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Autore: Ciuscream    13/05/2021    7 recensioni
Nell’arcipelago di Pentidad, vi è una leggenda: quando i protetti di Oyàla e Seruh si incontreranno, uno dei due dovrà sconfiggere l’altro e mettere fine alla guerra secolare che i due Dei conducono lontano da occhi mortali. Izar è soltanto una ragazza come tante, nell’Isola degli Stracci; non sa cosa la Dea, il destino o chiunque tessa le trame della sua sorte, abbia in serbo per lei. E, soprattutto, cosa possa fare per cambiare le carte in tavola.
“Quando il fuoco ed il vento incontreranno le spade e la morte, ci sarà una sola corona, un solo regno, un solo Dio.”
Genere: Fantasy, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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CAPITOLO III. FUGA – parte prima
 
Fece sogni agitati, confusi, elettrici: era in piedi, vicino alla pignatta intonsa, e fissava Gabre, il suo viso mulatto, la piccola cicatrice che ne rigava la guancia. Scendeva poi alle sue mani, tagliate da una linea della vita troppo corta, agli occhi di un nero denso e liquido, macchiato di paura e sgomento. Scivolava poi, in un andirivieni incessante, a quelli chiusi di Santiago, riverso su un pagliericcio morbido nella casa della guaritrice – sembra dormire, si continuava a mentire, non sta dormendo, qualcuno la correggeva. Tentava invano di parlare: sputava solo sillabe vuote, incomprensibili, sospiri che si mischiavano a mugugni. Respirava, non riusciva, cercava di chiedere scusa ma Gabre la allontanava dal letto del giovane e, nonostante provasse e provasse ancora, non riusciva ad avvicinarsi di un metro; mani la stringevano per i polsi, per la vita, migliaia di mani l’aggrappavano ovunque – le solite due, ripetute all’infinito: erano quelle di sua madre, che la tirava a sé con allacci da piovra, sussurrandole una nenia confusa. Le ripeteva che non aveva colpa, di dormire, di riposare, il viaggio sarebbe stato lungo, doveva tenersi in forze. La scena si ripeteva in susseguirsi infinito, sempre più ardente, in cui i palmi si arrossavano sempre più, fino a prendere il calore e la consistenza delle fiamme. Urlava, correva, cercava una fonte dove immergerle, dove poter spegnere quella potenza aliena; vari flash comparivano di tanto in tanto, anche quando il sogno si era acquietato e lei era immersa nel buio. Le vesti di Santiago mangiate e risalite dalle fiamme, le grida di suo padre, il volto spaventato e confuso di Gabre che si gettava su di lui e, con il suo corpo, gli schiacciava addosso della terra raccolta dalla piazza, per provare a domare l’incendio. Null’altro.
Si rese conto soltanto al risveglio, madida di sudore in un giaciglio scomodo, che le parole di sua madre non le stava soltanto immaginando ma lei gliele stava davvero sussurrando all’orecchio, mentre tamponava sulla sua fronte con uno straccio bagnato. Immaginò di essere nella stanza che condivideva con i quattro cugini, di trovarla immersa in un silenzio interrotto solo dal loro respiro pesante e dal cigolio di una persiana che altalenava sotto il vento. Sotto di lei, invece, il terreno si muoveva sconnesso e il corpo era scosso da colpi di ruote contro gli ostacoli sassosi del terreno. Aprì agli occhi d’improvviso, impaurita: ciò che vide, fu solo un buio denso, rischiarato soltanto da un leggero bagliore che penetrava dalle piccole crepe nelle assi del carro, lasciando entrare il sole con lame deboli e polverose. Anche i suoi pensieri, ovattati dal sonno denso in cui era caduta, ci misero qualche secondo a ricordare e ricomporsi; per quei pochi istanti, si concesse il privilegio della dimenticanza, frazioni di attimo di serenità, di normalità. Ma fu quasi con un balzo che il pensiero sfumò alla sera precedente, dandole un brivido che la scosse da capo a piedi. Non ricordava nulla di preciso: le grida, le fiamme, una rabbia spropositata, antica, aliena. Le immagini del sogno si mescolavano a quelle reali e le rendevano impossibile distinguere la verità dall’onirico, ciò che aveva fatto e ciò che la paura e il senso di colpa le avevano dipinto sulle sinapsi.
Un groppo le si strinse in gola – cosa aveva fatto davvero?
 
Si mise a sedere di scatto ma la testa prese a vorticare ed ogni parte del corpo, ancora intorpidita dal sonno e dolente come dopo una grande fatica, rispose malamente al gesto. Si rotolò appena di lato, sfregandosi contro la pelle del viso contro la poca paglia che copriva la seduta in cui era sdraiata e, strizzando le palpebre, si rese conto che gli occhi di sua madre erano a pochi centimetri dai suoi, preoccupati, guardinghi. Le sue mani arrivarono presto a cercare di farla sdraiare ancora, spingendola verso il pagliericcio.
«Non alzarti, non ancora. Riposa.» Mugugnò mentre riprese la pezza bagnata che le era scivolata in grembo e la immerse in un secchio d’acqua che aveva a fianco. La strizzò e la posò di nuovo sulla sua fronte, mentre Izar – per inerzia o per sgomento – si fece ricadere all’indietro. Ci volle qualche frazione di secondo perché riuscisse a ricomporre la voce – rotta dal lungo silenzio e da un accenno di pianto – che le sorse sulle labbra, schiudendole appena.
«Cos’è successo? Dove siamo? Dove stiamo andando?» Rotto l’argine, le parole sgorgarono veloci oltre le sue labbra, fiume pieno di dubbi e di spavento, che fece scivolare fuori in un sussurro appena udibile. Uno scossone forte del carro fece sussultare entrambe e la pezza bagnata balzò dalla sua fronte al centro del suo petto, molto vicina all’altezza del cuore. Andò a stringerla, prima che riuscisse la mano di sua madre, e strizzò l’acqua, ad allagarle la stoffa lacera di quella che era ancora la veste da notte, come se potessero quelle poche gocce spegnere il fuoco che sapeva essere nato dentro di lei. Chi altro sapeva?
«Mi uccideranno, mamma? Te lo giuro, non è colpa mia, non volevo, non sono stat-…» Le parole si mischiarono presto alle lacrime e sbrodolarono fuori salate, arrochite, tremanti. Sua madre si chinò su di lei e le carezzò piano la fronte fresca, l’attaccatura dei capelli bagnata.
«Non è colpa tua, Izar. Non è colpa tua.» Le baciò piano una tempia: un bacio di labbra tremanti, impaurite esattamente come quelle della figlia, scosse da un terrore identico. «È stato un incidente, questo pensano tutti. Il vento, la lampada…» Non sembrava stesse cercando di convincere lei quanto se stessa, come se fosse una melodia, una filastrocca che si era ripetuta in testa dalla sera precedente, per ammutolire ed azzerare ogni sospetto, per acquietare domande a cui temeva di trovare risposta.
Izar colse ogni minima sfumatura di quelle poche sillabe e se le sentì frizionare sulle tempie, come una lama di accusa nascosta sotto coltri di negazione. D’improvviso, sbarrò di nuovo gli occhi e fece per alzarsi, repentinamente bloccata dalla madre che la sospinse all’indietro, vincendo l’esigua forza di quel corpo già solitamente esile, esangue. Il tono di Izar si fece d’improvviso più urgente, alto, sputacchiato mentre lacrime più silenziose si facevano strada oltre le ciglia ed immagini a tinte fosche si spintonavano nella sua mente.
«Dov’è papà?» Sua madre arrivò a farle scivolare la mano sulla bocca, allarmata, tamponando le ultime sillabe con la sua pelle, facendole diventare nient’altro che leggeri mugugni.
«Shh! Izar… non nominarlo, non nominarlo!» La bambina alzò le iridi sulle sue e le lesse negli occhi una paura antichissima, le pupille allargate da quella penombra, che stazionavano sul viso stravolto della figlia e rendevano, di riflesso, stravolto il suo, la poca pelle del viso adesa e tirata contro gli zigomi.
Izar strattonò il viso dalla presa di quel palmo e scostò le labbra per riuscire a parlare ancora. La voce adesso era soltanto un sussurro rotto, un conato di paura.
«L-lui… lui pensa che sia stata io…v-vero?»
Sua madre non rispose e quel silenzio le rimbombò in testa come il gong alla fine di un incontro di lotta, uno di quelli con cui si risolvevano le faide di minori dimensioni, lì nell’Isola degli Stracci. Era finita, per lei. Quello era il suo gong. Immagini sparse di ogni lugubre favola, quelle dell’Isola delle Bestie, delle sue immonde creature, del suo putridume, sorsero ad affollarle il retro degli occhi, facendole scorrere davanti spettacoli spaventosi e sinistri. Un singhiozzo le esplose al centro del petto e il corpo si tese così repentinamente, che si trovò ad alzarsi di scatto, furiosa, terrorizzata, impazzita, mentre le tende del carro iniziarono a sfrangiarsi e a sbattere per il forte vento che adesso le circondava. Tremava da capo a piedi, i nervi scossi da fiottate di sgomento. Afferrò il polso della madre con una violenza inconsueta, con una confidenza di cui si sarebbe sentita, in altri momenti, priva.
«Non sono stata io! Non può mandarmi là! NON SONO STATA IO!» Gridò e sua madre cercò di farla tacere ancora, premendole tutte le dita sulle labbra, schiacciandole contro la sua pelle con la violenza della rabbia.
«Taci, Izar!» Si avvicinò al suo orecchio e le sibilò quelle parole con una cattiveria ed una stizza che non le erano proprie, con un’impazienza sinistra. C’era uno scintillio inedito nelle iridi scure, qualcosa di potente che Izar non aveva mai scorto in quella sua indole remissiva, sottomessa al marito da immemori anni – madre, moglie, serva.
Adesso, però, come emersa da qualche anfratto nascosto che lei stessa aveva dimenticato di avere, sua madre le parlava con un cipiglio fermo ed autoritario, che aveva tratti più somiglianti alla figura paterna. Questa similarità la spaventò appena: arretrò di qualche centimetro da lei, scivolando sul pagliericcio che le strisciò le gambe di qualche graffio superficiale, controllando dentro le sue pupille la verità del suo essere, una conferma che quella fosse davvero sua madre e non il frutto di un sogno – di un incubo – che sembrava non avere fine, né inizio preciso.
Sua madre riprese a parlare, la voce ridotta a nulla più che ad un sibilo. «Non ti sto portando .» Quel luogo, tanta era la coltre di paura che lo ammantava, non era nemmeno nominato, non da loro, che vi si riferivano con vaga referenza, come ad evitare che – pronunciandolo a voce alta – potesse prendere consistenza e diventare reale.
«Non puoi più rimanere al villaggio, devo fare in modo che non ti trovi. Lui sa… e non importa che tu sia sua figlia, mia figlia…»
Izar tacque, per lunghissimi ed interminabili istanti; come se quelle parole avessero azzerato ogni brusio di pensiero, come se fossero così prive di significato da non essere reali. Le domande le si affollarono in testa ad una ad una ma non riuscì a formularle – boccheggiava. Dove, avrebbe voluto chiedere. Come? L’avrebbero trovata, ovunque. Trovata e rinchiusa, spedita all’Isola delle Bestie. Come avevano fatto a fuggire? Cosa avrebbe pensato Gabre? L’avrebbe odiata, se non per aver fatto del male a Santiago, per averlo abbandonato, per averlo lasciato lì, da solo, perso, per aver infranto ogni promessa di affrontare la secchezza di quella loro sorte grama, insieme. Era ancora in silenzio e tremava; tremava così forte che le dita delle mani sbattevano una contro l’altra, mentre altre lacrime scesero calde ad inondarle il viso, a scurire la pelle mulatta del loro solco. Sua madre le afferrò il viso tra le mani, con talmente tanta veemenza da bucarle coi polpastrelli la poca pelle del viso. Due occhi identici, dalle iridi gemelle, si specchiavano uno nell’altro: un paio acquosi, distrutti, persi; gli altri risoluti, perentori.
«Non permetterò ti facciano niente.» Anche nelle sillabe della voce c’era un tono diverso dalla morbidezza solita che Izar conosceva, che la spaventava e la faceva sentire protetta, al tempo stesso. Le credeva. «Adesso tutti dormono. Quando si sveglieranno, sarai lontana ed al sicuro.»
«D-dormono?» Chiese la ragazzina, esitante, con le pupille a cercare, oltre le crepe del carro, quanto il sole fosse alto, quanto potessero effettivamente ancora dormire. Sua madre aprì un leggero sorriso di lato, che nascondeva pieghe di non detto.
«Sì, non preoccuparti.» Sua madre, prima di essere moglie madre e serva, era stata allieva; allieva di guaritrici ed erbaliste e, nonostante i ricordi sopiti e lontani, sapeva come mischiare belladonna ed oppio, sapeva come trasformare un respiro in un sonno lunghissimo, profondo ed estremo. Questo lo tenne nascosto da sua figlia – ogni membro di quella casa affollata, quel giorno, avrebbe dormito fino al pomeriggio, ignaro, anestetizzato. Nessuno avrebbe visto che la figlia del Santero, vittima di quell’incidente tanto strano, era scomparsa, mentre il corpo di Santiago, piagato dalle fiamme, languiva in una casa poco distante – non molto lontano dallo scomparire a sua volta.
 
 
Le domande di Izar erano state tutte liquidate con brevi e perentori inviti a tacere. Erano sole, su quel carro dall’aspetto putrido, in cui marcivano in qualche angolo patate e avanzi, di qualcun altro, probabilmente, trasportato prima di loro. Sua madre non le permetteva di pronunciare nemmeno una parola che riguardasse il padre o la loro provenienza; l’unica altra figura, che si sentiva di tanto in tanto tossire e sputare, era l’uomo alla guida, che intimava e insultava il vecchio cavallo, che la ragazzina non era ancora riuscita a scorgere ma di cui sentiva qualche sporadico nitrito.
Non avrebbe saputo dire l’effettiva durata di quello strano viaggio: aveva la testa così colma di interrogativi senza risposta, di paure che le sgorgavano dagli occhi in forma di lacrime copiose e salate, che non sarebbe riuscita a distinguere tra un’ora o un anno intero. Sentiva lo stomaco languire dalla fame, che le dava pizzichi di morsa di tanto in tanto, ma non erano questi a preoccuparla – a quelli aveva fatto l’abitudine. Era quella mancanza che si faceva più pressante man mano che sentiva di allontanarsi dal villaggio; le facce degli abitanti si affollavano a gruppi dietro ai suoi occhi – quella di Gabre, glieli faceva pizzicare un po’.
«Quando potrò tornare?» Chiese, d’improvviso, cercando lo sguardo di sua madre, che adesso vagava sulla sporcizia lì intorno, evitando deliberatamente di incocciare il suo.
«Mamma, potrò tornare… vero?» Le parole erano incastrate fra i denti, quasi non volesse tirarle fuori, per non far diventare le sue paure talmente ingombranti da occuparle la gola ed impedirle il respiro.
 
Il carro frenò all’improvviso e la voce del conducente interruppe qualsiasi tentativo di risposta; l’uomo batté contro le assi che lo dividevano dalle due donne, rintoccando di violenti pugni la fine del viaggio.
«Fuori, forza! Non ho tempo da perdere!»
Sua madre si premette un indice sulle labbra, intimando ancora alla figlia di tacere, e scivolò per prima fuori, spalancando le pesanti tende. Un vento leggero carezzava il limitare della foresta in cui si erano fermati, sventolando leggero sulle vesti cenciose della donna e quelle leggere, da notte, di Izar. Le fissò gli occhi – erano stanchi ma insolitamente vivaci, scintillanti. Sua madre le indicò un albero e la spinse, mimando gesti che le dicevano inequivocabilmente di tacere e nascondersi. Izar ubbidì celere, saggiando con le mani la corteccia, sporcandosi le mani di muschio e paura.
L’uomo scese dal carro con un tonfo sordo; piccoli rami scricchiolarono sotto il suo peso, spezzandosi piegati dai sandali lisi. Izar si guardò intorno: era tutto estremamente diverso dalla cappa polverosa del suo villaggio. Un fitto intrico di tronchi e fronde si spandeva a perdita d'occhio e costeggiava il sentiero sconnesso, risucchiandone il percorso dietro i rami più bassi. Il cielo era nascosto e il percorso era affogato in un buio che strideva con l’accecante bagliore con cui il sole condannava la terra del suo villaggio e del resto della strada che avevano percorso, rendendole aride e polverose.
Izar perse solo per qualche istante lo sguardo in quella geometria così inedita ai suoi occhi, respirando a pieni polmoni quell'aria che le sembrava più pulita, meno secca, sconosciuta ai suoi dodici anni confinata nel perimetro del villaggio del Santero.
Tornò poi a sua madre, che sfilò dietro il carro; non riusciva a vedere né lei né l’uomo, solo i loro piedi sbucavano semi-nascosti dalle ruote. Scostò il viso fuori dal nascondiglio, lasciando il viso mulatto sorpassare per metà il tronco. Un solo occhio fissava quella parzialissima frazione di ciò che stava accadendo. Vedeva i piedi dell’uomo muoversi di fastidio, tremolando in un andirivieni spazientito. Sentì i toni delle loro voci alzarsi, riuscendo, però, solo a cogliere qualche parola biascicata da lui, sputata più seccamente da lei. Non vedeva altro: una danza delle loro posture che poco le diceva su quanto stava realmente accadendo. Una confusione le rimbombava in testa: dalle fiamme della sera precedente al fresco riparo sotto quelle fronde, le sembravano passate mille – lunghissime – ere. Il cuore le martellava impazzito e perdeva un battito solo quando sentiva qualche stralcio della conversazione che pian piano diventava sempre più rumorosa, rimbombando nell’eco di quel silenzio denso. Quello che accadde, non lo seppe mai con precisione: sentì soltanto l’imitazione pallida di un gorgoglio, il tonfo di un peso che crolla, qualche cinguettio di un pappagallo alzato in volo.
Gli occhi del conducente, scivolato a terra, le rimandavano lo sguardo, racchiusi tra i raggi di una delle ruote: erano vitrei, spalancati, morti. Trattenne un grido a stento, premendosi sul viso entrambe le mani, affondando le dita nelle guance magre. Era terrorizzata, congelata e tremante, nel caldo afoso che piegava l’Isola degli Stracci ma non quella distesa d’ombra. Attese per un lunghissimo istante, poi sgusciò fuori dal suo nascondiglio. Era incapace di formulare richieste d’aiuto, di accertarsi che sua madre fosse incolume, che non fossero stati attaccati da qualche brigante delle strade. Mise qualche passo goffo tra gli alberi, le radici ad ostacolo di quei passi confusi. Poi, quando un raggio di sole le trafisse lo sguardo e la costrinse a socchiudere le palpebre, le gambe non ressero più: sua madre – lo sguardo stravolto e trionfante al tempo stesso – uscì da dietro il carro. Aveva un piccolo sacchetto in una mano e un coltello sporco di sangue nell’altra.
 
(continua…)


 
Nda: mi scuso per il mostruoso ritardo con cui arrivo a pubblicare questo nuovo capitolo. Alcune cose mi avevano bloccata sull’andare avanti in questa storia, quindi ho dovuto prendere un attimo fiato e poi, adesso, tapparmi il naso e pubblicare. So che sembra impossibile visto il tempo infinito che ho impiegato ma è stata una stesura di getto, soprattutto per l’ultima parte. Siate clementi, spero che ogni cosa sarà più chiara andando avanti nella lettura. Grazie a chiunque abbia avuto (se è arrivato fin qui) la voglia di aspettarmi e spero di riuscire ad essere più ispirata, costante e motivata possibile in futuro. Vi mando un abbraccio grande!
   
 
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