Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Ode To Joy    18/05/2021    3 recensioni
[Erwin x Levi]
[Kenny x Uri] [Jean x Eren]
”L’Umanità si divide in due categorie: quelli che vogliono cambiare il mondo e quelli con il potere di farlo.”
Paradis, 850.
Il Muro Maria è stato riconquistato ma a caro prezzo: solo otto soldati hanno fatto ritorno da Shiganshina.
Levi ed Eren non sono tra loro.
Erwin è sopravvissuto a costo della sua umanità e non si ritiene più degno di guidare le Ali della Libertà.
Marley.
Prigioniero sotto la custodia di Zeke Jeager, Levi cerca di tenere in vita se stesso ed Eren con la certezza che Erwin sia morto e che nessuno stia venendo a salvarli. Manipolare il fratello minore per renderlo suo complice, però, è solo una parte del piano di Zeke.
“Ora hai sia la volontà che il potere. Smettila di piangerti addosso, vinci questa guerra e riprenditi ciò che è tuo.”
Mytras, 819.
Catturato dopo aver cercato di uccidere il re, a Kenny Ackerman viene risparmiata la vita e promessa la libertà in cambio di qualcosa che lo legherà a doppio filo al principe Uri Reiss.
[Canon-Divergence] [Omegaverse]
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eren Jaeger, Erwin Smith, Jean Kirshtein, Kenny Ackerman, Levi Ackerman
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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8
Levi



 

Gli era stato detto che era nato durante una violenta bufera di neve.

Nessuno aveva scommesso sulla sua sopravvivenza.

Come poteva un bambino così piccolo vedere la primavera?

Eppure sua madre credette in lui ancor prima di conoscerlo.

Mentre l’inverno metteva in ginocchio l’umanità, quel piccino dai capelli corvini sopravvisse.

Fin dal suo primo respiro in questo mondo, quella creatura combatté per la sua vita.

Si dimostrò il più forte solo vivendo.

Non poteva sapere che quella sarebbe divenuta la sua maledizione.




 

Aveva guardato la morte in faccia e l’aveva accettata.

”Mi dispiace, Erwin…” Non sapeva se lo aveva detto ad alta voce, o se quel sussurro era esistito solo nella sua mente. Aveva avuto il tempo di conficcare la lama nella bocca di quel disgustoso Titano Bestia, prima che il Titano Carro comparisse dal nulla con le fauci spalancate.

Sapeva che sarebbe finita così, prima o poi. Lo chiamavano il soldato più forte, gli avevano incollato addosso una fama da eroe che non aveva mai voluto. Ma era fatto di carne e sangue. 

”Grazie, Levi.”

Era stanco di essere sempre l’ultimo uomo ancora in piedi, di essere l’unico a tornare indietro. Se aveva mai fantasticato su una vita senza Mura e senza guerra, lo aveva dimenticato. 

Aveva mandato il suo Comandante a morire e lui sarebbe perito portando a termine l’ultimo compito che gli era stato affidato.

Era uno scambio equo.

Di loro sarebbe rimasta una storia tragica, destinata a perdersi nel tempo.

Gli stava bene.

Il Capitano della Legione Esplorativa sarebbe caduto insieme al suo Comandante, ma le Ali della Libertà non avrebbero smesso di volare. Eren sarebbe sopravvissuto, Mikasa e Armin non gli avrebbero permesso di morire. 

Lui per primo aveva detto loro, senza alcun raziocinio, che non avevano il permesso di cadere su quel campo di battaglia. Eppure, aveva detto a Erwin di abbandonare il suo sogno e cavalcare incontro alla morte.

”Sei una contraddizione vivente, moccioso.” Non sapeva perché gli erano tornate alla mente quelle parole di Kenny, ma aveva dovuto arrendersi all’evidenza che l’uomo che lo aveva cresciuto lo conosceva e anche bene.

Sì, Levi Ackerman aveva guardato la morte in faccia e l’aveva accettata.

”A presto, Erwin.”



 

Ma la morte non lo toccò nemmeno quella volta.



 

- 3 giorni dopo la battaglia di Shiganshina -



 

Al risveglio, Levi Ackerman venne accolto dal dolore.

Non aprì gli occhi, non ci riuscì. Il suo corpo emise un urlo silente, mentre lui stringeva i denti e realizzava che la nera signora non lo aveva portato con sé neanche questa volta.

Nel vorticare caotico dei sensi che tornavano a funzionare lentamente, il nome del suo Comandante gli sfuggì dalle labbra.

“Erwin…” 

Perché se era vivo lui doveva esserlo anche l’altro. Era un pensiero irrazionale, un pensiero a cui non voleva dare il nome di speranza - avrebbe fatto ancor più male e non era certo di poter sopportare altro dolore. Non esisteva una conclusione alla battaglia di Shiganshina in cui solo uno dei due tornava indietro.

”Nessuno di voi ha il permesso di morire!”

Era stato un ordine assurdo, ma l’aveva pronunciato con tutta la determinazione che aveva in corpo. 

Era stanco, Levi Ackerman. Stanco di seppellire ragazzi più giovani di lui, veterani che erano sopravvissuti a più missioni fuori dalle Mura di quante lui potesse contarne. Stanco di combattere e vincere sempre, ma troppo tardi.

Troppo tardi per Isabel e Farlan.

Troppo tardi per Petra e gli altri.

Doveva essere una maledizione legata al nome che aveva scoperto di recente da portare. Anche Kenny era arrivato troppo tardi per salvare Kuchel - due volte, a sentire i suoi racconti. Anche Mikasa aveva scoperto il suo potere troppo tardi per salvare i suoi genitori - e anche per salvare Eren da quella prima a battaglia a Trost, da cui era uscito sia vincitore che mostro della storia.

L’udito gli suggeriva che c’era dell’acqua intorno a lui, la sentiva sbattere contro le pareti del luogo in cui si trovava. Non sapeva dove fosse.

Levi Ackerman allungò la mano nel buio e qualcuno l’afferrò.

Solo allora tornò a respirare. Mandò al diavolo il dolore che lo stringeva in una morsa e costrinse se stesso ad aprire gli occhi.

Il buio si diradò solo un poco, quel tanto che bastò a fargli realizzare che gli occhi azzurri che lo fissavano non appartenevano a Erwin Smith. 

Si liberò della mano che aveva afferrato la sua, scivolò indietro, tentò di alzarsi e falli. L’uomo con la barba e i capelli biondi gli disse di stare calmo, che combattere non aveva senso.

Il Capitano delle Ali della Libertà non gli diede ascolto, provò a colpirlo ma l’altro si difese, mentre cercava di afferrarlo di nuovo. 

Andarono avanti ad azzuffarsi per alcuni minuti. Il nemico lo fissava con espressione incurante. Levi combatteva, ma era come un bambino che cerca di ribellarsi a un uomo adulto. Lui, che era più forte di Erwin e anche di Mike, era debole come un moccioso che non ha mai dovuto lottare per la sua vita.

Alla fine, il nemico gli afferrò i polsi e glieli bloccò sopra la testa. Levi cedette e si fermò, il fiato corto e il viso umido di sudore.

Con la faccia a un palmo a quella del Capitano, l’uomo parlò: “ti ricordi di me?”

Levi lo fissò come un animale feroce costretto in gabbia dalla sua preda naturale, ma si convinse a guardarlo negli occhi, a mettere da parte l’istinto del predatore per far funzionare il cervello. “Sei quel bastardo del Titano Bestia.”

Lo aveva osservato per pochi istanti, prima che il Titano Carro intervenisse e si abbattesse su di lui. Si era però assicurato di imprimere nella sua mente ogni dettaglio di quel viso, prima di staccargli la testa dal collo. Perché quello era il viso dell’uomo che stava uccidendo i suoi uomini, quelli guidati da Erwin verso morte certa.

“Bene.” Il bastardo sorrideva soddisfatto. “Sembra che tu ti stia riprendendo in fretta.” 

Levi non sapeva che cosa ci fosse di così positivo per l’altro, ma non gli importava di saperlo. 

“Posso contare sulla tua collaborazione?” Domandò il Titano Bestia. 

“Fanculo…” Sibilò il Capitano.

“Ridotto come sei in questo momento, potrei neutralizzarti senza nemmeno sudare.” L’uomo era serio, forse annoiato dalla sua ostilità, ma c’era del derisorio nelle sue parole.

La tentazione di sollevare di colpo il collo e spaccargli il naso con una testata era forte, ma Levi dovette riconoscergli il vantaggio di cui godeva: a differenza sua, il nemico era in ottima forma e conosceva il luogo in cui si trovavano.

Inspirò profondamente dal naso. “Dove siamo?” Era quasi certo che non avrebbe ricevuto una risposta soddisfacente.

Il bastardo lo sorprese. “A Marley,” rispose. “Sulle coste di Liberio.”

Levi lo guardò come se avesse parlato una lingua sconosciuta.

“Permettimi di lasciarti andare e ti darò tutte le informazioni di cui hai bisogno,” aggiunse il Titano Bestia. Ora che lo guardava dritto in faccia, Levi si rese conto che il suo nemico era giovane, forse più di lui, ma quella barba incolta gli conferiva un’aria troppo matura. O forse erano i solchi scuri sotto i suoi occhi.

Strinse le labbra e annuì due volte.

L’altro lo lasciò andare e gli permise di mettersi a sedere. Lo aveva adagiato su di un materasso sporco, gettato nell’angolo di una stanza dalle pareti rocciose e irregolari, simili a quelle di una caverna. Il soffitto era alto almeno una decina di metri e nel punto più alto, un’apertura ovoidale faceva entrare la poca luce di cui quello spazio godeva.

Una porta rinforzata completava il quadro di quella che sembrava a tutti gli effetti una cella. 

Ora che era completamente sveglio, il rumore dell’acqua arrivava chiaro e forte ma Levi non riusciva a trovare la fonte. “Siamo sotto il corso di un fiume?”

L’uomo dai capelli biondi poggiò il palmo aperto sulla parete di pietra. “È la voce del mare.”

Levi inarcò le sopracciglia, incerto se l’altro avesse deciso di essere sincero o lo stesse solo prendendo in giro. “Non c’è nessuno mare vicino al Muro Maria.”

“Siamo molto lontani dal Muro Maria, Levi,” rispose l’altro. “Sei rimasto privo di sensi per parecchio tempo… Sì, conosco il tuo nome, Berthold e Reiner mi hanno fatto un rapporto molto dettagliato su di te.”

“Dove cazzo sono?” Sibilò il Capitano, velenoso. Non gli importava nulla di quei mocciosi, delle tragiche ragioni che li avevano spinti a divenire quello che erano. Voleva delle risposte e le voleva subito. 

Dov’erano Erwin, la Quattrocchi, i ragazzi?

Perché lo avevano fatto prigioniero quando avrebbero potuto ucciderlo con poco?

Come si era conclusa la battaglia di Shiganshina?

Lui era finito nella merda e va bene. Sì, gli stava bene, ma un prigioniero non diceva niente sui vincitori e i vinti. Se aveva raggiunto il Titano Bestia abbastanza in fretta da salvare qualcuno della Legione ed Erwin. Sì, Erwin. Lui doveva essersi accorto della sua cattura. Quella distrazione doveva aver fatto guadagnare al suo Comandante il tempo necessario per radunare i sopravvissuti e andarsene. La battaglia era persa. Il Muro Maria non era stato riconquistato, ma bastava che Erwin ed Eren fossero ancora vivi perché ci fosse ancora speranza.

“Sarò breve,” disse l’uomo. “I tuoi compagni… Tutti i tuoi compagni sono morti, Levi,” una pausa grave. “Ed Eren è stato giustiziato in nome di Marley.”

Sul momento, Levi Ackerman non comprese. Fu come se il bastardo avesse parlato di nuovo in una lingua che non conosceva. Abbassò lo sguardo, cercò di pensare a un secondo modo in cui potevano essersi svolti gli eventi ma non ci riuscì.

Speranza.

La forza che lo aveva spinto a credere che Erwin avesse portato in salvo chi era rimasto in piedi, sopravvivendo a sua volta, era stata la speranza.

Eppure, la vita gli aveva insegnato più volte a non attaccarsi a nulla di tanto effimero.

Scosse la testa. Non accettò la realtà, semplicemente.

“Sono vivi…” Mormorò. “Mi hanno lasciato indietro, mi hanno usato come diversivo per salvarsi.”

Sapeva che quel giorno sarebbe arrivato, che Erwin si sarebbe voltato, lasciandolo solo sul campo di battaglia. Era stata solo questione di tempo. Levi non provava alcun astio nei confronti del suo Comandante. Al contrario, se era stato lui il prezzo da pagare per la salvezza di chi era rimasto vivo a Shiganshina, ne era sollevato.

“Levi…” Il bastardo lo guardò fisso negli occhi e lui fu costretto a rispondere al suo sguardo. “Le Ali della Libertà non esistono più.”

“Stronzate,” sibilò in risposta.

Erwin era vivo e aveva portato in salvo Eren, la Quattrocchi e i tutti i mocciosi della sua squadra. Aveva ordinato loro di non morire ed erano sopravvissuti, punto e basta.

Il nemico lasciò andare un sospiro. “Se continui a negare la realtà, non posso darti nessuna delle risposte che cerchi.”

“Non è colpa mia se continui a sparare cazzate.”

L’espressione dell’altro si addolcì grazie a un sentimento che Levi non sopportò di vedere nei suoi occhi: pietà. 

“Sono tutti morti a Shiganshina tre giorni fa,” ripeté. “Eren è morto ieri. La sua esecuzione è avvenuta dodici ore fa, al tramonto. Ti abbiamo tenuto qui, drogato, per tutto il tempo. Sei il solo rimasto.”

No, si rifiutava di crederlo.

“Eren non si sarebbe mai fatto catturare!” Sbottò Levi. “Se è morto, lo avete ammazzato a Shiganshina! Se così non è, allora si è portato all’inferno anche quegli altri due mocciosi! Non crederò mai che sia stato zitto e buono ad aspettare la sua condanna!” Sentiva male alla gola, Levi e il fiato gli mancava, ma anche se era ridotto da schifo non si sarebbe fatto prendere per il culo.

“Abbiamo droghe anche per stordire un Titano,” replicò il bastardo. “Sì, Eren ha combattuto fino alla fine, ma non ha vinto.”

“Tutte cazzate!” Levi si alzò in piedi, le gambe non lo ressero e indietreggiò fino a che la sua schiena non si appoggiò alla parete di pietra.

“La Legione esiste ancora…” Insistette, con fiato corto. “Le Ali della Libertà volano ancora, bastardo!”

Si sentiva sul punto del collasso. Il cuore gli batteva tanto forte nel petto da dargli l’impressione che stesse per scoppiare. Quando sollevò lo sguardo, il bastardo era di fronte a lui e lo fissava dall’alto in basso con quella sua pietà di merda stampata in faccia. “Riposa, Capitano, prenditi il tempo per accettare la verità. Quando il dolore avrà fatto il suo corso, potremo parlare.”

Levi digrignò i denti. “Ti ammazzo,” si fece leva contro la parete e si lanciò addosso al nemico. Caddero entrambi, le mani di Levi strette intorno alla gola dell’altro. “Ti ammazzo, bastardo! Ti ammazz-“

Il fiato gli morì in gola non appena l’ago della siringa gli trafisse il braccio. Sentì il fiele gelido entrare in circolo nel suo corpo, mentre lo stronzo si divincolava e si allontanava da lui.

La porta rinforzata che si chiudeva con un rumore metallico lo avvisò che era rimasto da solo.

Inginocchiato sul pavimento di pietra, Levi continuò a scuotere la testa ripetendo a se stesso che Erwin era vivo, aveva tratto Eren in salvo e che la loro storia non era ancora finita.

”Grazie, Levi.”

Levi urlò e continuò a urlare fino a che i polmoni non gli bruciarono e la droga, alla fine, fece il suo effetto.

Per poco, la voce del suo dolore ebbe il potere di mettere a tacere quella del mare.




 

Era piccolo. Cinque, forse sei anni.

Di fronte a lui vi era un bicchiere da una pinta vuoto, che aveva visto giorni migliori. Non si poteva dire lo stesso del pub in cui si trovava: quel posto non aveva mai nemmeno conosciuto la luce del sole.

Eppure, l’atmosfera era allegra.

In fondo alla grande stanza dalle pareti scrostate, dei musicisti improvvisati suonavano e cantavano canzoncine popolari, piuttosto volgari per il bambino tra il loro pubblico. Il più entusiasta dei tre stava massacrando le chiavi di un pianoforte scordato. Ma non aveva importanza che il livello artistico fosse misero: la gente intorno a lui rideva e si divertiva.

E l’anima della festa era un uomo alto, dai capelli scuri per lo più coperti da un ampio cappello. Agitava una pinta di birra, cantando con entusiasmo esagerato.

Sì, molti ricordi dell’infanzia di Levi erano così: lui seduto nell’angolo di un pub affollato, mentre Kenny faceva a baldoria fino a tarda notte. Aveva scoperto cosa fosse la vergogna in quelle occasioni, mentre l’adulto che avrebbe dovuto prendersi cura di lui dava il peggio di sé.

E la gente lo adorava. Era il peggior pezzo di merda che avesse mai camminato nella Città Sotterranea e la gente avrebbe giocato carte false per essere amico di Kenny, solo Kenny. Quella fu la prima lezione sul potere che Levi imparò senza gli fosse impartita: tutti vogliono essere amici di un uomo potente. Eccoli lì, i poveri stolti che pensavano che brindare con un predatore fosse sufficiente per uscire dallo status di preda.

Kenny rideva e cantava con loro, forse reso più amichevole dalla birra che si era scolato. Se gli avesse fatto comodo, non si sarebbe fatto scrupoli a tagliare la gola a tutti loro. Forse Levi compreso. Forse no.

Due cose erano certe: Kenny non aveva mai avuto amici e Levi, dopo aver passato la sua infanzia a credere di essere un qualche tipo di eccezione, era stato scaricato come un rifiuto al momento opportuno.

“Dov’è il piccolo ratto?” Domandò Kenny a gran voce. “Dove si è cacciato il mio ragazzo?”
Istintivamente, Levi si fece ancora più piccolo nell’angolo in cui si era andato a sedere. Kenny era di ottimo umore e gli sarebbe piaciuto che continuasse a esserlo molto lontano da lui. Era un bambino, non uno stupido.

“Nanerottolo?” Chiamò a gran voce, sopra il coro accidentato dei clienti del pub.

Levi si sentì cingere da un braccio esile, gentile. “È qui con me, Kenneth, esattamente dove lo hai lasciato un’ora fa!” Fu la rassicurazione annoiata che offrì la donna seduta sulla panca, accanto a lui.

Levi sollevò lo sguardo e Kuchel gli sorrise. “Non preoccuparti, tesoro. Con me sei al sicuro.” Mormorò, dolce.

“Kuchel, non dire male di me col nanerottolo,” intervenne Kenny. 

“Non ce n’è alcun bisogno: il bambino ha occhi per guardare.”

“Sì, i tuoi e i miei… Ma la faccia da prendere a schiaffi è senza dubbio una tua eredità.”
“Ne sono orgogliosa.”

“Io, invece, ne uscirò pazzo.”

Levi se rimase zitto e fermo per tutto il tempo di quel battibecco tra fratelli. Non era un ricordo, ma un sogno: l’unica volta che aveva visto quei due insieme, lei era morta e lui si era lasciato scivolare a terra accanto al suo capezzale. Non sapeva che tipo di rapporto avessero il fratello e la sorella che, a conti fatti, erano stati i suoi genitori.

Presi separatamente, quelle due persone definivano i primi due grandi capitoli della sua esistenza, ma del loro passato insieme aveva solo quel poco che Kenny gli aveva confessato l’ultima volta che si erano parlati.

Doveva essere la droga a portare la sua mente a compiere l’impresa impossibile di metterli nello stesso contesto. Anche se a stento ricordava il viso di Kuchel e fin troppo bene quello di Kenny.

“Vieni, nanerottolo!” 

Kenny lo prese sotto le braccia.

Kuchel si alzò in piedi. “Kenneth, fai attenzione!”

“Oh, usiamo la carta del nome per intero!” Esclamò l’uomo, mettendolo in piedi sul tavolo al centro della stanza. “Non è un neonato, sa stare in piedi sulle sue gambe!” Kenny si tolse il cappello e glielo mise in testa.

Per Levi era enorme e dovette afferrarlo con entrambe le mani per tenerlo sollevato. Kenny gli fece l’occhiolino, puntando l’indice contro il suo petto: “te lo affido,” disse, poi gli fece un sorrisetto come a dire non farmene pentire.

Era un onore, una gioia, qualcosa che il piccolo Levi non poteva esprimere a parole. Quel cappello era un premio, non un gesto casuale. Era la prova che se Kenny era di buon umore era per qualcosa che Levi aveva fatto.

Povero, piccolo, stupido moccioso.

Se avesse potuto parlare al se stesso bambino, il Levi adulto lo avrebbe apostrofato in quel modo. Gli avrebbe fatto male con la cruda realtà e gli avrebbe risparmiato il dolore di sentirsi abbandonato più avanti.

Ma non c’era modo di riavvolgere il tempo. Quello era solo un sogno reso più vivido dalla merda che un bastardo senza nome gli aveva iniettato in vena.

Kuchel era viva, Kenny era lì ma erano tutti prigionieri nel mondo di merda della Città Sotterranea comunque.

Forse era quello che la sua mente stava cercando di dirgli: se li avessi avuti entrambi con te, anche quel luogo senza cielo sarebbe divenuto casa.




 

- 5 giorni dopo la battaglia di Shiganshina -




 

Levi si risvegliò sul vecchio materasso gettato sul pavimento della sua cella. Qualcuno doveva averlo spostato mentre era privo di sensi. Si girò su un fianco e richiuse gli occhi: il dolore era sparito - forse per merito del riposo forzato - ma la debolezza era peggiorata. Dischiuse appena le palpebre: dall’apertura sul soffitto penetrava una luce accecante. I raggi del sole non gli erano mai sembrati tanto accecanti nemmeno la prima volta che aveva messo piede fuori dalla Città Sotterranea.

Al tempo, quel bagliore era stato sinonimo di speranza, ora non sapeva che farsene. 

Si girò sul fianco opposto, dando le spalle al giorno, che gli ricordava senza rispetto che era ancora vivo in un mondo in cui aveva perso tutto.

Le Ali della Libertà non esistono più.

Il dolore tornò ma non avrebbe saputo localizzarlo. Se qualcuno glielo avesse chiesto, avrebbe indicato un punto impreciso nelle vicinanze del cuore e avrebbe detto che la gola gli bruciava con ogni respiro che faceva. 

Erwin era morto.

La Quattrocchi non c’era più e i mocciosi erano stati ridotti in pezzi.

Ed Eren, quell’ultima speranza che nessuno si era aspettato, era stata divorata da un piccolo bastardo che forse si sarebbe introdotto all’interno del muro Rose per finire quello che Annie, Reiner e Berthold avevano cominciato.

Il rumore della porta rinforzata che si apriva costrinse Levi a voltare di nuovo lo sguardo verso la luce.

Il Titano Bestia gli rivolse un sorriso cortese. “Sei sveglio, mi fa piacere.”
Levi sbuffò e tornò a rivolgere quella poca attenzione che riusciva a mantenere sulla parete di pietra. Sentì il bastardo attraversare la cella e sedersi sul bordo del materasso.

“Non credo di averti detto di accomodarti,” disse Levi. Voleva suonare astioso, ma la sua voce era impastata dal sonno e dalla droga ancora in circolo. 

Si faceva schifo da solo per lo stato in cui si era fatto ridurre.

Per i suoi standard sarebbe stato meglio finire a pezzi sul campo di battaglia, che divenire un ammasso di carne instabile e puzzolente, rinchiuso in un buco roccioso.

“Ti senti così a tuo agio qui dentro?” Domandò il bastardo. 

A Levi era andata male: anche il Titano Bestia sembrava dotato di sarcasmo e di tanta voglia di usarlo. 

“Non che faccia molta differenza: non puoi uscire da questa situazione senza ascoltarmi. Non riesci a muoverti, vero?” S’informò.

Il Capitano non gli rispose.

“Non temere. La quantità della droga che hai in corpo non avrà effetti a lunga scadenza. Devi solo collaborare e non costringermi ad aumentare la dose.”
Suo malgrado, Levi rotolò sulla schiena per guardare il suo secondino dritto negli occhi. “Perché sono ancora vivo?” 

Nessun nemico si sarebbe scomodato a fare un prigioniero se non avesse pensato di guadagnare qualcosa da quella cattura. 

“Dobbiamo parlare,” disse il bastardo. 

“Lo hai già detto, barbetta.”

Il biondo ridacchiò. “Sai essere simpatico, meglio così,” commentò, ma non perse ulteriore tempo. “Partiamo da ciò che ricordi.”

Levi dovette inspirare profondamente dal naso per riuscire a parlare. “Ti stavo staccando la faccia dal resto del cranio con la mia lama,” raccontare gli faceva girare la testa e nemmeno il suo stomaco stava mandando dei segnali piacevoli. “Poi è arrivato un Titano e mi ha divorato… O almeno quella è stata l’impressione iniziale.”
“Carro.”

Levi corrugò la fronte. “Eh?”
“Era il Titano Carro. Come puoi dedurre dal nome, ti ha trasportato fino a qui.”

Il Capitano ingoiò a vuoto, costringendosi a non vomitare. “Quello che tu chiami qui non ha molto senso per me.”

“Una cosa alla volta,” disse il nemico, osservandolo. Solo in quel momento, Levi si accorse che indossava un paio di occhiali rotondi. “Partiamo da te: Reiner e Berthold hanno avuto molto da dire.”

“Sono entrambi vivi?”

“Se ti può consolare, non sono incolumi.”
“Farli a pezzi mi sarebbe molto più utile, grazie.”

Il bastardo gli rivolse un sorriso paziente. “Capitano della Legione Esplorativa, Soldato più forte, Eroe dell’Umanità.”

Levi sentì il vomito salire su per la gola a metà tra più forte ed eroe. “Rispondo solo al titolo di Capitano,” disse, poi si sporse oltre il materasso e vomitò. Il bastardo non parve impressionato dal contenuto del suo stomaco riversato sul pavimento. Si limitò a tirargli i capelli all’indietro mentre finiva di fare quello che stava facendo, poi lo aiutò a stendersi di nuovo e gli porse un fazzoletto. 

“È avvelenato, vero?” Domandò Levi, sarcastico.

“Non avrei fatto tutta la fatica di portarti qui se volessi vederti morto.”
“Ancora questo qui.” Levi guardò l’apertura  sul soffitto e la luce che ci passava attraverso. “Dimmi quello che devi dire.”
Lo sguardo del bastardo si fece malinconico. 

Pezzo di merda, pensò Levi, prega che non riprenda più le forze o non saprai più di cosa fartene della tua fottuta pietà.

“Sì, penso che abbiamo tutto il tempo per una lunga storia, Levi.”

Il Capitano delle Ali della Libertà non parlò più. Impiegò le poche forze che possedeva per ascoltare, memorizzare e capire. Soprattutto capire. Che vi erano altre civiltà fuori dalle mura, era stata una teoria del professor Smith, una delle ragioni per cui era stato catturato, torturato e poi ucciso.

Erwin gliene aveva parlato durante una delle loro serate spese a discutere di tutto e niente. 

“Secondo i libri proibiti di mio padre, il mondo è così grande,” aveva detto il suo Comandante, con lo sguardo rivolto verso un orizzonte che non poteva vedere. “Sarebbe uno spreco imperdonabile se fosse tutto solo per noi.”

“Infatti non è per noi,” aveva replicato Levi. “È per i Titani.”
“No, non dobbiamo fermarci a questo, Levi,” lo aveva pregato, entusiasta come un ragazzino. “Dobbiamo guardare oltre. Deve esserci qualcosa dietro ai Titani, non possono essere comparsi dal nulla. Se l’Umanità è davvero ridotta a poche migliaia di persone, non posso credere che esista per essere tenuta in gabbia.”

Se soltanto Erwin fosse vissuto abbastanza per sentire la storia che il nemico aveva da raccontargli. Se solo avesse potuto sapere quanto lui e suo padre si erano avvicinati alla verità, ma quanto si erano sbagliati sulla sfumature di tutto.

Quando il bastardo ebbe finito, la luce del sole che penetrava nella stanza non era più così accecante. “E questo è quanto.” Concluse.

Levi fissava il vuoto, incapace di dire alcunché. “Un uomo… Un singolo uomo ha deciso che il suo popolo e i figli di quella gente dovessero pagare per i peccati di una famiglia.”

“Tecnicamente, le famiglie erano nove.”

“Nobili che hanno manovrato la gente comune come oggetti.” Levi si sollevò a sedere.

“Sei troppo debole per camminare,” tentò di fermarlo il bastardo, ma non lo ascoltò.

Il Capitano si alzò in piedi a fatica, muovendo qualche passo traballante verso il centro della cella. “E fuori di qui il mondo ci teme come se fossimo dei demoni.”

“Eldian,” ripeté il nemico. “Siamo Eldian e per il mondo siamo figli di una stirpe maledetta.”
“Non c’è alcuna libertà fuori dalle Mura,” concluse Levi con un filo di voce. Si fermò sotto l’apertura sul soffitto e guardò in alto: il cielo era infiammato dai colori del tramonto. “È per questo che sono morti tutti?”

Erwin, Hanji, i ragazzi e tutti i soldati che erano caduti prima di loro avevano combattuto per poter vedere un mondo che li voleva rinchiusi, assoggettati dal terrore, assediati dai Titani.

Levi si voltò per guardare il suo nemico in faccia. “E tu chi diavolo sei?”

Il biondo si alzò in piedi, infilandosi le mani nelle tasche della giacca. “Il mio nome è Zeke Jeager,” disse. “Sono il fratellastro di Eren.” Gli parlò di Grisha Jeager, suo padre, di come aveva cercato di ripristinare il potere del vecchio Impero ed era finito sulle coste di Paradis come un condannato.

“Era questo che voleva spiegare a Eren prima della caduta del Muro Maria,” intuì Levi. “Questo avremmo trovato dentro quella cantina.”

“Probabile…” Zeke annuì, estraendo qualcosa da una delle tasche. “Eren aveva questa.”

Nella poca luce del tramonto, la chiave dorata scintillò come la prima stella della sera.

Levi la riconobbe immediatamente. “Perchè ce l’hai tu?”

“Me l’ha data prima di essere giustiziato.”
“Non l’avrebbe mai data a nessuno.”

Zeke sbatté le palpebre un paio di volte. “Non aveva più ragione di lottare e ho dato a lui le stesse informazioni di cui ora sei a conoscenza. Questa chiave non gli serviva più.”

“Non te l’avrebbe mai ceduta,” ripeté Levi, scandendo con voce carica di fiele ogni parola. Quella chiave non era solo uno strumento per aprire una porta, ma un simbolo. Era l’ultimo dono di Grisha Jeager a suo figlio. Eren non gliene aveva mai parlato in quei termini, ma non ce n'era stato bisogno: a Levi era bastato guardare come la stringeva. 

Anche lui aveva stretto a sé un oggetto in quel modo: il pugnale che Kenny gli aveva regalato, l’unico dono che gli era mai stato fatto dall’uomo che l’avevo reso quello che era.

“Non puoi sapere come si sarebbe comportato a un passo dalla morte,” ribatté Zeke. “Nessuno lo sa, finché non vede la nera signora in faccia.”

“Eren non ha guardato in faccia un bel niente!” Sbottò il Capitano. “Per portarlo qui avete dovuto trascinarlo. Per impedirgli di ammazzarvi tutti, uno a uno, avete dovuto farlo a pezzi. Se pesni di convincermi che Eren si è addolcito come un cucciolo solo perché sei…” Erano già passati alcuni minuti da quando Zeke si era presentato, ma Levi riuscì a sentire il vero peso di quella rivelazione solo in quel momento. Colpa della droga di merda che gli aveva fottuto cervello.

Ma ora vedeva il nemico, Zeke Jeager, per il bastardo che era.

“Hai ucciso tuo fratello,” sibilò.

Gli occhi azzurri di Zeke si fecero tristi. “Ho provato a salvarlo,” disse. “Il Governo non mi ha permesso di tenerlo con me.”
“Hai ucciso tuo fratello,” ripeté Levi, facendosi più vicino. Non ne era sorpreso, non davvero. Aveva visto uomini vendere i propri figli per una pinta di birra. Lui stesso era stato abbandonato dal fratello di sua madre. Solo che Eren aveva quindici anni, era dovuto restare a guardare sua madre che moriva fatta a pezzi, solo pochi mesi prima aveva scoperto che suo padre non si era limitato a trasformarlo in un mostro ma si era anche fatto divorare. Sebbene quello fosse un peccato di cui non era realmente colpevole, Eren ne era rimasto marchiato in modo indelebile. 

“Hai ucciso tuo fratello.”

Eren non lo meritava.

Zeke si umettò le labbra. “Io non-”

Levi gli fu addosso prima che riuscisse a finire di parlare, ma quell’offensiva durò poco. Zeke lo colpì allo stomaco, un singolo pugno ben assestato, e il Capitano cadde a terra. Levi spalancò la bocca in un urlo silenzioso, poi tossì e si ritrovò a vomitare sul pavimento una seconda volta.

Zeke poggiò un ginocchio a terra. “Sembra che sarò costretto a usare le catene,” disse, con tono incolore. “Non posso permetterti di farti del male da solo, mi capisci?”

Con la fine del conato, Levi si aggrappò all’aria come un naufrago in mezzo alla tempesta. 

“Sono morti tutti, Capitano,” disse Zeke. “Stai soffrendo. Lo comprendo, ma non essere così irrispettoso nei confronti della tua vita. Puoi ancora onorare i tuoi compagni caduti, se ti permetti di guardare più in là del tuo odio.”

“Vai al diavolo!” Levi provò a sollevarsi ma le forze lo stavano abbandonando velocemente.

“Resta vivo, Capitano.” Zeke si alzò in piedi e arrivò alla porta rinforzata in pochi passi.

Levi disse qualcos’altro ma a voce troppo bassa.

Il giovane Jeager si voltò. “Come hai detto?”

Facendo appello a tutta la sua testardaggine - che, a sentire Kenny, era un bel po’ - Levi riuscì a mettersi in piedi ancora una volta. “Capitano Levi Ackerman,” disse, scandendo ogni parola in modo da non doversi ripetere. “Ricordati questo nome, Zeke Jeager, perché è quello dell’uomo che ti staccherà il resto del collo.”

Nel sentire quel nome, Zeke strinse le dita intorno alla maniglia della porta tanto da farsi male ma fu bravo a mantenere il controllo di sé. 

“Piacere di conoscerti, Levi Ackerman.”




 

Aveva sempre associato l’inverno a qualcosa di malvagio.

Nel mondo in cui era cresciuto, era la stagione in cui la gente moriva di più.

I più deboli si ammalavano e, pur esistendo, non potevano permettersi alcuna cura.

Solo sua madre amava l’inverno.

Perché l’inverno le aveva dato lui.

Eppure, l’aveva persa proprio a causa di una quelle malattie curabili, ma non lì.

Non dove il sole non riscaldava nessuno.

Eppure, la prima volta che vide la neve, pensò che fosse bellissima.

“Non l’hai mai vista prima.”

Non era una domanda. L’altro non faceva mai domande, era troppo sveglio.

Scosse la testa, senza allontanare lo sguardo dal cielo scuro. “No.”

“Domani, con la luce del sole, vedrai quanto sembra tutto più bello coperto di bianco.”
“È il mio compleanno.”

Lo disse a bassa voce, non seppe nemmeno il perché.

“Che cosa hai detto?”

“Domani è il mio compleanno.”
L’ironia del destino volle che proprio in quel momento il grande orologio a pendolo nella stanza scoccasse la mezzanotte.

L’altro gli sorrise. “Buon compleanno, Levi.”





 

“Che cosa hai detto?” Reiner doveva essersi distratto un po’ troppo nelle ultime ore. 

Cinque giorni - quasi sei - erano tornati a Marley con due prigionieri e tutte le intenzioni di concentrarsi su Eren - il più potente, il più utile - e ora saltava fuori che il Capitano Levi era un figlio della famiglia Ackerman.

“Cioè… Lo ha detto lui?” Reiner davvero non riusciva a crederci.

Zeke guardava fuori dalla finestra del suo ufficio: il mare era una distesa nera di cui si poteva intuire il movimento solo grazie alla luce argentea della luna. Di solito, notti tanto tranquille erano presagio di tempesta.

“Non ce l’ho con te perché non mi hai informato,” lo rassicurò Zeke. “Non potevi saperlo.”

“Infatti, non lo sapevo,” confermò Reiner.

“Sono passati mesi dalla fuga tua e di Berthold alla battaglia di riconquista del Muro Maria.” Zeke rifletté ad alta voce. “Devono essere successe delle cose in tua assenza, cosa che hanno portato a importanti rivelazioni evidentemente.”

“L’unica Ackerman di cui ero a conoscenza è Mikasa,” disse Reiner. “E la sue potenzialità corrispondono a ciò che le storie su quella famiglia raccontano.”

“E le potenzialità di Levi?” Domandò Zeke. “Non ci si guadagna il titolo di Soldato Più Forte per niente.”

“So che ha neutralizzato Annie da solo,” disse Reiner. “Le voci raccontavano che, durante la sua prima missione fuori dalle Mura, abbia eliminato cinque Titani completamente da solo.” Una pausa. “Credevo fosse un’esagerazione.”

“Evidentemente non lo era.”

Reiner inarcò le sopracciglia. “Non mi sembra che questa nuova svolta ti abbia spiazzato.”

Zeke lo guardò, le labbra piegate in un sorriso appena accennato. “In realtà, lo ha fatto ma non per forza deve essere qualcosa di negativo,” disse. “Eren continua a essere la nostra missione principale. Se lo convinciamo a passare dalla nostra parte, gran parte del lavoro è fatto. Per allora, il Governo potrà solo essere felice di sapere che abbiamo portato a Marley un Ackerman.”

Reiner sgranò gli occhi. “Non intendi dirlo.”
“Tecnicamente, tu non lo sapevi e sei la mia unica fonta d’informazioni in questa circostanza.” Zeke aveva bisogno di prendere tempo. Eren era giovane e, a giudicare dalla prima reazione del suo Capitano, era stato viziato dai suoi superiori. Bastava che il dolore facesse il suo corso e allora, ne era certo, lo avrebbe ascoltato.

Levi, invece, era una sorpresa che aveva tutte le intenzioni di studiare e, col passare dei giorni, avrebbe trovato un ruolo in quella storia anche per lui. Doveva solo avere pazienza e impegnarsi per saperne di più.

“Puoi darmi qualcosa che possa usare con Levi?” Domandò Zeke al più giovane. “Con Eren hai convissuto per tre anni, quindi non dubito che tu possa aiutarmi. Ma ho bisogno di avere tra le mani qualcosa che appartenga solo a Levi, non solo le belle storie che giustificano la sua fama da eroe.”
Reiner ci pensò. “Ammetto di non aver passato molto tempo con il Capitano, non quanto Eren,” disse. “Tuttavia, se tutte le voci che girano su di lui sono vere…”

Zeke scrollò le spalle. “Se lo sono state una volta, tanto vale provare.”

Reiner annuì. “Erwin Smith,” disse. “Il Comandante della Legione Esplorativa.”

“Il pazzo che mi ha caricato con tutti i suoi uomini?”

“Lo stesso pazzo che ha permesso a Levi di raggiungerti e neutralizzarti.” Reiner non voleva mancare di rispetto a un suo superiore, ma quella era un’impresa che solo il Capitano Levi avrebbe potuto portare a termine. Lui e nessun altro.

Era importante che Zeke capisse che era stato fortunato ad avere la copertura di Pieck, o contro quell’Ackerman non avrebbe avuto speranze.

Zeke non la prese male. “Touché…” Gli concesse, magnanimo. “Erwin Smith, eh?” Ci pensò. “Ora che me lo hai fatto tornare alla mente, il suo nome è la prima cosa che Levi ha detto. Che puoi dirmi di lui?”

“Alpha. Odiato dalle alte sfere.”
“Perché?”
“Diciamo che ha elaborato una strategia in grado di coprire grandi aree fuori dalle Mura, ma lasciando scoperti molti uomini.”
“Fammi indovinare: il popolo lo apostrofava come mostro che manda i suoi soldati a morire?”

Reiner annuì. “Precisamente. Erwin non era amato da nessuno, Levi era amato da tutti. Eppure quest’ultimo non ha mai mostrato rispetto per nessuno se non per il Comandante.”

Zeke corrugò la fronte. “Erano amanti?”

Fu il turno di Reiner di scrollare le spalle. “Avrebbero detto qualsiasi cosa per affossare la Legione Esplorativa. La nobiltà la vedeva come uno spreco di risorse sia umane che economiche, ma fin tanto che Levi continuava a guadagnare fama ed Erwin era bravo a usare le parole…”

Zeke fece scivolare le dita sotto gli occhiali per massaggiarsi il naso. “Sono stato un idiota.”

Reiner non comprese. “A che cosa stai pensando?”

“Viste le poche informazioni ufficiali che corrono su Levi, immagino tu non sappia se sia un Alpha o un Omega.”

Reiner aprì e chiuse la bocca un paio di volte.

Zeke annuì. “Come immaginavo.”

“Pensi che-?”

“Penso che se ho distrutto un legame tra Alpha e Omega, devo prendermi le mie responsabilità.” 




 

Qualcuno, forse sua madre, gli aveva raccontato che, dopo la morte, alle persone buone era concesso di rivivere per sempre il momento più bello della loro vita.

Bene, il suo tempo doveva essere arrivato perché si trovava esattamente dove e quando voleva essere.

Fuori nevicava ed era tanto freddo che un leggero strato di ghiaccio aveva ricoperto la parte bassa della finestra. A Levi non dispiaceva. Sapeva che quella era solo una breve parentesi, che la primavera sarebbe arrivata troppo presto per i suoi gusti e le missioni fuori dalle Mura sarebbero ricominciate. Ma in quel momento, con addosso un maglione troppo grande per lui e una tazza fumante tra le mani, gli stava bene guardare la neve cadere senza pensare al futuro.

La stanza alle sue spalle era piena di libri, disposti in disordine su tutti i mobili circostanti - Levi era certo di averne visto qualcuno anche nascosto dentro l’armadio. Il comodo letto era diventato una specie di grande leggio, snobbato bellamente in favore del morbido tappeto davanti al caminetto acceso. Si erano disturbati solo a privare il materasso della coperta blu scuro che lo ricopriva, e il padrone di casa vi dormiva avvolto, mentre il suo ospite si prendeva qualche minuto per sé, per pensare.

Levi guardò Erwin dormire e si chiese se anche il suo cuore batteva in modo caotico, animato da emozioni del tutto inedite. Quello era il genere di situazione in cui Levi non avrebbe mai creduto di potersi trovare. Fidarsi di qualcuno era difficile, ma c’era riuscito con Farlan e Isabel. Anche con Kenny però, e aveva pagato cara quell’ingenuità. Erwin aveva dovuto faticare per guadagnarsi la sua fiducia, ma non aveva mai dato segno di voler rinunciare. 

Levi aveva giurato a se stesso che l’avrebbe seguito, certo, ma come soldato. Per permettere a Erwin di toccare la persona che si nascondeva sotto gli atteggiamenti astiosi di Levi, c’era voluto tempo e non era stata una strada in discesa.

Quando erano cambiate le cose? Levi non lo sapeva di preciso. Quando si era reso conto che non teneva più la guardia alta in presenza di Erwin ma che, al contrario, con lui si sentiva più forte e forse - solo forse - al sicuro, era stato troppo tardi per fare marcia indietro.

Ci avevano provato, sì. Si erano allontanati di forza l’uno dall’altro solo per inciampare e farsi male nel processo, come due mocciosi sbadati. Per una volta, avevano vissuto la loro giovane età al peggio… Solo per viverla al meglio in quei giorni di pace e di neve.

Erwin si mosse sotto la coperta blu scuro, si stese sulla schiena concedendo a Levi la possibilità di osservare il suo profilo. Che avesse un naso sgraziato era fuor di ogni dubbio, ma conferiva al suo viso qualcosa d’irresistibilmente affascinante. Levi sapeva bene di essere solo l’ultimo ad avergli messo gli occhi addosso, che molte nobili annoiate avrebbero giocato carte false per ricevere attenzioni dal Capo Squadra destinato a divenire il nuovo Comandante della Legione Esplorativa.

Non aveva importanza che a Erwin non piacesse parlare di sé in quella veste. Le alte sfere domandavano urlando un cambiamento e Shadis era sul punto di crollare. Levi non lo biasimava: nella sua posizione, soltanto un mostro avrebbe retto senza chinare la testa.

E forse Erwin qualcosa di mostruoso lo aveva e Levi non aveva potuto fare a meno di sentirsene attratto, suo malgrado.

Si allontanò dalla finestra e s’inginocchiò sul tappeto. Il fuoco nel caminetto si stava spegnendo, ma la braci avrebbero concesso loro qualche minuto in più di calore.

“Erwin…” Levi infilò le dita tra i capelli biondi tirandoli indietro con una carezza, ma questi ricaddero in disordine sulla fronte del soldato addormentato. “Erwin, ti ho fatto il caffè.”

Un gesto semplice, ma che mai si sarebbe sognato di fare per un’altra persona in quelle circostanze. C’era della dolcezza nell’atmosfera che li circondava e Levi la temeva come un bambino teme il buio. Non la conosceva: sua madre lo aveva riempito di amore, ma lo aveva lasciato troppo presto perché per Levi fosse una cosa normale.

A Kenny doveva tutte le armi che gli avevano permesso di sopravvivere - oltre alla scoperta del tradimento - ma Erwin lo faceva sentire vivo. Levi sbuffò, dandosi dell’idiota per quel paragone assurdo: il bastardo e il Capo Squadra non avevano nulla in comune, solo il fatto di essere Alpha. La sola cosa che Kenny aveva fatto da genitore era stato metterlo in guardia da quelli come lui. E ora Levi sentiva un’intima soddisfazione nell’avergli disubbidito.

“Erwin…” Lo scosse appena.

Il soldato si stiracchiò. Aprì un solo occhio azzurro e sorrise. “Sento odore di caffè.”

Levi sbuffò. “Ti chiameremo Comandante Ovvio.”

“Spiacente deluderti, non sono un Comandante,” scherzò Erwin, mettendosi a sedere sul tappeto. “Quello è il mio maglione?”

“Ho freddo,” disse Levi, secco, per nulla intenzionato a restituire il capo di vestiario. Erwin poteva restare nudo per il resto della giornata per quel che lo riguardava. “Caffè?” Gli offrì, porgendogli la tazza fumante.

Il Capo Squadra accettò di buon grado. “Grazie…” 

La tazza era piena solo a metà, Levi aveva bevuto quella mancante ma era un’informazione di cui erano entrambi a conoscenza senza dirsela. E andava bene così. Era bello quel genere di condivisione. Era un livello d’intimità che andava oltre il sesso. Non che Levi lo avesse mai fatto con altri, non se lo era mai sognato: vedere la propria madre lavorare in un bordello lo aveva scottato a lunga scadenza e non era mai riuscito a vedere niente di piacevole in un atto che, per lui, significava solo umiliazione. Con Erwin ne aveva parlato solo dopo, perché lui era riuscito a convincerlo del contrario senza nemmeno provarci. 

Erwin era la prima volta di tante, tantissime cose.

“Hai bevuto del caffè?” Domandò Erwin, incredulo.

Sì, anche di quella.

“Non ho trovato altro in casa,” rispose Levi, trafiggendolo con lo sguardo. “Essere sgraziato che non sei altro.”

Erwin ridacchiò e quasi si strozzò col sorso di caffè nella sua bocca.

“Bravo, strozzati,” lo incitò con sarcasmo Levi.

“Ti hanno mai detto che hai dei gusti insospettabilmente raffinati?”

“È una delle cose per cui la Quattrocchi mi prende per il culo,” disse Levi. “E lo fa solo perché qualcuno glielo ha fatto notare.”

Erwin continuò a sorridergli senza negare o confermare. Posò la tazza vuota sul pavimento. “Gatto randagio non è opera mia.”

“Oh, lo so.” Levi annuì. “La Quattrocchi si è impegnata così tanto a usare questo soprannome nel salotto di quei porci nobili, che sembra quasi diventato un grado militare.”

Contro le aspettative, Erwin non rise. “Servirebbe…”

Levi inarcò le sopracciglia. “Di che stai parlando?”

“Di solito ci sono quattro o cinque Capi Squadra nella gerarchia militare della Legione Esplorativa.”

“Mike è già stato promosso dopo l’ultima missione,” disse Levi. “Ti prego, dimmi che quando diverrai Comandante, non darai alla Quattrocchi più potere e più libertà di parlare di quanto già non abbia,” lo pregò. “La Legione rischierebbe di andare incontro a un alto tasso di suicidi, pensaci.”

“Non stavo pensando a Hanji,” ammise Erwin. “Stavo pensando a te.”

Levi alzò gli occhi al cielo. “Vado a farmi una doccia. Ho ancora la tua puzza addosso.” 

Erwin gli afferrò la mano prima che potesse allontanarsi. “Tu meriti qualcosa che sia solo tuo.”

“Erwin…”

“Levi.”

Il gatto randagio lo trafisse con lo sguardo, ma Erwin continuò a sorridere: “se hai un prodigio tra le mani, non lo rendi comune per adattarlo agli altri.”

“Di che diavolo stai parlando ora?”

Erwin abbassò lo sguardo e rimase a riflettere tra sé e sé per un istante. Quando tornò a guardare Levi, i suoi occhi azzurri riflettevano lo stesso entusiasmo di quando lo aveva visto volare fuori dalle Mura per la prima volta. 

“Capitano!” Esclamò, come se avesse avuto l’idea migliore della sua vita.

“Non esiste il titolo di Capitano nella gerarchia militare, idiota,” gli fece notare Levi.

“Appunto,” insistette Erwin. “Qualcosa di completamente nuovo per qualcosa di mai visto prima.”

“Non puoi creare un grado militare dal nulla, Erwin.”

Erwin scrollò le spalle. “In teoria, nemmeno gli uomini sono stati creati per volare, ma tu sei molto bravo a mettere in discussione questa realtà.”

Stanco di combattere quella guerra persa, Levi gli rispose sfilandosi il maglione e schiaffandoglielo in faccia. “Vado a farmi una doccia,” ripeté, uscendo dalla stanza completamente nudo.

Quando il Capo Squadra si liberò del maglione, lo vide affacciarsi dalla porta socchiusa. 

“Vieni con me?” Propose Levi - anche se suonava più come una minaccia.

Erwin sorrise e lo raggiunse.



 

- 7 giorni dopo la battaglia di Shiganshina -



 

Fu il gelo a svegliare Levi e quando aprì la bocca per ingoiare aria, ingoiò acqua.

Prese a tossire violentemente, muovendosi carponi sul materasso per sfuggire alla fonte d’acqua. Per sua fortuna, non durò che pochi istanti.

“Ben svegliato,” disse Zeke, poggiando a terra il secchio vuoto in modo da potercisi sedere sopra. “Hai avuto due giorni per riflettere e ora dobbiamo parlare.”

Levi digrignò i denti come una bestia pronta ad attaccare, ma quando sollevò lo sguardo vide qualcosa che lo costrinse a mettere la rabbia a tacere in favore dell’istinto di sopravvivenza. Sul pavimento, di fronte ai piedi del bastardo, c’era un vassoio con del cibo e dell’acqua pulita da bere.

“Sai di non mangiare da una settimana?” Domandò Zeke. “Non sottovalutare la cosa: la droga che inietto nel tuo sistema rallenta tutto, anche i bisogni primari. Se fossi costretto a dartene troppo…”

Levi lo ignorò e provò ad allungare la mano verso il pezzo di pane che era proprio lì, a meno di un metro da lui. Un tintinnio metallico e un improvviso dolore al polso gli presentarono la nuova situazione in cui si trovava. Guardò il bastardo occhialuto dritto in faccia.

Il viso di Zeke era come una maschera inanimata. “Ti avevo detto che avrei usato le catene,” disse. “Sei un belva pericolosa ma, a differenza di un Titano, puoi essere incatenato.”

Levi ricordò di averlo minacciato presentandosi come un Ackerman. Non lo aveva fatto per il significato di quel nome, ma solo perché Zeke Jeager sapesse chi lo avrebbe fatto a pezzi. Non aveva riflettuto sul fatto che a Marley dovevano conoscere la sua famiglia tanto quanto conoscevano la natura dei Titani.

“Dicendomi il tuo nome completo hai cambiato la tua posizione, te ne sei reso conto?” Domando Zeke.

Levi non rispose, riavvicinando a sé il polso incatenato.

Il bastardo annuì. “Lo avevo immaginato,” disse, “sei stato bravo a nasconderlo. Reiner era un tuo uomo, giusto? Beh… Non aveva la minima idea che tu fossi Levi Ackerman.”

Neanche io, fino a pochi mesi fa. Ma Levi non aveva alcuna intenzione di dargli informazioni. Piuttosto, voleva prenderle. “Il nome della mia famiglia ha significato per te?”

Zeke sorrise paziente. “Non fingere di non sapere che cosa sei.”

“Per la gente delle Mura sono niente,” gli concesse Levi, sollevandosi a sedere. “Per la tua gente cosa sono?”

“La mia gente è la tua gente. Non dimenticarlo.”

Levi assottigliò gli occhi. “Hai ucciso tutti i miei compagni. Se pensi d’instillare un po’ di cameratismo in me con questa stronzata del popolo di Eldia-“

“Non è una stronzata,” lo interruppe Zeke. “È la mia storia ed è la tua. Lo è più di quanto tu creda.”

“Parli della mia famiglia come se la conoscessi meglio di me.” Tutto quello che Levi sapeva erano poche parole sputate da Kenny, dopo anni di non detti e bugie.

“Forse è così.” Zeke scrollò le spalle. “Hai detto che per il popolo delle Mura sei niente, ma tu sai perfettamente di non esserlo. O vuoi convincermi che credi di essere uno dei tanti?”

Levi si umettò le labbra, mantenne lo sguardo alto e non rispose. 

“Nessuno uccide cinque Titani da solo, Levi,” disse Zeke. “Quello che mi ha detto Reiner è vero, no? Tu sembri nato per combatterli e ucciderli. Non fatico a credere che Erwin Smith ti abbia scelto-“

“Taci,” sibilò Levi. Si accorse un istante troppo tardi del suo errore.

“Non ti fa piacere che ti dica che sei destinato a essere un eroe per diritto di sangue?” Domandò Zeke, sapendo bene dove poteva colpire. “O non ti piace che nomini il tuo Comandante?”

Levi provò a evitare la domanda. “Quei Titani erano persone condannate a morte da Marley, me lo hai raccontato tu,” disse. “Non c’è nulla di eroico in quello che faccio. Combatto per la libertà che ci è stata tolta da un Re che non ha avuto il coraggio di prendersi responsabilità che erano solo sue e del suo sangue!”

Zeke sorrise soddisfatto. “Sì, suoni proprio come gli Ackerman delle grandi storie,” commentò. “Sai che la tua famiglia era vicino ai Fritz, vero? Eravate i Cavalieri del Re, per usare un termine romantico.”

“Mi è stato raccontato.”

“E da Cavalieri fidati siete diventati il nemico peggiore nel momento in cui il Re Fritz ha deciso di condannare il suo popolo alla reclusione, insieme a se stesso.”

“So anche questo.”

“E sai che nelle tue vene scorre lo stesso sangue di Ymir?”

Levi inarcò le sopracciglia. “Perché puntualizzare questo quando tutti gli Eldian sono considerati figli di Ymir dal resto del mondo?”

“Mettiamola così,” Zeke si alzò in piedi, “il siero per la titanizzazione: se lo iniettassero a te, non ti succederebbe niente.”

“So di essere immune a…” Maledetto Kenny e le sue spiegazioni di merda. “Al potere dei reali.”

“Perché tu hai il loro sangue.”

Levi non replicò. Avrebbe voluto urlare a quel pezzo di merda di essere chiaro, invece di ripetersi, ma sarebbe stato come mostrargli il fianco.

Ma Zeke seppe leggere il suo silenzio alla perfezione. “A un certo punto dei mille anni d’Impero di Eldia, i Fritz si sono stancati di dover pagare il prezzo per il loro potere,” raccontò. “Mangiare i propri familiari, vivere per tredici anni con un dono potente, sì, ma anche scomodo. Hanno provato a dare nuova forma al potere dei Titani, a renderlo un’eredità facile da passare, ma non potevano fare esperimenti su loro stessi per ovvie ragioni.”

Levi alzò gli occhi al cielo. “Mille anni fa, come oggi, la gente potente è sempre pronta a usare la più debole per i suoi scopi.” Lui stesso era entrato nella Legione Esplorativa per l’inganno di un nobile.

“Le cronache non scendono nei dettagli,” continuò Zeke. “Ma un esperimento è fatto di prove ed errori.”

“Di morti innocenti e di carnefici,” lo corresse Levi, poggiando la nuca alla parete di pietra.

“Ma una famiglia si distinse…”

“Gli Ackerman,” concluse Levi, distruggendo la suspense del racconto. “Puoi essere meno prolisso?”

Zeke prese a camminare avanti e indietro. “I nobili si resero conto di aver forgiato una nuova stirpe di guerrieri: intelligenti, con qualità fisiche superiori a quelle di un essere umano, compresa la capacità di sopravvivere a ferite altrimenti mortali. Il grande successo fu rendere quel potere ereditario direttamente. Un Ackerman nasceva con quel potere, senza che fosse necessario nessun sacrificio.”

Levi pensò a Mikasa e a Kenny, pensò a quanto quest’ultimo se ne sarebbe fregato di quei dettagli e di quanto la prima ne sarebbe rimasta colpita. “Gli Ackerman sono esseri umani titanizzati a metà,” concluse. Non sapeva sinceramente cosa provare nei confronti di quella rivelazione.

Zeke annuì. “Un fallimento.”

Levi corrugò la fronte. “Avevano il loro esercito di super uomini. Dove sarebbe il fallimento?”

“Nella tua umanità,” rispose Zeke. “La tua come quella di chi è venuto prima di te. A differenza del potere dei Titani, il tuo non è una maledizione che porta con sé un prezzo da pagare. Tuttavia, un uomo potente rimane un comune uomo se gli si spara in testa.”

“Forma mortale, potere minore.”

“Esattamente. I Fritz si resero conto di qualcosa di molto semplice: non si può racchiudere il potere di un dio nel corpo di un uomo. Tuttavia, involontariamente, avevano creato anche i loro nemici naturali… Ma questa parte penso di non dovertela spiegare.”

No, quella no, ma a Levi sarebbe piaciuto sapere come mai i suoi antenati avevano  accettato di servire i Fritz, sapendo quello che avevano fatto. Ma quella non era domanda per Zeke. 

Kenny aveva servito un discendente dei Fritz. Volontariamente o meno, era stato lui l’ultimo a restaurare quella tradizione di famiglia. Per quel che riguardava Mikasa, gli aveva confessato di aver avuto un momento in cui tutto dentro di lei era cambiato, lo stesso che l’aveva legata indissolubilmente a Eren, come lui era legato a Erwin. Quel pensiero, un po’ per la droga ancora in circolo e un po’ per la stanchezza, gli fece emettere un verso simile a una risata.

Zeke se ne sorprese. “Ci trovi qualcosa di divertente?”

Levi non poteva dire a quel bastardo che il pensiero di Erwin ed Eren in veste di principi lo divertiva. E non avrebbe dovuto farlo perché erano entrambi morti e lui no. Quel pensiero lo colpì come un pugno allo stomaco e il senso di nausea e vertigine tornò più forte delle volte precedenti, non solo a causa della droga.

Zeke si accorse che qualcosa era cambiato e si avvicinò di un passo. “Ehi… Ti senti bene?”

Levi si fece scivolare le dita tra i capelli e tirò fino a farsi male, ma non servì a mettere a tacere il dolore che gli spezzava il respiro.

Erwin era morto.

Cercò di alzarsi in piedi. “Non riesco a respirare.”

Zeke fu subito da lui. “Non muoverti, sei troppo debole.”

Sì, lo era, ma Levi riuscì comunque a scansare il bastardo. Le catene gli impedirono di andare lontano. “Sto soffocando,” disse con gli occhi sgranati e un filo di voce. “Che cosa mi hai fatto?”

“Nulla…” Rispose Zeke. “La dose di droga è in fase di smaltimento. Non puoi avere un’overdose.”

Levi indietreggiò sul materasso, fino a far aderire la schiena alla parete di pietra. “Sto soffocando!” Si portò la mano alla gola, come se una forza invisibile la stesse stringendo.

Zeke non parve in panico nemmeno la metà di lui. “E se fosse così?”
Levi lo guardò, incapace di parlare ulteriormente.

Il bastardo si spostò sopra il materasso, come un predatore pronto a sbranarlo. “Se stessi morendo, sarebbe così male?”

I loro visi erano a pochi centimetri di distanza. 

“Se morissi come tutti i tuoi compagni, non ne saresti felice?”

Levi non aveva né il fiato né la volontà di dirgli che avrebbe volentieri accolto la morte, piuttosto che convivere con quel dolore. Ma non poteva.

Non poteva.

Se fosse stato sconfitto sul campo di battaglia, avrebbe accettato il suo destino. Ma se era ancora vivo… Se Levi era ancora lì, mentre Erwin non c’era più…

“Non posso,” sibilò con quel poco fiato che gli era rimasto. Strinse i denti e tirò un calcio dritto allo stomaco del suo assalitore. 

Preso di sorpresa, Zeke rotolò sul pavimento, investendo il vassoio pieno di cibo abbandonato a terra. 

Levi si costrinse a ingoiare aria. Non c’era nulla che gli impediva di respirare, era solo nella sua testa. Gli era successo solo una volta prima di allora, con Kenny. Ce l’aveva fatta da solo quella volta, poteva farlo di nuovo.

Ignorò il dolore che gli faceva esplodere la testa e prese un respiro profondo, come se fosse uno sforzo sovrumano. Il cuore gli batteva velocemente nel petto, tanto che Levi non si sarebbe sorpreso se gli fosse preso un infarto. 

Zeke si sollevò in piedi lentamente, togliendosi gli occhiali e ripulendoli dal cibo che aveva macchiato le lenti. Non mostrò di essere disturbato dall’accaduto in alcun modo. “Anche agli eroi capita di avere gli attacchi di panico, a quanto pare.”

Levi non sapeva di cosa diavolo stava parlando, ma le sue vie respiratorie sembravano essere tornate libere di colpo. Chiuse gli occhi e si prese un momento per recuperare il controllo di sé. “Non posso…” Ripeté.

“Cosa non puoi?” Domandò Zeke, con la sua perenne tonalità annoiata, inforcando di nuovo gli occhiali.

Lo sguardo di Levi lo raggiunse come una lama di ghiaccio che lo trapassò da parte a parte. “Non posso ancora morire, bastardo.”

Non senza essere arrivato in fondo a quella storia. Non senza aver provato a dare un senso a tutte le vite spezzate a cui era sopravvissuto. 

Non avrebbe sprecato il sacrificio di centinaia di uomini, della Quattrocchi, di Eren e di Erwin.

Erwin…

“E se respiro, probabilmente è perché questo vale anche per te,” aggiunse.

Se Zeke Jeager avesse voluto ucciderlo, lo avrebbe fatto. Se avesse voluto spingerlo tra le braccia della morte lentamente, una tortura alla volta, avrebbe fatto molto di più che parlargli dei suoi compagni caduti.

No, lo drogava per tenerlo buono, nulla di più. Voleva qualcosa da lui, altrimenti non si sarebbe disturbato a passare tutte quelle ore nella sua cella, dandogli risposte sul suo passato che nessuno tra le Mura avrebbe potuto concedergli.

“Che diavolo vuoi da me, Zeke?” Sibilò.

Per la prima volta, le labbra del suo carceriere si piegarono in un sorriso dalle sfumature sadiche. “Ci arriveremo,” promise. “Ci arriveremo, Levi.”

Per quel giorno, Zeke Jeager aveva finito col suo prigioniero. Aprì la porta della cella, ma prima di andarsene gettò un’occhiata al cibo sparso sul pavimento. “Buon appetito,” gli augurò.

“Fanculo,” rispose Levi, un istante prima che il rumore di una chiave in una serratura lo avvisasse che era rimasto da solo. 

Mentre l’ultima luce del giorno sbiadiva gradualmente, Levi guardò il cibo sul pavimento e dovette fare i conti con il fatto che non mangiava da giorni. 

Strinse le labbra in una linea decisa e scivolò sul pavimento, fino a dove le catene gli permettevano di arrivare: vicino a un tozzo di pane. 

“Erwin è morto,” lo disse ad alta voce, lasciò che quella verità gli passasse attraverso come una lama affilata. “Erwin è morto,” ripeté. Era banale da pensare, ma finire col cuore strappato dal petto avrebbe fatto meno male.

“Erwin è morto.” Prese il pezzo di pane tra le dita. “Sono tutti morti.”

”Sei da solo.”

Suo malgrado, dovette ricordare che Kenny lo aveva cresciuto per questo.

”Sei forte, Levi.” Questo era stato il suo insegnamento principale. ”Ripeti con me: devi essere il più forte, non hai bisogno di nessuno. E se non lo sei...”

“Allora diventalo…” Concluse Levi ad alta voce.

Avrebbe fatto quel che gli riusciva meglio: sopravvivere.

Lo avrebbe fatto per Erwin e Hanji, per Eren e i ragazzi.

Se la vendetta doveva essere la sua ultima ragione di vita, gli andava bene.

”Qualunque cosa accade, Levi, tu devi vivere.”

E, sì, lo avrebbe fatto anche per quel pezzo di merda di Kenny.

Levi addentò il pezzo di pane e decise di restare su quella terra per un giorno ancora.

 

 


 
   
 
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