di trovare le cose senza realmente cercarle e quello era l’unico posto in cui non avrebbe messo piede. Sarebbe rimasto nascosto anche per anni, ma prima o poi sarebbe andato al legittimo proprietario, era una delle poche certezze della sua vita.
 
Con la mano libera gli toccò la punta del naso, lasciandosi dietro una sensazione fastidiosa. Aveva le dita congelate e Osamu era decisamente bollente, non ci avrebbe messo molto a svegliarlo.
 
Disegnò il ponte con tocco leggero, più volte, tracciando i bordi delle narici lentamente e risalendo sul setto più veloce, punteggiando le lentiggini sbiadite che poteva vedere solo da così vicino e che sarebbero risorte con i primi raggi caldi della primavera. Poi passò alle sopracciglia folte, nere, che avevano un serio bisogno di un intervento di pinzette. Studiò i peletti randagi che sporcavano la linea, ponderando di catturarlo più tardi e di divertirsi a staccarli alla radice come un estetista particolarmente sadico.
 
Saltando sulla bocca, cominciò a tracciare la forma delle labbra superiori perché sì, era cotto, ma ancora non si sarebbe avvicinato alla bava gocciolante. Aveva standard.
 
Osamu fece una smorfia, arricciò il naso, aggrottò le sopracciglia e terminò quella dimostrazione di fastidio con un forte rumore di risucchio. “Che schifo.” Ebbe il coraggio di mugugnare, le parole che uscivano tutte impastate le une alle altre. “La saliva è fredda.”
 
“Complimenti, sei riuscito ad ammazzare tutto l’ammazzabile.” Ridacchiò Suna portandogli una ciocca di capelli all’indietro con due dita.
 
“Perché sei sveglio a quest’ora?” Continuò Osamu senza inflessione, la testa ancora affondata nel cuscino e le palpebre ostinatamente chiuse. Sentì la mano sulla sua schiena arricciarsi, accarezzando la pelle  pigramente.
 
“Sai che ore sono?”
 
“No, ma non è l’ora giusta.” Schiacciò il naso contro il materasso, la fronte che si bagnava leggermente con la bava raggruppata sulla federa. Sembrava non gli importasse o che ancora non lo avvertisse. “Me lo sento, non è l’ora giusta.”
 
“Hai lasciato le tapparelle aperte.” Lo accusò Suna, tirandogli una piccola ciocca senza cattiveria.
 
“Non è vero.” Osamu aprì l’unico occhio visibile di mezzo millimetro. “Non mi hai dato il tempo di fare niente quando sono arrivato.”
 
“Non scaricare la tua inadempienza su di me, è di cattivo gusto.” Sogghignò Suna toccandogli un segno particolarmente rosso sul collo. Aveva bordi violacei e segni di denti, doveva far male. “Sembra che ti abbia sbranato ieri sera.”
 
“Dovresti vederti tu.” Lo informò Osamu, le dita su un punto tra le scapole che punse decisamente un po’ troppo. “Ho esagerato ma cazzo se eri buono.”
 
“Sono sempre buono.”
 
“Ovviamente.” Accettò, prendendogli la mano e portandosela alle labbra. “Dobbiamo farci una doccia.” Mormorò baciandogli pigramente il palmo.
 
“Non voglio alzarmi.” Decretò Rintarou, adocchiando la posizione esatta della pozza di bava e cercando di girarci attorno senza staccarsi da Osamu.
 
“Voglio farmi una doccia, mi sento schifoso.”
 
“No, non lo fai. Ho deciso che rimarremmo così per giorni.”
 
“E da quando quello che decidi per te si ripercuote anche su di me?” Osamu si stava lentamente svegliando del tutto. Gli occhi socchiusi brillanti di malizia e il sorriso lento che avvertiva contro la sua mano erano un ottimo indizio.
 
“Da quando non lo fa?”
 
“Quanto è vero.” Accettò semplicemente, la bocca sul polpastrello centrale ad inumidirlo con il respiro. “Ma devo comunque andare in bagno.”
 
“Ho una bottiglia di plastica qua vicino.” Lo informò Suna girandosi sul fianco in una posizione più comoda e organizzando il piumone in modo da non far entrare il freddo. “Potremo sopravvivere per secoli solo stando a letto. Bear Grylls sarà fiero di noi.”
 
“Dirò a Komori di non farti più vedere programmi di sopravvivenza, non fanno bene alla tua vita domestica.”
“Motoya ha cercato di accendere il fuoco dal nulla usando il collutorio, non mi affiderei a lui.”
 
Sentì Samu dire “Sono circondato da idioti.” tra le risate e la prese come una vittoria personale.
 
Lo stomaco brontolò e Suna si lamentò ad alta voce. “Traditore.” Sibilò, guardando male l’addome piatto.
 
“Hai fame.” Disse Osamu scostando il piumone e alzandosi dal letto. Venne ripreso per le spalle e buttato di nuovo giù sul materasso. “Rin, hai fame. Ho fame. Fammi alzare.”
 
“No.” Suna si fece serio e gli salì sopra, il sedere sulle gambe. “Non te ne vai. Chiama da asporto.”
 
“Mi dovrò comunque alzare anche solo per aprire la porta.” Cercò di farlo ragionare, massaggiandogli le cosce fino ai fianchi. “Dai, andiamo a lavarci. Mangiamo qualcosa, cambiamo le lenzuola perché penso siano diventate un’arma batteriologica e facciamo un altro giro tra la biancheria fresca.”
 
Vedendolo corrucciato, risalì con le mani sullo stomaco, su quegli addominali d’acciaio, segnando i solchi lentamente con un polpastrello. “E poi ricominciamo da capo. Che ne dici?” Con tre dita seguì lentamente il sentiero scuro che portava all’inguine, raschiando con le unghie sempre più giù, sentendo Rintarou sospirare un po’ più forte e cominciare a muoversi leggermente per seguire il tocco. “È più bello prenderti col profumo di pulito.”
 
“Continua così e ti ribalto io.” Disse Rin serio, le iridi verdi che cominciavano ad essere divorate dal nero della pupilla.
 
“Anche.” Osamu ghignò, capendo di avere la situazione in pugno. “Ma solo dopo aver bruciato questa roba. Non voglio prendere la scabbia.”
 
Passò la mano sulla parte più interna della piega che univa la coscia al tronco, lì dove sapeva che era particolarmente sensibile, e avvertì l’interesse cominciare a crescere. Venne fermato da una morsa ferrea sul polso e da Rin che ringhiava. “Va bene, cazzone, hai vinto. Facciamo la fottuta doccia e poi voglio che cucini tutto quello che voglio.”
 
“Era così difficile?”
 
“Sì.” Sibilò a denti stretti, scendendo da lui con scatti nervosi e dirigendosi verso il bagno con passo deciso.
 
“Non ti porti dietro i vestiti?” Domandò Osamu alzandosi sui gomiti.
 
“Perché perdere tempo?” Rispose Suna senza voltarsi. “Allora? Vogliamo provare a vedere se stavolta riusciamo a entrarci?”
 
“No, ancora mi fa male il gomito dall’ultima volta. Comincio a preparare la colazione.” Lo vide fare spallucce e chiudere la porta.
 
Osamu, con un sospiro appassionato, si alzò, mise i boxer della sera prima e si avviò in cucina dopo essersi dato una rinfrescata veloce in bagno ed essersi lavati i denti, mentre il vapore dell’acqua bollente cominciava ad uscire fuori dal box doccia appannando lo specchio e inumidendo le piastrelle.
 
Con un’occhiata vide l’orologio e si rese conto che l’ora della colazione era passata da un pezzo. Non si poteva neanche parlare di pranzo, era tardissimo.
 
I piatti erano quasi pronti quando Rin si decise a raggiungerlo, rosa di calore, i capelli puliti e vaporosi e profumato di agrumi. Fortunatamente aveva messo un paio di pantaloni e una maglietta larga, ma molto probabilmente l’idea di indossare la biancheria non lo aveva nemmeno sfiorato. Non si sarebbe certo lamentato.
 
“Motoya mi ha chiesto di mandargli una foto di Fury.” Lo sentì lagnarsi mentre si avvicinava alla credenza. “Ci credi? Quella cazzo di pianta è viva grazie a me e dice che non si fida.”
 
“Chi diavolo chiama una pianta Fury?” Chiese Osamu ridendo.
 
“È una pianta carnivora.” Spiegò Rin con un sorriso storto, prendendo due bicchieri dal ripiano in alto. “Dice che gli sta bene come nome. È cazzuta.” Era d’accordo con lui. Per essere sopravvissuta nonostante le cure di Motoya doveva avere un’anima d’acciaio.
 
“Quando torna? Dobbiamo decisamente fare la spesa per quando saremo in tre.”
 
“No, ha detto che rimane dai suoi fino alla fine delle vacanze.” Per non disturbarli e lasciarli liberi di godersi quei giorni insieme. Suna non era stato d’accordo, non avrebbero certo avuto problemi se fosse rimasto, anzi. Ma Motoya era stato irremovibile.
 
Osamu fece una smorfia, spadellando con perizia. “Cazzo, mi sento in colpa. È casa anche sua, questa, l’ho praticamente sfrattato.”
 
“Beh, attaccati al telefono e litigaci tu. A me non ha voluto dare retta.” Prese dei tovaglioli dal cassetto alla destra di Osamu e, una volta messi a tavola, si avvicinò al suo ragazzo.
 
“Che prepari per colazione?” Gli domandò morbido cambiando argomento, il mento sulla spalla  e le braccia a circondargli i fianchi mentre lo guardava muovere le mani rapito. Gli era sempre piaciuto vederlo cucinare, vedere la sicurezza trasparire da ogni singolo gesto, i  movimenti puntuali e decisi.
 
“Pranzo.” Lo corresse, girando la testa e scoccandogli un bacio veloce sulla tempia. “La colazione era tipo sette ore fa.”
 
“Quindi non è neanche pranzo.”
 
“Diciamo di sì, è un pranzo in ritardo.”
 
“Allora dai, sapientino, cosa c’è per il nostro pranzo in ritardo?” Gli morse la spalla leggermente e lo sentì ridacchiare.
 
“Riso fritto, uova e qualcosa di non meglio identificato che ho trovato in frigo.” Gli spiegò, facendo saltare il riso nel wok con fare esperto. “Non è andato a male ma non so assolutamente a che specie appartenga.”
 
“Penso sia roba di Motoya.” Spiegò Suna valutando il contenitore contenente un ammasso violaceo dalla consistenza del mastice con un’occhiata veloce. “Sì, ha detto che erano patate viola. Devo dire che era buono.” Lo guardò rapito aggiungere in pentola pizzichi di spezie che non sapeva nemmeno possedesse, qualche fogliolina strana e immediatamente un profumo paradisiaco salì dai fornelli, inondando la cucina. “Mi piace cosa stai facendo.” Mugugnò senza staccare la bocca dalla spalla. “Ha un odore fantastico.”
 
“Ti piace tutto quello che ti faccio, non sei affidabile.” Ma Samu sorrideva orgoglioso e Suna non si sarebbe mai perso l’occasione di poter vedere quell’espressione compiaciuta sulla sua faccia. “Prendi i piatti e mettiti a tavola, ho finito.”
 
Dividendo il riso in due porzioni, mise al centro del tavolo le uova con i cipollotti soffritti e il piatto della purea violacea di Komori riscaldata nel microonde e ammorbidita con chissà quale stregoneria da cuoco, generosamente ricoperta da pepe e formaggio.
 
“Come hai fatto a far uscire queste cose dal frigo?” Gemette godurioso Suna dopo un morso enorme al suo riso. "È magia, questa. Non c’era roba del genere in casa.”
 
“Siete atleti. Dovete mangiare salutare, avete una cazzo di dieta, seguitela.” Lo rimproverò, alzandosi per prendere qualcosa dal frigorifero. “Ci sono limoni qua dentro?”
 
“Ti sembriamo tipi che comprano limoni?” La voce di Suna era piena zeppa di giudizio. “È per questo che c’è il cassetto con i depliant dell’asporto.” Lo informò, allungando le bacchette per rubare un pezzo di frittata mentre Samu non stava guardando. “Vuoi qualcosa che non sai fare? Chiami chi è più bravo di te.”
 
“La base della mia attività, praticamente.” Osamu mormorò pensoso, poi esclamò. “Oh, eccone uno! È pure fresco, quando lo avete preso?”
 
“Sei sicuro sia un limone?”
 
“Spero di sì, è giallo e profuma.” Rispose, schiacciandoselo al naso e annusandolo con gli occhi chiusi di piacere.
 
“Non significa niente e lo sai perfettamente.” Borbottò con la bocca piena.
 
Osamu lo lavò accuratamente, prese una cosa lunga da un cassetto che si rivelò una grattugia e si avvicinò al suo piatto. “Qua manca un pezzo di frittata.” Lo avvertì guardandolo male e cominciando a grattugiare la buccia del limone sul riso. Il profumo dell’agrume gli investì il naso e Suna gli mandò un bacio volante. “Non scherzarci, ho fatto del male ad Atsumu per molto meno.”
 
“Oh lo so. Ero presente.” Prese un ritaglio di uovo pieno di cipollotti e lo alzò per mostrarglielo con sguardo di sfida. “Vuoi questo o un pompino?”
 
“La frittata.” Rispose immediatamente Osamu senza nemmeno far finta di pensarci, guardandolo con un sopracciglio alzato. “Davvero, c’è ancora bisogno di chiederlo?”
 
“Nessuno sano di mente sceglierebbe il cibo al sesso.” Commentò Rin sbuffando contrariato, mettendogli l’uovo nel piatto. “Ingozzati, ti ho lasciato la parte migliore come interesse.”
 
“Accetto il pagamento.” Si allungò e sparse il limone anche sul suo piatto. “Così è un po’ meglio.” Borbottò pensoso. “Manca il piccante ma non avete un cavolo qua dentro.”
 
“Dovrei essere risentito, mi butteresti in un burrone per una ciotola di soba.”
 
“Per della soba no.” Lo consolò sedendosi finalmente a tavola. “Per un okonomiyaki con farcitura tripla ci penserei, sono sincero.”
 
“Mi sento amato.” Disse Rin in tono piatto, bevendo un bicchiere d’acqua e guardandolo riempirsi le guance.
 
“Se può consolarti entrerei in scivolata sul crociato di Tsumu senza alcun rimpianto.” Rivelò aprendo appena la bocca.
 
“Non lo fa.” Lo informò spietato. “Allora, dai, raccontami. Come va il ristorante?”
 
A quella domanda ci fu un momento di fermo. Come andava il ristorante? Osamu masticò accuratamente prendendosi il suo tempo, lo sguardo su di lui leggermente aggrottato e l’aria pensosa. “Bene.” Rispose semplicemente, il tono troppo leggero, affondando le bacchette nel riso. “Bene.”
 
Suna lo guardò confuso. “Bene? Solo bene?” Domandò, il bicchiere ancora in mano.
 
Osamu alzò le spalle. “Va.” Con un sospiro lasciò andare le bacchette e portò le mani sul tavolo, giocherellando con un tovagliolo. “Hai presente quando sembra che non stai andando da nessuna parte? Cioè, sei lì, ma sei statico, le giornate scorrono e non succede niente?”
 
“Assolutamente no, ho solo avuto una crisi di nervi in videochiamata a reti unificate scatenata da Ushiwaka che andava alle olimpiadi.” Strascicò Suna con un ghigno. “Non so per niente di cosa parli.”
 
Osamu lo guardò, le palpebre pesanti calate sugli occhi. “Mi sembra di non andare né avanti né indietro.” Spiegò, la bocca che si muoveva appena. “Il ristorante va bene, ma rimane così. Fermo.”
 
“Ti stai seriamente lamentando per questo?” Chiese retorico Suna. Vedeva Osamu un po’ tirato, restio. Improvvisamente serio. “Cosa c’è che non va con quello che hai adesso?”
 
Samu non rispose, stropicciando l’angolo del tovagliolo con dita nervose. “Non sei aperto da neanche un anno.” Gli ricordò Rin.
 
Osamu non sapeva cosa c’era che lo disturbava. Era consapevole che non stava avendo problemi, che le entrate erano soddisfacenti e a volte decisamente grandi, che stava andando bene, quindi non riusciva a spiegare quella sensazione smaniosa che saliva alla fine di una giornata di lavoro e che lo lasciava con uno strano senso di disagio nel petto, le mani che prudevano per qualcosa che non riusciva a definire. “È come … come se avessi bisogno di uno sblocco.” Inspirò leggermente, riprendendo le bacchette in mano e scavando nel riso. “Manca qualcosa.” O qualcuno, ma non lo avrebbe mai detto ad alta voce. Non al diretto interessato, almeno.
 
Sospirando, diede voce al suo altro pensiero. “Non lo so. La clientela sta rimanendo costante, forse troppo.”
 
Suna respirò un po’ più libero, il petto più leggero. Quello era qualcosa per cui poteva aiutare. “Fatti conoscere da altri, allora. Che ne so, trova un modo per far girare la voce.” Sbocconcellò un po’ di patate schiacciate e formaggio. “Fai dei volantini e di’ a Sakusa di spargerli per l’università. Può essere un inizio.”
 
“Dovrei trovarmi qualcuno specializzato in cose del genere, come cazzo si fanno dei volantini? E quanto costerebbe? Non so a chi rivolgermi.”
 
“Samu, sono sincero, ai soldi puoi pensare fino a un certo punto.” Lo bloccò, puntandogli le bacchette contro. “Se non spendi non guadagni. Non è tipo uno dei mantra dell’economia?”
 
“Si chiama investimento, amore.”
 
“Ecco.” Rin lo guardò con un mezzo sorriso. “Chiamalo come ti pare. Investi in qualcosa e ottieni altro. Se ti senti fermo fai partire il motore. Olia il sistema. Metti il carburante.”
 
“Non sai un cazzo di automobili, smettila di usare queste analogie.”
 
“Senti, prendi una risma di fogli, disegnaci un onigiri e scrivici qualche stronzata, non devi partire subito col turbo.” Mescolò il riso con aria leggera. “E poi c’è sempre internet.” Rivelò, alzando le spalle.
 
“Come se fossi capace di costruire un sito.”
 
Rintarou stavolta lo guardò come guardava di solito Atsumu quando dava aria alla bocca. Non era una bella sensazione essere dalla parte sbagliata di quell’espressione. “Samu, cazzo, esiste Facebook. Twitter. Instagram.”
 
Prese un altro po’ di purea e lo mischiò con il riso, evitando di guardare la smorfia schifata di Osamu sul suo esperimento. “So che non usi i social più di tanto, ma vedi di svegliarti. Puoi iniziare gratuitamente così e poi, magari più in là, pagare sponsor per farti pubblicità, contattare esperti di marketing. E se sei bravo sarai tu ad essere pagato dalla gente per far loro pubblicità, il mondo gira così.” Si mise una generosa quantità di riso e patate in bocca e cominciò a masticare con aria concentrata. “Non è per niente male.” Mugugnò a bocca piena, guardando il piatto stupito.
 
“Ok, quindi che dovrei fare?” Osamu aggiustò la presa sulle bacchette e allungò il braccio. “Fammi assaggiare.”
 
“Neanche per il cazzo, hai preteso la frittata e schifato un pompino dal sottoscritto.”
 
“Quello l’avrei avuto comunque, fammi assaggiare.” Più veloce, rubò un po’ di grumo pastoso schivando lo schiaffo di Rin sulla sua mano e se lo ficcò in bocca. “È riso cementato.” Commentò, sentendoselo vagare in bocca come una pallina di plastilina.
 
“Buono, però.”
 
“Hai unito due cose buone, ma la consistenza fa schifo. È come mangiare una pappa con roba dentro che non dovrebbe esserci.”
 
“Il tuo limone rende tutto più scintillante sulla lingua.”
 
“Non so che significa quello che hai detto, neanche si sente il limone.” Mugugnò, ingoiando e lavandosi il palato con un sorso d’acqua. “Dai, dimmi oh grande esperto. Che dovrei fare, che ne so, se decidessi per facebook?”
 
“Tu non decidi proprio niente, te li fai tutti e tre contemporaneamente.” Osamu sbuffò. “Senti, non dico Sakusa che ha la faccia e l’atteggiamento di quelli che sono stati costretti a iscriversi, non pubblicano niente e ti giudicano in silenzio, ma Inoue-san è attivo sui social, fa anche belle foto. Parlane con lui, no?”
 
Inoue Yoshiaki, aveva scoperto nel modo più duro, era un altro problema.
 
O, meglio, Atsumu era il vero problema. Il povero Inoue-san era la vittima sacrificale dei malumori di suo fratello, il suo punching-ball emotivo, la sua valvola di sfogo. Aveva dovuto più volte prendere la scopa e minacciare Atsumu di infilargliela in posti discutibili, pur di far lasciare in pace la nuova aggiunta.
 
E tutto perché gli mancava Sakusa.
 
Ora, seriamente, Sakusa aveva bisogno di un periodo di ferie. Era decisamente stressato e non si era mai preso un giorno. Studiava, si allenava e lavorava senza fiatare, non aveva voluto vacanze estive, non aveva mai chiesto finesettimana, si era trasferito da un’altra città per studio, la cosa più umana da fare era costringerlo a riposarsi nel momento in cui le lezioni erano terminate e gli allenamenti gli avevano dato finalmente una pausa.
 
Osamu aveva comunque bisogno di qualcuno in più nel ristorante: la clientela era costante, sì, ma dagli inizi era aumentata parecchio e finalmente aveva il margine per assunzioni, quindi era stato un salto logico prendere qualcuno in più. Considerando poi che, da come andavano le partite e secondo le sviolinate di  Atsumu, Sakusa se lo sarebbero litigato parecchie squadre una volta laureato: era stato ovvio da subito che sarebbe rimasto solo di passaggio.
 
Atsumu, comunque, aveva rotto le palle ininterrottamente fino a che non aveva chiuso il negozio per i giorni di vacanza programmati per Capodanno e Sakusa non si era degnato di mandargli un messaggio.
 
Si era preso il suo dolce tempo, il bastardo. La mattina della sua partenza per Tokyo se lo era ritrovato al ristorante in un orario in cui era sicuro che Tsumu non si sarebbe fatto vedere, chiedendogli il numero di suo fratello con un atteggiamento vergognoso e reticente neanche si trattasse di uno scambio di porno.
 
Imprecò mentalmente a quel pensiero. Dio, non voleva averci niente a che fare, davvero.
 
“Siamo amici su facebook, lo seguo un po’ ovunque.” Continuò a spiegargli Rin sentendolo troppo zitto.
 
Osamu, assorbendo quell’informazione, batté gli occhi più volte. “E perché?” Gli domandò confuso. Non gli era sembrato che Rin fosse tanto interessato.
 
Rintarou lo guardò fisso in un silenzio scomodo per alcuni secondi, poi socchiuse le palpebre, aggrottò le sopracciglia e si mise in bocca un’altra porzione enorme di riso impastato.
 
“Rin, perché?”
 
Osamu lo vide continuare a masticare quel boccone da brontosauro versandosi nel frattempo l’acqua nel bicchiere. Il collo segnato si colorò di una sfumatura che aveva visto solo in situazioni particolari e gli si accese la lampadina nel cervello. “Oh mio Dio, sei geloso?”
 
Suna ingoiò con forza e sbuffò nel suo solito atteggiamento altezzoso. “Non dire stronzate.” Mugugnò bevendo qualche sorso. “Avrebbe potuto essere un serial killer.”
 
“Rin, Sakusa avrebbe potuto essere un serial killer con quella faccia.” Osamu sentiva il sorriso allargarsi e vedeva la faccia di Rin ombreggiarsi sempre di più. “E uno anche piuttosto bravo, non troveresti traccia di lui da nessuna parte.”
 
“Sono sempre le acque chete a fregarti.”
 
“È la cosa più divertente che abbia mai sentito!” Samu scoppiò a ridere, facendo incazzare leggermente il suo ragazzo. “Ha il terrore di Tsumu!”
 
“Grazie al cazzo, non lo conoscessi anch’io avrei il terrore di un tizio con la sindrome d’abbandono che non mi lascia lavorare in pace.”
 
“Ha avuto paura di Sakusa, che non è stato altro che gentile con lui il giorno del colloquio!”
 
“Avrebbe potuto essere una recita.” Senza contare che la gentilezza di Sakusa era troppo simile a lui che fissava la gente con quei pozzi scuri senza fondo e rimaneva immobile giudicando in silenzio, mascherina sulla faccia e guanti alle mani.  Decisamente non l’atteggiamento con cui chiunque sano di mente potrebbe rimanere a proprio agio.
 
“Va bene, va bene, non sei geloso.” Finì di ridacchiare Osamu, assaggiando la purea di Komori. “A che conclusione sei arrivato, quindi? Devo preoccuparmi?”
 
“Vai a quel paese.” Borbottò guardandolo male. “Comunque sei salvo.” Ed è etero, ma questo non lo disse. “Dico davvero, prendi lui e Sakusa, fate una di quelle riunioni super segrete che vi piacciono tanto e non piagnucolare via cam.”
 
“Quanto ti piace fare il prepotente?”
 
“Tanto.” Rin prese i piatti vuoti e li portò al lavandino. “Dai masterchef, laviamo questa roba e rifacciamo il letto, è ora di scopare.”
 
“Fallo tu, io devo ancora fare la doccia.” Lo bloccò, mettendosi l’ultimo pezzo di frittata in bocca. “Quando esco fatti trovare pronto, voglio vedere quanto ci mettiamo a rendere la camera zona tossica.”
 
 
*
 
 
“Quindi, mi stai dicendo che vuoi lavorare il 14 ma non il 15?”
 
Osamu non riusciva proprio a capirlo.
 
Inoue-san, accanto a lui, aveva messo su una faccia confusa ma non aveva proferito parola, stringendo forte le labbra tanto da renderle bianche. Forse aveva ancora paura di Sakusa, forse no considerando che erano stati fatti passi avanti pazzeschi tra i due, fatto sta che era il più furbo di tutti e aveva scelto, con un’intelligenza impressionante, di mantenere per sé quello che stava pensando. E non doveva essere qualcosa da poter essere liberamente esternato in presenza di persone perbene, a giudicare dall’espressione aggrottata. Sfortunatamente, ci stava mettendo così tanto impegno che sembrava a pochi secondi dallo scoppiare.
 
Come il capo magnanimo che era, Osamu si fece coraggiosamente carico dell’onere di cercare di comprendere il suo dipendente più ostico. “Perché cazzo questa cosa?” Domandò, forse più aggressivo di quanto avesse preventivato. Ma la seconda settimana di febbraio si stava rivelando il suo inferno personale privato, quindi non avrebbe nemmeno chiesto scusa.
 
Fortunatamente, Sakusa era una di quelle persone a cui quegli atteggiamenti isterici rimbalzavano addosso, quindi lo guardò altezzoso e sbuffò da sotto la mascherina. “San Valentino è meno opprimente.”
 
Dove? Dove esattamente il 14 febbraio non era opprimente?
 
Osamu avrebbe speso un sacco di tempo ed energie per decorare l’intero negozio con roba rosa a forma di cuore, con sagome discutibili di bambini nudi con ali, archi e frecce e con odiosi glitter rossi e bianchi ovunque non ci fosse il pericolo che cadessero nel cibo, praticamente firmando ad occhi chiusi per la presenza costante di brillantini in posti inspiegabili per settimane. Avrebbe inserito nel menù gli speciali onigiri con confettura di ciliegie, confettura di fragole e cioccolato, disponibili solo per l’occasione e decisamente non replicabili, non importava quante volte gli sarebbe stato chiesto di fare un’eccezione. Si sarebbe messo a regalare rose di origami a qualsiasi essere femminile avesse varcato la dannata porta del suo ristorante, sperando di non ricevere pugni in faccia da accompagnatori troppo protettivi e con poca elasticità mentale.
 
Capitava di domenica, per Dio, gli sarebbe presa un’orticaria sicura a fine giornata e lui aveva il coraggio di dire che San Valentino non era opprimente?
 
“Le persone sono concentrate su sé stesse, sulla loro relazione. Sarà una giornata tranquilla, tutto sommato.” Spiegò Sakusa pulendo un tavolo con concentrazione, la mascherina sulla bocca copriva le labbra in movimento. “Il 15 è il giorno degli sfigati.”
 
“Sakusa-kun, scusami, forse intendevi il giorno dei single.” Intervenne timidamente Inoue-san. Sakusa annuì sicuro, guardandolo con approvazione. “Esatto.” Accettò, evidentemente soddisfatto di essere stato capito.
 
Notizia flash: nessuno aveva capito niente.
 
“No, aspetta. Spiegami in quale angolo contorto della tua mente single e sfigati sono uguali.” Lo accusò Osamu, cercando (e non riuscendo) di trovare il filo logico dietro quel ragionamento decisamente campato in aria.
 
Sakusa sospirò infastidito. “Non ho mai detto questo. Ma il 15 sarà pieno di single che entreranno con la convinzione di far festa grande e si ritroveranno a piangere ai tavolini o, peggio, al bancone, annacquando la loro di birra perché secondo loro nessuno li vuole.” Gli spiegò con convinzione. “O donne a loro dire intraprendenti che scambieranno quel giorno per un’occasione per avere la libertà di allungare le mani, pensando che nessuno le denuncerà solo perché avranno bevuto un bicchiere di troppo e sono clienti paganti.” Batté le palpebre, pensoso. “O uomini.” Aggiunse alzando le spalle.
 
Poi li fissò negli occhi, serio come la morte. “Non succederà.” Affermò, una convinzione nella voce che prometteva esattamente quello che stava dicendo. “Verranno denunciati sicuramente.”
 
“Cosa diavolo ti è successo?” Osamu era sinceramente sconvolto.
 
“I café di Tokyo non sono luoghi tranquilli come si può pensare.” Rivelò ombreggiandosi leggermente.
 
Arrivando alla rapida conclusione di non voler saper nulla delle disavventure travagliate di Sakusa, ritornò al nocciolo della questione. “Guarda, mi stai dando solo motivi in più per costringerti a lavorare il 15.” Decretò, aggiustandosi la visiera del cappello e incrociando le braccia. “Io ci sarò. Inoue-san ci sarà. Tu non mancherai di certo.”  
 
“Avrò la febbre quel giorno.” Se ne uscì Sakusa con tono leggero. “Mi sento già tappato.” E mimò l’atto di soffiarsi il naso, muovendo la mano con leggerezza fino a riportarla allo straccio sul tavolino che stava lucidando.
 
“Sei uno stronzo.”
 
“Non ti sento, Osamu-san. Le orecchie fischiano.”
 
“Tu ci sarai.” Ringhiò minaccioso. “Dovessi trascinare il culo di Atsumu per proteggerti le grazie.” E non ci sarebbe voluto neanche troppo impegno per convincerlo.
 
Sembrò pensarlo anche Sakusa, che inspirò profondamente come ad invocare una pazienza che non aveva mai avuto, la testa cadente affondata tra le spalle e la punta delle orecchie che cominciava a colorarsi di un tenue rosa.
 
Paradossalmente, a sbiancare leggermente fu Inoue-san. “Ti prego, Osamu-san, Atsumu no.” Ed era decisamente divertente come Osamu potesse vantare dell’uso dell’onorifico mentre, nella mente di Inoue-san, il nome di Atsumu era alla stregua di quello del cane randagio che faceva regolarmente pipì sul vaso destro fuori dal ristorante. Un cane molto alto, molto grosso e molto molesto, ma pur sempre un cane.
 
Per la cronaca, Sakusa aveva nominato il cane (quello vero, non Tsumu) dopo Motoya e stava studiando metodi per convincerlo ad orinare altrove. Diceva che la testardaggine e l’idiozia era pari a quella di suo cugino, ma Toya il cucciolo era decisamente più carino. Osamu aveva avuto ampiamente da ridire su quell’uscita, vista la dentizione del canide che sembrava non riuscire a rimanere all’interno della sua bocca, ma a quanto pareva Sakusa era uno di quei tipi per cui i cani erano meglio delle persone quindi non era riuscito a vincere alcuna discussione su quel frangente.
 
“Inoue-san, Sakusa è tornato.” Cercò di farlo ragionare Osamu. “Atsumu non ti infastidirà, né ora né mai.” Avrebbe ucciso suo fratello per aver messo il sacro terrore nel suo dipendente più sano di mente. 
 
“Sono mancato una sola settimana di lavoro, cosa ha combinato quell’idiota?”
 
Inoue-san era a metà imbarazzato e metà terrorizzato. Osamu guardò male Sakusa, anche se alla fin fine non poteva certo incolparlo di esistere. “Da quando Sakusa si è tagliato i capelli non ti guarda nemmeno più.” Cercò di incoraggiarlo con una pacca sulla spalla.
 
Quando erano tornati tutti, a gennaio, Sakusa si presentò al lavoro con i capelli decisamente addomesticati. E stava davvero una favola, ricevette tantissimi complimenti, anche se lui borbottava di essere stato messo alle strette e portato dal barbiere da sua sorella con l’inganno.
 
L’unico a non parlarne fu Atsumu che, quando entrò nel ristorante e lo vide, si fermò di scatto come paralizzato. Il collo assunse velocemente una sfumatura rossa da competizione, gli occhi gli si fecero grandi e vitrei e, con il pensiero più veloce che Osamu avesse mai visto attraversargli la mente, girò su sé stesso e scappò via, una mano stretta sul petto ed in faccia l’espressione di uno ad un passo dall’infarto fulminante.
 
Fu un episodio molto divertente per Osamu. Inoue-san guardò la scena con un punto interrogativo stampato in faccia. Sakusa non si accorse nemmeno della presenza fugace di suo fratello.
 
Ci vollero ventisette ore lavorative per Atsumu per trovare il coraggio di entrare nel locale e comportarsi come niente fosse. Le foto che Osamu fece a Sakusa a tradimento su sua richiesta (una artistica, con la luce che lo colpiva in tutta la sua eterea e affilata bellezza, i due nei in fronte in bella mostra e i ricci sistemati lateralmente. Un’altra, decisamente più realistica, di quando se ne accorse e lo minacciò di spaccargli il cellulare al muro.) gli erano state utili per sistemarsi le coronarie e costruirsi una resistenza alla vista che Osamu non comprendeva pienamente, ma in fin dei conti aveva deciso tempo prima che non avrebbe cercato di capire quel rapporto per niente al mondo, quindi andava bene così.
 
“Smettila di prendermi in giro.” Bofonchiò Sakusa evitando di guardarli, quindi decisamente imbarazzato.
 
“Fidati, vorrei fosse uno scherzo.” Gli assicurò Osamu con tono stanco.
 
“Da quanto tu e Atsumu state insieme, Sakusa-kun?” Chiese candidamente Inoue-san, la bocca stirata in un sorriso tenero e un genuino interesse nello sguardo.
 
Se Osamu si girò a guardarlo con le stelle negli occhi e una risata di pancia appena trattenuta, Sakusa si raddrizzò dal tavolino, la schiena rigida e le orecchie decisamente rosse. Si voltò lentamente, la mascherina a coprire le labbra talmente strette che sembrava volesse fonderle tra loro e gli occhi che promettevano l’inferno. “Cosa?” Sibilò con voce bassa.
 
E stavolta, secondo il dizionario vocale di Sakusa, era un ‘cosa’ da ‘ti do meno di 3 secondi per ritrattare o ti succederà qualcosa di terribile e non riusciranno mai a risalire a me’. Osamu non voleva davvero sapere tutti quei lati della (poca) espressività di Sakusa, ma era decisamente fiero di riuscire a tradurlo nonostante tutto. Avrebbe potuto essere utile nel lungo periodo.
 
Inoue-san, però, non era ancora a conoscenza delle mille sfumature di quel ‘cosa’. “Tu e Atsumu.” Continuò imperterrito, prendendo una spugna e pulendo il lavello con passate veloci. “Siete veramente tanto affiatati, da quanto va avanti?”
 
Ad Osamu uscì una risata simile a una pernacchia dalle labbra sigillate. Lo sguardo omicida di Sakusa passò da Inoue-san a lui con una lentezza inquietante, sfidandolo a fare un fiato. La mascherina rendeva tutto più spaventoso. Inoue-san, a quell’atteggiamento così strano, cominciò a capire che forse c’era qualcosa che non riusciva ad afferrare. “Ho detto qualcosa di sbagliato?” Domandò con tono dubbioso, aggrottando le sopracciglia dispiaciuto.
 
“Io e Miya non stiamo insieme.” Sputò Sakusa con tutto il veleno di cui era capace. Ed era praticamente una sentenza. Senza aggiungere altro, ridiede loro le spalle e si avventò su un altro tavolino, passando lo straccio con violenza tale da dare l’impressione che volesse scartavetrare il fissante industriale dal piano.
 
Inoue-san rimase per qualche secondo con la bocca aperta a formare una piccola ‘o’. “Davvero?” Pigolò, cercando con gli occhi l’aiuto di Osamu.
 
Osamu, lo stronzo, mimò con il labiale “lo vogliono tutti e due” facendo un movimento osceno con le mani  per imprimere meglio il concetto e terminando quella dimostrazione di puro galateo con il gesto universalmente noto del ‘te lo dico dopo’. 
 
“OH!” Esclamò Inoue-san. Poi, notando la schiena irrigidita di Sakusa. “Oh, scusa Sakusa-kun, errore mio. Sicuramente ho visto male.”
 
“Non preoccuparti Inoue-san, succede spesso.” Scherzò Osamu, prendendosi dietro più maledizioni. Vide il muscolo della mascella di Sakusa guizzare e sentì i denti scricchiolare da lì. “Sakusa-kun, attento o avrai bisogno di un dentista.” Canticchiò in maniera odiosa.
 
Con un’espressione scura, Sakusa non rivolse loro la parola per il resto della serata.
 
Tuttavia, quando il 15 febbraio arrivò impietoso, Sakusa non si aspettava tutta una serie di manovre che gli affollarono il cervello di pensieri molesti, così veloci e aggressivi da fargli girare la testa. E cominciare a porsi delle domande che, sfortunatamente, aveva visto arrivare tempo prima.
 
Aveva appena terminato una allenamento assassino in cui aveva passato la quasi totalità del tempo a cercare di perfezionare la sua battuta (quella che non faceva dormire tranquilli taaaanti giocatori della V1 per via dei polsi sfuggenti e la rotazione malvagia. Ne andava particolarmente fiero.), si fece una doccia bollente e si coprì quanto poteva per non prendere freddo. Dopodiché uscì dalla palestra per ritrovare Atsumu sulla panchina al di fuori del complesso, il collo piegato a guardare in alto il cielo sfumato di scuro punteggiato leggermente delle prime stelle della sera, il viso completamente rapito.
 
Era tranquillo, in pace. Sicuramente era stanco quanto e, poteva tranquillamente ammetterlo, più di lui, lo notò dalle spalle lievemente irrigidite e gli arti sciolti, le braccia abbandonate tra le gambe aperte e allungate davanti a lui. Il giaccone non era totalmente chiuso e la sciarpa era allentata a lasciare scoperto il punto centrale della gola. Aveva un cappello con visiera Onigiri Miya in testa e sperò non lo avesse indossato per passare inosservato perché non era propriamente efficace: ormai era decisamente famoso, i fan lo avrebbero riconosciuto anche con un sacchetto di carta in faccia. Era una fortuna che gli allenamenti terminassero tardi ed il flusso di studenti fosse scemato ore prima.
 
“Che ci fai qui?” Gli domandò, la voce attutita dalla sciarpa che era avvolta talmente tante volte attorno alla testa da fasciarlo quasi completamente.
 
Atsumu si girò di scatto, sorpreso. “Omi?” Esalò dubbioso. Le sopracciglia aggrottate di Sakusa e lo sguardo giudicante gli diedero conferma. “Che cazzo, è buio e non ti si vede la faccia, non guardarmi male.”
 
“Dovresti coprirti anche tu.” Borbottò, sistemandosi il borsone sulla spalla e avvicinandosi a lui. Poteva sentire nitido l’odore fresco del suo shampoo, segno che doveva essere partito appena finito con i Jackals.
 
Atsumu si spostò per fargli spazio ma lui scelse di non sedersi. “Ti prenderai un raffreddore così.” Lo rimproverò, adocchiando la gola scoperta.
 
“Aw, sapevo che ci tenevi.”
 
“Che ci fai qui?” Chiese di nuovo, stavolta forse un po’ più brusco di quanto intendesse.
 
Atsumu gli fece segno di sedersi, più insistente, e Sakusa stavolta lo accontentò, appoggiandosi allo schienale della panchina con una postura decisamente illegale. “Samu mi ha detto di venirti a prendere.” Gli rivelò leggero, continuando ad ammirare il cielo.
 
Sakusa storse il naso. “E da quando fai quello che ti dice tuo fratello?”
 
Atsumu piegò la testa per guardarlo. Anche al buio poteva vedere la sfumatura miele nei suoi occhi, un cerchio dorato tutto intorno alla pupilla che si diramava in quel bruno bruciato così simile a quello di Osamu ma così diverso insieme, più caldo. Avevano una scintilla di malizia e il tutto era troppo accattivante per il suo bene. “C’è ben poco che non farei pur di vederti.” Gli rivelò con un sogghigno appassionato.
 
Sakusa sentì il sangue correre a concentrarsi sulle guance così velocemente che ringraziò Dio di essersi bardato in quel modo. Sentiva la faccia bollente e quella situazione non aveva niente a che vedere con la doccia ustionante di poco prima. “Smettila.” Sibilò quindi, buttando il borsone a terra e sistemandosi meglio sulla panchina. “Non mi ha dato il giorno libero, mi sarei dovuto presentare comunque.”
 
“Non penso fosse preoccupato per quello.” Atsumu cominciò a controllarsi la punta delle dita, strofinandole tra loro con una smorfia. “Devo cominciare a passarci la crema idratante.” Bofonchiò, stuzzicandosi l’indice con l’unghia.
 
Sakusa si chinò a prendere dalla tasca laterale del borsone un piccolo vasetto e glielo passò. “Tienilo. Ne ho una decina.”
 
“Wow, Omi, è il primo regalo che mi fai.” Lo prese in giro girandoselo tra le mani. Aprendolo, un lieve odore fresco e fruttato uscì fuori arrivandogli alle narici. “Ed è pure usato.”
 
“Se non lo vuoi ridammelo.”
 
“No, lo tengo.” Prese una punta di crema e la passò sulle dita, massaggiando in piccoli cerchi per farla assorbire. Richiuse il barattolino e se lo mise in tasca. “Quando lo finirò, lo metterò su un piedistallo con tutti faretti intorno e una targa ‘REGALO DI OMI-KUN’. Farà crepare di invidia chiunque.”
 
“Idiota.” Borbottò Sakusa, la voce priva di convinzione e le palpebre calanti dalla stanchezza. “Dovrei cominciare ad andare se voglio arrivare in tempo con il treno.” Mormorò, ma non si mosse. Stava bene là, con il fresco di febbraio che lo circondava e il calore naturale di Atsumu di fianco a riscaldarlo.
 
“Omi, per chi mi hai preso?” Atsumu tirò fuori le chiavi della sua auto, dondolandogliele davanti il naso. “Ti porto in carrozza, signorina.” Sakusa lo guardò confuso, aggrottando le sopracciglia. “Andata e ritorno. Oggi sono il tuo autista designato, baby.”
 
“Sei venuto in macchina?”
 
“Credevi avessi preso il treno?” Atsumu  lo derise leggermente. Da quando aveva comprato quella scatoletta di metallo che amava neanche fosse una figlia l’avrebbe presa anche per andare in bagno, se solo non fosse fisicamente e civicamente impossibile. Forse anche legalmente impossibile.
 
“Non salgo in auto con te.”
 
“Oh, lo farai. E ti piacerà.” La sensazione che l’argomento in questione non fosse completamente il veicolo investì Sakusa come acqua gelata, lo stomaco che si agitava leggermente e non voleva assolutamente capirne il motivo. Lo guardò alzarsi con un’espressione compiaciuta e cominciare ad avviarsi lungo una stradina panoramica affiancata dai lampioni che sapeva portava ai parcheggi pubblici. “Allora?” Lo esortò. “Muovi il culo, Samu è isterico da giorni, non lo farei incazzare più di quanto non abbia già fatto io stamattina.”
 
Oh, lo sapeva. Il giorno prima, alla fine della serata, aveva allegramente dato fuoco alle rose di origami avanzate con un’espressione maniacale che lo aveva fatto dubitare della sua sanità mentale. Inoue-san si era avvicinato a lui in cerca di conforto e, per una volta, non se l’era sentita di toglierglielo.
 
Alzandosi con molta calma, stirò le braccia in alto e sentì la schiena e le spalle scrocchiare leggermente. Dopodiché cominciò a seguirlo. “Alla prima curva strana mi impegnerò a vomitarti sul cruscotto.” Lo informò morbido, la voce ancora soffocata dalla sciarpa.
 
Atsumu lo sentì comunque. “Soffri la macchina?” Chiese preoccupato, girandosi per guardarlo.
 
No, decisamente no. Era così a suo agio nelle auto in movimento che avrebbe potuto leggere un’intera enciclopedia ad alta voce senza avvertire una singola sensazione di disagio. Non doveva, però, essere per forza di dominio pubblico. Vedendo l’espressione apprensiva sulla faccia di Atsumu, tuttavia, decise che forse era meglio non puntare i piedi più di tanto. “È un incentivo a comportarti bene.” Lo rassicurò, il borsone che gli scivolava dalla spalla spinto indietro con un pollice.
 
Atsumu lo studiò con sguardo concentrato su quel poco che poteva vedersi della sua faccia. Poi sorrise, evidentemente soddisfatto di ciò che aveva potuto leggere. Continuando a camminare all’indietro tenendo le mani in tasca, con un ghigno disse “Omi, ti giuro, se provi a fare qualcosa al mio tesoro neanche quegli occhi da Bambi ti salveranno da un pugno in faccia.”
 
“Devi prima prendermi.” Lo prese in giro, il sorriso ben nascosto dalla sciarpa. “Non ti reggi in piedi.”
 
“Non sottovalutare la mia resistenza spaziale.” Lo informò, muovendo le sopracciglia con aria lasciva che gli fece sfuggire, suo malgrado, un basso risolino di gola. “O la mia ostinazione. Ti seguirò fino in capo al mondo.”
 
A quello, Sakusa si fece improvvisamente serio. No, non stava parlando dell’auto, si accorse con una punta di panico. Perché non stava parlando dell’auto?
 
Continuò ad andare arrivando ad affiancarlo, gli occhi dritti davanti a sé. Anche Atsumu si era fatto serio, camminando con sguardo basso ma concentrato. Poteva vederlo mordersi l’interno della guancia, muovendo la parte carnosa tra i denti ritmicamente, i pensieri che gli attraversavano la mente talmente forti da avere la sensazione che avrebbe anche potuto percepirli se solo si fosse concentrato un po’.
 
Ad un certo punto però, come se fosse arrivato ad una conclusione, Atsumu alzò la testa e la faccia si distese, rischiarandosi da una cupezza che non aveva notato precedentemente. Prese il cellulare e mandò velocemente un messaggio, forse per avvisare Osamu che stavano arrivando, poi gli diede una gomitata leggera con un sorriso storto e lo portò alla macchina grigia lucida che sostava da sola in un lato del parcheggio.
 
“Prego!” Lo prese in giro, aprendogli lo sportello con un ghigno imitando un cavaliere d’altri tempi.
 
“Ho le mani.”
 
“Strane mani, lo so. Fammi fare il gentleman, Dio solo sa che hai bisogno di una dose di zucchero in quel sistema velenoso che ti manda avanti.”
 
“Mi piace il mio sistema velenoso.” Mormorò, sedendosi e sistemandosi il borsone tra le gambe. Lo vide afferrarlo e rubarglielo. “Hey.”
 
“Hey un cazzo, c’è un portabagagli, usalo.” Brontolò Atsumu aprendo il cofano posteriore.
 
“Poteva stare qua, non ti avrebbe dato fastidio.”
 
“Omi, fammi un favore e statti zitto.” Entrò in auto, controllando gli specchietti con cura maniacale. “Cintura.” Ordinò, mettendosela velocemente e accendendo il motore, la musica dalla radio che cominciava ad uscire automaticamente.
 
Sakusa roteò gli occhi, afferrando la cintura con uno sbuffo. “Vuoi dirmi anche come respirare?”
 
“Se vuoi.” Ghignò Atsumu andando di retromarcia. “Ma guardati, tutto docile a farti portare in giro. Sembra quasi un appuntamento.”
 
“Non è un appuntamento.”
 
Per ora, pensò Atsumu, il sorriso da volpe che si allargava di più.
 
 
*
 
 
“Allora, Tomo-chan, ho bisogno di un aiuto. Stavolta non ti sto mettendo alla prova come l’ultima, giuro, è un codice giallino, neanche un colore serio, ma mi serve aiuto. Forse due. No, sicuro due. Ma due aiuti così, immediati, veloci, davvero non puoi capire quanto, ci metterai sì e no cinque secondi. Ok, ok, ti lascio. A dopo.”
 
Atsumu terminò la chiamata lasciando il terzo vocale in due minuti. Sapeva che Tomoko stava arrivando, glielo aveva fatto sapere quattro minuti prima con aria arrabbiata intimandolo di lasciarla in pace. Quindi non era che la sua PR lo stesse ignorando, molto probabilmente stava tentando di parcheggiare e davvero, non doveva romperle l’anima così, considerando la sua abilità alla guida.
 
Pensandoci chiaramente, forse non era una buona scelta lasciare dei messaggi del genere: Tomoko non era in grado di parcheggiare senza fare danni, si sarebbe fatta prendere dal panico e avrebbe incastrato l’auto in un posto per bici o tirato il freno a mano sopra una Smart o sfanculato direttamente una Smart chissà dove e, sinceramente, era terrorizzato. Era salito in macchina con lei solo una volta ed aveva giurato che non lo avrebbe più fatto, nemmeno se avesse avuto le gambe spezzate, un’orda di zombi che lo circondavano e lei fosse stata l’ultima pilota sulla faccia della terra.
 
Gli zombi avrebbero fatto meno male.
 
Quindi, riprese il cellulare e schiacciò di nuovo il tasto del vocale. “Tomo-chan, senti, vieni tranquilla, non è così importante, non ucciderti, capito? E non uccidere gli altri, ricorda, è un codice giallino, neanche un colore vero, sì lo so, te l’ho già detto, ma stai calma. E non avvicinarti alla macchina grigia con gli adesivi di un onigiri e un pallone da pallavolo, ok? Quando la vedi vai dritta, ci sarà sicuramente posto altrove. Ok, ora smetto, stanno bussando. Ciao.”
 
Soddisfatto di aver assicurato un giorno di vita in più al suo terzo amore, si alzò per andare ad aprire la porta del suo appartamento. Si ritrovò davanti Tomoko incazzata come una biscia, la borsa gigante scivolata dalla spalla che sembrava potesse spezzarle il gomito in ogni momento, i capelli che sfuggivano dall’elastico e il cellulare in mano, poco lontano dall’orecchio, che riproduceva a volume massimo l’ultimo vocale che le aveva inviato. Rimasero a fissarsi così, morti negli occhi, finché la sua voce non si spense.
 
“Te la rigo quella macchina.” Sibilò Tomoko a mo’ di saluto, assottigliando lo sguardo con aria minacciosa.
 
“Tomo-chan!” Cinguettò Atsumu, facendola finalmente entrare. “Tutto bene? Dove hai parcheggiato?”
 
Tomoko lo ignorò. Con espressione dura buttò la borsa a terra con un tonfo preoccupante, gli mollò il cappotto e indossò le pantofole degli ospiti che Atsumu aveva preparato precedentemente in uno sprazzo isolato di senso di ospitalità. In tutto ciò, gli ringhiò “Vengo dall’altra parte della città, se non è una cosa seria diffondo la voce che hai l’herpes genitale.” senza degnarsi di rispondere alla sua domanda.
 
“Tomo-chan, sei un po’ fissata con i miei genitali.” Atsumu, intanto, si avvicinava alla finestra per vedere lo stato della sua auto. “Parlo con te e vai subito a finire lì.”
 
“Sarà la tua faccia a farmi fare collegamenti strani.”
 
Atsumu si ringalluzzì. “Mai visto niente di così sexy, vero?”
 
“È modo originale di metterla.” Finì lei, assottigliando gli occhi. “Allora? Che è successo? Voglio un tè caldo, molto caldo, talmente caldo che mi si dovrà squagliare il palato.”
 
Atsumu aprì la dispensa mentre lei si sedeva al tavolo, vedendola un po’ sotto stress. “Guarda, ho un Earl Grey e non so neanche perché, ti va bene?”
 
“Pensavo bevessi roba più tradizionale.”
 
“Il tè nero è tradizionale.” Si difese Atsumu. “E mi sa che è roba di Samu, questa, quindi non giudicare me.”
 
“Almeno hai dei mochi?” Chiese Tomoko, piegando il collo in un angolo strano e sentendolo scrocchiare in maniera appagante. “Vorrei dei mochi così tanto che penso di essermeli sognati stanotte.”
 
“Mi hai preso per un konbini?” Mise sul fornello un pentolino e prese da una tortiera un vassoio. “Tieni, ho questo.” E glielo posò davanti, lasciandola leggermente basita.
 
“Una torta di mele?”
 
“Tarte Tatin. Samu mi ha catechizzato.”
 
“Hai un buon accento francese.” Si complimentò, stupita. “Ti viene bene il nasale.” Si sporse per vedere meglio quella bellezza dorata di frutta e glassa al caramello. “Ci sono due buchi.” Lo informò impietosa.
 
“Sì, le mele sono rimaste attaccate alla teglia.” Spiegò alzando le spalle. “Le ho mangiate. Samu mi ha dato un pugno.”
 
Le porse un piatto e una forchetta e le tagliò una fetta come un perfetto padrone di casa. Se fosse riuscito ad ingraziarsela, c’era la possibilità che forse ci avrebbe almeno pensato prima di brandire il coltello da dolce e affondarglielo nel braccio.
 
“Allora,” Cominciò Tomoko, dopo che le servì anche la tazzina con il tè. “dimmi di questi problemi.”
 
Il primo era facile. “Devo cambiare colore di capelli.” Buttò fuori velocemente, via il dente via il dolore, no? “Qual è il verdetto?”
 
“Beh, fai bene. Era meglio quello del liceo, e cavolo se era brutto.” Sì, no, lo aveva intuito da solo. Non stava chiedendo proprio quello.
 
“Devo dirti cose del genere? O posso fare come mi pare?”
 
Tomoko lo guardò, l’espressione intenerita. “Wow, sei più serio di quanto pensassi.” Gli disse ridacchiando. Stava girando il cucchiaino nel tè per sciogliere lo zucchero e il vapore le saliva in faccia arricciandole i fili di capelli liberi che le sfuggivano sulla fronte. “No, tranquillo, hai via libera. Certo, meglio non farti fare roba oscena, ma hey, la testa è tua.”
 
Prese la tazzina per il manico e bevve un piccolo sorso, sussultando leggermente per la temperatura. “È per via di Sakusa?” Gli chiese, stringendo le labbra con sofferenza e sicuramente maledicendo la sua richiesta.
 
“No.” Rispose Atsumu velocemente. “È per me. Voglio un colore che mi stia bene e non … questo.”
 
“No, perché l’ho visto.” Alzò le sopracciglia, annuendo lentamente comprensiva. “Sta da Dio.”
 
“Non ricordarmelo, per favore.” Bofonchiò Atsumu strofinandosi la faccia con fare disperato.
 
“Ti starebbe bene qualcosa di veramente chiaro in contrasto con la tua carnagione, ma fatti consigliare da degli esperti. Hai fatto bene a farti allungare i capelli.”
 
E quello era utile. Almeno non sarebbe andato completamente alla cieca.
 
“Il secondo problema?”
 
Ecco. Quello non sapeva proprio affrontarlo.
 
Era stato decisamente combattuto riguardo quella particolare richiesta. Non perché non fosse sicuro, ma era una situazione delicata ed il contesto sociale era quello che era. Voleva informarsi bene prima di fare qualcosa di stupido ed essere pronto per qualsiasi risposta gli sarebbe arrivata dall’altra parte.
 
Aprì la bocca, ma non riuscì ad emettere alcun suono. Si morse un angolo del labbro inferiore con forza, avvertendo l’accenno del sapore ferroso del sangue.
 
“Atsumu?” Lo chiamò Tomoko, l’espressione leggermente preoccupata. “Hey, stai bene?”
 
Sì, stava bene. Era solo terrorizzato.
 
“Guarda, sei un bravo ragazzo, non penso sia una cosa così grave.” Tomoko allungò una mano per afferrare la sua, decisa. Era una mano minuscola, bianca, morbida come lo erano quelle delle ragazze e con una forza d’acciaio che le scorreva dentro. Le carezzò il dorso con il pollice, cercando un appiglio nella trama vellutata della sua pelle. “È successo qualcosa?”
 
Fino a quel momento l’aveva solo pensato.
 
Era iniziata come un’idea pigra che gli girava in testa ogni tanto, divertendosi ad immaginare come avrebbe potuto essere. Pura curiosità senza un minimo accenno di interesse. Il cambiamento di cuore era stato veloce e d’impatto come un treno in corsa e, se doveva spiegare cosa esattamente l’avesse scatenato, non avrebbe saputo farlo.
 
Forse le ore passate insieme in silenzio con il solo ticchettare del mouse e della tastiera, forse le prese in giro sempre più scherzose e meno insidiose, forse i piccoli gesti che si scambiavano senza pensarci troppo, come le fette di limone e la foglia di menta che trovava nella sua acqua ghiacciata, esattamente come piaceva a lui, o il dolcetto dall’aspetto curioso che si divertiva a portargli godendo della scintilla di golosità in quegli occhi scuri.
 
Era diventato fisicamente doloroso continuare a mantenerla un’idea e fermarsi dall’agire.
 
“Atsumu?”
 
“Voglio portare Omi a un appuntamento.”
 
Tomoko mantenne una mano su di lui, stringendolo ferrea, portando l’altra al viso. Non un gesto di disperazione, tutt’altro. Sorrise tra le dita, con gli occhi lucidi di emozione e lasciandosi sfuggire uno sbuffo dal naso simile a una risata. “E c’era bisogno di mettermi paura?” Lo rimproverò senza morso, la presa sulla mano talmente stretta da bloccargli quasi la circolazione.
 
Atsumu continuò a guardarla senza espressione. “Non hai capito.”
 
“Ho capito benissimo. È bello.” Vedendo la mancanza di reazione di Atsumu si alzò in piedi, piegandosi in avanti sul tavolo per afferrargli le guance e costringerlo a guardarla negli occhi. “È bello, Tsumu. È una cosa bella.”
 
“Lo so.” Mormorò, la bocca stretta tra le guance schiacciate. “Lo so.”
 
“E allora qual è il problema?” Domandò, liberandogli la faccia e appoggiandosi con i gomiti sul tavolo, ancora così piegata.
 
Atsumu boccheggiò. “Un po’ tutto.” Cercò di spiegare, stringendo le mani a pugno.
 
“Hai paura che ti dica di no?”
 
“No.” Batté le palpebre più volte. “Cioè, sì, ma no, non intendevo quello.”
 
Tomoko attese qualche secondo, poi sospirò, risedendosi composta. “Non ho idea di cosa ti passi per la testa in questo momento.” Gli disse. “Usa le tue parole, spiegami. Non ci arrivo da sola.”
 
Atsumu si passò la lingua sul labbro superiore con decisione. “Tomo-chan, mi riconoscono per strada.” Le rivelò e lei cominciò a mettere insieme i pezzi. “Vogliono il mio autografo, vogliono foto, i bambini mi amano. È figo, mi piace l’attenzione. Vivo per l’attenzione. Ma quella.”
 
“Tesoro, è il lato oscuro dell’essere famosi.” Tomoko sorrise tristemente, arricciando le labbra. “Ci sono cose belle e cose brutte. Puoi startene fuori dai riflettori per un po’, sia se con Sakusa vada bene che in futuro, con qualcun altro. Se sei veramente bravo puoi tenere basso profilo per sempre. Diavolo, c’è gente di Hollywood che è riuscita a nascondere famiglia per decenni.” Gli fece un sorriso furbo. “Con tutto il rispetto, non sei minimamente la star che credi di essere.”
 
“Sogna, è l’invidia che parla.” Ridacchiò lui, un po’ più calmo. “Ho paura anche per il lavoro, sono sincero.”
 
“La sessualità è un tabù strano, viene scoperto e ricoperto velocemente. Parlane con il tuo allenatore, con il PR della squadra, vedi com’è la loro visione delle cose.” 
 
“L’ho fatto.” Tomoko era un po’ stupita. “Non fare quella faccia, non sono idiota.”
 
“Beh, hai su quell’espressione da condannato a morte, scusami se pensavo non avessi detto nulla a nessuno.” Sorseggiò il suo tè, scoprendo che si era intepidito parecchio nell’attesa. “Allora?”
 
“Non sono contrari, se è quello che ti preoccupa. Non gli ho detto di Omi, non sono completamente deficiente, ma mi hanno fatto capire che dipende da me, ho l’appoggio dei piani alti, sia che lo voglia rendere pubblico sia che lo tenga privato.” Cominciò a strofinarsi la punta delle dita. “Ai miei compagni non frega nulla di chi mi porto a letto, Wan-san ha cercato di trascinarmi per locali per prendere appunti.”
 
“Inunaki-san non ha bisogno di te per rimorchiare.” Rise Tomoko scuotendo la testa. “Non gonfiarti la testa da solo, è già abbastanza grossa.”
 
“Hey!”
 
“Toshio-san non aveva già avviato qualcosa?” Domandò, ignorandolo.
 
Atsumu sospirò, dandosi una spinta e cominciando a dondolare sulle gambe posteriori della sedia. “Sì ma ha rovinato tutto sposandosi.” Tomoko inclinò la testa. “Con una donna.”
 
“Sì, l’avevo capito dal tono risentito.” Ridacchiò. “Senti, hai la strada aperta. Prenditi il tuo tempo, fatti uscire un paio di palle e chiedi a Sakusa-kun di farti l’onore di toglierti dalla miseria. Poi vedrai quello che devi fare.”
 
“Pensavo che chiedere a te invece che a Samu mi avrebbe salvato da un po’ di insulti ma vedo che non è così.” Borbottò, guardandola infilzare il dolce con la forchetta e prenderne un morso.
 
“La vita è piena di delusioni.” Accettò Tomoko masticando, la mano davanti la bocca perché aveva classe. Poi guardò la torta meravigliata. “Cazzo se è buona.” Mormorò stupita. “L’hai fatta tu?”
 
“Non c’è bisogno di essere così sorpresi, Samu non è l’unico a saper usare i fornelli.”
 
“Beh, ha un ristorante e tu rincorri una palla.”
 
“Lo faceva anche lui, Tomo-chan.” Mise il broncio, le braccia abbandonate all’indietro che dondolavano insieme alla sedia. “Gli ho insegnato io a cucinare.”
 
Tomoko lo scrutò con gli occhi socchiusi. “Non è vero.” Disse lentamente, cercando di sondargli l’anima.
 
“Lo giuro! Ho dovuto farlo, mi rubava sempre il budino!”
 
“Questa la so diversa.” Sorrise saputa puntandogli la forchetta contro. “Non ci provare, raccontane un’altra.” Prese un pezzo di mela caramellata. “Da quel poco che ho visto su di voi, è stata la competizione.”
 
Atsumu annuì “E il fatto che mamma si era stufata di andare a comprare disinfettante, cerotti e spuntini e ci ha costretti a cucinarsi da soli i pranzi per prima e dopo l’allenamento.” Cedette Atsumu con un sorriso affettuoso. “Diceva che la legge della giungla avrebbe fatto il suo dovere.”
 
“Saggia donna. Vorrei conoscerla prima o poi.”
 
“Decisamente no. Ne ho abbastanza di persone che mi tengono per le palle, farò tutto ciò che è in mio potere per non farvi coalizzare.”
 
 
*
 
 
“Mille yen che risolvono la loro merda a dicembre.”
 
“Perché dicembre? Duemila che lo faranno l’anno prossimo.”
 
“Ragazzi, non riescono ad affrontare l’argomento neanche a pagarli.” Osamu-san si rovistò nelle tasche e buttò sul bancone una manciata di soldi. “Cinquemila che passeranno almeno altri tre anni.”
 
Inoue-san guardava quel gruppo di bestioni con genuina curiosità.
 
Si era ormai abituato ad Atsumu-san (sì, era finita la paura) che aveva le spalle ogni giorno più larghe e due cosce decisamente illegali che sembravano in grado di schiacciare cocomeri (e teste) senza il minimo sforzo; trovava normale stare vicino a Sakusa-kun e non riuscire ad arrivargli nemmeno al mento e guardarlo con soggezione montare la maionese senza una goccia di sudore, i bicipiti gonfi di sforzo e nemmeno un capello fuori posto; aveva fatto l’abitudine a lavorare insieme ad Osamu-san che, comunque, aveva un passato da atleta, continuava ad allenarsi ed aveva il vizio di litigare con Atsumu-san su chi era più alto (Osamu-san). Ma in quel momento era circondato da altri due giganti.
 
Conosceva il fidanzato di Osamu-san, erano amici su Facebook e si seguivano un po’ ovunque sui social. Pubblicava un sacco di roba divertente ed era seguito da tantissimi fan. Recentemente era stato contattato come testimonial per una marca di energizzanti e questo aveva quadruplicato la sua popolarità.
 
Non lo aveva però detto ad Osamu-san, che lo aveva scoperto nel modo più duro vedendo il suo ragazzo in televisione mezzo svestito e circondato da ballerine. A seguito di questo episodio, Osamu-san aveva avuto un piccolo crollo, a detta sua, nervoso. La totalità del mondo lo chiamava con il suo vero nome: gelosia decisamente motivata.
 
Quando lo aveva saputo, Suna-san gli aveva mandato un vocale della lunghezza di cinque minuti e quarantatre secondi filati, contenente solamente il suo tentativo più riuscito di risata malvagia. Osamu-san lo ascoltò interamente con i denti talmente serrati da potersi spezzare da un momento all’altro.
 
(Avevano litigato. Tanto. Non aveva mai visto Osamu-san così deluso e arrabbiato, e lo era stato per giorni. Dopodiché Suna-san si era preso un finesettimana di ferie, era arrivato a Osaka e il suo capo si era dato alla macchia per un po’ di tempo. Atsumu-san si era lamentato che non si poteva vivere così, che la notte aveva bisogno di dormire e che doveva sbrigarsi a trovare un altro appartamento.)
 
Se Sakusa-kun ghignò in faccia ad Osamu-san in una squisita dimostrazione di bastardaggine, onorando Inoue-san della vista dei suoi denti forse per la prima volta, Atsumu-san si era accasciato sul bancone, invidioso che a lui non era stata proposto alcun contratto pubblicitario e chiedendo al alta voce a chiunque avesse la voglia di sentirlo in quale mondo la faccia addormentata di Sunarin era adatta per essere la testimonial di una bevanda energizzante.
 
Effettivamente aveva un po’ ragione.
 
“Voi dite che non la risolvono quest’anno?”
 
La terza voce apparteneva alla persona dalla genealogia più strana di cui Inoue-san era a conoscenza. Oddio, no, non strana in senso cattivo, ma quando aveva saputo di chi si trattasse scoppiò a ridere come un matto, fino a che non gli venne giurato che la parentela era legittima, benché senza senso.
 
Komori Motoya lo incuriosiva. Era solare, simpatico, sorridente senza alcun doppio fine malvagio. In quale universo parallelo era il cugino di Sakusa Kiyoomi?
 
Komori Motoya era stato il primo dei tre ad entrare come titolare fisso in partita. A parte Sakusa-kun, ma parlava della lega di pallavolo professionistica.
 
Lo aveva saputo perché il sabato e la domenica, dopo le “riunioni di bilancio”, spesso e volentieri Osamu-san e Sakusa-kun organizzavano il locale per vedere le partite che non avevano potuto seguire durante la settimana. A volte c’era pure Atsumu-san ed era molto divertente quando era presente: non era silenzioso come potevano esserlo gli altri due e la sua sola presenza tendeva ad accendere la vena competitiva di Osamu-san e la meschinità francamente spassosa di Sakusa-kun. Erano tutti molto gentili con lui che di pallavolo non ne sapeva nulla, passando anche ore a rispondere ad ogni sua domanda e litigando tra di loro per classifiche di merito di cui non capiva niente.
 
(Quando il commentatore urlò il nome di Komori Motoya durante una di queste visioni di gruppo, annunciandolo in campo ed elogiandone le qualità e le competenze, Atsumu-san fece un verso strozzato che sottolineava tutto il suo disappunto.
 
“Ti ha fregato.” Aveva commentato piano Sakusa-kun, andando a prendere il suo barattolo di umeboshi personale che Osamu-san riempiva silenziosamente ogni volta che era agli sgoccioli.
 
“La scommessa l’ho vinta io!” Aveva urlato Atsumu-san con aria tradita.
 
“È tipo la terza partita che entra da titolare.” Era intervenuto Osamu-san con una ciotola enorme di patatine gusto pizza tra le mani. Ne prese una manciata e se le ficcò in bocca. “Ti ha fregato.” Mormorò, sputacchiando briciole dappertutto.
 
“Non era quella la scommessa!”
 
“No, hai ragione.” Atsumu-san si era girato verso Sakusa-kun con espressione grata. “Ma ti ha fregato comunque.” Gli aveva porto una confezione di budino dal colore strano e un cucchiaio e si sistemò sulla sedia accoccolato come un gattone, le ginocchia sotto il mento e il barattolo di umeboshi al petto a mo’ di cuscino.
 
Atsumu-san gli aveva lanciato un flaconcino di disinfettante gel che aveva preso dalla tasca, aveva afferrato il dolce e aveva borbottato “Vaffanculo Omi.” scartando il primo vasetto e affondandoci dentro il cucchiaio, scivolando con il sedere quasi fuori dalla sedia.
 
Inoue-san, con la sua busta di pop-corn in mano, non ci aveva capito niente. Gli spiegarono tutto in un secondo momento.)
 
“Non li vedete tutti i giorni come faccio io. Sono un caso disperato.”
 
“Oh, non lo so. Kiyoomi ha cominciato ad accennare qualcosa.” Suna-san, Osamu-san e anche Inoue-san stesso si girarono verso Komori-san con gli occhi enormi.
 
“Cosa?” Domandò Suna-san, aggrottando le sopracciglia e mettendo su la faccia più risentita del suo repertorio. “E quando me lo dici?”
 
“Definisci accennare.” Disse Osamu-san lentamente, socchiudendo gli occhi.
 
“Beh, ha cominciato a parlare di qualcosa.” Cercò di spiegare Komori. “Cioè, roba vaga di quando lavora qua, di Inoue-san, di te che lo costringi a fare la maionese. Del cane.” Qua mise un broncio arrabbiato. “Parla un sacco di quel cane. Mi ha mandato le foto.” Mugugnò qualche insulto fantasioso e poi si riprese. “A volte nomina Atsumu.”
 
“E cosa dice?” Suna-san era rapito dalla svolta degli eventi. “Di Atsumu, dico, non mi frega niente del cane.”
 
“Si chiama come me, un po’ di rispetto.”
 
“Motoya! Cosa ti ha detto!”
 
“Niente di che.” Sembrava che Komori-san avesse difficoltà. Aveva la faccia un po’ sofferente e agitava le mani in movimenti senza senso. “Che è arrivato poco prima della chiusura. Che ha aiutato a scaricare il riso.” Ci pensò ancora un po’. “Ah! Che si era sistemato i capelli! Ha parlato per ben tre minuti dei suoi capelli.”
 
“Dio, è come una dichiarazione.” Suna-san  si portò la mano in faccia, allibito.
 
“E che hanno in programma di allenarsi insieme.”
 
“Aspetta, cosa?” Osamu-san era sconvolto. “Quando cazzo è successo? Quei bastardi.” Si girò di scatto. “Inoue-san, tu ne sapevi qualcosa?”
 
Beh, sì. Era con loro quando ne avevano parlato. “Atsumu-san vuole alzare a Sakusa-kun.” Cercò di spiegare, sperando di averci preso con i termini tecnici.
 
“Ovvio che sì, quel montato di merda.” Ringhiò Suna-san, portandosi le mani dietro la nuca con aria pensosa. Qualche secondo di profonda riflessione e poi scosse la testa. “Niente da fare, per me risolvono l’anno prossimo.”
 
“Beh, ora voglio ripensarci.” Borbottò Osamu-san, riprendendosi i soldi. “Mi aspettavo almeno che quello stronzo di Tsumu si facesse sfuggire qualcosa: non riesce mai a tenere la bocca chiusa e quando serve si ricorda di avere una decenza?” Scosse la testa deluso.
 
“Per me è dicembre, Kiyoomi chiacchiera troppo per i suoi standard.” Chiarì Komori, allungando la testa al di là del bancone per vedere se riusciva a rubare un pezzo di salmone affumicato. Suna-san lo afferrò per il retro della maglia per evitare di farlo capitombolare dall’altra parte. Non fece una piega, sembrava succedesse più spesso di quanto pensasse.
 
“Perché proprio dicembre?” Domandò Osamu-san, passandogliene una fetta senza farlo uccidere.
 
“L’anno scorso sono successe cose a dicembre.” Komori-san infilò l’intero salmone in bocca e quasi lo mandò giù senza masticare. “È tipo il loro mese speciale.”
 
“In realtà è successo a gennaio.” Specificò Osamu-san.
 
“Il numero quando te l’ha chiesto?” Domandò Suna-san, tamburellando le dita sul cellulare.
 
Osamu-san sospirò. “Dicembre, avete ragione. Ma il messaggio l’ha mandato a gennaio.”
 
Inoue-san aprì la bocca per dire qualcosa e la richiuse di scatto. Suna-san se ne accorse. “Inoue-san, perdona la maleducazione ma vediamo questa soap da tanto tempo.” Fece un sorriso storto e la faccia assunse un’espressione un po’ troppo furba. “Vuoi partecipare? Anche pochi yen, Samu qua ha le tasche bucate.”
 
“Oh, è vero!” Intervenne Komori-san. “E mi scuso per mio cugino, qualsiasi cosa abbia fatto o detto posso solo dire che così ci è nato. Nessuno in famiglia ha la sua vitalità da gatto investito.”
 
“Oh, no, no! Sakusa-kun è molto gentile.” Inspirò un po’ forte e, ignorando il verso di scherno di Komori-san, chiese. “Posso partecipare davvero?”
 
“Inoue-san ha avuto le palle d’acciaio di guardare Sakusa negli occhi e chiedergli da quanto stava con Tsumu. Sakusa è andato fuori di testa.” Ghignò Osamu-san, guardandolo con affetto. “Sono così fiero di lui, cazzo.”
 
“Seriamente?” Suna-san scoppiò a ridere e Komori-san aveva le stelline negli occhi. “E nessuno ha pensato di fare un video?”
 
“Non sapevo niente di tutto questo …” Cercò di spiegare.
 
“Meglio ancora!” Rise Komori-san. “Cazzo, avrei dovuto esserci.”
 
“Sakusa ti avrebbe ucciso e mostrato il tuo cadavere come monito per i disertori.” Strascicò Suna-san, il mento sulla mano.
 
“Non lo avrebbe fatto, ha paura che torni a perseguitarlo come fantasma.”
 
“Davvero?” Ridacchiò Osamu-san. “E cosa lo spaventerebbe?”
 
“Il fatto che non può uccidermi di nuovo.” Spiegò Komori-san stranamente serio. “Voglio dire, come uccidi qualcosa di già morto?”
 
“In Supernatural si risolve tutto con il sale, proverei così.”
 
“Secondo te perché faccio di tutto per non farglielo vedere?” Suna-san ridacchiò e Komori-san commentò “Dilettanti.” con fare saputo.
 
“Le olimpiadi sono quest’anno, vero?” Chiese Inoue-san di getto, nella mente un’idea molto precisa. Ottenne la loro attenzione e li vide annuire confusi.
 
Scavò nella tasca dei jeans e tirò fuori delle banconote. Contandole velocemente, alzò gli occhi e fece un sorriso che gli illuminò l’intera faccia. “Io dico che a settembre è tutto sistemato.”
 
“Settembre?” Domandò Osamu-san. “Non è un po’ presto per loro? Siamo solo ad aprile.”
 
“Samu, fatti i cazzi tuoi.” Intervenne Suna-san. “Dobbiamo scrivercelo da qualche parte e decidere chi tiene i soldi.” Lo guardò concentrato. “Sicuro settembre?”
 
Inoue-san annuì con decisione. “Settembre.”
 
 
*
 
 
“Samu! Inoue-san! Omi! Guardate chi vi ho portato!”
 
“Hey hey hey!”
 
“Atsumu, deficiente, perché volevi tenerci lontani?”
 
No, non era possibile. Sakusa strinse gli occhi fino a farsi male, inspirando così a lungo che passarono alcuni secondi prima che si decidesse di liberare i polmoni. “Voglio andare a casa.” Mormorò piano. Osamu gli rise in faccia, salutando i nuovi arrivati. “Ciao ragazzi! È un onore avere qua i baby-sitter glorificati di Tsumu!”
 
“Samu, vaffanculo!”
 
Sakusa si girò, ritrovandosi la totalità dei Black Jackals all’interno del locale. E Bokuto. Cazzo, no, perché c’era Bokuto? “Osamu-kun, finalmente questo marmocchio ci ha portato qua da te.” Il capitano Meian si avvicinò al bancone, portandosi dietro Atsumu dopo averlo afferrato per la nuca con presa decisa. “Parla degli onigiri più buoni del mondo e non ci ha mai detto dove li mangia.”
 
“Meian-san, non dire cazzate. Sono a malapena passabili.” Borbottò Atsumu schivando una bottiglia di plastica lanciata da suo fratello.
 
“Osamu-san, se devo pulire di nuovo i vostri casini stavolta ve li faccio mangiare.” Mormorò Sakusa guardandolo male ed involontariamente concentrando su di sé la loro attenzione. Si maledisse internamente. Una volta era più furbo.
 
“Sakusa!” Il loro libero, Inunaki gli sembrava di ricordare, si avvicinò. Fortunatamente non lo toccò, anzi, sembrava fare uno sforzo notevole per tenere le mani per sé stesso. Nh, buono, Miya doveva averli catechizzati. “È stato un onore ricevere le tue schiacciate infami questi anni.” Gli mostrò un ghigno troppo astuto e lui abbassò la testa per ringraziamento. “Ti sono arrivate le mie maledizioni?”
 
“Wan-san, che cazzo.”
 
Wow, era uno stronzo. Bello. “È difficile dirlo, anche se sembra vi piaccia vedere la palla schizzare via.” Inclinò la testa in modo piacevole ma la faccia era completamente vuota. Ci fu un silenzio carico di aspettative. Gli occhi di Inunaki si strinsero.
 
“Oh mio Dio.” Si sentì piano Inoue-san, che non sapeva nulla di pallavolo ma sembrava avere un sesto senso eccezionale per le risse. 
 
Meian lo guardò con il sorriso tirato, congelato al bancone. Degli altri solo Barnes se ne fregava allegramente chiedendo informazioni sugli ingredienti ad un preoccupato Osamu, che cercava di rispondere e tenere sott’occhio la situazione. Bokuto stava vibrando sul posto.
 
Atsumu si avvicinò cauto. “Wan-san, senti …” Cominciò, ma Inunaki, contro tutti i più oscuri presupposti, scoppiò a ridere come un matto, alzando le mani in segno di sconfitta. “Sakusa-kun, sei un gioiello! Lo voglio in squadra capitano!”
 
Ci fu un sospiro generale di sollievo. “Vedrò cosa posso fare.” Sghignazzò Meian, scuotendo la testa. “Sakusa-kun, mi scuso per questo goblin.”
 
“Sono abituato.” Rispose, facendolo ridere.
 
“Hey! Sto creando un legame qua!” Meian si girò verso Adriah e lo pregò di portare via il libero selvatico. “Osamu-san, hai un tavolo abbastanza grande per noi? Abbiamo stracciato gli Hornets e vorremmo festeggiare.”
 
“Certo! Tsumu unisci quei tavoli.”
 
“Non sono il tuo schiavo.”
 
“Unisci i tavoli o inondo il tuo ordine con il wasabi.”
 
E un Atsumu ribollente si avviò obbediente per evitare di essere ucciso.
 
“E tu invece Bokuto?” Chiese quindi Osamu, cominciando a preparare gli ingredienti sul piano da lavoro. “Che ci fai qua? Ti sei perso?”
 
Beh, poteva essere. Sakusa ci sperò con una passione che non riservava nemmeno per i suoi nipoti.
 
“È la nuova recluta dei Black Jackals!” Spiegò Meian orgoglioso, mentre Bokuto gonfiava il petto come un tacchino. “La partita di oggi è stata il suo debutto e non poteva fare meglio.”
 
Cazzo, no. Si sarebbe parcheggiato nel ristorante a qualsiasi ora del giorno e avrebbe cominciato a urlare, ne era sicuro.
 
A dispetto dei suoi pensieri non propriamente teneri nei confronti dell’ex asso della Fukurodani, Sakusa non aveva niente contro Bokuto, seriamente. Lo ammirava, era tenace, aveva un lungolinea malvagio e una diagonale ancora più cattiva e dava sempre il massimo. Era sempre stato un rivale interessante.
 
Bokuto, però, aveva qualcosa contro di lui. Non in modo cattivo, Bokuto Koutarou non avrebbe saputo essere cattivo nemmeno se si fosse sforzato, ma appena lo vedeva gli gridava cose: sull’essere assi, sull’essere più bravi, sul batterlo, roba da esaltato del genere.
 
Lo aveva sentito spesso, in passato, da gente diversa. Anche adesso, se doveva essere preciso. Ma mai con il volume di voce di Bokuto.
 
Aveva già tirato un sospiro di sollievo quando aveva saputo di Hoshiumi Kourai prontamente arraffato dagli Adlers, recitando sentito una preghiera per le orecchie dell’intera squadra. La piccola, potente e caotica personalità di Hoshiumi era comunque contrapposta all’assoluta calma e stoicità di Wakatoshi e di Kageyama, quindi si riusciva a creare una sorta di equilibrio cosmico che permetteva al mondo di non essere disintegrato dalla pura forza delle sue vibrazioni ma, cazzo, non aveva preso in considerazione Bokuto. Era stato decisamente un errore.
 
Lo stancava anche solo pensarci: sapere che avrebbero vissuto praticamente nella stessa città gli faceva accarezzare l’idea di andare a giocare in autostrada. 
 
E poi, seriamente, i Jackals erano così pazzi? Prima Atsumu, poi Bokuto. Senza contare Inunaki, la cui gestione non sembrava proprio una passeggiata. Certo, tutta gente di un certo livello, ma dovevano giocare a pallavolo, non partecipare al carnevale di Rio.
 
“Sakusa! Che figata ritrovarti, lavori davvero qua? Tsumu mi ha detto qualcosa ma non ci credevo!”
 
Dio, ora doveva anche rispondergli. “Ciao Bokuto.” E sperò finisse così. La sua parte l’aveva fatta.
 
Osamu, però, decise di mettere in moto i geni Miya. “Sakusa-kun, ti affido il loro tavolo.” Si mise velocemente d’accordo con lo sguardo con Inoue-san, che annuì tranquillo.
 
“Ho altri clienti.” Cercò di controbattere, inutilmente. Osamu  ghignò. “Se ne prenderà cura Inoue-san, in confronto sono gestibilissimi. Vai e divertiti, hai bisogno di svagarti.”
 
E non era gentile, quando lo disse. Era facile sbagliarsi. Lo guardava con una faccia che chiedeva solo di essere presa a pugni e lo sapeva che voleva soltanto mettersi a correre e non fermarsi mai più, lo sapeva. Ma non poteva rifiutare, non funzionava con Osamu: sarebbe diventato solo più infame.
 
Sakusa sospirò, sentendosi in trappola. Doveva trovare modi nuovi per vendicarsi.
 
“Omi, vieni, siediti!” Miya batté la mano sulla sedia vuota vicino a lui, mentre Bokuto agitava le braccia a richiamarlo come se stesse per affogare. Lui si avvicinò con una smorfia.
 
“Devo lavorare, Miya.” Si guardò intorno con fare professionale. “Sarò il vostro cameriere, se Osamu-san non decide diversamente come ha fatto poco fa.”
 
“Ti sento!” Urlò Osamu da sopra lo sfrigolio della carne sulla piastra.
 
“Lo so, l’ho detto ad alta voce.” Rispose senza nemmeno girarsi. Inunaki ridacchiò e Adriah-san si coprì il sorriso con la mano.
 
“Nei menù c’è scritto tutto, allergeni compresi. Per ogni problema sono disponibile per chiarimenti.”
 
“Sakusa, mettiti seduto con noi intanto che scegliamo.” Se ne uscì Inunaki, occhieggiando il posto vicino a Miya. “Tanto hai solo noi, facciamo quattro chiacchiere.”
 
“Non voglio.” Cominciò a dire, ma la voce esagerata di Bokuto coprì la sua risposta. “Oddio sì! Sakusa è da un saaaaacco di tempo che non parliamo!” Non lo avevano mai fatto. Non ce n’era mai stato motivo.
 
Li guardò, però, sentendosi un po’ uno schifo davanti gli sguardi da cucciolo con cui Inunaki, Miya e Bokuto cercavano di convincerlo. Erano orribili, ma se li avesse assecondati forse lo avrebbero lasciato in pace. “Solo cinque minuti.” Chiarì, scivolando giù sulla sedia.
 
“Allora.” Cominciò Inunaki e già i campanelli di allarme di Sakusa cominciarono a squillare impazziti. “Come mai l’università?”
 
“Oddio, non anche tu.” Mormorò mentre Miya e Bokuto annuivano soddisfatti. “Diglielo Wan-san! È uno spreco!” Gli diede man forte Atsumu, riempiendosi un bicchiere d’acqua e facendo il giro tra i suoi compagni.
 
“Pensavo l’avessi superato.” Sibilò mettendoci tutto il veleno che poteva. Miya ghignò. “Mai. Finché non me lo spieghi.”
 
“Ragazzi, che c’è di male a voler continuare gli studi?” Domandò Adriah-san, sbattendo le palpebre confuso. “È una cosa del Giappone?”
 
“No, è solo Miya che è un marmocchio.” Spiegò Meian-san con sospiro. Sakusa lo ammirò: quell’uomo doveva avere tanta di quella pazienza che avrebbe potuto venderla e con il ricavato camparci di rendita.
 
“Capitano, l’hai visto giocare. Non ti sembra uno spreco?”
 
“Miya, sai quanto è alta la probabilità di infortunio su un soggetto con ipermobilità articolare?” Domandò, finalmente stufo.
 
Lui lo guardò con gli occhi a palla. “No? Cosa sarebbe?”
 
“I polsi strani.” Suggerì Barnes-san prendendo una manciata di edamame e portandosele al tovagliolo. Sakusa lo ringraziò mentalmente, sia per la risposta che per la pulizia.
 
“I polsi strani? Cioè, è tipo un superpotere?” Bokuto sposò gli occhi sulle sue mani con ammirazione. “È una figata!”
 
“Sì, finché non ti si rompono perché prendi un bicchiere d’acqua, ad esempio.” Intervenne Meian-san severo. “Non è un superpotere, è una cosa con cui deve convivere e starci mille volte più attento di quanto faremmo noi di solito.”
 
“E lo aiuta con l’effetto in battute e schiacciate.” Brontolò Inunaki, strizzando gli occhi con fare maligno.
 
Sakusa alzò le spalle, un sorriso leggero che ad un occhio non allenato sembrava più uno spasmo. “Tra le altre cose.”
 
“Quindi fammi capire, sei andato all’università perché hai paura di farti male?” Lo accusò Miya.
 
“No, sono andato all’università perché se poi mi faccio male posso vivere con un altro lavoro e non devo chiedere l’elemosina sotto i ponti.” Gli rispose, zittendolo. “Fattene una ragione, tra due anni vedrò chi mi vorrà.”
 
“Ed è una decisione molto intelligente.” Si complimentò Meian-san con fare paterno. Sakusa strinse le labbra, non sapendo cosa dire.
 
“Woooh, che significa? Che io e Bokuto non siamo intelligenti?” Esclamò Atsumu, sentendo la tensione e cercando di spezzarla. “Perché lo siamo, diglielo Bokkun!”
 
“È vero! Akaashi ha sempre detto che sono molto intelligente, devo solo urlare di meno.”
 
“Sante parole.” Mormorarono Sakusa e Meian insieme. “Akaashi era il setter del Fukurodani, vero?”
 
“Sì! Era bravissimo ma non ha continuato. Anche lui sta all’università, a Tokyo però.”
 
“Hey, Omi! Sai come ho saputo che Bokuto sarebbe stato dei nostri?” Lo bloccò Miya perché era evidentemente un cafone,  mentre Inunaki-san e Adriah-san cominciavano a ridere. “Mi si è schiantato addosso mentre ero a mezz’aria per una battuta, urlandomi nelle orecchie e piangendo come il gufo che è!” Sakusa provò un pizzico di vicinanza emotiva per quello.
 
“Ero felice!” Si giustificò Bokuto, il solito sorriso enorme che gli apriva la faccia in due. “BUM! Entro nei Jackals! BUM! Trovo Tsum lì! E ora te, sembra stiamo tutti qua!”
 
“Evviva.” Commentò piatto, sentendo uno sbuffo di risata dalle parti di Meian e Barnes. “Allora, ragazzi, siete pronti per ordinare?”
 
Venne investito da una quantità di voci ammassate una sopra l’altra e mentre Inunaki-san e Bokuto litigavano per il condimento da far portare, Barnes-san continuava a chiedere informazioni sulla preparazione dei piatti cercando di farsi sentire sopra gli altri con Adriah-san che tentava di ascoltare, curioso quanto lui. A Sakusa stava venendo mal di testa.
 
Quando ebbe finito, sperando di essere riuscito ad appuntare tutto, chiese delle bevande e si girò per portare la comanda ad Osamu. Fu in quel momento che Miya parlò. “Sai, Omi, sei un cameriere provetto.” Canticchiò in maniera odiosa, guardandolo da sotto le palpebre con un ghigno di pura insolenza. Sakusa si girò lentamente. “Sei perfetto per questo. Abbandona tutto e segui la tua strada.”
 
Sakusa inclinò leggermente la testa. “Oh, hai ragione. Cercherò di ricordarlo quando segnerò il primo ace della partita proprio accanto al tuo piede.”
 
Se Atsumu strillò indignato e Bokuto urlò alla guerra, Sakusa sogghignò accompagnato dalle risate sentite di Inunaki-san “Ti ha fregato, stronzo!” Urlò, allungandosi per dare uno scappellotto alla testa di Miya, che incassò con un sorriso affettuoso. Meian si scambiò uno sguardo con Osamu, che li sentì ed imprecò mentalmente.
 
A fine serata, come il capitano tutto d’un pezzo che effettivamente era, si avvicinò al bancone per risolvere il conto. “Allora.” Cominciò, strofinandosi le mani pensoso. Osamu lo guardò incuriosito. “Sakusa e Miya.” Disse solo e Osamu sbuffò. “Atsumu ha fatto un po’ di domande tempo fa. Domande un po’ troppo specifiche.”
 
“Non è mai stato troppo furbo.” Mormorò e Meian accettò fin troppo velocemente. “Hanno qualcosa in corso?” Chiese piano, prendendo lo scontrino e cercando il portafogli nelle tasche dei pantaloni.
 
Osamu lo scrutò per un lungo secondo da sotto le palpebre abbassate, cercando le parole adatte. “La risposta che darò cambierà qualcosa per loro?” Domandò lentamente. “Perché non se lo meritano.” Ed era veramente serio. Avrebbe fatto qualunque cosa per proteggere suo fratello e quello che era diventato un amico importante.
 
Meian alzò lo sguardo di scatto stupito, non capendo immediatamente. Vedendo la fermezza nei suoi occhi, però, ridacchiò, scuotendo la testa. “Osamu-kun, farebbe solo bene ad Atsumu qualcuno che non se la prenda per le stronzate che dice e riesca a tenerlo in punta di piedi.” Spiegò semplicemente e Osamu riuscì a respirare più libero, la tensione che gli scivolava addosso. “E penso che anche Sakusa-kun riuscirebbe a rilassarsi un po’, è veramente un ragazzo serio.”
 
“Parlate dei due polli?” Domandò Inunaki, spuntando da dietro il suo capitano. “Perché, amico, sono così ovvi che mi aspettavo di vederli montare sul tavolo e darci dentro da un momento all’altro.”
 
“Hai descritto precisamente l’ultimo anno e mezzo della mia vita.” Mormorò Osamu piatto, tra l’ilarità generale. “Signori, ho una proposta per voi.” Tirò fuori un foglietto e  lo mise sul bancone, ben attento a non farsi notare. “Stiamo mandando avanti una scommessa. Volete partecipare?”
 
“Tu e chi altro?” Domandò Barnes raggiungendoli, interessato. “Di quanto parliamo?”
 
“Davvero?” Chiese retorico Meian, guardandolo male. “Anche tu?”
 
“Beh, è una vittoria facile. Dobbiamo solo azzeccare la data.”
 
“Il mese, più che altro. La puntata è a piacere.” Spiegò Osamu tranquillamente. “Ci sono io, Inoue-san, Suna e Komori della EJP Raijin.”
 
“Adriah! Vieni, dammi una mano!” Gridò Inunaki al vuoto, gli occhi avidi sul foglietto. Fortunatamente i diretti interessati erano alle prese con Bokuto e non sentirono. “Secondo te quando scoppiano?”
 
 
*
 
 
Atsumu non era una persona da … beh … persone.
 
Conviveva da un sacco di tempo con quella consapevolezza e, ad essere sinceri, non era che la cosa lo facesse necessariamente rimanere sveglio la notte.
 
Non gli piacevano le persone. O, meglio, persone inutili. Era meglio sottolinearlo. Aveva scoperto presto che alle persone non piaceva molto lui, quindi il sentimento era decisamente contraccambiato.
 
Aveva avuto un primo assaggio di quell’informazione anni prima, alle medie, quando il suo amatissimo fratello lo informò che nella squadra di pallavolo lo odiavano tutti. Poi aveva commentato, con lo stesso tono di voce annoiato, che il suo sedere stava diventando grasso e che doveva dargli tutto il suo bento, altrimenti non sarebbe riuscito a passare dalle porte. Ovviamente era finita a spintoni e morsi.
 
Ad Atsumu non era importato: non doveva passare la sua vita con quella gente, sinceramente non gli fregava niente se non lo potevano vedere. Finché avrebbe fatto il suo lavoro, in maniera eccellente come al solito, nessuno aveva il diritto di dirgli alcunché.
 
I suoi fan erano una cosa a parte.
 
Inizialmente era stato strano passare alle superiori e sentire tutto quel calore non richiesto: la gente stravedeva per i gemelli Miya, i fan club a loro dedicati aumentavano esponenzialmente ogni mese tanto da averne perso il conto e lui aveva scelto di andare decisamente con la corrente. Non vedeva proprio perché non avrebbero dovuto adorarli: erano belli, erano bravi, lui in particolare era la rappresentazione del Dio dei setter in terra, era solo una conseguenza naturale che la plebe avrebbe adorato il terreno su cui camminava.
 
Certo, fino a che certi maiali non avrebbero strillato durante la sua sacra battuta.
 
Seriamente, non era difficile: se stavano tutti zitti, dovevi solo prendere esempio e rimanere zitto anche tu. Era elementare. Anche Samu ci sarebbe arrivato.
 
Aveva diciassette anni e la pallavolo era la sua vita. Neanche un paio di anni dopo capì che, in certe situazioni, quelle che aveva apostrofato come maiali dovevano essere chiamate principesse e si sarebbero aperte le porte del paradiso.
 
Era la situazione ideale: lui era felice, loro erano felici e Samu era quello più felice di tutti, che si ritrovava con la casa finalmente libera e poteva fare tutto il sesso in cam che voleva con Sunarin senza averlo tra i piedi. C’era da dire che la sua presenza non lo aveva mai fermato, ma gli piaceva pensare che un minimo di decenza la avesse anche lui.
 
Gli uomini erano stati un esperimento che gli era piaciuto decisamente tanto e che, però, aveva tenuto sotto banco: era libero con la sua sessualità, ma era anche consapevole che tra il sentire e il vedere c’era un mare enorme. Era perfettamente conscio di qual era il suo scopo nel grande schema della pallavolo e non avrebbe mandato tutto a puttane soltanto perché non era riuscito a tenerlo nei pantaloni, soprattutto con una persona che non avrebbe neanche più rivisto.
 
Era cauto, sapeva come andava il mondo e agiva di conseguenza.
 
Poi era capitato Omi e, per la prima volta, si interessò seriamente a qualcuno. Era stata una fioritura tardiva, la sua, iniziata con sguardi curiosi e bastoni nel culo a diciassette anni per poi ritrovarsi a venti a cercare di capire il perché di molte domande.
 
Perché era così stronzo. Perché era andato all’università. Perché non si tagliava i capelli. Perché non era un professionista. Perché quei nei erano così allineati.
 
Perché gli aveva preparato il tè caldo quel giorno piovoso di novembre. Perché lo aspettava per vedere le registrazioni delle partite. Perché gli faceva trovare budini sempre di gusti diversi. Perché cercava, a modo suo, di tirarlo su di morale dopo una sconfitta. Perché era così stranamente gentile.
 
Perché perché perché.
 
Perché sentiva il bisogno di far sparire le occhiaie sotto i suoi occhi profondi. Perché era la prima persona che cercava quando entrava nel locale di suo fratello. Perché era stranamente umorale quando non si incontravano per ritiri e trasferte. Perché voleva vederlo ridere.
 
Avevano cominciato a scambiarsi messaggi sempre più spesso in quei mesi. Si erano avvicinati, anche se mantenevano quell’aura di competizione perenne soprattutto davanti gli altri. Era facile gareggiare con Omi: si era presentato come una sfida e cazzo se non aveva mantenuto la parola.
 
Era una giornata di luglio e faceva un caldo bestiale. L’anno prima Samu era riuscito a far installare dei condizionatori sia nella sala che in quel buco di studio e adesso lui e Omi stavano sfruttando quel fresco artificiale con una faccia tosta da manuale.
 
Samu se ne era andato con la scusa di una commissione di un paio di ore, lanciandogli un’occhiata laterale che non aveva capito del tutto ma che intuiva come un segno di darsi una mossa. Inoue-san era tornato a casa per pranzare con la sua ragazza, una cosina adorabile che le guance naturalmente rosa che studiava per diventare maestra d’asilo. Rimanevano lui e Omi.
 
Omi aveva appena finito di scrivere un saggio per l’esame che avrebbe dovuto sostenere tra qualche giorno e stava preparando lo streaming dell’amichevole di Falcons contro Adlers che c’era stata nel mezzo della settimana. Aveva ancora quegli occhiali dalle lenti colorate sul naso e la vista gli lasciava la voglia di baciarlo senza senso.
 
“Nerd.” Lo apostrofò gratuitamente, un sogghigno storto tutto per lui. Omi batté le palpebre e capì dopo qualche secondo a cosa si riferisse. Non commentò, ma lo onorò di un’occhiata al vetriolo che da sola era una bellezza.
 
“Togliti quella roba dalla faccia, sembri un gangster di basso livello.”
 
“Ovviamente li sai riconoscere, quindi dovresti sentirti a tuo agio.” Mormorò piano, sistemando l’inclinazione dello schermo e sedendosi accanto a lui. “Ora zitto, inizia.”
 
Si posizionò meglio sulla sdraio, curvandosi leggermente e portando le ginocchia sotto il mento. Come riuscisse ad entrare tutto lì dentro era un mistero, ma non aveva mai visto qualcosa di così ridicolo e adorabile al tempo stesso e sì, si stava rammollendo. “Mettiti dritto.” Borbottò, girandosi per guardare la linea di Aran in battuta. “Ti fotterai la schiena un giorno di questi.” Lo sentì sbuffare dal naso e non gli diede alcuna soddisfazione, muovendo invece il sedere sul posto come per sistemarsi meglio. Atsumu lo vide con la coda dell’occhio e si lasciò scappare un sorriso.
 
Era strano e bello insieme vedere una partita con Omi. Entrambi non accettavano gli errori, commentavano ogni azione e molto spesso la pensavano allo stesso modo. Ma c’erano volte in cui la loro visione del gioco si scontrava, segno dei loro caratteri così appassionati e fortemente sicuri. C’erano sbavature che Atsumu non accettava e che Omi lasciava passare con un’esperienza di ruolo più marcata. C’erano momenti in cui Omi storceva il naso e Atsumu annuiva comprensivo. C’erano situazioni in cui entrambi si facevano sfuggire suoni strozzati a seguito di particolari azioni e partivano con diatribe sempre più focose su schemi, viste e occasioni mancate.
 
Si chiese oziosamente come sarebbe stato giocare con lui, invece che contro. Decise di non volerlo sapere.
 
“Kageyama è migliorato.” Commentò Omi con occhio critico, togliendosi gli occhiali e poggiandoli sulla scrivania, massaggiandosi le palpebre con il dorso della mano.
 
“Avere quel tipo di giocatori intorno te lo fa fare, Omi.” Mise inconsciamente il broncio, spostando la testa di lato. Anche lui sarebbe migliorato in un attimo giocando con Romero, doveva solo vedere se quel santarellino avrebbe avuto la faccia di cambiare le carte in tavola a suo piacimento come era accaduto regolarmente con il piccoletto dai capelli rossi, Hinata Shouyou. Fino a quel momento era stato anche troppo diligente, per i suoi gusti.
 
“Non sei obiettivo.” Lo rimproverò. “Non ha avuto molto tempo per lavorare con loro, lo hanno buttato dentro subito.”
 
“È un’amichevole. Anch’io sono entrato in un’amichevole appena iniziato. Anche Bokuto.”
 
“Lui è veramente bravo.”
 
“Sì, beh, io ero meglio.” Brontolò e Omi ebbe il buon senso di sorvolare e non girare ulteriormente il dito nella piaga.
 
“Bambino.” Mormorò comunque, perché se non gli diceva qualcosa di diversamente carino ogni cinque minuti sarebbe morto. Atsumu sporse il labbro ancora di più.
 
Fu durante una delle schiacciate stronze di Ushiwaka, vedendolo strizzare gli occhi per assorbire la vista di ogni singolo guizzo di muscolo, che decise che era arrivato il momento. “Esci con me.” Disse semplicemente, continuando a guardare la partita da quella posizione mezza storta.
 
Era scivolato fuori con una facilità che non si aspettava, come se stesse parlando del tempo. Non era agitato. Non era preoccupato. Non aveva la voglia di tapparsi le orecchie a intermittenza e fare versi per non sentire la risposta.
 
Si aspettava una reazione del suo corpo decisamente peggiore, poteva ammetterlo, con palmi sudati e il cuore che cercava di scappare dal petto. Invece no, era stato naturale.
 
Doveva essere fatto in quella precisa situazione, capì. Svaccati sulle sdraie a discutere di cose stupide con il loro primo amore davanti gli occhi. Non poteva esserci momento migliore.
 
Omi batté lentamente le palpebre e prese qualche secondo di silenzio. Poi sbuffò piano dal naso e alzò le spalle. “Ok, dove vuoi andare?”
 
… Eh? Si girò a guardarlo di scatto.
 
Omi gemette con soggezione con gli occhi sullo schermo, arricciando il naso, rapito dalla potenza bruta della schiacciata di Aran. Atsumu, assorbendo l’impatto della risposta, si scoprì improvvisamente sconvolto. “Davvero è così facile?” Domandò piano, come se alzando la voce anche di mezzo tono avrebbe potuto fargli cambiare idea.
 
“Che vuoi dire?” Lo sentì chiedere aggrottando le sopracciglia.
 
“Cioè, usciresti con me? Con me?”
 
“Usciamo sempre, dov’è il problema?”
 
No, non uscivano mai. O, almeno, non le uscite che si era immaginato Atsumu. “Omi, mi sa che stiamo parlando di due cose diverse.” Lo avvisò, mettendosi a sedere dritto e sporgendosi verso di lui. Omi finalmente si girò a guardarlo in faccia, il viso completamente rilassato. “Io intendo uscire con me.” Lo vide annuire, sicuro. “Come un appuntamento, capisci? Tenersi per mano, lingua in bocca, sveltine nel ripostiglio, cose così.”
 
“Sei decisamente schifoso.” Ma ridacchiava mentre lo diceva e cazzo se non era l’insulto più bello che gli avessero mai detto. “Ho detto di sì, cosa c’è di difficile?” E aveva una spolverata di rosa sulle guance e non riusciva più a guardarlo negli occhi e voleva solo buttarsi su di lui e non lasciarlo andare mai più.
 
“Non mi stai prendendo in giro, vero?” Domandò cauto, il cuore che batteva all’impazzata. “Perché sono a mezzo secondo dall’avventarmi su di te e non voglio cominciare ora a coprire denunce di molestie.”
 
“Non dovrebbe succedere al terzo appuntamento?”
 
“L’hai detto tu, usciamo sempre, dove sarebbe il problema?” Ghignò e lo vide cercare di aggirare pensoso la logica della frase. “Quante volte l’abbiamo fatto? Ormai il terzo appuntamento è un ricordo lontano.”
 
“Non esagerare.” Lo ammonì, girandosi per continuare a guardare la partita con aria concentrata. “Siamo a malapena a cinque.”
 
“Cinque cosa?”
 
“Cinque uscite.” Si morse il labbro al muro dei Falcons. “Cazzo, devo far vedere questo all’allenatore. Aran-san è veramente forte.”
 
“Sì, è fantastico, ma non ti distrarre.” Atsumu si alzò e bloccò velocemente il video, incespicando con i tasti per la fretta. Omi sospirò rassegnato, un sorriso leggero sulle labbra. “In che senso cinque uscite? Erano appuntamenti?”
 
Omi lo fissava con un’espressione consapevole che lo fece uscire di testa. “Mi hai scarrozzato in auto più volte di quanto servisse.” Cominciò a spiegare con tutta la pazienza del mondo.
 
“Siamo amici, lo faccio con tutti.”
 
“Con chi?” Chiese tranquillamente, inclinando la testa di lato. Atsumu boccheggiò ma non seppe rispondere. “Presumo quindi che tu vada a prendere un sacco di gente avvertendola solo con un messaggio e conoscendo perfettamente i loro orari di lezione e allenamento.” Strinse le labbra, godendosi il suo sguardo smarrito. “Sei un amico veramente premuroso.”
 
“Oh, fottiti. Ok, passi la macchina. Che altro?”
 
“I dolci. Il disinfettante. Le discussioni sul prendermi cura di me stesso. Il pomeriggio sul campo dei Jackals quando non c’era nessuno.” Adesso che lo sentiva ad alta voce si rendeva conto che sì, effettivamente si comportavano come in una relazione da un casino di tempo.
 
Si era preoccupato inutilmente. Si sentiva così stupido.
 
“Non sono cinque uscite.” Borbottò, solo per il gusto di avere ragione.
 
Omi accettò tranquillamente. “Ok, non sono cinque. Sinceramente non so quante sono ma sembra che stiamo insieme da un po’.” E arrossì, evitando di guardarlo. Era adorabile e voleva mangiarlo, ma non era ancora nel pieno delle sue facoltà mentali.
 
Atsumu era decisamente sconvolto. “Quando avevi intenzione di dirmelo?”
 
“Che ne sapevo che non avevi capito? Ti comportavi in modo così normale.”
 
Aveva ragione, cazzo. Aveva ragione, era stato lui quello un po’ tirato tra i due, Atsumu aveva sempre agito con la facilità della consapevolezza, con la differenza che non se ne era mai accorto. Dio, aveva ragione Samu quando diceva che non capiva un cazzo.
 
“Pensavo non volessi definire niente.” Gli rivelò Omi con una smorfia leggera e voleva prendersi a pugni da solo.
 
“Credimi, ho affrontato un sacco di tempo e conversazioni imbarazzanti per poter definire qualcosa senza rovinare la carriera di nessuno dei due.” Gli disse portandosi le mani ai capelli e tirandoseli leggermente fino a sentire il bruciore delle radici perché sì, doveva capire se era vero e il dolore era la via più veloce.
 
“Non ho una carriera.”
 
“Omi, sinceramente, vaffanculo. Ogni fottuta squadra sta litigando per te, hai una carriera.” All’improvviso nella testa si stabilì un singolo pensiero decisamente fastidioso. “Quindi sono passati mesi.” Vide Omi annuire e finalmente, finalmente, stabilì le giuste priorità. “Omi, devo baciarti.”
 
“No.” Ed era definitivo. Era secco e fermo e decisamente arrabbiato.
 
“Ne ho bisogno! Perché no?”
 
“Perché no.”
 
“Oh mio Dio, sei il ragazzo peggiore del mondo, hai bevuto dal mio bicchiere! Non ti va di baciarmi?” Cazzo, era vero, aveva bevuto dal suo bicchiere. Per sbaglio, sì, ma dopo non si era scolato mezzo litro di alcool denaturato per disinfettarsi la bocca e questo avrebbe dovuto aprirgli gli occhi in più di un modo.
 
Lo vide mettere il broncio e arrossire facilmente, quindi sì, lo voleva quanto lui. “È il tuo primo bacio?” Domandò con un sorriso intenerito. Aw, il suo Omi, così puro e innocente.
 
Omi sbuffò derisorio, quasi ridendo. “Certo che no.” Atsumu si pietrificò. “E se continui così non sarà neanche l’ultimo con la stessa persona.” Lo scansò, ignorando la sua espressione decisamente oltraggiata, e riprese la visione della partita. “Mettiti seduto, prima mentre parlavi Kageyama ha fatto qualcosa che dovresti decisamente vedere.” Si riposizionò sulla sdraio, le ginocchia al mento e lo sguardo di nuovo concentrato.
 
Atsumu continuò a fissarlo sconvolto per tutto il resto dello scontro.
 
Quando Samu ritornò, gli chiese come era andata la partita e chi avesse vinto. Non aveva saputo dargli una risposta.
 
 
 
 
Note

Non mi hanno rapita gli alieni, solo l’università.
 
Salve a tutti! Ho un paio di appunti da fare.
 
  • Non volevo approfondire troppo la questione sui diritti LGBT in Giappone, non è quel tipo di storia, l’ho resa volutamente leggera. Ma volevo parlarne un po’, anche se solo in maniera superficiale. Atsumu alla fine qua è un ragazzo di 20 anni, diventato personaggio pubblico. Una celebrità minore, sì, ma pur sempre una celebrità. E fanno scandalo facile.
    Mi sono informata per cercare di capire come muovermi, per rendere la cosa non dico credibile perché è comunque una fan fiction, ma almeno accettabile, senza rendere il tutto troppo rosa.
    Wikipedia in merito è stata molto esaustiva (sì, dopo varie capocciate in giro sono andata sul sicuro): dal 2015 alcune città, tra cui Osaka, hanno iniziato a emettere certificati di relazioni alle coppie omosessuali. Dal 2017, primo caso, Osaka permette alle coppie omosessuali di essere riconosciute come famiglie affidatarie.
    Ci sono varie personalità dello spettacolo e della politica transessuali, quindi l’accettazione sta cominciando ad avere piede.
    Quindi Atsumu si fa le sue giuste paranoie, poi Sakusa manda tutto all’aria. Ma alla fine è una mia storia, quando scriverò qualcosa di veramente serio congelerà l’inferno XD
  • Spero non mi uccidiate per come li ho fatti mettere insieme. Ci ho pensato tanto, avevo tante idee diverse, dovevo solo scegliere. Vi giuro, questa è uscita fuori da sola mentre scrivevo.
    Penso che alla fine sia una conseguenza logica: molte storie nascono dal solo stare bene, senza paranoie inutili, senza problemi. Si sono imparati a conoscere, si sono accettati, si sono cercati.
    Come dice Atsumu, doveva accadere in quel momento.
 
Ho finito!
Spero vi sia piaciuto il capitolo, che sia stata una buona lettura!
Se vi fa piacere, sono aperta a critiche e commenti di ogni tipo (ma non fatemi piangere XD)
 
Grazie per aver letto!
 
   
 
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