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Autore: Adeia Di Elferas    22/05/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Fortunati stava guardando in silenzio Galeazzo, stringendo gli occhi come se cercasse di capire fin dove arrivava il fratello ansioso e dove, invece, cominciava il giovane uomo assennato e realmente conscio di quanto visto e sentito.

“Non hanno detto, però, nulla di chiaro, giusto?” chiese, dopo un po' il piovano.

A Bianca non piacque, il tono con cui l'uomo aveva appena parlato. Le ricordava molto quello paternalistico e sufficiente che a volte aveva caratterizzato la voce di alcuni suoi precettori, quando era piccola. Anche il modo in cui Francesco guardava Galeazzo le dava la medesima impressione e, per quanto si fidasse molto del fiorentino – anche perché sua madre per prima se ne fidava ciecamente – capì all'istante che lei e il fratello non si erano rivolti alla persona giusta per esprimere i loro dubbi.

“Non hanno detto nulla di chiaro – ammise il Riario, tentennante – ma si chiedevano quando messer De Rossi se ne sarebbe andato e...”

Fortunati sospirò, accavallando le gambe e chiudendo una volta per tutte il libro che stava consultando: “I servi vogliono sempre sapere quando se ne vanno gli ospiti... Capisco che siate in ansia per vostro fratello, così come lo siete per vostra madre, ma dovete capire che, adesso, qui a Firenze, i rischi per tutti voi sono bassi...”

“Abbiamo capito.” fece piano Bianca, lanciando uno sguardo a Galeazzo, che intuì subito quello che la sorella avrebbe voluto dirgli a parole: “Siamo solo ancora troppo... Scossi.”

Il piovano fece un cenno d'assenso con il capo e poi rimase in attesa, nel caso ci fossero altre richieste da parte dei due ragazzi. Quando nessuno dei due disse altro, l'uomo si riaccomodò meglio sulla poltroncina imbottita e riaprì il tomo che stava leggendo.

“State tranquilli.” ribadì: “E se qualcuno, tra i domestici, proprio non vi piace, non appena sarò a Cascina vedrò di cercarvi qualche rimpiazzo...”

“Andrete presto a Cascina?” chiese la Riario, con un filo di ansia in più in corpo.

“Ho degli affari di cui occuparmi, lì, lo sapete bene... Vostra madre ha la Repubblica a difenderla, non deve aver paura di nulla.” rispose Francesco, sollevando poi un sopracciglio: “E comunque tornerò nel giro di qualche settimana.”

I due giovani lo ringraziarono e poi, usciti dalla sala delle letture, camminarono per un po' senza aprir bocca. Solo quando furono in un punto molto tranquillo, e ben lontano dal piovano, diedero voce ai loro pensieri.

“La Repubblica lo protegge, questo è vero, ma dai francesi, non dal Medici.” sussurrò Galeazzo, concitato.

“Forse dovremmo parlarne con nostra madre...” soppesò Bianca, ma nessuno dei due era realmente intenzionato ad aggiungere quella pressione alla Tigre, specie non sapendo se i loro sospetti fossero o meno fondati.

“Vigileremo su Giovannino.” decise allora il Riario: “E appena Fortunati ci troverà qualcuno per sostituire i servi che non ci piacciono, ne parleremo a nostra madre.”

“Mi sta bene.” concluse la sorella, trovando quel compromesso accettabile.

Galeazzo si morse il labbro e, prima di lasciare Bianca alle sue occupazioni, ci tenne ad aggiungere: “A questo punto, per come stanno le cose, tu non saresti l'unica a essere contenta che quel De Rossi resti qui ancora un po'...”

 

Lucrecia, vagando per le vigne di famiglia, al Belvedere, stava facendo del suo meglio per non pensare troppo a ciò che, nelle segrete stanze di suo padre, notai e porporati stavano scrivendo. Quel 26 agosto, per tutti gli altri un giovedì caldo e immobile come tutti gli altri giovedì agostani, si stava dimostrando, per la Borja, un giorno estremamente difficile.

Da un lato, forse, avrebbe preferito non sapere che proprio in quel momento il papa, suo padre, stava apponendo la sua firma sul trattato di matrimonio che l'avrebbe resa la moglie di Alfonso Este, figlio del Duca di Ferrara.

In realtà il ritratto del suo futuro sposo le era piaciuto subito, e le era risultato gradito anche pensare che, sposandolo, avrebbe lasciato Roma, allontanandosi una volta per tutte dall'influenza a tratti tossica della sua famiglia. Tuttavia, nel momento stesso in cui aveva capito l'entità della trattativa che sottostava a quel matrimonio, aveva cominciato a sentire una strana nausea ogni volta che vi pensava.

Perfino il re di Francia si era messo in mezzo, per rompere gli indugi ferraresi, convincendo l'Este a pretendere una dote maggiore, più privilegi e concessioni. Alessandro VI non aveva osato mettere becco nell'ingerenza francese, ben sapendo che era l'unico modo per ottenere la tanto agognata parentela con il Duca di Ferrara.

E così – Lucrecia l'aveva saputo per vie traverse, ma con una puntualità eccellente – si era fissata una dote che forse nessun altro, oltre al papa, in Italia, avrebbe potuto pagare davvero. Ercole pretendeva: centomila ducati in contanti, gioielli e altri oggetti preziosi dal valore totale di settantacinquemila ducati, i castelli di Cento e della Pieve, e, soprattutto, la riduzione del canone annuale da versare al Vaticano, che sarebbe passato dagli attuali quattromila ducati ad appena cento.

Nel patto rientrava anche l'assicurazione dell'investitura diretta della medesima Ferrara a tutti i discendenti in linea maschile che sarebbero nati dall'unione della Borja e di Alfonso.

Pensare alla discendenza che tutti si aspettavano che lei e l'Este avrebbero avuto, Lucrecia sentì un crampo allo stomaco. Da un lato era pronta a buttarsi tutto alle spalle e a ricominciare con quel ferrarese ancora sconosciuto, dandogli anche i tanti attesi figli che la prima moglie, Anna Maria Sforza, non era stata in grado di dargli. Dall'altro lato, invece, era terrorizzata alla sola idea e si sentiva pure in colpa per i due figli che già aveva e che, in mille modi, aveva già trascurato moltissimo.

Suo figlio Giovanni, il suo primogenito, era ancora sotto le cure delle suore e, pur avendo solo tre anni e mezzo mal contati, stava dimostrando un carattere irascibile e scostante, tale da promettere un futuro quanto meno burrascoso. Il piccolo Rodrigo, invece, avrebbe avuto due anni in novembre, e per il momento sembrava tranquillo, fin troppo remissivo, e, la Borja se n'era accorta con un filo di malinconia, sembrava non far troppo caso a chi si curasse di lui: che fosse la madre, una dama di corte o una balia, per lui faceva poca differenza. Per due motivi diversi, cercava di convincersi Lucrecia, nessuno dei due avrebbe sentito troppo la sua mancanza.

Entrambi, infatti, sarebbero rimasti a Roma. Gli Este, in questo, erano stati più chiari che su qualsiasi altro punto: la sposa doveva arrivare a Ferrara da sola, senza prole scomoda al seguito.

Con un sospiro, la giovane guardò le viti che si intrecciavano davanti ai suoi occhi, sotto al sole d'agosto. I grappoli erano fitti e turgidi, simili a piccole pietre preziose. Mancava ancora qualche giorno all'inizio della vendemmia delle vigne dei Borja, ma l'uva sembrava voler dire a tutti che era già pronta.

Soprappensiero, ragionando su come il suo contratto di matrimonio, una volta firmato da suo padre, sarebbe stato portato al castello di Belfiore, per farlo controfirmare dagli estensi, Lucrecia prese un paio di acini e se li infilò in bocca.

Schiacciando coi denti la pelle tesa, sentì la polpa come esplodere sulla sua lingua, ancora troppo acida e aspra per essere gradevole. Non le importava, ne mangiò ancora un paio.

In un certo senso, si disse, strizzando gli occhi sotto al sole cocente di quel giorno, quello era il ricordo che si sarebbe portata a Ferrara, quella, per lei, era Roma: un frutto alla vista bellissimo, ma terribile al gusto.

Deglutendo, si diede un ultimo sguardo attorno, e poi, scuotendo la testa tra sé, decise che era giunto il momento di sentire chi di dovere per fare quello che si era ripromessa di fare da tempo, ossia mettere, almeno economicamente, al sicuro i suoi figli.

Lasciando la vigna a piccoli passi, ben consapevole dello sguardo delle dame di compagnia, in lontananza, e di un paio di guardie, che la seguivano a distanza su ordine papale, la Borja riassunse mentalmente quello che avrebbe sancito davanti a un notaio. Avrebbe lasciato a Rodrigo, posto sotto la tutela del Cardinale Francesco Borja, Sermoneta e alcuni terreni vicini, mentre al suo primogenito, Giovanni, avrebbe ceduto Nepi con tutte le sue pertinenze. Non era molto, ne era consapevole, ma era tutto ciò che aveva, tutto ciò che poteva donare loro, tutto ciò che, un giorno, avrebbe ricordato loro l'amore della madre. Quelle terre avrebbero permesso a entrambi di avere una vita comoda e dignitosa e tanto le bastava per sentire un piacevole calore invaderle il petto e restituirle una parvenza di sorriso.

Con il viso illuminato da una luce che faceva sembrare la ventunenne appena una bambina, Lucrecia tornò nelle stanze vaticane e cercò chi di dovere, per scrivere quello che le sembrava l'equivalente di un testamento che sanciva la fine della sua prima vita e l'inizio di quella nuova, che l'avrebbe portata, finalmente, davvero lontana dall'ombra di San Pietro.

 

“Davvero si sposa? Quel rospo? Ha trovato una martire che se lo prende?” Caterina avrebbe voluto ridere, ma tutto ciò che le riuscì fu fare un sorriso tra l'ironico e l'amaro.

“In realtà, Marietta Corsini, così si chiama la martire, si è già presa Niccolò Machiavelli da quasi una settimana.” ribatté Fortunati, cercando di mantenere una certa serietà: “Credevo che ti avrebbe interessato saperlo, visto che era stato ambasciatore a Forlì...”

La Tigre ci mise qualche istante e poi, riuscendo finalmente a decifrare l'espressione fintamente distaccata del piovano, disse: “Mi spiace per lei... Ha già iniziato a sorbirsi il suo alito pesante e il suo naso sparviero...”

La Sforza e Francesco erano nel cortile interno della villa, in un punto ombreggiato. Nell'aria si avvertiva già una nota settembrina, ma faceva ancora un gran caldo. Era stata la Leonessa a chiedere di sistemare lì un paio di sgabelli, in modo che potessero restare a parlare all'aperto, piuttosto che sempre al chiuso. Non aveva avuto ancora il permesso formale di perlustrare i boschi attorno alla sua nuova dimora – e ne capiva bene il motivo – ma nessuno le impediva di stare, almeno, in quel cortiletto.

Il piovano si era messo a parlare del matrimonio di Machiavelli al solo scopo di distrarre Caterina che, appena saputo delle difficoltà che si stavano incontrando per cercare di far pressioni, in modo discreto, per liberare Baccino, si era subito innervosita, mostrando di nuovo qualche segno di cedimento. Da quando era stata prigioniera, Francesco l'aveva notato con crescente dispiacere, non erano rari i momenti in cui, colta dall'ansia o anche solo dalla fatica, la donna cominciava a chiudersi in se stessa o a fare discorsi poco lineari, cercando poi di restare da sola. Siccome l'uomo voleva restare ancora un po' con lei, era corso ai ripari, cambiando argomento e gettandosi sui pettegolezzi riguardanti il povero Niccolò.

“Dicono che questa Corsini sia una bella giovane... Deve avere l'età di tua figlia Bianca.” continuò Fortunati, imperterrito.

Decisa a non continuare oltre quel discorso, sapendo, ormai, quale fosse l'intima convinzione dell'uomo, Caterina sbottò: “Lo sai benissimo che tra me e lui non c'è mai stato un filo di simpatia, figuriamoci altro.”

Il fiorentino si schiarì la voce e poi sussurrò: “Da quello che so, non necessariamente un uomo doveva starti simpatico per...”

“Non sono affari tuoi.” lo zittì lei, guardando di sguincio il profilo solido ed elegante di Francesco e chiedendosi cosa ci fosse davvero nella sua mente in quel momento: “E comunque, credevo sapessi benissimo anche tu che nemmeno se Machiavelli fosse stato l'ultimo uomo sulla terra mi sarei mai sognata di passarci insieme la notte.”

Apparentemente soddisfatto dalla veemenza di quel diniego, il piovano cambiò espressione e disse, a voce bassa: “Cosa ne pensi di quello che mi hanno riferito i tuoi figli qualche giorno fa?”

La Tigre si morse l'interno della guancia. Aveva pensato spesso a ciò che lui le aveva raccontato e, avendo molta considerazione sia di Galeazzo sia di Bianca, non aveva dubito della buonafede del loro allarme. Le sembrava, però, assurdo pensare che Lorenzo avesse in mente di far loro qualcosa di male proprio mentre erano sotto la sua protezione. Il Medici aveva una carriera politica da difendere...

“Tu quando te ne andrai? Domani?” gli chiese, decidendo di non rispondere alla domanda che Fortunati le aveva fatto.

“Stasera.” la corresse lui: “Manco da troppo e i conti di Cascina vanno controllati, specie di questi tempi difficili...”

Caterina sollevò lo sguardo verso il cielo terso e sussurrò: “Anche io vorrei avere dei conti da revisionare...”

“Quando partirà il De Rossi?” si informò il piovano, massaggiandosi un po' le ginocchia, giusto per non restare sempre con le mani in grembo.

“Mi ha detto tra un paio di giorni...” la donna ripensò a tutte le volte, nell'ultima settimana, in cui aveva visto l'emiliano e sua figlia Bianca scambiarsi qualche occhiata particolare o qualche parola e una punta di inquietudine le fece aggiungere: “Anche se spererei quasi che se ne andasse prima...”

“Vi ho portato qualcosa da bere...” proprio la Riario era appena arrivata alle spalle dei due, con due calici di vino.

Caterina la ringraziò, prendendo il suo e anche Francesco accettò quella gentilezza, benché non amasse bere quel genere di vino, così denso e forte, a stomaco vuoto.

Anche se la Riario aveva capito bene il soggetto del discorso, fece finta di no, e chiese solo: “Il piccolo è con Bernardino..?”

La Leonessa annuì: “Sì, con lui e Galeazzo. Hanno detto che volevano esercitarsi un po' con i legni, ma ho consigliato loro di stare in casa. Per Giovannino oggi fa ancora un po' troppo caldo.”

Madre e figlia si scambiarono un'occhiata e fu come se si fossero intese al volo: entrambe trovavano che per il Medici fosse indispensabile avere sempre almeno un custode o due vicino e se era all'interno della villa, ancora meglio.

“Tolgo il disturbo.” sussurrò a quel punto la Riario, mentre Caterina iniziava a sorbire il suo vino.

Prima ancora che fosse tornata in casa, la ragazza sentì Fortunati cominciare a parlare dell'educazione di Giovannino, di come sarebbe stato opportuno insegnargli a leggere e scrivere il prima possibile, sottolineando come, avendo avuto un padre come Giovanni, era naturale aspettarsi da lui un'inclinazione innata per lo studio, specie delle lettere.

Bianca sapeva bene che il De Rossi non si sarebbe fermato ancora a lungo in Toscana, anzi, aveva anche sentito proprio l'emiliano discutere con uno dei francesi che a volte arrivavano a controllare che tutto fosse in regola, e sapeva che si stava già trattenendo più del necessario quando, invece, affari bellici e non lo richiedevano altrove. Sentire, però, che la data della partenza era già bene o male fissata la faceva sudare freddo.

Mentre attraversava in fretta gli ambienti del palazzo, alla ricerca proprio di Troilo, la ragazza risentì nelle orecchie la voce della madre, che si augurava che l'uomo se ne andasse di lì anche prima...

Dopo aver cercato in lungo e in largo, la Riario si convinse che il De Rossi poteva essere solo nella sua stanza. Si trovò allora indecisa: far finta di nulla, aspettando, magari, la cena, in modo da chiedergli casualmente in quell'occasione quando se ne sarebbe andato, o placare subito l'inquietudine che albergava nella sua anima?

Senza che potesse formulare una risposta precisa, si trovò davanti alla porta di Troilo, la mano già sollevata, pronta a bussare. Eppure si fermò, in quella posizione sospesa, quasi senza respirare, chiedendosi, finalmente, se quello che stesse facendo fosse la cosa migliore. Cosa la spingeva, davvero, verso quell'uomo? Era solo attrazione, c'era qualcosa in più o si trattava unicamente di una profonda solitudine che la stava spingendo verso di lui..?

Mentre si rispondeva, nebulosamente, trovandosi in realtà molto più motivata e sicura di quanto avesse creduto, la porta si aprì.

Il De Rossi, nel trovarsela davanti, sollevò le sopracciglia e schiuse le labbra. Da un paio di giorni, la barba rossiccia gli stava ricrescendo, dandogli un aspetto meno austero. Portava solo un giubbetto leggero, sotto cui si vedeva una camicia sottile, estiva. Abbassando lo sguardo, Bianca notò le brache scure, che facevano sembrare le gambe dell'uomo ancora più slanciate.

“Mi stavate cercando?” chiese lui, mentre la ragazza riabbassava finalmente la mano con cui avrebbe dovuto bussare.

Bianca, arrossendo violentemente, sentendosi per la prima volta in assoluto una ragazzina davanti a un uomo fatto, si vergognò di se stessa, ma decise comunque di chiedere ciò che era andata fin lì a chiedere: “Quello che dicono è vero? Ve ne andrete davvero tra due giorni?”

L'emiliano si grattò la guancia e, cercando di non indugiare troppo sulla giovane che aveva davanti, sempre così innatamente elegante, malgrado gli abiti tanto semplici da poterla quasi far confondere con una delle serve, si trovò a domandare: “Portate sempre i capelli sciolti a questo modo?”

La Riario si accigliò, scoprendosi divertita e non indispettita da quella domanda all'apparenza quasi irrispettosa: “Ricordatevi di chi sono figlia – gli disse, allusiva – non potevo certo crescere troppo assoggettata a certe formalità...”

L'uomo capì solo in parte quell'affermazione. Era troppo distratto dal modo in cui Bianca si era spostata una ciocca di capelli biondi dalla fronte, per ascoltare con attenzione. L'unica cosa che la sua mente riuscì a elaborare fu che in effetti anche la Tigre, per quello che ne sapeva lui, teneva spesso i capelli sciolti, sia in società, sia in battaglia...

“Volete dirmi che anche voi sapete tirar di spada, cavalcare, e andare a caccia?” si informò, desideroso sia di non far cadere il discorso, sia di conoscere un po' di più quella giovane che tanto lo intrigava.

La Riario ci pensò un istante e poi rispose: “Cavalco abbastanza bene, da piccola a volte mia madre mi ha portata a caccia, ma non posso dire di esserne capace... Mi ha anche insegnato come fare a uccidere un uomo, ma per il momento non ho mai dovuto mettere in pratica i suoi insegnamenti.”

Abbastanza colpito dalla disinvoltura con cui la sua interlocutrice aveva detto l'ultima frase, Troilo, ancora sulla porta, inclinò la testa di lato e commentò: “Sono insegnamenti molto particolari, da dare a una figlia.”

“Da mia madre ho imparato moltissime cose.” ci tenne a precisare lei: “Tra cui non lasciare che qualcuno svii troppo una mia domanda. Dunque, ditemi: è vero che partirete tra due giorni?”

Il De Rossi si schiarì la voce, prendendo tempo. Nel discorrere con la Riario in quel modo era facile scordarsi quanto fosse ancora giovane. Aveva un'agilità dialettica e una prontezza che era difficile, di norma, riscontrare in donne della sua età. Certo, bisognava ricordarsi che Bianca aveva avuto una vita tutt'altro che tranquilla e normale... Solo il fatto che fosse lì a Firenze, dopo una rocambolesca fuga...

“In realtà – si decise a rispondere Troilo – partirò domani, prima di mezzogiorno. In fondo, non posso restare qui per sempre... Non ne ho motivo.”

La figlia della Tigre non capì se fosse solo la sua immaginazione, o se davvero l'uomo, con quell'ultimo inciso, avesse voluto lanciarle un amo. Preferì la cautela e così fece un cenno con il capo e un passo indietro.

“Domani prima di mezzogiorno – ripeté – grazie per avermelo detto.” e, con una mezza riverenza, voltò le spalle al De Rossi e si allontanò.

Mettendoci qualche secondo, prima di tornare in sé, l'emiliano raddrizzò le spalle e fece del suo meglio per concentrarsi sul motivo che, poco prima, l'aveva portato a uscire dalla stanza: doveva dare disposizioni per la sua partenza fissata per l'indomani e doveva far recapitare alcuni messaggi in città.

Sapeva bene cosa doveva fare, eppure, mentre metteva un piede avanti all'altro, improvvisamente si trovò ad ammettere con se stesso di non aver alcuna voglia di andarsene...

 

“Io... Io non voglio esservi di intralcio.” Giovan Francesco Sanseverino aveva la testa che gli scoppiava, per quanto gli doleva, ma si era ostinato fino all'ultimo a non cedere all'ordine di riposare che il Valentino in persona gli aveva dato.

“E non ci siete di alcun intralcio.” gli rispose, conciliante, Giovanni Tommaso Carafa, mentre due soldati lo sistemavano sul letto di piume offerto dal padrone di casa.

“Io non...” borbottò ancora il Sanseverino, che non riusciva a esprimersi come avrebbe voluto.

“Non c'è bisogno di dire altro – fece a quel punto Giulia, con cui condivideva il padre e non la madre – abbiamo lo stesso sangue, è giusto aiutarci nei momenti di difficoltà...”

Giovan Francesco farfugliò ancora qualcosa e poi, così come gli era accaduto nel momento in cui era stato male, il giorno prima, cadde in uno stato simile all'incoscienza. Scambiatisi un'occhiata di intesa, tutti i presenti, tranne il medico che era stato chiamato d'urgenza per curare il valoroso condottiero, uscirono dalla stanza.

“Ma cosa gli è successo?” chiese Giulia Sanseverino, che riportava dell'illustre padre – Roberto Sanseverino – non solo il cognome, ma anche l'espressione vivida: “Sembra quasi... Sembra come se qualcuno l'avesse...”

“Con tutto il rispetto – la interruppe uno dei soldati del Borja, che si era presentato con il nome di Miguel de Corella – vostro fratello ha passato i cinquant'anni e ha combattuto sotto il sole cocente per giorni. Siamo dell'idea che abbia avuto un malore e nulla di più.”

“Si riprenderà, secondo i vostri cerusici?” chiese, con una certa apprensione, Giovanni Tommaso Carafa, marito di Giulia.

“Non ne abbiamo idea.” rispose Michelotto, laconico: “Ma, Conte, non credo che sia un peso, per voi, tenerlo qui qualche giorno...”

Carafa sbiancò, abbozzando un sorriso. Sentirsi ricordare in modo tanto vellutato quello che stava cercando di fare, ossia mantenere almeno il suo titolo di Conte di Maddaloni e le sue terre, passando all'ultimo minuto dalla parte dei francesi, lo raggelò.

“Se questo è il volere di sua maestà, re Luigi, io...” cominciò a balbettare.

Miguel diede in una risata fredda e molto breve e poi concluse: “Adesso la sua salute è affar vostro.”

Giovanni Tommaso stava per aggiungere qualcos'altro, ma la moglie lo frenò, con un'occhiata penetrante. Il tono del Corella poteva essere frainteso dai più, ma Giulia aveva capito perfettamente che cosa il Duca di Valentinois si aspettava da loro.

Giovan Francesco era un punto di riferimento, per l'esercito, ma tutti sapevano che, negli ultimi tempi, si era preso un po' troppe libertà, mettendo spesso in difficoltà, se non proprio in ridicolo, il figlio del papa. Quel suo malore sembrava essere arrivato a smorzare la sua arroganza, provvidenzialmente, proprio quando il Sanseverino non serviva più come stratega, essendo Napoli già caduta.

“Staremo con lui fino al suo ultimo fiato.” disse piano, chinando la testa.

Felice di aver trovato qualcuno che capisse qualcosa, il Corella emise un suono gutturale di apprezzamento e poi, mettendosi in testa a tutti, ordinò ai soldati che lo seguivano di uscire dal palazzo dei Carafa.

Sistemata anche quella faccenda, pensò, non c'erano altre cose da sistemare: si poteva tornare a Roma. Non ne poteva più, di Napoli, tanto meno sopportava più i francesi con cui erano costretti a condividere i baraccamenti e i padiglioni.

“Tutto a posto?” gli chiese Cesare, quando lo vide tornare al suo alloggio.

“Sanseverino è stato affidato alle pie cure di sua sorella Giulia.” confermò Michelotto.

Il Valentino sospirò, occhieggiando verso i suoi bagagli, che erano ormai quasi pronti. Anche lui, in realtà, cominciava ad avere fretta di lasciare Napoli, dato che gli era stato riferito che sua sorella Lucrecia stava spingendo per partire per Ferrara il prima possibile.

“E allora non ci resta che dare ordine di partire. Domani dovrebbe esserci nuvoloso... Almeno eviteremo di metterci in viaggio con questo caldo...” soppesò.

“Se ci sarà nuvoloso, potrebbe piovere – ribatté il Corella – partiamo questo pomeriggio: così non rischieremo di bagnarci.”

Il Borja fu contento di aver ricevuto quell'appoggio, e così colse l'occasione al volo ed esclamò: “E faremo proprio così! Corri a chiamare la mia scorta... Che siano pronti a partire nel giro di un paio d'ore.”

 

Bianca aveva passato la notte insonne, rigirandosi nel letto, pensando e ripensando a quello che avrebbe dovuto o non dovuto fare.

Quando erano sorte le prime luci dell'alba, si era alzata, si era vestita di tutto punto, e aveva cominciato ad aspettare, non sapeva nemmeno lei dire che cosa. La sera prima aveva scoperto l'ora esatta in cui Troilo se ne sarebbe andato. Sapeva anche che, lasciata la villa, si sarebbe ricongiunto con una piccola scorta di soldati francesi che l'attendevano al limitare della città. Da lì, non sapeva dove sarebbe andato, tanto meno se mai sarebbe tornato.

Frate Lauro, mosso da un'innata curiosità, a cena aveva chiesto al De Rossi: “E sarete sempre voi, a occuparvi della tutela di Madonna?”

L'emiliano aveva sollevato per un attimo le spalle, rispondendo: “Sono decisioni che non dipendono da me.”

La Riario, facendo un conto a spanne, calcolò che alla partenza dovessero mancare circa un paio d'ore. Faceva ancora fresco, il sole era timido e lontano, eppure lei avvertiva un calore prorompente divorarle l'anima. Per certi versi, si sentiva come quando aveva saputo, da un giorno con l'altro, che avrebbe dovuto lasciare per sempre la rocca di Ravaldino. Era una sensazione stranissima, che la portava a improntare ogni suo ragionamento sulla dicotomia 'ora o mai più'.

Sospirò, tesa. Si guardò le mani. Non erano affatto curate com'erano sempre state quelle di sua madre... Anche se conosceva le ricette per renderle bianche e lisce, non le aveva usate quasi mai su di sé. Anche se ultimamente aveva ridotto molto i lavori manuali – soprattutto perché non aveva stretto amicizia né con le cuoche, né con le domestiche – il solo lavoro di ricamo e cucito che conduceva a tempo perso le aveva fatto tornare le dita screpolate e con qualche graffio qua e là.

Mentre un sorriso le affiorava sulle labbra, si ricordò di quando il giovane soldato con cui aveva passato la sua ultima notte a Forlì le aveva detto, a mo' di apprezzamento, che le sue non erano mani da signora...

Quel ricordo le bastò per rompere gli indugi. Non sapeva cosa avrebbe fatto, ma qualcosa doveva fare: erano troppi giorni che viveva in quello stato di agitazione perenne, e presto il motivo di tale agitazione se ne sarebbe andato, forse per sempre. Non poteva permettersi di vivere nel rimpianto, non dopo tutto quello che aveva passato nella sua ancor breve vita.

Ravviandosi i capelli, uscì dalla stanza e si chiese dove potesse essere Troilo. Prima andò direttamente a bussare alla sua camera, ma capì in fretta che lì non c'era nessuno. Con discrezione, riuscendo per puro caso a non incontrare nessuno, nemmeno un servo, cercò nel salone e ovunque le venisse in mente. Solo all'ultimo le sovvenne di tentare nelle stalle.

A parte il nitrire di un unico cavallo – proprio quello del De Rossi – la stalla era silenziosissima.

Non avendo animali a cui badare, gli stallieri – era stato Lorenzo Medici a decidere arbitrariamente che ne servissero almeno tre – non c'erano. Eppure qualcuno era lì, proprio vicino al cavallo, e gli stava parlando sottovoce.

La Riario capì di aver fatto centro. Camminando lentamente, si avvicinò, nell'aria polverosa e che sapeva di fieno, riuscendo finalmente a sentire meglio ciò che l'uomo stava dicendo. Anche se poteva distinguere bene le parole, però, ne capiva poche, ma sufficienti. L'emiliano era in parte diverso dal romagnolo, ma il succo del discorso era comunque intuibile: Troilo stava spiegando all'animale il viaggio che si apprestavano a fare, rassicurandolo sul fatto che, lungo la via, avrebbe trovato qualche stalla in cui riposare e acqua fresca da bere.

L'uomo indossava degli spessi pantaloni di cuoio, che probabilmente avrebbe tenuto per cavalcare, e un giubbetto scuro, slacciato sulla camicia bianca. In quel momento, era difficile scorgere in lui l'erede di una casata antica, per quanto caduta poi in disgrazia. Sembrava anche più giovane del solito...

“Madonna Bianca...” sussurrò lui, quando si accorse della sua presenza.

Era visibilmente sorpreso di vederla lì, ma non sembrava dispiaciuto, tutt'altro. La ragazza, ora che l'aveva dinnanzi, era ancor più decisa di quanto non fosse prima, anche se avvertiva distintamente la paura di essere fraintesa o, ancor peggio, di essere rifiutata.

“State per partire, vero?” chiese la Riario, benché si rendesse conto della banalità della sua domanda.

Il De Rossi stava per rispondere, quando Bianca, colta dall'impeto del momento, sapendo che se non l'avesse fatto subito, non l'avrebbe fatto mai più, gli si avvicinò con due ampie falcate e, sollevandosi sulla punta dei piedi, ne cercò le labbra con le sue.

La giovane temeva già di non riuscire a raggiungerlo, di non vederlo colmare quella poca distanza, sottraendosi al suo bacio. Invece Troilo si fece trovare pronto e presente, arrivando non solo a chinarsi verso di lei, per agevolarla, ma anche a stringerla a sé con un braccio.

Bianca, quasi spaventata da quella reazione così decisa, ebbe appena il tempo di sentirne il sapore, il calore, e di provare la strana sensazione della sua barba rada sotto le dita con cui gli stava accarezzando la guancia, e quella dei baffi appena accennati contro il suo labbro, prima di staccarsi da lui.

L'uomo, con fatica, la lasciò andare e poi si mise a fissarla. Il cavallo, vicino a loro, respirava con forza e di quando in quando dava un colpetto in terra con lo zoccolo, quasi a voler invogliare i due a fare qualcosa.

“Io...” cominciò a dire la figlia della Tigre, avvampando e sorridendo, combattuta tra quello che era riuscita a ottenere e quello che ancora avrebbe voluto avere: “Io... Perdonatemi se...”

“Io desideravo questo bacio da giorni...” confessò lui, mettendosi, poi, sulle difensive: “Ma sono il primo a capire che voi siete così tanto più giovane di me e...”

“E ho un marito.” gli ricordò la Riario rabbuiandosi.

“Che non avete mai conosciuto.” soggiunse lui, anche per averne conferma.

“Non nel senso biblico del termine.” convenne lei: “Però il legame con lui mi mette in una condizione scomoda. Me ne rendo conto.”

Il De Rossi scuote la testa: “Per me questo non è un problema. Capisco che non è un vero legame e...”

Presa dalla seconda ondata di coraggio nel giro di pochi minuti, la ragazza si riavvicinò a lui e allungando con lentezza una mano, arrivò a sfiorargli il fianco e, trovandolo più cedevole del previsto, lo portò a baciarla di nuovo, questa volta con più attenzione, senza fretta. C'era qualcosa di profondamente diverso, nel baciare lui, piuttosto che tutti gli altri che aveva baciato prima. Era come se fosse qualcosa che aveva fatto da sempre, eppure non riusciva a spiegare il calore che la inondava come una tempesta...

Troilo non riusciva a pensare a nulla. Non era quasi più cosciente di essere nelle stalle, laddove chiunque avrebbe potuto entrare e vederli così, stretti l'uno all'altra, intenti a baciarsi. Per lui in quel momento esisteva solo Bianca, le sue labbra morbide, il suo respiro caldo e, ancor di più, il suo corpo, così terreno, così finalmente tangibile e concreto, adeso al suo, palpitante, vivo.

Smettendo per un solo istante di baciarlo, la ragazza gli sussurrò: “Ti voglio.”

Per il De Rossi fu come trovarsi immerso in una vasca di acqua gelata, e voler comunque continuare a nuotare. La sua mente voleva farlo fermare, dissuaderlo, ma la sua carne cercava di zittirla.

La parte razionale di lui, però, abituata ad avere la meglio da quasi quarant'anni, ebbe il sopravvento: “No... No, siete... Sei – continuò, pensando che fosse inutile usare ancora il voi, dato che lei per prima aveva voluto instaurare una maggior intimità tra loro – troppo giovane. Io non... Io non voglio rovinarti...”

La Riario comprese la titubanza dell'emiliano, e, a costo di esser presa per quello che non sentiva di essere, volle subito mettere le cose in chiaro, per evitare che un malinteso la privasse di qualcosa che desiderava così tanto: “Tu non saresti il primo.”

Troilo si irrigidì un istante e la fissò. I suoi occhi color miele si specchiavano in quelli di lei, di un blu scuro, intenso, che la luce del mattino che filtrava nella stalla rendeva ancor più enigmatici.

“Ti... Ti hanno fatto del male durante la guerra? Mentre scappavi?” si informò, credendo che quella potesse essere la spiegazione più facile.

Bianca deglutì, sciogliendo il mezzo abbraccio in cui lui ancora la teneva e rispose: “No... Io... Non è facile da spiegare... Volevo essere libera di scegliere. Sapevo che rischiavo molto, rischiavo di essere uccisa, catturata, che mi usassero violenza... E io non volevo che mi capitassero tutte queste cose senza che potessi scegliere di stare con chi volevo almeno una volta.”

Il De Rossi sembrava indeciso, come se non sapesse come prendere quella notizia. Era un'informazione, la Riario ne era conscia, che poteva spiazzare facilmente un uomo come Troilo, cresciuto con determinate idee e precisi dettami. Aggiungendoci la fama che aveva la Tigre, anche lei, forse, al suo posto si sarebbe fatta qualche domanda.

Forse per saggiare una volta per tutte la forza dell'impulso che provava, l'emiliano fece mezzo passo avanti e la baciò di nuovo, abbandonandosi a qualcosa che sembrava ormai già familiare, già indispensabile.

Pensando che fosse il caso di gettare legna sul fuoco, la giovane si aggrappò a lui e, indagandolo con le mani fin dove poteva, attese che lui sciogliesse anche le ultime riserve. Man mano che lui si scioglieva, lei si sentiva più sicura. Con discrezione, fece scivolare le proprie dita tra loro, fino ad arrivare alla cintola dell'emiliano, ma a quel punto lui la fermò.

“Io sto per andare via...” soffiò Troilo, senza fiato, non riuscendo nemmeno a chiedersi come potesse trovarsi così succube di una ragazza di nemmeno vent'anni e di cui, in realtà, non sapeva quasi nulla.

“Quanto tempo abbiamo?” si informò la Riario, con il respiro spezzato.

“Un'ora, più o meno...” valutò lui.

“Il tempo l'abbiamo, allora...” propose lei, sollevando un sopracciglio, arrivando, stavolta a infilargli una mano sotto la camicia, sentendone per la prima volta la robustezza dell'addome, muscoloso quasi come quello di un ventenne, coperto da un sottile, ma fitto strato di peluria.

“Non sai che voglia ho di vederti senza vestiti...” soffiò lui, mentre quel tocco inatteso lo confondeva ancora di più.

Siccome finalmente Troilo prendeva a sua volta qualche iniziativa più audace, la Riario lo assecondò, lasciando che le sollevasse il bordo della sottana, arrivando ad afferrarle la coscia con le sue dita lunghe e forti.

“Andiamo in camera mia, allora.” propose lei, pensando che, se avessero lasciato libero sfogo ai loro desideri lì nella stalla, avrebbero finito per non spogliarsi nemmeno, facendo il più in fretta possibile per evitare di essere visti da qualcuno: “Anche io ho voglia di vederti nudo.” aggiunse, come incentivo.

A quel punto, vinto su tutti i fronti, l'uomo diede un rapido sguardo al cavallo, a cui non aveva terminato di mettere i finimenti, e, senza più farsi domande, disse solo: “Tutto quello che vuoi.”

   
 
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