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Autore: Gaia Bessie    31/03/2021    2 recensioni
Ogni mattina, Asahi si sveglia con la memoria che gli ha cancellato i suoi ultimi dieci anni di vita.
Ogni mattina, Asahi deve ricostruire tutto quel tempo tramite i post-it, le fotografie e le registrazioni del suo coinquilino, Suga.
Ogni singola mattina. In un appartamentino a New York, Asahi e Suga ricostruiscono loro stessi, giorno dopo giorno.
[AsaNoya, Suga/Shimizu | Mini-Long di tre capitoli | Angst, possibile OOC | Terza classificata al Contest "Let’s cliché!" indetto da _Vintage_ sul forum di EFP]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Slash | Personaggi: Asahi Azumane, Kiyoko Shimizu, Koushi Sugawara
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Senza ghiaccio, per favore



2.
Old Fashioned aromatizzato alla menta
 
Avessi finito sarebbe stato meglio
Hai poco tempo ormai
Per vivere una vita che non sentirai
Chiudo il sole in un attimo
Anche se non dormirò oh
E i pensieri passano
Come eclissi resti qui
Io resto qui
E danzeremo come i brividi
Mentre la vita suonerà
Con le dita tra le vene

 
«Ti lascio fumare da sola, se vuoi».
Suga sospira, scuotendo via dai capelli quell’odore di cenere che lei gli ha lasciato addosso, irrimediabilmente incollato alla pelle. Kiyoko sospira, sfumando puzzo di sigaretta nell’aria, contro i propri vestiti – contro la propria anima.
Non risponde, facendolo ridere in silenzio. «Tu sei ancora quella che fuma» commenta, divertito. «E non parla».
Lei ricambia il sorriso, luminosa come una stella, e i lunghi capelli scuri sono quella notte che l’avvolgono.
«E tu hai perso ancora una volta le chiavi di casa1» constata lei, con il medesimo tono usato da lui. «Asahi dorme ancora?».
Suga la guarda – ha del nero, negli occhi – e non riesce nemmeno a rispondere: gli s’incastra la voce in gola, così riesce solamente a regalarle un silenzio disorientata.
«Penso di sì» tossisce, ancora, mentre un cameriere si avvicina a grandi passi. «Si sveglierà tra qualche ora».
«Mi dispiace, signora» commenta il cameriere, sorridendo amabilmente. «Qui dentro non si può fumare. Posso portarvi altro?».
Shimizu sorride, spegnendo la sigaretta nel posacenere, forse dispiaciuta di non poterla assaporare un’ultima volta.
«Per me un Old Fashioned» commenta, amabilmente. «Con poco ghiaccio, non fa ancora abbastanza caldo».
Suga sorride – gli ha sempre fatto schifo, l’Old Fashioned, prima di scoprire che era il suo cocktail preferito – e fa un segno al cameriere.
«Due» commenta, piano. «Il mio senza ghiaccio, ma con una fogliolina di menta sopra».
«La menta uccide i sapori» commenta Kiyoko, che non è fan del mojito ed eppure fuma sigarette al mentolo. «Hai mal di gola?2».
Lui scuote il capo, le guarda le mani come se lì sopra potesse leggervi le risposte – Shimizu, istintivamente, chiude i pugni: non serve a niente, la fede riluce comunque sopra l’anulare, per quanto lei possa provare a nascondergliela.
«Avessi finto» domanda, sfilandosi l’anello e riponendolo nella pochette indaco. «Sarebbe stato meglio?».
«Forse» risponde Sugawara, criptico. «Ti avrebbe tolto, ci avrebbe tolto, un peso. E adesso dormiremmo sogni tranquilli, non credi?».
Lei ha delle occhiaie che le sfregiano lo sguardo in un sussurro stentato, tirato fuori con le pinze da quella bocca colorata di rosa: da quant’è che non dormi, chiede Shimizu, da quant’è che stai così?
Il cameriere posa sul tavolo i due bicchieri – con la foglia di menta, va bene o ne vorrebbe ancora? – e sorride, lasciando uno scontrino davanti al centrotavola.
Shimizu lo tira verso di sé, prendendosi un’occhiata storta da Suga, e sorride dolcemente. «Basta per davvero?» domanda, prendendo il portafogli. «Per dimenticare».
Lui pensa che non si tratti di nascondere – il conto di una serata a bere come vecchi amici, la fede – ma di dimenticare. E lui non ci riesce, perché sulla mano leggermente abbronzata di Kiyoko spicca un cerchietto di pelle più chiara.
E adesso dove andrà, lei, che le promesse sa solamente infrangerle e mai mantenerle? Dove andrà, lui, che non è riuscito a farle infrangere l’unica promessa che contasse qualcosa?
Kiyoko sospira, rendendosi conto che potrà averli separati un oceano, prima, e mezza New York poi. Ma non basterà mai a permettere a Suga di dimenticarsi che, in un momento di cieca debolezza, quando nessuno se lo aspettava lei.
Lei gli ha detto ti amo.
Con il viso nascosto in un cuscino, e la mano che le copriva il viso (stava piangendo?) e le parole che colavano tra i denti come sangue. Suga l’ha sentita, e non ha dimenticato che – a prescindere da tutte le coincidenze, le pugnalate e i silenzi, lui – l’ama ancora.
«Forse» commenta lui, bevendo un sorso dal proprio bicchiere. «Farei meglio a essere io, quello che finge».
Lei sorride – giuri che i ricordi li conserverai? – e scuote i capelli scuri, nascondendo il proprio sguardo da quello di Suga.
«Potresti?» domanda, facendo scivolare sul tavolo una manciata di monete per il cameriere. «Perché io non riesco».
Suga sospira, stropicciando una ruga nella fronte che ha seminato lei – seminato, ma raccolto mai.
«E cosa dovrei dirti?» domanda, finendo in un sorso il proprio cocktail. «Che a me va bene fare tutto questo di nascosto?».
«La vita è amara, Suga» commenta lei, giocherellando con il bordo del proprio bicchiere. «Ma forse è per questo che tu hai bisogno della menta, e io no».
Kōshi pensa distrattamente a quanta ragione abbia, lei, e sospira su quella fogliolina di menta rimasta sul fondo del bicchiere, orfana.
«Sei tu ad essere amara, Kiyoko» commenta, calmo. «E non c’è menta che tenga, contro di te, e penso che tu lo sappia».
Lei sospira, rassegnandosi a sorbire un sorso del proprio cocktail: il ghiaccio s’è già un po’ sciolto, annacquandolo, ma a lei non importa.
«Sarò anche amara» borbotta. «Ma lo sapevi, che non era tempo, Suga».
Lui ride – e fanno male, i polmoni, come se quello ad aver consumato una sigaretta dietro l’altra fosse lui – e si morde un labbro per frenare le parole (e non ci riesce).
«Non lo è mai» commenta, atono. «Non pensi che sia il momento di compiere una scelta, Kiyoko?».
Lo dice sorridendo – ed è sempre Mr. Refreshing – ma, dentro, Suga sta bruciando di una rabbia insensata che gli consuma le ossa come cerini.
«Io l’ho fatta, la mia scelta» sussurra lei, rimettendo la fede al dito. «E tu?».
«Se l’avessi fatta» constata Sugawara, con una calma che non prova. «Non saresti qui con me, non credi?».
Lei incassa il colpo, beve l’ultimo sorso di drink e il ghiaccio tintinna sul fondo vetroso del bicchiere.
«Nemmeno tu» commenta, senza scomporsi. «Eppure sei qui, a bere un cocktail che nemmeno ti piace».
L’ha sempre saputo, Kiyoko, che Suga ordina l’Old Fashioned per sentirsi vicino a lei, l’ha sempre saputo ma sceglie di dirglielo solo ora. Mentre s’avviano verso l’uscita del locale e lei s’accede una sigaretta appena fuori dalla porta.
«E tu sei qui, e ancora fumi ma non parli» commenta lui, calmo. «Non cambierai mai, non è vero?».
Lei ride, piano. «E tu le hai in tasca, le chiavi di casa» commenta. «Anche se non lo ammetterai mai».
Suga ride, agitandole davanti il viso un mazzo di chiavi con un anonimo anello di metallo.
Lei pensa che, adesso, andrà via per sempre.
«Passami una sigaretta, ti va?».
 
***
 
Quando Asahi si sveglia, non è più lui: tutto nel suo volto sembra strano, fuori misura, declinato in un tempo che non gli appartiene – quand’è che ha smesso di essere il ventenne di belle speranze, innamorato dell’idea dell’amore e con un bagaglio pieno di sogni?
Parte sempre dalle mani, gli sembrano invecchiate anche quelle: il viso è l’ultima cosa che guarda, prima di gridare (e scoprire anche la voce appare diversa) di fronte a degli occhi contornati da sottili rughe che prima semplicemente non esistevano. Scopre sentieri di anni che non ricorda, tic improvvisi, qualche tremore mentre si sfiora il volto con le mani.
Sul mobiletto del bagno, una cassetta. Ascoltami, mormora l’oggetto ad Asahi, ed ha sempre e solo una voce – quella di Noya, quella sbagliata.
Ascoltami, urla la cassetta, finché lui non lo fa e pian piano comincia a ricostruire i pezzi sfilacciati della propria memoria. La voce di Suga lo guida in cucina, dove si prepara la colazione («Ti piacciono da matti, i biscotti alla cannella!») e poi in camera da letto («Se è giovedì, ricorda di mettere una camicia!») fino a ritrovare il proprio quaderno dei compiti. Distrattamente, si domanda quanto tempo Suga possa averci impiegato, per ricostruire pezzo dopo pezzo gli anni che Asahi ha dimenticato.
La terza fotografia reca un messaggio sbiadito: ricordati di ascoltare la seconda cassetta, la trovi nel cassetto dei calzini.
È una fotografia di lui e Suga al gate dell’aeroporto, con lo zaino in spalla e due valigie più grandi di loro. Chissà chi l’ha scattata, si domanda, chi ha permesso loro di prendere armi e bagagli e fuggire negli States.
Una parte del suo cuore – invasiva e importante – teme che sia stato Nishinoya, che abbia benedetto la loro partenza e poi sia svanito nel nulla. Quella sera, come in tutte le altre, Sugawara gli confesserà che il misterioso fotografo altri non era che Daichi, con l’espressione più scontenta che gli abbia mai visto metter su.
Suga sorride, nell’istantanea, ma semplicemente è un sorriso forzato e che ha un sapore (mentolato) ben definito: quello della mancanza. S’intravedono Tanaka e Shimizu, abbracciati in un angolo della fotografia, le fedi nuziali che brillano come le promesse infrante che Sugawara ha pronunciato sopra un cielo punteggiato di stelle.
Di Yū non v’è traccia. In nessun angolo della fotografia, non è sotto il tabellone dei voli, non è con loro: non è e basta. E, una parte di Asahi, se lo domanda distrattamente mentre cerca la seconda cassetta nascosta nel cassetto dei calzini: cos’è ha fatto, di così grave, per impedire a Noya di venire a salutarlo?
«Ciao di nuovo!» la voce di Suga squarcia il silenzio, facendolo sorridere. «Se mi stai ascoltando, hai trovato la seconda cassetta».
Asahi si siede sulla sponda del letto, cercando di non perdere nemmeno una delle parole del proprio ex compagno di squadra, la fronte aggrottata su delle frasi che vorrebbe (lo vorrebbe per davvero) non comprendere.
«Secondo i miei calcoli, dovrebbero essere circa le undici di mattina» commenta Sugawara, con voce metallica. «Se è giovedì e non sei ancora pronto, vedi di darti una mossa».
Asahi lancia uno sguardo curioso a un calendario appeso dietro la porta di camera sua, per scoprire che oggi non è giovedì, ma venerdì. Oggi niente camicia, niente barba da rifare, solamente una pizza alle otto con Sugawara che ha deciso che toccherà sempre a lui scegliere i film – d’altronde Asahi non ricorda mai cos’hanno visto e cosa no.
Abbiamo fatto della routine il nostro punto di forza, sussurra Suga tra un’informazione e un’altra, quindi seguimi.
«Se davvero sono le undici, preparati» commenta il suo coinquilino, con finta allegria. «Tanaka e Shimizu vengono a portarti il pranzo, dato che il venerdì ho il turno al doposcuola».
Asahi si avvia verso l’armadio, riscoprendo vestiti che non sapeva d’aver mai comprato: indossa una maglietta nera – troppo Karasuno per la sua sanità mentale – e pettina i capelli nel suo solito chignon (Kiyoko aveva mentito, non gli sono mai caduti).
«Probabilmente Shimizu avrà insistito per cucinare lei» prosegue Suga, calmo. «Puoi buttare tutto nell’organico o, se ti senti coraggioso come sempre, trovi un antiacido nel cassetto dei medicinali».
Asahi sorride, prendendo la scatola dalla piccola farmacia del proprio coinquilino (se stai male, recita il post-it sopra il cassetto), e lasciandola in bella vista sulla propria scrivania, nella stanza adiacente.
«Un’ultima cosa» commenta la voce di Suga, con un’urgenza del tutto inedita. «Ti chiederanno di me. Dì loro che farò molto tardi, anche se sai che tornerò per le otto».
Asahi trattiene il respiro, di fronte a quella confessione: nonostante sia distorta da una nota metallica, la voce del suo coinquilino s’incrina inesorabilmente.
«Tu non lo sai» sussurra Suga, cercando di misurare bene le parole. «Shimizu ha sposato Tanaka pochi giorni prima che io e te ce ne andassimo. Io… non ho nemmeno partecipato al matrimonio, non ne ho avuto la forza».
Il rumore del citofono sega l’aria in due, facendolo sobbalzare: Asahi percorre la planimetria poco familiare della casa, attraversando il piccolo appartamento fino a raggiungere il videocitofono. Ha ancora la voce di Suga nelle orecchie.
«Fino alla fine» gli confessa. «Ho pensato che avrebbe scelto me, che sarebbe venuta qui con noi».
Tanaka e Shimizu sorridono, dall’altro lato del videocitofono, facendogli un amichevole cenno con la mano.
«Io non la perdonerò mai» sussurra Suga, atono. «Continuiamo a vederci, anche se Tanaka non lo sa».
Asahi preme il bottone per aprire il portone, e s’apposta davanti alla porta pronto ad aprirla, mentre sente il rumore di tacchi e scarpe sulle scale. Sospira, cullato dalle ultime parole del proprio coinquilino.
«Credo di amarla ancora, Asahi, anche se lei non ammetterà mai di provare le stesse cose» sussurra. «Falla andare via prima del mio ritorno, ti prego».
La voce di Sugawara si interrompe bruscamente, in sincrono con il suono del campanello: Asahi apre la porta, il cuore batte così forte che potrebbe squarciargli persino l’anima – come quello sguardo divertito che Shimizu gli rivolge, sistemandosi gli occhiali sul naso: lei sa, pensa Asahi, ha sempre saputo.
 
***
 
Shimizu si muove nella cucina minuscola come se ne fosse la padrona, togliendo rivestimenti di alluminio, prendendo padelle e un mestolo. Non ha bisogno dei bigliettini di Suga, non ha bisogno di suggerimenti che Asahi comunque non sarebbe darle, mentre prende dei bicchieri puliti e comincia ad apparecchiare.
«Ti va un bicchiere di vino?» domanda Shimizu, dolcemente. «Mi ha lasciato scritto Suga che, a volte, con la carne non ti dispiace».
Asahi annuisce, senza nemmeno comprendere bene la domanda: la cucina, regno di Suga e occupata illegalmente da Kiyoko, sa di menta e buccia d’arancia essiccata. In un vaso marrone, una piantina che resiste all’aria viziata dell’appartamento: odora come i vestiti di Shimizu, di sigaretta al mentolo. Kiyoko non fuma in casa, ma dalla tasca dei pantaloni emerge un pacchetto di Newport mezzo finito (o forse mezzo cominciato?) e un accendino viola. Asahi vorrebbe domandarglielo, rischiando di sembrare fuori luogo o poco educato, ma da quand’è che cominciato a fumare.
Lei gli sorride, nel rendersi conto che Asahi sta fissando quel pacchetto un po’ accartocciato di sigarette al mentolo. Come ogni giorno, Kiyoko sorride senza arte, senza dolcezza – e allora chissà che arte e che dolcezza vi vede Suga, si domanda Asahi, chissà che poesia riesce a leggervi dentro.
«Da un po’» commenta, semplicemente. «Siete sempre stati voi, gli atleti».
Tanaka – che è ancora atleta, anche se invecchiato anch’egli – ride ad alta voce, facendo tuonare le pareti. Asahi non riesce a ridere: vorrebbe domandare di Nishinoya, ma lo sguardo freddo di Kiyoko gli toglie ogni parola.
«Dovresti berlo, quel bicchiere di vino» suggerisce Tanaka, mettendogli tra le mani un calice colmo di liquido rosso melagrano. «Ti laverebbe via quell’espressione tesa dalla faccia, non credi?».
Asahi si costringe a mettere su un sorriso, che non gli viene come dovrebbe, e a bere un sorso di vino: il sapore è terribile simile all’odore mentolato di quella piantina che, chissà come, sopravvive alle incurie di Suga. Odora di fumo di sigaretta e del pastrocchio che combina il suo coinquilino quando deve preparare la propria versione dell’Old Fashioned.
«Cos’hai preparato per pranzo?» rumoreggia Tanaka, in direzione della moglie. «Muoio di fame! Ma scommetto che sarà buonissimo, tesoro, come sempre».
Lei non ricambia il sorriso, tesa, ma si appoggia con noncuranza al tavolo della cucina – chissà che pensieri la scuotono, si domanda Asahi, chissà cosa le passeggia in mente.
«Ramen» commenta, atona. «Bisogna onorare le proprie origini».
Tanaka annuisce, entusiasta: Asahi non lo dirà mai ad alta voce, ma sa perfettamente che il suo ex compagno di squadra sarà sempre e solo felice di ogni scelta della propria moglie (e se sapesse che ha amato un altro, oltre a lui?).
«Suga ha lasciato il dolce» commenta Asahi, ricordandosi del biglietto attaccato al frigo. «Ha fatto la cheesecake, ha detto di domandarvi se ne volevate un pezzo, dopo il pranzo».
Kiyoko ride, alzando un sopracciglio scuro. «Una cheesecake?» domanda, divertita. «Non pensavo che Suga facesse ancora i dolci».
«Lampone e menta» commenta Asahi, calmo. «Ha mai smesso di farli?».
Lo sguardo di Shimizu è vetro, ossidiana, acciaio. «Non pensavo» commenta, senza scomporsi. «Ma, sì, non si dice mai di no a un dolce, sbaglio?».
Tanaka ride, ma ad Asahi segretamente si spezza il cuore al pensiero di con che rabbia Suga debba aver preparato la coulis di lamponi e la decorazione in foglie di menta. Pensa che ci abbia messo amore, forse anche un pizzico di intolleranza, e gocce di sangue hanno sporcato la crema bianchissima, cotta al forno.
«No, affatto!» esclama Tanaka, sorridendo. «Vuoi che dia un’occhiata io, al ramen, se hai voglia di fumare una sigaretta?».
Lei sorride, sfilando il pacchetto dalla tasca anteriore dei pantaloni, e lanciando ad Asahi un’occhiata indecifrabile – vieni con me, sussurrò il Bianconiglio ad Alice – e che lui percepisce come un invito.
La segue nel minuscolo balconcino, chiudendo la porta finestra alle loro spalle, quando finalmente Kiyoko si lascia sfuggire un sospiro e un sorriso (bello come lo ricordava).
«Tu lo sai, non è vero?» domanda, calma. «Che vengo qui ogni giorno perché spero che torni prima da lavoro».
Asahi annuisce, con un’occhiata sarcastica. «Ma non è bastato a volerlo sposare3» commenta, acido. «Non pensi mai che sia inutile, perdere tutto questo tempo?».
Shimizu scuote il capo, portando la sigaretta alle labbra e accendendola con un gesto che ne tradisce la frequenza: la prima boccata si chiama ritornare a respirare.
«Pensavo che, se avessi finto» sussurra, guardando il cielo che silenziosamente promette pioggia. «Sarebbe stato meglio».
Gli lancia uno sguardo denso di significati, prima che Asahi possa replicare, mettendolo a tacere con uno sbuffo di fumo – che sa della stessa menta con cui Sugawara impiastriccia i propri cocktail.
«Piuttosto che vederlo piangere di nascosto» commenta Shimizu, con la voce crepata. «Tu te ne accorgi mai?».
Asahi pensa al rumore soffocato che l’ha svegliato quella mattina, e una porta sbattuta: adesso, ne è quasi certo – Suga, quella mattina, ha pianto (di nuovo).
«E a cosa ti è servito, fingere?» domanda, respirando una boccata di fumo passivo. «L’hai perso e basta».
Kiyoko china il capo, in un cenno di silenziosa resa. «Io l’avrò anche perso» commenta, piano. «Ma anche lui ha perso qualcosa, qualcuno».
Asahi pensa a Sugawara che, quella mattina, deve aver pianto di fronte allo specchio del bagno per poi sistemarsi e uscire, per andare a lavorare dai suoi amati bambini.
«E non ti manca mai?» le domanda, pensando alla fitta di dolore che è la mancanza di Noya. «Non ti viene mai voglia di tornare indietro?».
Shimizu sorride, scuotendo il capo scuro come una notte d’estate – indossa un cardigan leggerlo, ma non basta per coprire una curva accennata del ventre (e, per un momento, Asahi si sente male per lei).
«A volte» ammette, spegnendo la sigaretta nel vaso di una delle begonie di Suga. «Ma si tratta di scelte, a volte, e lui ha sempre saputo che non avrei mai potuto sposarlo».
«Perché?» domanda Asahi, con urgenza. «Perché no?».
Ma Kiyoko ha già cominciato ad allontanarsi, lasciandolo ad ascoltare il rumore di quel vento che sa di pioggia, disorientato.
 
***
 
Quando Suga rientra a casa, Tanaka è dovuto correre via, ma Shimizu è sempre lì: seduta a gambe incrociate sul divano, con la gonna lunga che le scopre il polpaccio e una porzione di coscia, sorride.
Asahi si tormenta le mani, a disagio, cercando di non incontrare mai lo sguardo deluso del proprio coinquilino – ma Suga lo guarda, eccome se lo fa, e con quegli occhi gli trapassa il viso come un taglio netto. Eppure, si dice Asahi in silenzio, quello ferito sarà sempre solamente lui.
«Buonasera» commenta, sfilandosi le scarpe davanti all’ingresso. «Non pensavo che ti avrei trovata ancora qui, Shimizu. C’è anche Tanaka?».
Lei scuote il capo, calma. «Lo aspettavano per gli allenamenti» constata, senza scomporsi. «Oggi è il mio giorno libero, e volevo vedere come… come stessi, sì».
Suga ride, dirigendosi verso la credenza, ed estraendone due bicchieri. Ne alza uno nella sua direzione della donna che ha amato (che ama ancora), inclinando leggermente il capo.
«Posso offrirti qualcosa da bere?» le domanda, calmo. «Forse è presto per un drink e tardi per un caffè, ma…».
Lei sorride. «Quello che vuoi» sorride, dolcemente. «Solo…».
Lui ride, indicando il vaso con la piantina – mezza morta e mezza viva – che impesta con il proprio odore tutta la cucina.
«Basta che non ci sia menta?» conclude, con una mezza domanda. «Posso prepararti un caffè, se devi guidare».
Shimizu gli lancia uno sguardo francamente indecifrabile – Asahi le sente nelle ossa, quelle parole che lei non ha il coraggio di confessare: nel segreto della chiesa, nemmeno un prete potrebbe assolverla da quel peccato – e che Suga finge di non cogliere.
«Immagino che tu non lo voglia, il caffé» commenta, cercando la bottiglia di Bourbon e lo stampino per i cubetti di ghiaccio.
L’ha scelto a forma di pesciolini4: un regalo di Noya, prima che sparisse nel nulla, ma di questo Asahi non ha la più minima idea.
«No, infatti» commenta Shimizu, alzandosi dalla propria postazione e raggiungendo l’uomo che non ama più (ma che pensa, tutto il giorno, ma che vuole) e sfiorandogli una mano con la propria, facendolo sobbalzare.
«Old Fashioned senza menta» constata Suga, calmo, cominciando a riempire il bicchiere di cubetti di ghiaccio. «E senza troppo ghiaccio, per favore».
Kiyoko sorride, di fronte a quelle parole familiari, e alza la mano – vorrebbe accarezzargli il braccio, ma finisce per troncare il gesto a mezz’aria, disorientata.
«Per favore, Kiyoko» riprende Suga, porgendole il bicchiere pieno di liquido ambrato. «Basta così».
Lei ha il respiro che le si blocca nel petto, mentre prende il bicchiere e ne sorbisce un sorso più che generoso: l’aroma di arancia è contaminato dall’odore di menta nella stanza, e allora Shimizu stringe il naso nel bere un sorso dietro l’altro – ma, con gli occhi, è sempre su di lui.
«Pensavo mi avresti invitata a rimanere» commenta, piano. «Che valesse ancora qualcosa».
Suga alza il proprio bicchiere, ancora vuoto se non fosse per delle foglioline di menta, in una parodia di brindisi.
«Per quel che vale» commenta, atono. «Io ti amerò sempre. Anche se tu non vuoi più».
Shimizu sorride, posando il proprio bicchiere (vuoto, come lei) sul tavolo della cucina: non ha il coraggio di guardarlo negli occhi, ma fissa il proprio sguardo in un punto indefinito al di sopra della sua testa.
«Mi manchi ancora» commenta lei, di rimando. «In un senso che non comprendo, penso che mi mancherai sempre».
Suga ride – e le pareti si piegano dietro quel suono – e scuote il capo. «No, Kiyoko» la contraddice, atono. «A te non manco io. Ti manca mancarmi, sapendo che un giorno mi mancherai di nuovo5».
«E quando ti mancherò?» ripete lei, senza scomporsi. «Non me lo dirai mai, e rimarremo sempre qui a bere un cocktail che a te nemmeno piace».
«Sai quante cose non mi piacciono di te» commenta Suga, divertito. «Ma il fatto è che mi mancherai prima tanto, poi di meno e, un giorno, tornerò a bere un mojito al posto dell’Old Fashioned».
Lei ride, lui ha il bicchiere ancora pieno, così come lei ha l’anima svuotata da quelle parole che lui le ha tirato fuori.
«A me mancherai ancora» lo sfida lei, calma. «E forse un giorno smetterai, non lo so, ma ti penserò sempre come un’occasione sprecata».
Suga ride, posando la bottiglia di Bourbon nel mobiletto dei liquori – e quella di Rhum è ancora intonsa, a guardalo in silenzio sotto uno strato di polvere: perché non hai scelto me?
È che Suga, quando si tratta di compiere una scelta, deciderà sempre per il favore di lei e niente di più.
«Forse è meglio che tu vada» commenta Suga, calmo. «Non vorrei che tuo marito si stesse domandando dov’è che sei finita».
Lei sorride, spazzola i capelli scuri via dalle spalle e gli occhi le albeggiano sul viso pallido.
«Dimmi che tornerai» sussurra. «Dimmi che».
Che c’è ancora un tempo, uno spazio, in cui semplicemente esistiamo – e sì, ti amo – e allora la mancanza non è tutta in un Old Fashioned che una volta sa di lampone, e l’altra di menta.
«Non posso» commenta Suga, osservando la porta dell’appartamento con aria eloquente. «Abbiamo compiuto le nostre scelte, Kiyoko, dovresti rimanere fedele alla tua».
Lei prende il proprio cappotto – blu o nero, che importa? – e lo indossa, senza distogliere lo sguardo da Suga. Blu e nera – livida – la sua anima, mentre si piega per raccogliere la borsa, lasciata sul pavimento.
«Che prezzo ha, la fedeltà?» commenta, sulla soglia. «Il mio, è un rimpianto: e rimpiango di non aver scelto…».
Lui la interrompe con un cenno del capo.
«Nessun rimpianto» borbotta, acidamente. «Hai scelto liberamente, Kiyoko: non puoi dire di amare due persone nel medesimo istante».
Lei sorride, si sistema i capelli un’ultima volta: nello specchio, è bellissima quanto disperata. E, forse, di Suga ha sempre adorato questo – ne ha rispettato la bellezza quanto la disperazione.
«Ti aspetto al solito posto, domani sera» sussurra, chiudendosi la porta dietro le spalle. «Con poco ghiaccio, per favore».
Suga scivola sul divano, il viso nascosto tra le mani – sanno indecorosamente di menta.
 
***
 
La quarta fotografia sa di una parola: ricominciare. E loro hanno ricominciato in quell’appartamento vuoto, privo di mobili e di calore, che Suga ha trasformato lentamente in casa – gli ha impedito di tappezzare camera sua con istantanee di Yū, perché in un modo o nell’altro, anche i ricordi svaniscono.
Così ha detto Suga, così ha fatto Asahi, e per cui niente foto di Noya sulle pareti – e nemmeno nei suoi compiti: cancellato dall’esistenza, se solamente lui non lo ricordasse.
La quarta fotografia sa di una parola: ricominciare. E lui ha ricominciato nel momento esatto in cui ha compreso che bastava semplicemente lasciare andare, perché alle telefonate non si risponde con le preghiere – e lo sa Dio, quanto Asahi abbia pregato Nishinoya, senza ottenere risposte.
Ha supplicato, chiesto, domandato – e s’è consumato la voce su quelle domande a cui, il ragazzo che ama da sempre, non ha mai risposto.
Solo il rumore di una segreteria telefonica che scatta a ogni ora del giorno e della notte.
«Te lo prometto!».
Ma che senso devono poi avere, le promesse, se s’infrangono tutte come bolle di sapone vetrificate.
Quella sera – la sera della pizza – Suga non ha voglia di mangiar niente, ma ordina comunque la cena perché è la routine quella che li salva entrambi: Asahi ha assaggiato la crosta di una fetta, scoprendo che ha meno sapore di quella delusione dolceamara che gli sfregia le labbra in un sorriso stanco, esausto.
Te lo prometto. Ma a che serve la routine, a che serve la speranza – quando Suga s’alza di scatto e si dirige verso la cucina (intonsa, la sua cena), prendendo dei bicchieri impolverati.
«Vuoi qualcosa da bere?» domanda, tirando fuori lo stampino per il ghiaccio. «Ti piaceva molto il Daiquiri, un tempo».
Asahi non sa rispondere – è ancora fermo ai tempi in cui lui e Noya bevevano birra, coca cola e chissenefrega?
«Qualcosa che sappia di menta» commenta Asahi fissando il soffitto. «Pensaci tu».
Qualcosa che gli cancelli dalle papille gustative il sapore di Noya – e ci sono voluti solamente pochi secondi per riportarlo alla mente – e dalla mente il suo odore, il suo tocco, lui.
Sugawara raccoglie qualche fogliolina dalla piantina sparuta che sembra pregarlo di porre fine alla sua esistenza, e sorride.
«Mojito?» domanda, estraendo una bottiglia di Rhum dall’armadietto dei liquori. «Un tempo era il mio, di preferito».
Prima che Kiyoko e il suo Old Fashioned rovinassero tutto quanto, pensa Asahi distrattamente, prima che. Che un giorno Suga si svegliasse nella convinzione cieca e sorda che lei lo amasse.
«Le persone cambiano?» sembra più una domanda che un’affermazione, quella di Suga. «Ed è per questo che stai così? Perché è cambiata».
Suga sospira, versando il ghiaccio nel bicchiere – pesciolini minuscoli che nuotano nel Rhum mal miscelato.
«Lei non cambierà mai» sussurra. «Ha troppo amore da dare, per amare solamente una persona».
«Suga» lo richiama Asahi, tirandolo leggermente per la manica. «Perché siamo qui?».
Lui sospira: i capelli gli tagliano il viso come una cicatrice (l’ennesima, forse inutile) e semplicemente deve bere un sorso dal proprio bicchiere – l’alcol dà coraggio, ma a Suga mai.
Lui coraggio non ne avrà mai più: per tutta la vita sarà fermo dietro l’ombra di Shimizu, pronto a perdonarla per tutte le volte in cui avrà cercato di spezzargli il cuore in un sospiro.
«Dopo l’incidente, mi hai guardato» commenta lui, piano. «Eravamo in ospedale, tu a stento riuscivi a muoverti, ma mi hai guardato e l’hai detto».
Lo dice con una tale esasperazione che Asahi teme di fare la prossima domanda, se essa non fosse così amara da dovergliela sputare addosso, senza se e senza ma.
«Cosa ti ho detto?» sussurra, impaziente. «Ti ho chiesto di Noya?».
Ma Sugawara scuote il capo in un sospiro spazientito – beve un sorso dal proprio bicchiere, come se potesse aiutarlo a dimenticare quel momento. Quando, immerso in un bianco abbacinante, Asahi (con la testa fasciata, lo sterno incrinato) ha sputato quelle poche parole.
«Andiamo via» ripete Suga, piano. «Non hai mai detto dove, quando, perché: solo andiamo via».
La settimana dopo, avevano scelto l’America – senza un motivo particolare, solamente in virtù del fatto che era sempre stato un sogno (di Noya, ma Asahi non lo ricorda) di entrambi.
Asahi chiude gli occhi, come se ciò bastasse realmente a recuperare i ricordi, e sospira menta e Rhum: ricorda un sorriso, uno sguardo – li ha mai veramente dimenticati?
«Suga» lo richiama, piano. «Perché Nishinoya non è con noi?».
Il suo coinquilino sospira, stremato, e indica la cassetta sul tavolo di fronte alla televisione.
«Non sei mai stato pronto» sussurra. «Ma è tutto lì dentro, quando sentirai di volere la verità».
Asahi scuote il capo, dei capelli sfuggono dall’elastico e gli finiscono sul volto, deformandolo come in una lente d’ingrandimento.
«Domani mi richiamerà» proclama, pieno di orgoglio. Promesso. «E mi ricorderà perché non è qui».
Suga non riesce a tirar via un sorriso, di fronte a quelle parole, non ci riesce proprio: pensa a quando Asahi dimenticherà com’è che si respira nell’apprendere che a Noya non interessa più tornare indietro. E ogni promessa non è debito, ma parole al vento.
«Certo» si cava fuori con forza dalle labbra. «Prima o poi si ricorderà di avere un cellulare, stai tranquillo. Hai fatto i tuoi compiti?».
Asahi scuote il capo, correndo a prendere il proprio album di fotografie, e tornando a sedersi con Suga sul divano, assorto nella contemplazione delle immagini. Si ferma alla penultima pagina, prima di tornare indietro, indietro, indietro.
Anche la penultima foto sa di ricominciare, in una maniera diversa: e, di fronte al matrimonio di Tanaka e Shimizu, Asahi torna sempre indietro – non ce la fa, a vedere il viso distrutto di Suga, l’assenza di Yū.
Il suo coinquilino se ne rende conto immediatamente, e vorrebbe solamente forzarlo a riaprire quell’ultima pagina (guardala, ti prego, guardala): ma Asahi ha ricominciato daccapo e allora di nuovo le stesse immagini si succedono lentamente nel suo sguardo.
Asahi gli indica qualcosa con il dito, ma Suga è troppo distratto dai propri pensieri per rispondergli.
«Ho ricominciato» spiega l’ex asso del Karasuno, orgoglioso.
«Era proprio quello che temevo».
 
***
 
La quinta non è una fotografia, ma un collage: un biglietto aereo verso New York, tutto accartocciato, un manifesto di Broadway ritagliato male (il re leone, chi lo avrebbe mai detto?), ed infine un frammento di un’istantanea che Asahi fatica a guardare. Yū lo guarda, e non è cancellato da una riga di pennarello, né accartocciato su sé stesso.
Ha ancora gli occhi che bucano la foto (e Asahi stesso) e un sorriso che fa male a guardarlo: Noya sorride, seduto in panchina, accanto a lui. Che sorride e gli sfiora la spalla con la propria, in un contatto che non avrà mai più il coraggio di replicare.
Cosa gli manca di lui?
Guardarlo mentre gioca, mentre parla, mentre sogna – e si nasconde in debolezze che non ha mai avuto – e vederlo alzarsi con gli occhi pieni di sonno al mattino come alla sera, mancargli sapendo che sarà reciproco. Ma Asahi manca, a Noya?
Te lo prometto. Ma di richiamare non richiama mai, e in una giornata passata a richiamarlo, ormai Asahi l’ha compreso.
Perché ad Asahi manca Noya, disperatamente, come è disperata la voglia e l’esigenza che ha di lui: come le sigarette per Shimizu, la menta per Sugawara e sua moglie per Tanaka, Asahi vive nell’esigenza che ha di Nishinoya.
Il dolore è qualcosa che gli esplode in gola con sapore dolceamaro, costringendolo a sfiorarsi le labbra per accertarsi di non stare sanguinando: non perde sangue, ma comunque l’anima gli cola via dai denti appena apre la bocca.
«Non guardarla troppo» commenta Suga, sedendosi sul divano di fianco a lui con un bicchiere tra le mani. «Non cambierà le cose».
È ritornato all’Old Fashioned con una fogliolina di menta, che rischia di strabordare mentre piomba sul divano con tutto il proprio peso, sgocciolando arancia e Bourbon un po’ ovunque, senza criterio.
«E se non la guardo, che succede?» domanda Asahi, atono. «Non tornerà comunque».
«Appunto» conferma Suga, bevendo un sorso di cocktail, con aria pensierosa. «Ma potresti iniziare. A dimenticare».
Asahi sospira – non gli fa notare che dimentica ogni sera, appena chiude gli occhi – e si massaggia le tempie con aria stanca.
«Tu non hai foto sue?» domanda, piano. «Di quando ancora voi…».
Vi amavate, vorrebbe dire, ma non gli escono le parole: quando ancora sapevate mancarvi in una maniera che non era malsana, insensata – e non c’era bisogno di un cocktail che sa di arancia, menta (e lampone), né di vedersi di nascosto in un motel di periferia.
Non c’era il sesso consumato come se contasse meno di niente, una sorta di ginnastica primordiale, da fare in rispettoso silenzio – ogni lamento, sarebbe potuto arrivare alle orecchie di Tanaka (o del cuore silenzioso di Suga).
Ti amo per davvero, le sussurra lui ogni volta, vieni via con me: posso darti anche più di così.
Lei scuote sempre il capo: non puoi darmi niente di più, Suga, io sono felice. Ma lo è davvero?
«Le ho date a lei: ne faccia quel che vuole» commenta lui, calmo. «Può bruciarle o chissenefrega. Ma sono esistite e, a me, questo basta».
E l’amore non conta per chi ha smesso d’amare, ma da qualche parte c’è stato e allora conterà qualcosa? Mi manca mancarle, vorrebbe urlare Suga, e non basta sapere che da qualche parte le mancherò – non basta mai.
«E non pensi mai che potresti rivolerla indietro?» domanda Asahi, socchiudendo gli occhi di fronte alla luce del lampadario. «Che non ti basti, essere il secondo di Tanaka».
Suga sospira – lentamente posa il bicchiere sul tavolo, ancora mezzo pieno – e si passa una mano tra i capelli.
«Finché sta bene a lei» commenta. «Io non la rivorrò. Poi… poi semplicemente passerà, credo, perché niente dura per sempre: nemmeno lei».
E allora perché non la chiami nemmeno per nome, vorrebbe dirgli Asahi, ma inghiotte quelle parole e un bolo d’anima insanguinata.
«Ma tu la ami abbastanza per poterla portare via» commenta, lui, con speranza. «Perché semplicemente non le chiedi di fuggire?».
Suga sospira, improvvisamente invecchiato in quel gesto così semplice, così elementare. «Non ti lascerei» commenta. «Me l’hai chiesto tu».
Asahi non ricorda – cinerea, la memoria, ma dalla sua bocca sono uscite delle parole: insieme, ovunque possa dimenticare in pace, e Suga non ha dimenticato.
«E tu hai lasciato tutto, per me?» domanda Asahi, calmo. «Shimizu, Daichi, tutti quanti per venire qui con me?».
Sugawara annuisce, senza scomporsi. «Sei uno dei miei migliori amici, Asahi» commenta, atono. «Non ti avrei mai fatto andare qui da solo».
Prende un respiro profondo, dedicandogli un sorrisetto scanzonato – e torna il Suga del decennio precedente – e lasciandogli un buffetto sul capo.
«Non te l’hanno mai detto, che vivere in America fa un sacco figo?» commenta. «E poi te lo immagini, Dai-chi a sferruzzare qui i suoi maledetti centrini?».
Asahi non riesce a non sorridere, di fronte a quel pensiero, e così stringe il braccio al suo coinquilino con fare consolatorio.
«Daichi ha perso un’occasione» constata, divertito. «Poteva diventare un sacco figo anche lui».
Suga ride, facendo tremare l’aria, e torna a prendere in mano il proprio bicchiere: il ghiaccio s’è sciolto e nessun pesciolino vi galleggia dentro.
«Sarebbe venuto anche lui, se non fosse stato occupato a raccogliere i cocci degli altri» commenta Suga, calmo. «Ma a volta, bisogna cedere qualcosa».
E lui ha ceduto Dai-chi, ha ceduto il cuore che Shimizu silenziosamente gli voleva donare, e ha ceduto una minuscola parte di sé stesso.
«Perché sono voluto venire qui?» domanda Asahi, perplesso. «Perché non in Italia, o in Francia?».
Suga sorride, divertito. «Perché te l’immagini?» domanda, ridendo. «Les escargot, la Senna che è sempre inquinata, i turisti?».
Si scompiglia i capelli. «E in Italia, dove?» domanda, piano. «Sotto al Colosseo, la pasta con l’uovo crudo?».
Asahi ride, giocherellando con il cornicione della propria pizza. «La pizza sarebbe stata migliore» commenta. «Ma era una questione di distanza, immagino».
Suga annuisce. «Qui, non avresti avuto la tentazione di andarlo a cercare» borbotta, sorbendo l’ultimo sorso del proprio drink. «L’hai ascoltata, l’ultima cassetta?».
Asahi – come ogni sera – scuote la testa.
 
***
 
Quella sera, anche Sugawara fatica a voler prendere sonno: s’aggira come un fantasma per la cucina, prendendo ora una tazza per la camomilla, ora un bicchiere per un Bourbon notturno – alla fine posa tutto quanto, ma l’inquietudine rimane. È qualcosa che gli cammina sulle spalle, costringendolo a guardarsi attorno come per sperare di incontrare uno sguardo (il suo).
Ma Shimizu non dorme mai fuori casa, per non fargli intravedere quel rimpianto che le brucia la pelle come un incendio che s’appoggia e lascia traccia.
Suga sa. È chiaro che quell’idea l’abbia sfiorato, nel toccarne la pelle a mezzanotte e scoprire un minuscolo rigonfiamento in corrispondenza del ventre.
Suga sa e sceglie di non capire quelle corse verso casa di Shimizu quando comincia ad albeggiare (vomita sempre all’angolo della strada, ma lui non lo sa mai), non comprende i vestiti larghi e dal taglio severo. Non comprende lei che, quella sera, si presenta a casa sua mentre Asahi s’è appena convinto a permettersi di addormentarsi – non rovina niente, ma quasi.
Silenziosamente entra con la chiave di riserva, che Suga ingenuamente ha sempre nascosto sotto lo zerbino, e lo trova disteso sul divano. Ai suoi piedi due bicchieri vuoti e uno mezzo pieno, un quarto un po’ incrinato e qualche fogliolina di menta bagnata e accartocciata.
Lei si siede sul pavimento, di fronte a lui, e lo scuote leggermente: Kōshi sospira, aprendo gli occhi lentamente, e puntando uno sguardo crepato e vetroso su di lei – non le domanda cos’è che ci faccia lì, ma allunga un braccio e le sfiora il viso con il dorso della mano. Lei sorride.
«Hai bevuto» constata Shimizu, allontanando leggermente i bicchieri. «Pensavo che domani lavorassi».
«Giorno libero» sbiascica Suga, stropicciandosi la fronte con la mano sinistra. «E tu?».
Lei sospira, posa il capo sul bracciolo del divano – vorrebbe semplicemente poter chiudere gli occhi e non doverli riaprire più.
«Tanaka ha un’amichevole con una squadra in Texas» commenta Shimizu, piano. «Tornerà tra qualche giorno».
«Non puoi rimanere qui» la rimbecca lui, con la voce impastata dalla stanchezza. «Avevamo detto basta, Kiyoko».
Ma lei lo guarda e, in quegli occhi, nasconde tutto quello che l’America (speranza, possibilità) ha concesso a lui e ad Asahi. Lo capisce così, Suga, in un momento di panico e cieca consapevolezza – che è tutto perso, tutto rovinato.
«Quando avevi intenzione di dirmelo?» le sussurra, deluso. «Pensavi che lo avrei scoperto tra quanto?».
«Non te lo avrei mai detto» risponde lei, piano. «Non… avrei potuto?».
Suga ride, allungandosi per prendere il bicchiere ancora mezzo pieno – è caldo, l’Old Fashioned, ma a lui non importa. Scivola lungo la gola e incendia lo stomaco, così che deve scuotere la testa e spalancare gli occhi (come se la realtà avesse il potere di cambiare).
«Lui lo sa?» sussurra, tossendo leggermente. «Almeno a lui, l’hai detto, che potrà farsi chiamare papà».
Lei sospira e non ha il coraggio di dirgli che, forse, il vero papà è solamente lui: così semplicemente lo guarda per comprendere che, con tutta probabilità, lui sa. E lo sa nel momento in cui ride, la voce che sa di arancia e menta, e le lancia un’occhiata indecifrabile.
«Da quanto?» le domanda, semplicemente.
Kiyoko esita – quanto tempo è passato, da quand’avevano entrambi diciotto anni e pensavano le stesse cose? Amare ed essere amati6 – e cerca di prendergli la mano, che lui ritrae prontamente, ripetendo la domanda. Da quando?
«Tre mesi» sussurra, infine. Non ha il coraggio di sottolineare che, da quattro (di mesi), l’ha raggiunti in America.
Sottovoce, pensa, è tutto in una realtà diversa, filtrata: senza luce, quand’hanno fatto l’amore per la prima volta, e i segreti già pesavano sulle spalle come fossero fatti di ceramica incrinata. Diciott’anni, quando si sono scoperti innamorati, e lei è stata così sciocca da non crederci.
Gli ha detto che non l’avrebbe sposato, non l’ha fatto mai, probabilmente non lo farà mai più.
«E quando pensavi di dirmelo?» biascica Kōshi, atono. «Hai un marito, Kiyoko. E non sono io».
«Te lo avrei detto» si difende lei, senza scomporsi. «Lo sai. È solo che… pensavo non avresti reagito bene».
Lui la guarda – ha smesso persino d’essere deluso: lei l’ha toccato in un punto così profondo, così delicato, che tenersi insieme senza fratturarsi è impossibile.
«Da quando hai cominciato a dirmi le cose?» ride, amaramente. «Pensavo che fosse con Tanaka, che avessi quel rapporto simbiotico e che da me venissi solamente per il sesso».
«Non sei in te» lo rimprovera lei, sistemandosi gli occhiali sul naso. «Pensavo che avresti capito».
Suga ride, piano, crepandole il cuore. «Contento?» le domanda, calmo. «Sarei contento se avessi scelto di sposare me e se, dopo anni di matrimonio, tu venissi a dirmi che quel bambino è mio».
«Lo è» risponde lei, senza alcuna esitazione. «Certo che è tuo, ho fatto i calcoli, è indubbiamente tuo».
Suga la guarda e nemmeno ha il coraggio – o la forza – di sfiorarla: amaro, il tono di voce che gli graffia la gola, disinfettata dall’alcol.
«E ancora non basta per volermi sposare» constata, senza riuscire a non sembrare disperato. «Cosa basterà, poi, non me lo hai mai detto».
Shimizu sospira, sfiorandogli il volto con la punta delle dita – e non lo sa nemmeno lei, perché si sia sempre opposta a quell’amore insensato, silenzioso. L’ha mai amato abbastanza, Suga?
Bastava per mollare tutto e fuggire con lui, il giorno in cui finalmente (e avevano vent’anni) le ha detto sposami. E lei ha detto no – non è tempo.
Non lo è mai.
«Non c’è un tempo per noi, Kiyoko» commenta Suga, voltandole le spalle. «Lo sapevo già. Puoi dormire in camera mia, se vuoi, ma lasciami stare».
Lei sospira, alzandosi dal pavimento – ti amo, lo capisci che ti amo? – senza dire una parola: il cuore sciolto come quei ghiaccioli a forma di pesciolini, sul fondo annacquato di un Old Fashioned all’aroma sbagliato.
Potrà cercare l’arancia, Kiyoko – ma ci sarà sempre quella fottutissima fogliolina di menta a falsare ogni sapore, facendole venire la nausea a ogni singolo respiro.
 
 
Mai smetterai canterai
Perderai la voce
Andrai, piangerai, ballerai
Scoppierà il colore
Scorderai il dolore
Cambierai il tuo nome
 
E rieccomi con la seconda puntata di questa storia, spero vi stia piacendo. Vi lascio di seguito le note al capitolo:

1. Tancredi, Las Vegas
2. La menta serve effettivamente per il mal di gola
3. Dal Manga
4. Esiste davvero, io ce l'ho
5. Aka7even, Mi manchi
6. One Direction, 18

Prossimo aggiornamento: 7 aprile, con l'ultima puntata.
Un bacio e grazie per avermi letta!
Gaia
   
 
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