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Autore: Ciuscream    24/03/2021    7 recensioni
Nell’arcipelago di Pentidad, vi è una leggenda: quando i protetti di Oyàla e Seruh si incontreranno, uno dei due dovrà sconfiggere l’altro e mettere fine alla guerra secolare che i due Dei conducono lontano da occhi mortali. Izar è soltanto una ragazza come tante, nell’Isola degli Stracci; non sa cosa la Dea, il destino o chiunque tessa le trame della sua sorte, abbia in serbo per lei. E, soprattutto, cosa possa fare per cambiare le carte in tavola.
“Quando il fuoco ed il vento incontreranno le spade e la morte, ci sarà una sola corona, un solo regno, un solo Dio.”
Genere: Fantasy, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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CAPITOLO II. FRAMMENTI DI PASSATO, BAGLIORI DI FUTURO
 
 
Tutta Pentidad stava festeggiando l’Iniziazione; quella era l’unica ricorrenza, l’unico sprazzo che riuscisse a far sembrare unite ed eguali tutte le genti delle cinque Isole. Per una notte, nessuno era oppresso e nessuno oppressore, nessuno straccione o signore, Re o bestia. Per quelle poche ore, ogni persona proveniente da ogni parte del Regno, sarebbe stata semplicemente un uomo, un servitore mortale del volere degli Dei – piccolo, insignificante e terribilmente ebbro.
I festeggiamenti a Nerva, l’Isola degli Stracci, erano perlopiù composti d’alcool e clamore: i tamburi si confondevano con il rumore di bicchieri rotti, colmi fino ad un istante prima di forti distillati ai cereali, in cui soltanto gli uomini potevano affogarsi con sfacciata ingordigia. Alle donne era concesso sorseggiare del vino rosso, mescolato alla poca frutta di cui disponevano in quelle terre brulle; le più audaci, una volta capitolati i mariti sotto le mannaie alcoliche, sdraiati, ululanti e stremati al suolo, si spingevano a prendere qualcosa anche per sé, per assaggiare a fior di labbra quel sapore che sapeva di forte e di proibito.
Izar si era ritrovata spesso a disprezzare quella così ostentata scompostezza: in realtà, si era limitata ad imitare quel cipiglio infastidito del padre, quel suo assottigliare gli occhi per osservare quei festeggiamenti del tutto dimentichi della sacralità dell’evento, ad esso del tutto sconnessi. L’aveva redarguita spesso, quando con gli amici aveva esagerato nei canti o nei balli, l’aveva sgridata di aver troppo danzato con Gabre o con qualche altro ragazzo del villaggio. Non era opportuno, le aveva sottolineato. Non per una bambina, non per una femmina. Sua madre ascoltava da lontano quei discorsi, senza riuscire ad inserirsi in modo incisivo, per impedire che, anche a sua figlia, quell’uomo tanto rigido sottraesse la gioia dei piedi nudi che calpestano la terra al ritmo delle percussioni, delle mani che sbattono contro i tamburelli, facendoli esplodere del loro tintinnante rumore di felicità. Izar amava cantare, lo faceva di continuo: mentre rappezzava l’orlo scucito di una sottana, mentre preparava la grande pentola sopra il camino della cucina, anche mentre si chinava per raccogliere qualche tubero maturo nella terra. Cantava quando sua madre raccoglieva, con pazienza, quei suoi capelli lunghi e corvini nell’intarsio di mille minuscole treccine. Più di tutto, però, cantava nelle feste dopo l’Iniziazione, dove aveva un piccolo pubblico a battere le mani della sua voce insolitamente grattata per una ragazzina, di quelle sue note flautate ed ardenti, al tempo stesso. Cantava e danzava ad un ritmo morbido, con le movenze acerbe di una poco più che bambina, con la stessa scanzonata mancanza di malizia. Suo padre, però, la richiamava all’ordine con le sue occhiate cariche di un qualcosa di denso e gassoso, al contempo; Izar lo sentiva premere sul petto con il peso di un macigno ma, al contempo, se lo sentiva scivolare nei polmoni, attraverso il respiro, fino a farle mancare la voce, a farle fermare l’altalenare morbido delle gambe nude.
 
«Lasciala ballare, Miguel. È solo una bambina!»
«E quando pensi le vada insegnata l’educazione? Vuoi che finisca come questi? Potrebbero provenire benissimo da Avern, per come si comportano. Sembrano animali!»
 
Izar si era trattenuta spesso perché non aveva alcuna intenzione di finire come un abitante qualsiasi dell’Isola delle Bestie. Avern – questo il vero nome di quel paese infernale – era un luogo che aveva suscitato i racconti più macabri e scabrosi che avesse mai udito nella sua breve vita. Alla verità si confondeva la leggenda; le parole di bocca in bocca si plasmavano e moltiplicavano, ma l’unica certezza, l’unica verità era che, una volta condotto lì, nessuno vi aveva più fatto ritorno. L’Isola prendeva questo nome dalle tante tipologie di relitti umani che vi erano confinati: vi erano condannati per cui non era sufficiente la morte – la morte sarebbe stata una consolazione troppo rapida e indolore, per il loro crimine. Molti traditori del Re, infatti, marcivano fra le paludi di quella terra putrida, abitata dai peggiori ceffi: attentatori, assassini di nobili, nati deformi, pazzi. Quando qualcuno mostrava segni di delirio mentale irrecuperabile e pericoloso per la comunità, veniva semplicemente etichettato come una bestia e confinato dalle strade di Pentidad – quelle lastricate di marmi e mosaici dell’Isola Madre, patria e dimora del Re e, indistintamente, da quelle dell’Isola degli Stracci o dei Commerci o degli Ori, tutte così sostanzialmente diverse ma ugualmente repellenti a quella piaga.
Chi veniva destinato ad Avern, diventava semplicemente un difettato, un dimenticato dagli Dei, un oggetto rotto ed irrecuperabile, che nessuno si sarebbe preso la briga di provare a riparare. L’Isola delle Bestie era la discarica di ogni persona che non meritasse più di portare questo nome – una cloaca a cielo aperto, una prigione senza sbarre e senza chiavi ma con la stessa, asfissiante, mancanza di futuro e di libertà.
 
Quella sera, però, non era la paura di comportarsi come una bestia agli occhi del padre a frenare la sua voglia di danzare, come se la musica che si levava già intorno gli fosse diventata invisa, fosse diventata lei stessa sorda alle lusinghe dei tamburelli e delle maracas. Quell’ombra che aveva ritrovato negli occhi del Santero era scivolata fin dentro la sua cassa toracica e aveva preso a schiacciarle i polmoni, di un’ansia ed un’urgenza che le erano sconosciute e, per questo, letali. Rimase qualche secondo a fissare la mano tesa di Gabre che aveva ancora dipinto in viso quel sorrisetto sardonico; lui la scostò e rise di quella sua stessa galanteria mimata, facendo ricadere il braccio lungo il fianco e studiando, con l’attenzione di cui sono capaci i giovani uomini, il viso di Izar – alla fine, ovviamente, non capendo niente.
 
«Che succede, Iz?» I pozzi di pece degli occhi del ragazzo cercarono le sue pupille con insistenza; queste erano distratte, però, dirette altrove. Seguì la traiettoria di quella preoccupazione e finì sulla figura del Santero, che si era ritirato su una sedia malferma lontano dalla festa e teneva il viso immerso nelle mani. Nascondeva il volto agli occhi di tutti i membri festanti della comunità, del tutto dimentichi di lui o del rito officiato poco prima. Vide il viso di Izar contrarsi per un piccolo istante, le labbra piegate in una smorfia di dispiacere.
«Cos’ho sbagliato, Gab? Non riesco a capire…» La voce della ragazza, così roca e morbida, era solo un sussurro appena percettibile sopra il vociare e il tamburellare sempre più insistente che attorniava il battuto polveroso della piazza.
«Lascialo stare, lo sai che non gli sarebbe andato bene niente, in qualsiasi caso. Avrebbe avuto da ridire anche se ti avesse scelto Trunt stesso. Dai, andiamo a giocare!»
La voce di Gabre l’aveva rassicurata spesso, negli anni trascorsi a preoccuparsi di non muovere troppi falsi in quel sentiero che le sembrava tracciato di fronte agli occhi; era stato il primo a farle prendere spesso qualche fuori strada, a farla addentrare per i vicoli sconosciuti e affascinanti di una vita che le sembrava così povera e disadorna. Si erano raccontati storie di loro due, ben vestiti, ben nutriti, dalle spalle alte e fiere, intenti a chiacchierare con gentilezza e un po’ di vanità con qualche avventore dell’Isola degli Ori. In quelle fantasie di bambini, erano un Principe ed una Principessa, avevano gli abiti scarlatti e blu notte che erano riservati a quella classe, finemente intarsiati con fili d’oro e d’argento. Izar specificava che sarebbe stata lei a descrivere quelle trame fitte e delicate sulla stoffa: nessuno l’avrebbe potuta battere con l’ago e con il filo; sarebbe stata la più grande sarta che Pentidad avesse mai conosciuto. Gabre la rimbeccava: Che ti importa di essere un’ottima sarta se sei la Principessa di Vraen? Lei rispondeva che importava tutto, invece. Le Principesse non smettono di essere brave.
Quei ricordi le sembravano di una vita precedente, in cui quei sogni sembravano reali e fattibili, in cui aveva sperato di fuggire da quell’esistenza infima e logora, di non rimanere immersa in quelle tuniche e quelle stoffe lacere, di smettere di percorrere quelle strade di sassi e polvere. Sperava avrebbe dimenticato gli zigomi sporgenti della fame, le labbra secche della sete e i nasi spellati dal troppo sole, quelle lentiggini che le invadevano il viso mulatto quando rimaneva tutta la giornata ad aiutare suo padre nei campi; voleva mani morbide ed accoglienti, voleva conoscessero lo spessore minimo di un ago e quello fresco e duro del ditale, non quello delle pentole ruvide e consumate o delle pale e delle canne scheggiate.
Gabre, come sempre, la richiamò alla realtà mentre i suoi occhi erano lontani e vacui, immersi in pensieri altri. La strinse per un polso e la strattonò piano.
«Dai, Iz. Gli assomigli quando fai così! Andiamo!» L’amico conosceva a menadito i punti sui quali far leva per scuotere la sua coscienza e farla tornare quando si ritrovava con la testa a girovagare altrove; infatti, la ragazza trascinò le pupille su di lui con uno scintillio fiammeggiante e vagamente sinistro, svettò un sopracciglio in alto e allungo l’indice della mano che lui non teneva fra le sue, con fare accusatorio.
«Non ti permettere, sai?»
Si ritrovò a ridere, quasi senza volerlo; quasi se quelle poche sillabe fossero arrivate ad allentare quella stretta di spire sul suo cuore, quell’azzeramento d’aria e fiato. Decise di non pensarci troppo, non quella sera, non ancora; abbandonò ogni pensiero rivolto a suo padre e a Pedira, mentre seguiva Gabre, inciampando tra i molti ciottoli e radici del terreno sconnesso. Il villaggio era irriconoscibile: c’erano musica e colore, sorrisi e un profumo di alcool e cibo, un fruttato sapore di libertà che si mischiava all’odore del sale e del sandalo, che ancora aleggiavano e svaporavano dal fuoco vibrante. Aveva caldo, la tunica le concedeva poco movimento; avevano riciclato quella dell’Iniziazione di una sua cugina, molto più esile e minuta di lei, e le gambe avevano difficoltà a compiere un passo senza essere impedite dalla stoffa.
Molti giochi artigianali e rozzi erano stati costruiti nei vari angoli della grande piazza: un’altalena di legno e fune, dei percorsi a terra tracciati con stecchi e candele, un albero della cuccagna alto e povero, che attirava comunque molti coraggiosi scalatori. C’era un’atmosfera insolita e piacevole, quella che aleggiava nell’aria solo in quella specifica notte dell’anno; l’avevano vissuta diversamente, fino a quel momento. Adesso erano di diritto anche loro nel mondo dei grandi, quel mondo che tanto avevano discusso e, in fondo, disprezzato.
«Diventeremo come loro?» Izar trattenne Gabre facendo leva sul polso che stava stringendo e lo costrinse ad osservare quello spettacolo inusuale, quei volti che tradivano così tanta fatica e tanto sgomento, anche nella felicità – soprattutto, nella felicità, quella a cui non erano mai stati abituati.
Gabre le sorrise di un ghignetto meno convinto dei precedenti; si chiuse nelle spalle poi, cercando i suoi occhi. Sembrava stranamente serio, quasi solenne.  
«Probabilmente…» le confessò a bassa voce, annuendo impercettibilmente con il capo. Il viso mulatto era illuminato dalle fiamme solo per metà; quella strana prospettiva della luce metteva in risalto piccole cicatrici che intarsiavano la sua guancia, segno di una malattia che pochi anni prima l’aveva avviluppato e di qualche schiaffo ben piazzato dalle mani unghiate della madre. Sorrise, poi, cercando ancora i suoi occhi. «Ma non stasera.»
Ridacchiò ma, alla fine, risultò soltanto uno sbuffo d’aria a labbra schiuse; terminò così quel momento così inedito per il suo carattere irruento e giocoso, e se la trascinò dietro fino ad un grande sacco di stoffa lisa, appeso ad un albero con una fune. Era grande e decisamente ricolmo, penzolava pericolosamente, come attaccato per un gancio sottile e piuttosto malfermo. Izar lo fissò di sbieco con un’espressione perplessa e divertita al contempo, incrociando le braccia al petto.
«La Pignatta? Davvero?»
Gabre rise e se la tirò davanti: le strinse piano le spalle nelle mani ruvide, a tenerla ferma esattamente di fronte a sé. Lei tremò impercettibilmente di quel tocco innocente ma, allo stesso tempo, così intimo, anche per loro.
«Sì, la Pignatta, Izar. Non ti sentirai già mica troppo grande, mh?» Lei gli dava le spalle; le si era avvicinato piano all’orecchio, a sussurrarle direttamente sui timpani quelle poche parole. Prese un piccolo pezzo di stoffa e glielo legò stretto attorno agli occhi, ad immergerla nel buio dolciastro al sapore di festa. Era una sensazione piacevole e confondente quella di averlo così vicino, di sentirlo sfiorare la sua pelle ambrata con questi gesti leggeri e noncuranti. Era carezzata dalle sue mani e da quel vento che aleggiava ancora sopra la terra, spettinandoli e rinfrescandoli, facendo frusciare leggere le fronde degli alberi. Izar rimase in silenzio ma ogni sensazione, privata della vista, si era moltiplicata, quasi avesse preso la forza anche del senso perduto. Si spaventò appena quando sentì il freddo del legno vicino alla mano; Gabre rise ancora e la tranquillizzò, poggiando leggero una mano sulla tunica, all’altezza del centro della sua schiena, sfiorando le punte ultime delle lunghe treccine.
«Ecco, prendi. Vediamo se sei migliorata!»
«Se colpisco la tua testa, cosa vinco?» Izar mugolò infastidita il suo disappunto, mentre le dita si muovevano leggere ad arpionarsi contro il piccolo bastone. Era sempre stata pessima, a quel gioco. Fendeva l’aria con colpi decisi ed irruenti ma mai, praticamente mai, aveva colpito il sacco e fatto precipitare il contenuto. Ricordarle la sua incapacità era uno dei passatempi preferiti dello Stracciano, che ancora le ghignava accanto, invisibile alle sue iridi sfumate.
«La mia testa è molto più dura di quel bastone, quindi concentrati sull’obiettivo!» Si voltò verso la poca folla che era lì attorno; alcuni troppo ebbri per vederli chiaramente, altri, pochi, bambini a giocare su percorsi improvvisati nel pestato polveroso. Altri ragazzi della loro età li fissavano un po’ perplessi: se Gabre era amico di ciascuno di loro, Izar era pur sempre la figlia del Santero che, ultimamente, stava mettendo in difficoltà le loro famiglie con regole troppo stringenti per una realtà così degradata: chi chiede, deve offrire. E lui, oltre a parole pregne di grande dignità e rispetto, offriva poco altro – moriva di fame come tutti gli altri.
 
«La tua amica non dovrebbe nemmeno stare qui. Fosse per suo padre, nulla di tutto questo ci sarebbe.» Il ragazzo parlò, nel buio in cui era immersa, con la violenza di un colpo di frusta; sentì le sue parole distintamente, sopra tutto il clamore, come se le fossero state pronunciate direttamente sul lobo. Questo si interruppe per un istante e si prese quella piccola pausa, prima di continuare; Izar lo immaginò allargare le braccia verso Gabre, ad indicare quell’allestimento scarno ma colorato, un unicuum nel panorama del villaggio.
«Dovremmo stare tutti zitti e buoni. Lavorare e pregare, lavorare e pregare, finché non crepiamo di fame o di fatica. Vero, Izar?»
L’acredine nella voce del ragazzino ritornò alle sue orecchie con uno stridio scivoloso; nel buio in cui la immergeva la benda che aveva ancora addosso, colse ogni sfumatura di quelle parole astiose che non si sentiva di condannare. Il villaggio, l’Isola, erano sempre stati in ginocchio, da quando aveva memoria; suo padre aveva chiesto rigore e rettitudine, ma rigore e rettitudine sono parole di cui riempirsi la bocca quando la vita offre spirargli d’ingordigia e frivolezze. Lì, in mezzo a quella terra brulla ed afosa, nulla di tutto ciò era presente. Vi erano solo restrizioni e rinunce e nessuno era pronto a lasciare le poche briciole raccolte sul fondo del barile.
Izar fece scivolare la benda giù dagli occhi, il bastone ancora stretto fra le dita; si rese conto che la presa su questo era così serrata da farle imbiancare le nocche. Gabre fece per rispondere ma lei lo zittì alzando la sinistra libera, con un movimento leggero delle dita. Piantò le sue iridi sfumate su quelle nocciola del ragazzo di fronte a lei – aveva le braccia conserte, le sopracciglia aggrottate e lo sguardo duro e fermo del risentimento.
«Hai ragione, Santiago. Fosse per mio padre, non ci sarebbe tutto questo.» Concesse, con la voce – già di per sé lievemente roca – ancora più grattata dal groppo che le sue sillabe le avviluppato in gola. «Io non sono come mio padre, però.»
«Adesso no, eh? Marlia non ti ha scelta, adesso sei un disonore come tutti quanti noi. Povera Izar, dovrà fingere di divertirsi alle feste dell’Iniziazione.» Mugolò un’espressione piagnucolante, una vocina minuta e caricaturale; Izar lo fissò con un sopracciglio alzato e lui abbozzò un sorrisetto e così altri due ragazzi accanto a lui.
«Ti conviene girare a largo, figlia del Santero e di Pedira.» Lo scherno era così palese nella sua voce che, a malapena, poteva distinguersi tra le sillabe; Gabre le strappò il bastone di mano, senza dire una parola, pronto probabilmente a giocare alla Pignatta con la testa di tutti i presenti.
Izar lo ignorò – ignorò tutto, per un lunghissimo ed interminabile istante: si sentì svuotata e poi riempita, nuovamente; vuota e piena al tempo stesso di una rabbia che non aveva corpo e non aveva nome, una sensazione che avrebbe potuto descrivere come un viscerale e malsano desiderio di rivalsa, una sconfinata brama di vittoria, alimentata da una frustrazione antica che mai aveva conosciuto in quel suo corpo e in quei suoi giorni di ragazzina. Le sue mani tremavano appena, i capelli erano scompigliati da un vento che, da leggero, si fece via via più potente, spazzando su di loro con violenza morbida. Non era ancora irruento ma era insolito, scompigliava le vesti ed i rami con folate dalla forza sconosciuta per le terre secche di Nerva, per la sua asfissiante afa. Izar e Gabre erano ancora fermi; quest’ultimo fece per parlare, ma l’altro di fronte a loro riprese, allargando le braccia proprio come aveva immaginato poco prima sotto la benda.
«Mi hai sentito o no? Vattene!»
Izar lo aveva sentito ma non riusciva a muoversi né a rispondere; desiderò soltanto che tacesse, che quella sua bocca fosse erosa dalla sua stessa pelle, fosse inghiottita dentro il suo corpo e questo dentro la terra, fino al nucleo morbido e cocente della stessa, fino a liquefargli quell'espressione aggrottata, a farlo sparire, corroso dalla sua inutilità, plasmato di materia pronta a generare forme di vita più splendenti e capaci, fino a ridurlo in brandelli di carne irriconoscibile, sanguinolenta, molle, sfinita.
Elaborò questi pensieri confusi e sconnessi – estranei – in frazioni di secondo in cui si sentì altra da sé stessa; quello che ne seguì, accadde troppo velocemente: una folata di vento molto più irruenta delle precedenti, fece precipitare da un ramo alcune delle molte lanterne che addobbavano e rischiaravano il perimetro della festa. Una di queste, cadde ai piedi di Santiago e si ruppe con uno schianto secco, rilasciando in un istante la potenza di una fiamma molto più forte di quella della candela; come se il suo corpo e la sua tunica fossero cosparse di liquido infiammabile, il fuoco salì dalla sua caviglia, la avvolse e si arrampicò lungo la tunica, in quello che ad Izar parve il tempo di un battito di ciglia. Il ragazzo non fece in tempo a lanciare il primo lancinante grido di paura, che il fuoco ne avvolgeva la parte inferiore, mischiando al terrore anche un dolore sordo ed insopportabile, lancinante.
Quello che sentì dopo, furono solo gli strilli di Gabre e degli altri, colpi di stracci sopra quel suo corpo avvinto dalle fiamme; lo vide divincolarsi, ululare per il dolore per la carne sfrigolante, sentì suo padre urlare di far largo alla folla che si era premuta sulle vesti ormai quasi spente di Santiago mentre lei era immobile, piantata a terra, con il palmo ancora schiuso dove Gabre le aveva sottratto il bastone. Ansimava: poteva udire soltanto i battiti impazziti del suo cuore che sentiva rimbalzare in ogni dove, i timpani ovattati e sibilanti come dopo una deflagrazione immensa, devastante, quella che le sembrava fosse esplosa nella sua mente dove una potenza di pensieri orrendi ed estranei si era insinuata, l'aveva posseduta, le aveva smosso le angosce con spunzoni arroventati.
Avvertì le gambe diventare deboli, le forze scivolare via dal suo corpo esile; l’unica cosa che riuscì a sentire distintamente, sopra i lamenti della folla spaventata, era la voce di sua madre che si chinava sul suo corpo quasi esanime e quella di suo padre che continuava a ripetere di chiamare le guaritrici.
   
 
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