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Autore: Gaia Bessie    24/03/2021    3 recensioni
Ogni mattina, Asahi si sveglia con la memoria che gli ha cancellato i suoi ultimi dieci anni di vita.
Ogni mattina, Asahi deve ricostruire tutto quel tempo tramite i post-it, le fotografie e le registrazioni del suo coinquilino, Suga.
Ogni singola mattina. In un appartamentino a New York, Asahi e Suga ricostruiscono loro stessi, giorno dopo giorno.
[AsaNoya, Suga/Shimizu | Mini-Long di tre capitoli | Angst, possibile OOC | Terza classificata al Contest "Let’s cliché!" indetto da _Vintage_ sul forum di EFP]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Slash | Personaggi: Asahi Azumane, Kiyoko Shimizu, Koushi Sugawara
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Premessa (doverosa): Questa storia si basa parzialmente, solo come presupposto base, sul romanzo “Before I Go to Sleep”: il protagonista ogni sera va a letto e dimentica quanto successo nei dieci anni precedenti (l'amnesia anterograda, quindi non me la sono inventata). Il resto è farina del mio sacco.
Possibile OOC, What if grande come la mia insonnia.

 
Senza ghiaccio, per favore

 
1. Old Fashioned aromatizzato al lampone
 
Non sarà la neve
A spezzare un albero
Avessi finto sarebbe stato meglio
Di averti visto piangere in uno specchio
E mi manca la tua voce ormai
Ora che, ora che, ora che sei qui
Io sono qui
Ci vestiremo di vertigini
Mentre un grido esploderà
Come la vita quando viene
 
 
«A cosa pensi?».
Asahi non le guarda mai, le nuvole che si riflettono nello sguardo di Suga, non si mette mai a ripercorrerne i contorni con il pensiero, immaginando a cosa possano riferirsi. Nel medesimo modo, non ritorna mai su un singolo pensiero che, se gli desse abbastanza spazio, gli colorerebbe la testa a tinte fosche – o di rosso sangue.
Pensa che l’anima abbia un colore e, se davvero si tratta di armocromia, quella sua e di Nishinoya devono essere di tonalità radicalmente differenti. Ma, questo, al suo coinquilino non riesce a dirlo: Kōshi Sugawara lo guarda e ha solamente speranza dipinta sui lineamenti un po’ da elfo, con quel sorrisetto divertito che ultimamente Asahi non vede più da secoli, e allora come fare a mentirgli?
L’ha seguito in America senza dire se, senza dire ma: un giorno ha preso, fatto i bagagli, e si è presentato a casa sua dicendogli che sarebbe rimasto. Anche quando nessun’altro aveva avuto il coraggio di farlo.
«Se avessi finto» commenta Asahi, calmo. «Sarebbe stato meglio».
Suga sospira, passandosi una mano tra i capelli con aria ispirata. «Sarebbe cambiato qualcosa?» domanda, laconicamente. «Saremmo ancora qui, noi due, non credi?».
Lui non riesce a rispondergli – è un’ammissione che farà sempre e solo troppo male per pronunciarla ad alta voce – ma sa che il suo ex compagno di squadra ha ragione: fingere, a cosa servirà mai?
Lui non si sarebbe fatto convincere da una bugia infiocchettata bene, né da una incartata male, perché Nishinoya ha sempre avuto un fiuto ultraterreno per le bugie. Soprattutto le sue. Riusciva ad aprirgli la mente con lo schiocco di due dita, infiltrandosi tra i nervi, le vene e dritto al cuore – che gli ha spaccato a metà.
Dolorosa, quell’ammissione di colpa, rende amaro persino il semplice battito cardiaco, amaro il sangue che come lacrime sgocciola dalle ferite della mente. Amaro il cuore, mentre i suoi sussurri glielo riportano in mente e lo fanno materializzare lì, nel bel mezzo di Central Park, tra due grattacieli che si somigliano un po’ troppo.
«Pensi che domani verrà?» gli domanda, così piano che per un momento Asahi teme che Sugawara non sia in grado di udirlo. «Domani è il tre maggio, dici che se ne ricorda ancora?».
Lo sguardo che Kōshi gli rivolge è duro come pietra, e si crepa solamente su quelle parole rese dolci da un tono di voce che ne cela la preoccupazione.
«Era ieri il tre maggio, Asahi» commenta. «Te lo ricordi, non è vero?».
Lui ha l’aria svagata di chi fatica persino a ricordare che giorno sia, e a Suga semplicemente si stringe il cuore a vederlo in quel modo. Perché Asahi Azumane – dimagrito fino a sembrare un tratto di matita – lo guarda disorientato e scrolla le spalle, perplesso.
«Certo» risponde, calmo. «Ieri. Era ieri. E non è venuto, non è vero?».
«No» conferma Sugawara, a malincuore. «Non è venuto. Non può, Asahi, tu… te lo ricordi, non è vero?».
Asahi annuisce, a Suga va bene così. Sono passati dieci anni esatti dall’incidente.
 
***
 
Buffa cosa, la memoria: credi che sia un orologio che funziona benissimo, dove ogni ingranaggio fa il click corretto, quando invece stai solamente girando al contrario creando un fiume di scintille che creeranno solamente buchi in quel tessuto imperfetto, in una pioggia che sa sempre e solo di cenere.
Asahi Azumane non ha mai avuto bisogno di fare affidamento sulla propria memoria ma, nel singolo momento in cui ne ha avuto bisogno, essa è collassata in una fiammata. In un tramonto che è sempre e solo ignifugo, Asahi ha scoperto di non potersi più fidare nemmeno di sé stesso – in una luce che sa di lucciole agonizzanti, vorrebbe aver finto di non comprendere che.
Che le cose rotte non sempre si possono riparare, e la sua relazione con Noya era così rotta e spezzata da dovervi mettere un punto, a fine di una frase che a stento Asahi riesce a ricordare: un punto fermo che sa di pausa, di fine, e un chissenefrega scritto a piè di pagina. Dici che è già troppo tardi, per appartenersi?1
La risposta non è scritta da nessuna parte – nemmeno in quel chissenefrega che Nishinoya deve aver tracciato in un momento di rabbia – e allora Asahi non riesce a venirne a capo. Suga lo sa.
È la certezza che gli illumina le giornate, quando si sveglia e nel letto non trova un senso alle lenzuola spiegazzate, né alla sua testa che ormai è tutto un buco nero per i ricordi. Suga lo sa.
Ha tappezzato la casa di foglietti, in un percorso programmato: il tuo spazzolino è quello rosso, riporta un post-it nel bagno, ti piace il caffè con una spolverata ti cacao sopra – ma senza zucchero, per favore.
E Asahi ogni mattina compie i passi sulla scia dei biglietti di Sugawara: bagno, cucina – le posate sono nel secondo cassetto – e poi di nuovo camera, a fare i compiti. Kōshi gli ha preparato un album dei ricordi, che contiene tutta la sua storia riassunta in poche pagine – e fanno tutte ugualmente male.
Nella prima pagina, un incoraggiamento: sei ancora lì, da qualche parte. Asahi a volte se lo domanda, a chi Suga si riferisca, se ci sia una così netta discrepanza tra il sé che non ricorda in che cassetto stanno le pentole e il sé che le ha messe nel quarto cassetto, quelle dannatissime pentole.
Se ci sia una frattura nell’esistenza, dal momento in cui ha smesso di esistere per vivere una vita un po’ sciapa, un po’ slavata, e come fare a ricomporre l’ennesima cosa frantumata che ha dentro?
La prima foto è un’istantanea di squadra, che risale ai tempi del liceo, dove lui è solamente una ferita nell’aria. Asahi s’è cancellato con un pennarello il viso, in un momento d’ira, e Suga non ha mai pensato di sostituire quella fotografia.
Chi ti aveva fatto arrabbiare in quel modo? – così si domanda, Asahi, nei momenti in cui è costretto a domandarsi il perché di quella fotografia sfregiata – Perché continui a farti tutto questo?
La risposta sta nel piè di pagina, ancora una volta, dove una grafia minuscola – la sua – ha annotato delle parole insensate, vuote, che Asahi proprio non riesce a comprendere.
Hai smesso di amarmi.
 
***
 
Il mercoledì sera, Suga sparisce nel nulla e non torna prima che si sia fatta l’alba, con le occhiaie che gli marchiano il viso quasi quanto i segni di unghie sulla schiena e la camicia allacciata male. Asahi non sa da chi o cosa fugga al mattino, ma un’idea solitaria gli s’è formata nella mente – ed è che Suga ricerchi il simile nel simile. Una volta, gli ha detto che le cose belle hanno sempre una fine, e forse mai un inizio, e tu passi tutta la tua vita a ricercarle in un contorno che s’assomiglia sempre, ma che non è mai. Kōshi la sta ancora cercando.
Negli occhi vetrosi di Mary, nei capelli neri di Frances e nel neo sopra il labbro di chissà chi altro: non è un mistero che la donna che ama gli abbia anche spezzato il cuore in maniera definitiva e lui, ad amare nuovamente, non s’arrischia nemmeno. E non basteranno le speranze di Mary, Frances o chi per loro a destarlo da quella mancanza di sentimenti con cui è riuscito a suturarsi il cuore.
Ma non gli basta. Questo Asahi lo comprende con chiarezza, a Suga non basterà mai: perché una volta – solamente una, dannatissima, quella volta – lui l’ha avuta, ne ha toccato la pelle e l’ha vista sorridere come mai aveva fatto prima. Una volta che ha condizionato per sempre tutte le altre.
Ma Kiyoko Shimizu ha sposato l’uomo sbagliato, lasciando Sugawara a consolarsi nella sua ombra – ma non  lo lascia mai. In ogni pensiero velenosa s’annida, mordendogli i pensieri per riportarli su di sé. E Suga cede ogni singola volta.
Asahi l’ha visto, che sotto il letto di camera sua Kōshi nasconde un quadernetto dove annota qualche verso sciolto, uno o due pensieri sfuggenti. E un conteggio che sistema ogni sera, e sono delle “x” per ogni giorno in cui Shimizu non s’è ancora risolta a dirgli di tornare.
Non t’illudere, vorrebbe urlargli Asahi quando sente la penna che gratta le pagine, lei ha una casa, un marito che l’ama da pazzi, una famiglia. Cosa le importerà mai, se tu la notte non hai più sogni per dormire?
Suga quella sera lo guarda, e ha il quaderno poggiato su un ginocchio e lui vi si accovaccia come per proteggerlo dagli sguardi.
«La cerco ancora» commenta Suga, chiudendo il quadernetto e spingendolo sotto il materasso, tra le doghe in legno. «Nelle poesie, qualche volta la trovo».
«E ti basta?» domanda Asahi, perplesso. «Leggere di lei nelle poesie ma non averla mai per davvero».
Lo sguardo di Kōshi è vetroso quasi quanto quello della donna che continua ad amare, nonostante l’amore di lei si sia perso su un fondo sabbioso di caffè, rimasto nella tazzina preparatale da suo marito che, il caffè, non sa farlo. E, risponderebbe Suga con una cattiveria che non gli è mai appartenuta, forse non solamente il caffè.
«Certo che no» commenta Sugawara, scostandosi con il dorso della mano una ciocca di capelli che gli taglia lo sguardo – vetro di mare. «Ma che altro potrei fare?».
Asahi vorrebbe tanto avere una risposta da dargli, una soluzione, ma a lui di Yū non gli rimane altro che delle frasi scritte sui margini di alcune vecchie fotografie: hai smesso di amarmi. Non l’ha fatto, ma ogni volta che prova a chiamarlo per dirglielo, scatta la segreteria telefonica.
È l’unico modo che gli è rimasto per sentire la sua voce, così Asahi continua a richiamare per sentire quei trenta secondi di voce di Nishinoya ripetere sempre le stesse parole.
Ciao, qui Noya. Al momento non posso rispondere – ma richiamami e lo farò, te lo prometto!
Ma a che servono le promesse, si domanda Asahi, se comunque il cuore finisce per essere una matassa informe e stracciata, inutile. E il cuore del suo coinquilino di certo non fa eccezione, pensa distrattamente, perché Suga ha gli occhi incrinati come le costole che racchiudono i segreti battiti del cuore.
«Chiamala» sussurra Asahi, con poca convinzione. «Prima o poi ti risponderà, non è vero?».
«Certo che sì» lo rassicura il suo coinquilino, sebbene non ci creda nemmeno lui. «Prima o poi risponderà».
Il viso di Azumane per un momento s’illumina, dipinto di dolorosa speranza che Suga sembra non comprendere, perché gli dà una pacca sulla spalla e torna a immergersi nei propri pensieri – sono dolorosi anch’essi, ma lui sembra non voler mai far trasparire quell’esasperazione che ormai gli obnubila la mente.
«Mi dispiace che tu l’abbia dovuta lasciare in Giappone» commenta Asahi, piano. «Per seguire me».
Kōshi sorride, ma è un movimento così amaramente distratto che, per un momento, gli taglia in due la faccia come l’ennesima cicatrice.
«Lei è qui» commenta, piano. «L’ho saputo da Tanaka. Si sono trasferiti anche loro, a quanto pare Kiyoko è stata assunta da una grossa corporation per la vendita di articoli sportivi».
Non una nota di emozione ne sfregia la voce: Asahi si domanda quante volte gli avrà ripetuto quella notizia nei giorni che indistintamente si sono susseguiti. E lui inevitabilmente perde qualcosa ogni giorno che passa.
«Da quanto tempo non la vedi?» domanda, conoscendo la dolorosa implicazione che la risposta avrà per lui. Ma, nel momento in cui vede Sugawara sorridere perso nei propri ricordi, non importa più.
«Dal giorno dell’incidente» risponde lui, calmo. «Sono passati dieci anni: te lo ricordi ancora, non è vero?».
Asahi vorrebbe dire di sì, ma le parole gli graffiano le labbra e rimangono ostinatamente incollate ai denti. Lui ricorda?
Uno schianto, delle grida, un letto con pareti abbacinanti che volevano mangiarlo vivo. Basta così, gli urla il suo cervello, basta così.
Di chi erano tutte quelle urla?
«Se fingessi» domanda, piano. «Sarebbe meglio?».
Suga scuote il capo, stringendogli una spalla con fare consolatorio. «Credo di no» ammette. «Hai fatto i compiti, oggi?».
Asahi annuisce, che altro gli è rimasto? Dei compiti da fare per ricordarsi ogni giorno chi è e dove sono le posate. All’ultima pagina, però, non ci arriva mai.
Qualcosa gli dice che non deve leggerla – per nessun motivo al mondo.
 
***
 
Il giorno in cui Shimizu ricompare nella vita di Suga è già giugno – eppure piove a dirotto, e il fiato è troppo caldo per l’aria e diviene solamente l’ennesima étoile di vapore, con una gamba sempre rotta, incapace di danzare.
È già giugno e lei indossa un vestito blu, severo, che le svolazza dolcemente lungo le ginocchia: silenziosamente, Asahi pensa che serva per mascherare il medesimo colore che ha dentro di sé. Una notte infinita che le ottenebra la mente, il giorno in cui torna e gli dice che. Che non è più tempo per loro, non l’è mai stato.
Che deve finire, perché le cose belle evidentemente non hanno un inizio ma una fine sì, e allora finito è quel loro amore consumato dal tempo e dalla voglia, su lenzuola stropicciate che s’avvinghiano alle caviglie come per trattenerli lì. Lui non vorrebbe andarsene mai, lei vorrebbe farlo per sempre – andarsene – e mettere un punto a una storia che non sa come chiudere.
Il giorno in cui Shimizu scompare dalla vita di Suga è ancora giugno e piove a dirotto, sulla fronte di quel ragazzo che la guarda e, lacrime da spendere per lei, non ne ha. Così rimane fermo all’incrocio tra la quinta e la settantacinquesima avenue, a prendersi quella pioggia che non ha domandato e non merita, ma che accoglie silenziosamente con una rassegnazione che sa essere sempre e solamente gelida.
Asahi l’ha visto tornare dopo ore, che il sole era già tramontato cedendo alla notte la propria resa, e le pozzanghere altro non sono che onde di metallo liquido che sciolgono l’asfalto. Suga non ha sorriso, non gli ha domandato dei suoi compiti: s’è seduto su una delle sedie della cucina ed è rimasto lì per tre ore, senza muovere un muscolo, senza rispondere alle domande. Sulla sponda di una sedia scricchiolante, Kōshi s’è seduto e ha pensato: ma il contenuto di quelle riflessioni non l’ha rivelato, nemmeno a sé stesso quand’è riemerso da quella trance mistica, solamente per passare dalla sedia al letto in un mutismo sempre più ostinato.
Asahi non ha domandato, Sugawara non ha risposto: s’è limitato ad annuire, come per dargli quella conferma – se n’è andata, l’ha lasciato – e poi s’è rannicchiato su sé stesso, respirando piano. Non ha versato una lacrima, ma tra le mani stringeva una catenina minuscola, con un anello di bambina.
Cosa ti è rimasto di lei, si è domandato guardando quel gioiello inutile, solamente un anellino per una mano che non è più la sua e una catenina che non la sfiorerà mai più. A che serve quel contatto filtrato, pelle-metallo-pelle, se comunque non la vedrà più.
O forse si vedranno e si diranno un ciao, come stai che non conterà più niente, e allora si guarderanno senza sapere bene cosa dirsi. Forse lei gli sorriderà, e lui non riuscirà a ricambiare.
Sugawara non risponde e Asahi non domanda, ma non ve n’è bisogno: i pensieri sono chiari, chiarissimi, e difficilmente si potrebbe sbagliare ad interpretarli. E Kōshi sta pensando che ha scommesso troppo arditamente e ormai ha perso tutto quanto.
Asahi trova il coraggio di parlargli solamente quando il sonno si sta arrampicando sulle palpebre di entrambi, pronto a bucare e stracciare la memoria ancora un’altra volta. Lo sa, che il sonno è suo nemico e, potendo, non dormirebbe mai più per farsi rimanere impresse le piccole cose che scopre – o riscopre? – ogni giorno. Ci ha provato, disperatamente, ma alla fine cede sempre: e quella piccola sconfitta quotidiana pesa più di ogni altra cosa, schiaccia le pareti del cuore in una morsa inesorabilmente dolorosa.
«Sarai qui anche domani?» domanda pianissimo, tirando la maglietta del proprio coinquilino. «Suga?».
Sugawara annuisce, piano, ma sente che la forza s’abbandona anche in quel gesto così semplice, così intuitivo. Era giugno, si dice, fino a ieri: adesso il cielo s’è crepato ed è nuovamente novembre, un novembre con un inizio, ma la fine?
«Io sarò sempre qui» sussurra, passandosi una mano sul volto. «Anche se tu non te lo ricordi, io te l’ho già promesso, il giorno in cui ci siamo trasferiti».
In un appartamento minuscolo sopra un ristorante indonesiano, così che la puzza di fritto spesso entra dalle finestre, ma a loro sembra non importare più. Forse, non l’ha mai fatto.
«Mi racconti perché siamo finiti qui?» domanda Asahi, stropicciandosi gli occhi. «Perché ce ne siamo andati?».
Suga sospira, e l’aria sembra solamente l’ennesimo peso di cui il suo torace vorrebbe liberarsi in via definitiva.
«È una storia vecchia» sussurra. «Te la racconto domani sera, va bene?».
Asahi annuisce, non ricorda che lo fa ogni sera, sul ritmo di quella risposta che non cambia mai: domani sera il suo coinquilino dirà le stesse parole, facendolo addormentare sul ritmo di quella promessa infranta cui Asahi s’affida ogni sera, non sapendo che è solamente l’ennesima falsità cui la vita lo metterà davanti.
«Va bene» sussurra, rannicchiandosi contro la schiena di Kōshi. «Posso rimanere?».
Suga annuisce, scostandosi leggermente per fargli spazio, così che un piede gli dondola nel vuoto – lo stesso che percepisce dentro di sé.
«Adesso dormiamo, però: è tardi e io domani devo alzarmi presto» sussurra, tirando la coperta per coprire entrambi. «Domani è un altro giorno, no?».
Asahi annuisce, ma dentro di sé percepisce la disperazione che quel semplice detto porta: un altro giorno in cui dovrà reimparare dove sono le posate e cos’è successo nell’ultimo decennio, mentre una parte del suo cervello si domanderà sempre dov’è che è finito Nishinoya?
La risposta la rimanda sempre al giorno dopo, in quelle ventiquattr’ore che nel suo cervello non lasciano traccia. Domani è un altro giorno, no?
 
***
 
La prima foto sa di America.
Sugawara l’ha scattata il giorno in cui sono arrivati nel paese, i bagagli mezzi vuoti e troppe speranze a riempirli fino all’orlo. È un’istantanea di loro due a Central Park, seduti su una vecchia coperta patchwork a bearsi di alcuni tiepidi raggi di sole: avevano tanti sogni, dieci anni fa, erano due ragazzi appena usciti dall’università e sembrava che tutto fosse semplicemente destinato ad andare nel verso giusto. Era prima che Asahi scoprisse che la sua memoria era malata, bucata e semplicemente aveva smesso di funzionare – prima che comprendesse perché il tempo si era bloccato di qualche giorno.
È stato Suga a raccoglierne i cocci, creando il suo quaderno dei ricordi e le cassette: Asahi ascolta la prima appena si sveglia, lasciata sul comodino con un biglietto sopra. Ascoltami.
«Ciao Asahi!» la voce allegra di Kōshi squarcia il silenzio della casa vuota. «Sono io, Suga! Tu non te lo ricordi, ma adesso siamo coinquilini».
Asahi non se lo ricorda, ma nella prima versione della cassetta Sugawara esordiva con un gioioso “adesso viviamo insieme”, che aveva dato adito a diversi divertentissimi equivoci. Così, con il registratore in mano, ogni mattina l’ex asso del Karasuno si avvia verso le viscere dell’appartamento che gli appare enorme, sconosciuto.
Il suo coinquilino ha lasciato bigliettini ovunque, e messaggi in cui gli augura un buon giorno, una felice colazione e gli ricorda di fare i compiti anche quel giorno. Asahi qualche volta si domanda se non sia fastidioso, per Sugawara, vivere in una prigione di post-it, ma non glielo chiede mai: scuoterebbe la testa e negherebbe, ma dentro di sé probabilmente sarebbe di altro avviso, anche se lui non può saperlo.
«Sono passati dieci anni, dall’ultima cosa che ricordi» prosegue la voce di Suga, calma. «Hai avuto un incidente in moto, eri senza casco».
Suona come qualcosa che avrebbe potuto fare, si dice Asahi con una nota di fastidio che, nei propri pensieri, sente solamente lui. La domanda gli sale sulle labbra, ferendole, ma Sugawara non è lì per rispondergli: e perché Noya non è qui?
La risposta non gli viene fornita, Suga non menziona mai Nishinoya in nessuna delle tre cassette che gli lascia in giro per casa, ogni mattina. Gli è chiaro dalla sua assenza, che per qualche motivo che non sa, Yū è sparito dalla sua vita e non vi ha lasciato traccia che sia tangibile. L’ama ancora, si dice, dieci anni persi non hanno attenuato il legame che s’erano costruiti. L’ama ancora, Noya, si ricorda di lui?
Asahi questo non sa come dirlo, non sa come contattarlo se non con quel cellulare che squilla sempre e solo a vuoto. Ma richiamami e lo farò, te lo prometto!
«Ti sei voluto trasferire qui per ricominciare daccapo» continua la voce di Sugawara, con calma disarmante. «Non puoi ricordartelo, ma tu e Noya… le gioie violente hanno fine violenta2, dicono e forse è davvero così».
Ogni mattina, Asahi lo apprende così, che alla fine è vero che Yū l’ha lasciato e non è vero che lo pensa ancora, che lo cerca ancora e che generalmente lo vuole (ancora? Sempre). Ogni mattina, le parole calme di Suga gl’incidono quella ferita sanguinolenta nell’anima, rischiando di farlo morire dissanguato sul tappetino della doccia.
Ogni mattina, Asahi si fa la barba con quella frase nella mente, e rischia di tagliarsi la gola ogni volta, mentre Suga ricapitola approssimativamente i dieci anni che la sua memoria ha mandato nell’iperuranio.
«Se è giovedì, fatti trovare pronto entro mezzogiorno» continua Suga, dalla registrazione un po’gracchiante. «Dobbiamo andare al colloquio con il tuo psicologo, e ci metti sempre troppo a prepararti».
Guarda il calendario: oggi è giovedì, il 12 giugno, e sulla casellina di quell’ennesimo giorno senza senso e senza significato il suo coinquilino ha scritto in rosso fuoco. Psicologo, con tre punti esclamativi. Asahi sospira, non sa fare altro: nemmeno ricorda il volto e il nome di quel terapista, né tantomeno riesce a comprendere che senso abbia andarvi, se non gli recupererà mai la memoria.
«E non m’interessa se non vuoi andarci» prosegue Kōshi, con tono severo. «Sarò qui per accompagnarti a mezzogiorno in punto, e farai meglio a essere lavato e vestito».
A quel punto, Asahi comincia a vestirsi con abiti che non gli appartengono e che sicuramente avrà scelto Suga: una camicia, dei pantaloni grigi, mocassini con la suola consumata – ma per andare dove?
«Se invece è venerdì» osserva Sugawara, questa volta leggermente divertito. «Questa sera ordiniamo la pizza e guardiamo un film insieme: domani non lavoro, e possiamo anche andare a letto più tardi. Anche se a metà film telefonerà Daichi e ci interromperà, come ogni settimana».
Lui sorride, pensando al viso dell’ex capitano del Karasuno, che gli sembrerà inevitabilmente invecchiato rispetto ai suoi ricordi più recenti. Daichi o Dai-chi, come lo chiama Suga per farlo arrabbiare, con tono esageratamente cantilenante.
«E se è sabato, potremmo fare una passeggiata» continua Suga, con tono allegro. «E tu mi chiederai di raccontarti qualcosa, e io finirò sempre per ricordarti di quando Daichi si è appassionato all’uncinetto e ha cominciato a regalare centrini a tutti quanti. Ne trovi uno sotto il telecomando della tv, se vuoi vederlo».
A quel punto, Asahi ride sempre, come se potesse davvero ricordare qualcosa di simile: si può dimenticare?
Il centrino – un po’ deforme – è veramente lì, sotto il telecomando, e ogni mattina lo sfiora come fosse una reliquia. È quel che gli rimane di un passato che per lui è presente, le uniche cose che non dimenticherà mai. O, almeno, è quel che spera.
«Ti ho preparato un album dei ricordi» conclude Suga, dolcemente. «Lo trovi nel cassetto del comodino: leggilo, sono i tuoi compiti per oggi».
Asahi obbedisce, ogni mattina, e prende il raccoglitore marrone con aria un po’ spaesata: la prima foto sa di America, e nulla di più.
 
***
 
Lo studio dello psicologo odora di lamponi. O, per essere maggiormente precisi, odora di sciroppo al lampone, quello che Suga compra in gran quantità per spargerlo sul gelato alla vaniglia del mercoledì sera. Li salva la routine, loro due, li salva fare le stesse cose di settimana in settimana – e il giovedì è il giorno inutile: seduto sotto un plaid rosso (lampone?), Asahi osserva il proprio terapista sorridergli con aria affabile, mentre giocherella con un profumatore per ambienti. È forse quell’aggeggio infernale a rendere l’aria profumata in quella maniera insopportabilmente zuccherosa?
«Buongiorno, Asahi» lo saluta, cordialmente, prendendo in mano un plico disordinato di appunti. «Come andiamo oggi?».
Lui sospira, inalando quell’odore di lampone chimico, e si stringe nella coperta di pile: è la sua unica difesa da quello sguardo filtrato da lenti per la miopia, tondi come un fondo di bottiglia e altrettanto spessi. Il Dr. Robertson lo fissa come se veramente Asahi fosse in grado di rispondere alla sua domanda e fare un paragone con ieri o ieri l’altro.
«Immagino bene?» ma, pronunciato con quell’incertezza che gli divora il cuore, sbocconcellandolo, suona più come l’ennesima domanda cui non saprà mai rispondere. «Come dovrei stare?».
«Dovresti dirmelo tu, Asahi, tu oggi come ti senti?» insiste lo psicologo, sistemandosi gli occhiali sulla punta del naso leggermente aquilino. «Ti vedo ogni giovedì da anni, ormai, e ogni volta mi aspetto una risposta diversa, ma tu…».
«Bene» lo interrompe l’altro, atono. «Come uno che non si ricorda nemmeno a che ora è andato a letto ieri sera, suppongo».
Robertson sorride, mostrando una dentatura leggermente cavallina. «Non mi sorprendi mai» completa, calmo. «Forse andremmo da qualche parte, se tu ti sforzassi di affrontare i tuoi sentimenti, dopo quel che ti è capitato».
Che infelice scelta di parole, pensa Asahi distrattamente, capitare. Come se le amnesie anterograde semplicemente cadessero giù dal cielo, investendo a caso i malcapitati, e lui fosse solamente il povero sfortunato di turno.
«E dove dovremmo andare?» domanda, laconicamente. «Io nemmeno comprendo perché dovrei aver bisogno di queste sedute, dottore».
Lo psicologo sorride nuovamente, accondiscendente, scribacchiando un appunto su un foglio messo a rovescio. Probabilmente, pensa Asahi, starà scrivendo qualcosa come restio a collaborare.
«Alcuni pazienti recuperano lentamente la memoria» commenta Robertson, pensieroso. «E tu hai dato segni di miglioramento, in passato».
Asahi vorrebbe illuminarsi, di fronte a questa rivelazione, ma sa che a conti fatti, recuperare qualche brandello di ricordo non è poi questa gran cosa.
«Bastano due fiocchi di neve, per spezzare un albero?» domanda, pensieroso. «Io non penso che dei ricordi possano distruggere una persona».
Il sorriso dello psicologo è ghiaccio secco, mentre scuote il capo e frammenti di brina gli si depositano sulla barba. Odorano di lampone sintetico, forse sono persino di un rosa pallidissimo.
Il plaid rosso non lo ripara dal freddo che ha dentro, così che Asahi ha la pelle d’oca ed è ancora giugno, come il giorno in cui Shimizu se n’è andata e che lui ancora non sa, Suga non ne parlerà mai più.
«Solo perché dopo ventiquattr’ore pensi che i ricordi nuovi ti appartengano da sempre» commenta Robertson, con aria professionale. «Puoi ancora recuperare la memoria, un passo alla volta. Ma, non te lo nascondo, sarà un processo doloroso».
E, segretamente, nascosto in un castello fatto di plaid rossi e lamponi, Asahi lo sa: che un giorno dovrà ricordare dov’è finito Noya e, a quel punto, l’unica cosa color lampone che potrà sperimentare sarà quel sangue che irrorerà le pareti del suo cuore infranto.
Qualcosa, dentro di lui, gli suggerisce ogni giorno che quell’assenza deve avere un senso e un significato ma, Asahi, il coraggio di ascoltare la cassetta numero tre che gli ha registrato il suo coinquilino, non l’ha mai: sotto il tre, c’è scritto il suo nome, e allora la ignora regolarmente e nella sua memoria la voce di Suga non attecchisce mai. Squallido, il modo in cui preserva il cuore da quella rivelazione, ma l’autodifesa non è sempre così?
Squallida, la sua memoria imperfetta, per l’uso raffinato che vorrebbe farne.
«E se io non volessi ricordare?» domanda infine Asahi, piano. «Se volessi continuare a ignorare le crepe».
Lo psicologo scuote il capo con aria rassegnata.
«Non scomparirebbero» commenta, fendendo l’aria con la penna. «Puoi riempire una crepa con il cemento, ma quella rimarrà comunque ferma al proprio posto».
Asahi annuisce, ma dentro di sé non è totalmente convinto: Noya non è una crepa, Noya è certezza, sicurezza, ma soprattutto possibilità. Di un ritorno, ricostruire, ricominciare: tre erre che si succedono nella sua testa con velocità disarmante, e vorrebbe domandare. Secondo lei è possibile, dottore?
Che un giorno si svegli e lo trovi in cucina con la caffettiera fumante, un caffè americano con doppio zucchero di canna e una spolverata di cacao amaro, troppa energia per una mattina soltanto, lo troverà mai?
Lo fai un caffè anche a me, per favore? Polveroso, il fondo della tazzina, ci potrà leggere un futuro che non è solamente fottuto, ma che ti fotte anche, e allora ogni credenza spolvera in una fumata che odora di caffè.
«Lei lo sa, non è vero?» domanda, a bruciapelo, osservando la reazione composta del dottore. «Cosa c’è in quella cassetta con il suo nome».
Robertson annuisce, calmo. «Non l’hai ascoltata nemmeno oggi» deduce, atono. «Non lo fai quasi mai».
Perché è come se Asahi semplicemente odorasse quell’aria che sa di disperazione, che sa di storie finite, dimenticate e di un caffè un po’ bruciacchiato lasciato a freddarsi in una tazzina sbeccata.
«Dovrei?» domanda, guardandolo negli occhi e inalando l’ennesima boccata d’aria che sa di lampone. «Non è la dimostrazione che certe crepe, se le ignori, non esistono?».
Lo psicologo sorride, la risposta Asahi non la sente nemmeno, è come se le parole si perdessero in quel freddo che la sua anima proietta fin sulle pareti, tinteggiandole di rosso. Brina svolazza per l’aria, si posa sui suoi capelli congelandogli i pensieri.
La crepa è sempre lì, dal giorno in cui Nishinoya ha preso ed è andato via.
 
***
 
Suga lo riaccompagna a casa in silenzio. Nell’automobile, Asahi sente ancora lì – ancorato tra le narici – quell’insopportabile odore di lampone sintetico: e lo sentirà anche quella sera, quando il suo coinquilino non avrà voglia di cucinare e allora prenderà una vaschetta di gelato, ne scaverà tre palline e le cospargerà di topping al lampone. Asahi non lo copierà: niente dolci, per lui. Una tazza di caffelatte e una spolverata di caffè, questo sì, cercando di non addormentarsi mai – ma la notte cala comunque e le crepe eruttano gelato alla vaniglia e intollerabile sangue di lampone.
«Com’è andata?» borbotta finalmente Sugawara, stringendo le mani sul volante.
Forse, pensa Asahi, è tacita speranza quel che gli fa stringere le mani fino a sbiancare le nocche. Ma a cosa serve, la speranza, quando è tutto perso, tutto impossibile da toccare? Le crepe ci sono, si dice. Le crepe ci sono.
«Bene» risponde, laconicamente. «Niente di che».
«L’hai ascoltata?» domanda Suga, a disagio. «La cassetta».
Asahi sospira, passandosi una mano sulla fronte aggrottata per spianarne le rughe: allo specchio, ogni mattina, non si riconosce. Quand’è invecchiato tutto in un colpo, quand’ha smesso di essere simile a sé stesso?
È speranza, ne è certo, come potrebbe non esserlo? Come una stella un po’ smussata s’affaccia sorridendo nel suo cielo, domandando risposte che Asahi non sa dare, non potrebbe mai. Sua, quell’inspiegabile esasperazione, sua la voce che crepa l’aria quando pensa: se leggessi il fondino di una tazza di caffè, cosa uscirebbe?
Uscirebbe l’America, Asahi, gli suggerisce la sua stessa anima. Uscirebbe una casa, una speranza, una possibilità – ma Noya non è mai niente di tutto questo, pensa. Non più.
«No» ammette, infine. «Non ti preoccupare, l’ascolto domani».
Asahi non lo sa, ma lo dice ogni singolo venerdì, che è anche l’unico giorno in cui il suo coinquilino trova il coraggio per porgli quella domanda la cui risposta lo delude ogni volta. Suga sospira, ma non glielo dice. Ai suoi piedi, rivolto in preghiera, un bicchiere di caffè si svuota della propria polvere residua sulle sue scarpe: l’America si dissolve in un fiume di sussurri.
 
***
 
La seconda fotografia è un luogo che ha il sapore di lui: un’istantanea di gruppo della squadra del Karasuno di fronte alla palestra scolastica. Daichi sorride, tra Nishinoya e Shimizu, senza sapere che il pennarello di Suga ha cancellato tutti tranne lui.
Con una riga rossa, Noya è sfregiato in una colata di sangue o topping al lampone, che non lascia nemmeno intuire i tratti del volto: Asahi lo sa che è lui, dall’altezza e per lo sguardo che – immortalato in quell’istantanea – gli lancia, pieno di silenziosa venerazione. Forse, si dice, lo amava già: che si fosse già consumato quell’amore insensato e privo di scopo? Ed erano ancora ragazzini, pensa Asahi, che potevano saperne del futuro?
Perso in una speranza polverosa di caffè sul fondo di una tazza sbeccata, macchiata di rossetto rosa: entra in punta di piedi, Noya, nella sua mente. Entra in punta di piedi e non esce mai, di ventiquattr’ore in ventiquattr’ore, finché Asahi non sussurra. Rimani ancora un po’, te ne prego.
Quando rientra a casa, con Suga che lo lascia davanti allo zerbino per correre Dio solo sa dove, Asahi deve finire i propri compiti: ricucire pezzi di memoria, una fotografia per volta, è doloroso e innecessario, ma nemmeno riesce a smettere.
È cancellata, Shimizu, nella seconda fotografia (e indossa sempre lo stesso vestito blu notte, avanzava già la sera dentro di lei?), e sotto Suga ha scritto le medesime parole che Asahi ha letto sotto la prima foto. Hai smesso di amarmi.
«Suga?» lo chiama, quando ormai dovrebbe aver ascoltato la terza cassetta – e non lo fa mai – e il suo coinquilino rientra a casa in punta di piedi, non sapendo se è già l’ora di andare a dormire. «Che fine ha fatto Shimizu?».
Ogni sera, una risposta diversa: se la memoria di Asahi non fluisse via come sudicia acqua di scolo, si renderebbe conto che l’umore di Suga muta quella risposta, da un giorno al successivo, seguendo il vento gelido del proprio cuore. Sa di sangue e lampone.
«Spero sia molto lontana da qui» risponde Kōshi, con una calma gelida che fa a cazzotti con il tumulto che gli fracassa le costole come un’onda d’urto. «E che sia felice, in qualche modo che non sa nemmeno lei».
Nonostante tutto, Suga non parla mai male di lei, ma il suo rancore è dolce come frutta essiccata e carezzevole come una coperta in una notte d’inverno: all’amore forse non ci crederà – non più – ma il rispetto che prova per Kiyoko è tale da impedirgli d’odiarla.
«A che pensi?» gli domanda Asahi, osservandolo mentre si accovaccia su una vecchia poltrona bucherellata (come la sua memoria), il mento stretto tra le mani.
A chi pensi, vorrebbe dirgli, ma a quella domanda Suga non risponderebbe mai: non pensa mai a Shimizu e, al contempo, pensa solamente a lei. Nei ritagli di tempo, è pensiero fisso, amore incondizionato – e delusione bruciante.
«Penso che sono stanco e dovrei dormire» risponde Sugawara, stropicciandosi gli occhi. «Non è giornata, temo».
«Io rimango qui» commenta Asahi, osservando la televisione spenta come se stesse mandando in onda qualche segreto. «Non ho sonno».
Ma stanchezza che gli cammina sulle palpebre, quella sì: Suga sospira – a che pensi, a chi pensi? – e gli semina una carezza distratta sul capo, paterna, che sa di casa. Ha il sapore della seconda fotografia dell’album e dell’inchiostro indelebile che sfregia i volti di Noya e Shimizu come impensabili cicatrici.
È che il mondo è così, urlano gli occhi del suo coinquilino, è stato fatto per non essere pensabile e, se anche lo fosse, non lo stai immaginando nella maniera corretta: non è mondo, se non possiamo stare insieme.
«Ti preparo una camomilla» borbotta Kōshi, diretto verso il cucinino. «La notte è lunga, e fa freddo».
Ed è a malapena giugno, ma sono le assenze che gelano l’anima con un sospiro profumato al lampone e al caffè corretto.
«A che pensi?» ripete Asahi, mentre Suga armeggia con le pentole, e ne fa cadere una o due. «Oggi sei…».
Distratto, assente, dove sei? Ci sei ancora, da qualche parte che non so, la senti ancora?
Perché Sugawara lo sa. Come sa di avere braccia, gambe, cuore e mente – che Shimizu non se la cancellerà da braccia, gambe, cuore e mente nemmeno se si risolvesse a strapparsi la pelle da solo.
Un difetto tra pelli, il suo amore per lei, una distanza che è sempre in eccesso, e non è fisica ma emotiva.
Suga gli porge una tazza piena di camomilla, non dice altro.
 
***
 
La notte è lunga e fa freddo: tra due minuti, si ripete Asahi continuamente, è quasi giorno. E se lo dice a mezzanotte, all’una e alle due – il sonno è pesante, ma sai quante cose pesano al medesimo modo, tra le pareti del cuore?
L’indomani sarà venerdì, la pizza, e lui ricorderà. È la certezza che gli accarezza la mente ogni sera, ma è anche il dubbio attanagliante che gli mastica i nervi impedendogli di prendere sonno. Di cosa hai paura, si domanda, è solo la notte. Ma la sera erode la sua memoria già imperfetta, e lui come uno scoglio smussato ha smesso di tagliare.
Tagliente, la sua forza di volontà, ma affilata così male che non trancia mai di netto e si limita a sfilacciare tutto ciò che incontra. Rumore di risacca, tra i suoi pensieri, un’onda anomala gli annacqua i ricordi, costringendolo a prendere l’album.
Il cellulare, posato sul tavolino, sembra provenire dal Paese delle Meraviglie: prendimi. Così disse il fungo ad Alice, prendimi, mangiami, desiderami. E lui lo vuole, Dio se lo vuole.
Il rumore dei tasti è una melodia dolorosa, ogni pressione un pugnale che gli scartavetra via un pezzo di cuore per volta: Noya non ha mai risposto ai suoi messaggi (e lui non lo sa) eppure continua a scrivergli grossomodo le stesse parole ogni sera, a cancellarne altrettante e a masticarne la metà. Così che il risultato è un pastrocchio di parole sputate e lui finisce per inviare un laconico richiamami, mi manchi a cui Nishinoya non risponderà mai.
Dopo una manciata di minuti, lo chiama: è così semplice comporre il suo numero – lo sa a memoria – e aspettare che scatti la segreteria telefonica, ogni singola volta. Eppure, lui.
Ci spera ancora. Ha le corde vocali consumate di preghiere mute, nei confronti di chi è sordo o non vuol sentire, e la gola sanguina e gocciola su quelle parole, macchiandole. Questa è la storia sporcata e stracciata del muto che vuol gridare, questa è la favola infinita del sordo che non prova a sentire: a che serviranno, dunque, tutte quelle preghiere?
La camomilla s’è freddata nella tazza prescelta da Suga per quella sera – è sempre la stessa, anche se lui non lo sa – e Asahi la rimesta con un cucchiaino, come se il liquido scuro potesse restituirgli le risposte che cerca. Un mucchietto di zucchero intorbidisce la bevanda, s’attacca al cucchiaino – ti prego, salvami – e cerca di non essere disciolto.
Noya accorrerebbe, se lui glielo domandasse (salvami), arrendendosi a una vita (fottuta) che sa solamente ferirti a ogni respiro, perché smussata è solamente l’anima di chi respira l’odore del mare. Ne è certo. Verrebbe, l’ha sempre fatto, lo farà ancora, lo farà?
Vorrebbe un caffè – con un goccio di sambuca, per favore, solo perché un Old Fashioned è diventato demodé, come dice il nome – e un biscotto al cioccolato, di quando dieci anni fa Suga era ancora abbastanza entusiasta della vita da volerla addolcire con i propri dolci bruciacchiati. Adesso è salata e sa di lacrime, questa bevanda un po’ sciapa, e lo zucchero sa di polvere, e la polvere sa di aria. E l’aria di cosa sa?
L’aria è bruciata, arida, graffiante sulla pelle e appena dietro. L’Old Fashioned è senza ghiaccio: ma come, è già giugno! Però è torbido come i suoi pensieri nel dormiveglia, che si innestano su riflessioni non volute e insensate, che sanno di una sambuca che non ha bevuto e di un cocktail che non ha mai preparato. Sulla punta della lingua, sapore di biscotti al cioccolato. Un po’ bruciati.
«Sei ancora sveglio?» Suga domanda, sebbene la risposta appaia come di per sé evidente. «Sono le tre di notte, Asahi».
«Non voglio addormentarmi» sussurra lui, stropicciandosi gli occhi. «Non voglio dover ricominciare tutto d’accapo».
Suga sospira, si siede sul pavimento e poggia la testa sul bracciolo della poltrona: ha gli occhi di chi non ha dormito nemmeno per un istante ma la sua – di memoria – errori non ne perdona, e domani il peso dei giorni precedenti sarà sempre lì a schiacciargli l’anima. In un soffio, Suga lo dice, non è tempo.
Non è notte, questa, per non dormire: la memoria va e viene come l’onda che bacia lo scoglio, coraggio, prendi un sorso di camomilla e andiamo a dormire. Domani è venerdì, il giorno della pizza: margherita con acciughe, non è vero?
«Domani lo affronteremo» risponde, calmo. «E sarà un bel giorno, perché il venerdì è sempre stato il tuo giorno preferito della settimana, anche quando eravamo al liceo».
E non era notte nemmeno allora, pensa Asahi, perché è durata un battito di ciglia e non ha lasciato una traccia che sia tangibile, dentro di lui. E domani si guarderà allo specchio, alla ricerca di un livido sulla spalla causato dagli allenamenti e che non c’è, non c’è.
Domani si guarderà allo specchio per scoprire che non è più il sé stesso di cui aveva memoria: urlerà, nella casa vuota, di frustrazione nel trovare una cassetta davanti a sé. Ascoltami, disse la boccetta ad Alice, ascoltami.
«Dovrai spiegarmi tutto daccapo» commenta Asahi, piano. «Non ti stanchi mai, di ripetere ogni giorno la stessa storia?».
Suga sospira, nasconde il viso tra le ginocchia. «Sono l’ultima persona che vorrebbe vederti così» gli sussurra, con la voce che è lurida di pianto. «Ma domani sarò ancora qui, perché se una persona ci tiene davvero non si allontana a causa di una difficoltà».
Come Shimizu? Vorrebbe domandare Asahi, ma lo sguardo di Suga è vivo di un dolore primordiale.
«Come lei» conferma, leggendogli i pensieri. «Esattamente come lei».
Il silenzio sa di Old Fashioned, perché Suga ha messo le scorze d’arancia sul tavolo della cucina e le ha dimenticate lì a profumare l’aria. Quella sera si berrà un cocktail, alle cinque di mattina, domandandosi perché perfino il bourbon abbia quell’insospettabile retrogusto di lampone sintetico – domani mattina, Asahi si guarderà allo specchio e comincerà ad urlare, fino a perdere la voce.
 
Mai smetterai canterai
Perderai la voce
Andrai, piangerai, ballerai
Scoppierà il colore
Scorderai il dolore
Cambierai il tuo nome


 

Tornare in questo fandom, la mattina a colazione, è come tornare a casa: non è il mio Fandom di appartenenza e non ho tutti i lettori che ho su HP, ma ho cominciato a considerarlo come il "posto sicuro" dove posso ricominciare da zero senza troppi problemi. In questo senso, grazie a tutti quelli che vorranno leggere questa storia.
La mini-long è già stata scritta, il prossimo capitolo sarà online il 31 marzo, probabilmente sempre di mattina e spero che sarete lì per leggere come prosegue la storia che, in totale, sarà composta da tre capitoli.
La canzone che mi ha ispirata nella stesura di questa storia è "La genesi del tuo colore" di Irama, che vi tormenterà a ogni capitolo.
Vi lascio qui sotto le citazioni di questo capitolo:

1. Leonardo Lamacchia, Orione
2. Shakespeare, Romeo e Giulietta

Grazie per essere passato di qui, ti mando un abbraccio!
Gaia
   
 
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