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Autore: Adeia Di Elferas    02/06/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Vitellozzo chiuse con una smorfia la missiva mandatagli dal Duca di Valentinois e poi allungò le gambe sotto al tavolino da campo.

Il suo padiglione era relativamente fresco, in quel giorno di inizio settembre, anche se appena fuori di lì il caldo era ancora troppo pressante. Stanziare il campo vicino a Piombino non era stata una cattiva idea, anche se, forse, avrebbero dovuto prestare più attenzione ai punti d'ombra, sistemando lì le tende almeno dei comandanti.

Erano giorni, ormai, che stavano accampati, e i termini della resa della città stavano per scadere. I quattromila uomini, tra fanti e cavalieri che il Vitelli aveva portato con sé, e forse anche la fama di crudeltà vantata da Giampaolo Baglioni, suo secondo, aveva convinto il governo di Piombino a seguire il buon senso.

Si diceva, addirittura, che Jacopo Appiani fosse già scappato in Francia, lasciando la sua gente in balia dei nemici. Quello di cui Vitellozzo era certo, era che la città aveva chiesto dodici giorni di pace, e che se in quei dodici giorni non fossero arrivati da fuori aiuti, sotto forma di soldati o anche solo di cibo, allora si sarebbero arresi senza condizioni.

Sgranchendosi le spalle e le braccia, l'uomo si alzò in piedi e ragionò come, per il passare dei dodici giorni, ormai ne mancassero appena un paio, e di soccorsi, da fuori, non ne erano giunti.

“Che si dice?” chiese il condottiero, una volta fuori dal proprio padiglione, incrociando il Baglioni, che stava andando a passo lento verso la propria tenda.

Il perugino fece una smorfia, quasi annoiata, e borbottò: “Niente, come al solito. E aspettiamo.”

“Miguel de Corella dovrebbe raggiungerci.” fece presente il tifernate, che si era scordato di mettere a parte Giampaolo di quella novità: “Ha scritto per dire che dopo aver scortato il Duca a Roma, verrà qui...”

“Ad assedio finito e a prendersi il merito.” borbottò a mezza bocca l'altro, dimostrando una volta di più la sua insofferenza nei confronti dei Borja e di tutti i loro tirapiedi.

Il Vitelli preferì non riprendere il compagno d'armi per quell'irriverenza. Anche lui stimava poco il papa, il figlio e tutti quelli che avevano a che fare con loro, ma aveva capito da tempo che quella era l'unica fazione possibile in cui stare e che ogni minima sbavatura, nella fedeltà o nell'efficienza, alla fine sarebbe stata punita.

Il progetto di Alessandro VI gli era sempre più chiaro. Tante azioni erano state svianti, ma era stata la conquista di Imola, Forlì e Faenza la vera chiave di lettura di tutto il resto. Presto, non appena fosse riuscito a riaffermarsi con il re di Francia, Cesare avrebbe ripreso la sua cavalcata e, questa volta, ben pochi Stati del centro Italia si sarebbero potuti dire al sicuro.

“A Perugia stanno tutti bene?” chiese Vitellozzo, dato che il Baglioni non sembrava incline a tornare ai propri affari.

Ben lungi dal cogliere l'allusione, molto vaga, al pericolo che Perugia avrebbe potuto correre, nel caso in cui Giampaolo avesse continuato con i suoi atteggiamenti supponenti nei confronti del Valentino, l'uomo fece spallucce e disse solo: “Preferirei avere le mie donne sott'occhio, ma che ci possiamo fare... A volte ci si può dedicare alla famiglia, altre volte si deve pensare alla spada...”

Ormai davvero disinteressato alle chiacchiere del perugino, il Vitelli cercò di non pensare a tutti pettegolezzi che aveva sentito sulla strana condotta domestica del Baglioni e concluse il tutto tornando nella sua tenda con un laconico: “Se ci sono novità, sapete dove cercarmi...”

 

L'aria era pesante, sapeva di muffa, e c'era qualcosa di dolciastro, in sottofondo, un odore di morte che Caterina aveva sentito qualche volta nelle segrete della sua rocca, lo stesso, amplificato dall'ambiente chiuso, che l'aveva nauseata a Mordano, il giorno in cui, sola e sconvolta, si era trovata difronte a un cimitero a cielo aperto.

C'era buio, non vedeva quasi nulla. Era più buio che non nella sua cella a Roma. Non c'era nemmeno quel filo di luce stantia che di giorno filtrava dalla grata sottile posta sopra la sua testa.

Cercava di stringere a sé un ricordo, quello con cui era certa di essersi addormentata, con suo figlio Giovannino accanto. Aveva ripensato ai due uomini che più di tutti aveva amato in vita sua: Giacomo e Giovanni.

Ancora sentiva qualcosa tra le braccia, voleva illudersi fosse quel ricordo dalle sfumature dolci e amare, ma poi si rese conto che si trattava solo di una bambola di pezza.

Il cuore cominciò a batterle più forte, quando si rese conto di essere solo una bambina e non la donna adulta e fisicamente forte che era stata nella sua pienezza, né quella più debole e lenta, ma ancora imponente che era diventata. Era solo una bambina...

Si sentiva febbricitante, scossa da un tremito profondo, perché, a differenza di quando era successo davvero, quella volta sapeva precisamente a cosa stava andando incontro. Nel buio fece capolino Girolamo Riario, più vecchio di quanto era stato davvero il giorno delle loro nozze, più sfatto e sporco, più simile all'uomo che si era chiuso per giorni in stanza, che non al giovane ribaldo che era andato a Milano a pretendere di avere ciò che suo zio, il papa, gli aveva comprato.

Quando il savonese l'afferrò per un polso, sentì la bambola cadere in terra, con un tonfo sordo e la sua vista si annebbiò in una spirale di dolore e vergogna. Annaspava, non respirava, era certa di morire, e, invece, quando si rese conto d'esser viva, si trovò incatenata, stretta contro una parete fatta di rovi e l'uomo che le stava davanti e la sfiorava con il suo profilo da serpente, non era Girolamo, ma Cesare Borja, deturpato dalle cicatrici luetiche più di quanto non fosse mai stato, coperto interamente d'oro, eppure dalle sue labbra usciva solo l'odore della morte...

Con il respiro strozzato, la Tigre si svegliò di colpo, trovandosi già seduta sul letto, lo stomaco contratto in un conato di vomito e la testa che girava.

Dovette prendersi qualche lungo secondo per riprendersi e non vomitare davvero. Da che era stata liberata, quello forse era stato l'incubo più vivido e crudele che avesse avuto.

Si toccò la fronte e capì di avere la febbre. Si rimise coricata, anche se le lenzuola, madide di sudore, le risultavano fastidiose.

Cercando di fare ordine nella sua mente, che in quel momento era un vero e proprio mare in tempesta, Caterina provò a ripescare in fondo a se stessa le immagini che l'avevano cullata la sera prima. Ora che la luce del giorno si affacciava oltre i tendaggi, però, era più difficile.

Negli ultimi giorni si era scoperta in più di un'occasione che le mancava avere un uomo. La sua mente rifiutava categoricamente l'idea, perché ogni volta che provava a valutare l'ipotesi, una repulsione figlia di tutto quello che aveva subito, la frenava. Il suo corpo, invece, forse anche perché sempre abituato, negli anni passati, ad avere tutto quello che voleva, la tormentava.

Sentiva, però, di non essere più la donna capace di mescolarsi ai soldati e sceglierne uno, o addirittura un paio, con cui passare la notte. Non ne aveva più il coraggio, né la sfrontatezza. Aveva paura.

Fece un sospiro tremulo, passandosi le mani sul volto. Era difficile ammetterlo, dopo la vita che aveva condotto, sempre intenta a dirsi che era lei l'unica a potersi dare freni e regole.

In un certo senso, valutò, le era successo perfino con Giacomo, la prima volta. Reduce da anni di violenze, era riuscita a desiderarlo davvero solo perché la forza di ciò che provava per lui aveva prevaricato tutto il resto.

Adesso, che aveva sulle spalle anche il fantasma ingombrante del Valentino, che aveva saputo forzarla e umiliarla in modo ancora diverso da come aveva fatto Girolamo per anni, era tutto più complicato.

Come mai avrebbe potuto farcela, con un uomo che non conosceva o per cui non provava assolutamente nulla?

E come avrebbe fatto a temperare la voglia che a tratti la divorava con la repulsione che prevaleva per il resto del tempo?

Forse, si disse, se Baccino fosse stato lì con lei, sarebbe stato più semplice. Era un uomo che conosceva, con cui aveva già diviso il letto e anche in momenti delicati. Era rassicurante e, per dirla tutta, le era piaciuto fin dal primo momento in cui l'aveva visto.

E invece, chi aveva lì con lei? Un frate che, oltre a essere tale, non aveva mai sopportato e a cui non avrebbe mai chiesto, nemmeno sotto minaccia di morte, una cosa simile. Dei servi, che quasi non conosceva e con cui non aveva la minima familiarità, anzi, che percepiva in buona parte come ostili.

Restava Fortunati, certo. Era anche un bell'uomo, per il suo gusto, ma...

Accigliandosi, la donna smise per un attimo di ragionare su quanto, in effetti, il piovano potesse dirsi affascinante, e si guardò attorno, spaesata. Era sicura, sicurissima, che la sera prima Giovannino fosse al suo fianco, quando si era addormentata, mentre ora non c'era.

Sudando freddo, senza capire davvero l'agitazione terribile che la stava prendendo, la Leonessa, senza prendersi nemmeno la briga di infilarsi un abito, uscì in camicia da notte dalla sua stanza e si mise a guardare ovunque, senza un progetto preciso.

Aveva ancora la testa confusa, come se l'incubo appena fatto avesse lanciato radici profonde che andavano a minare la sua lucidità. Se non fosse stata un'idea senza fondamento oggettivo, avrebbe detto di avere i postumi di una forte ubriacatura, se non di qualcosa di peggio.

“Creobola...” disse, trovando, finalmente, qualcuno, ossia una delle serve che sembrava conoscere tutto, di quella villa: “Hai visto mio figlio, il più piccolo?”

La donna strinse gli occhi penetranti e, squadrando la sua signora con aria critica, chiese: “State bene?”

“Rispondi alla mia domanda.” l'esortò la Sforza, appoggiandosi al muro con una mano.

La serva scosse il capo e provò a chiedere: “Non è con vostra figlia Bianca..?”

Caterina disse subito di no, ma poi ammise che poteva essere: “Vado a controllare... Tu, intanto, per favore... Controlla in giro...”

Creobola fece un cenno con il capo, ma, anche quando la Leonessa si allontanò, non si mosse da dov'era, limitandosi a fissarla, con un'espressione corrucciata e le mani in mano.

 

Bianca era stesa a letto, insonne ormai da ore, come le era successo già più di una volta, da che Troilo aveva lasciato la villa.

Le capitava così: si addormentava con fatica e poi, ben prima dell'alba, si risvegliava, magari per colpa di qualche incubo, e non riusciva più a prendere sonno. Quella dormiveglia, però, non le dispiaceva più di tanto, perché era diventata in fretta l'occasione per ripensare in pace al De Rossi.

Più ci ragionava, più era sopraffatta nel ricordare come si fosse sentita con lui. Non aveva avuto nulla che vedere con quello che aveva provato con chi l'aveva preceduto. Era stato come scoprire qualcosa di totalmente nuovo, laddove credeva di aver già intuito, bene o male, tutto quanto.

Così anche quel giorno, assecondata dalla luce ancora incerta del giorno che stava nascendo, la Riario si stava lasciando andare, seguendo il filo invisibile della memoria.

Tenendo gli occhi chiusi, poteva ancora vederlo, distintamente, con i suoi occhi svegli e le labbra incurvate in un sorriso tutto da scoprire. Lo sentiva ancora sopra di sé e poteva perfino intuirne l'odore sulle lenzuola, benché da quella mattina, ormai, le avesse fatte cambiare.

Le sembrava di risentire il tono della sua voce, anche se si rendeva conto di averlo già in parte distorto, nella sua mente. Anche se era passata una manciata di giorni appena, l'accento emiliano dell'uomo era stato lievemente piegato, prendendo un'inflessione più romagnola, più simile a quella che Bianca stessa aveva in parte assorbito, vivendo fin da piccola a Forlì.

Due cose era sicura di ricordare con assoluta certezza e senza aberrazioni legate al passare del tempo: la forza delle sue mani, che la stringevano, la passavano in rassegna, la rivoltavano e poi la custodivano come una pietra preziosa, e la sua presenza massiccia, realissima e terrena, un cuore che batteva davvero contro il suo, un respiro caldo che si infrangeva con forza sul suo collo, un intero corpo che si protendeva e si contraeva per soddisfarla e amarla, come se da quei momenti potesse dipendere la vita di entrambi.

Non poteva scordare il modo in cui, a un certo punto, mentre le afferrava una coscia e restava immobile, sopra di lei, Troilo l'aveva guardata e, dopo un lunghissimo istante, in cui tutto il resto era come svanito, le aveva sfiorato le labbra con le sue, quasi con timidezza e poi, aggrappandosi a lei, aveva ripreso ad amarla, sussurrando solo: “Bianca...”

La Riario trattenne un sospiro, mentre cercava di difendere e custodire quel frammento di memoria, e poi si trovò a spalancare gli occhi, il cuore che batteva rapido, scosso da qualcuno che stava bussando con insistenza alla sua porta.

Sconcertata dall'ora e dalla furia dei colpi, la ragazza scese dal letto a gran velocità e andò subito all'uscio, chiedendo: “Chi è?”

“Apri, per favore...” malgrado il tono volesse essere calmo, la ragazza colse nella voce della madre un'urgenza che la spaventò.

Aprendo immediatamente, la Riario chiese: “Cos'è successo?”

“Giovannino è con te?” domandò di rimando la madre.

“No...” rispose Bianca e, subito dopo, si offrì: “Vado a vedere se è con Bernardino.”

La solerzia e l'allarme che la Leonessa vide nella figlia, non fecero altro che amplificare l'ansia che provava all'inizio, ingigantendola e trasformandola in una sorta di mostro vorace. Mentre la Riario le correva accanto, in abiti da camera, per andare dal fratello a cercare Giovannino, Caterina rimase immobile.

Percepiva i propri sensi ancora in parte annebbiati, come quando si era svegliata. Provava un certo distacco, per tutto, ed era come se la sua coscienza si fosse riattivata solo in parte. Eppure la sensazione, che l'aveva portata a immobilizzarsi, era vividissima.

Era irrazionale, se ne rendeva conto alla perfezione, eppure la velocità con cui Bianca si era preoccupata le aveva fatto sorgere nella mente una domanda perfida e che le dava la nausea: poteva essere che sua figlia sapesse qualcosa che lei non sapeva?

In fondo – si disse, mentre rimaneva ancora ferma sul posto, gli occhi spenti e le braccia abbandonate lungo i fianchi, inermi – Bianca le aveva già nascosti delle cose, cose enormi, in passato, quando si era trattato del piano architettato da Ottaviano e Cesare per uccidere il suo Giacomo...

Fu solo un lampo, e poi prevalse quello che doveva essere semplice buon senso: sua figlia non avrebbe mai e poi mai, per nessun motivo, potuto fare del male a Giovannino. Era terribile, per la Sforza, da ammettere, ma ciò che era stato fatto a Giacomo, nel mondo aberrante in cui vivevano, era comprensibile se non perdonabile. Il bambino, invece, non aveva motivo di temere la sorella.

Vergognandosi intimamente di aver anche solo potuto pensare che Bianca potesse essere in qualche modo coinvolta in un piano ai danni del piccolo Medici, Caterina si accasciò, senza volerlo davvero, fino a trovarsi seduta in terra.

Ancora una volta, ebbe l'impressione di essere come in barca, febbricitante, presente e allo stesso tempo assente. Per certi versi, le sembrava quasi di essere sotto l'effetto della pozione di cui aveva abusato anni prima, alla morte di Giacomo, anche se quella volta la disperazione di fondo le aveva permesso di mantenere una fredda lucidità per tutto il tempo.

Si sentiva fatta di marmo, le sue gambe non le rispondevano, il suo respiro era veloce, ma superficiale, e la sua mente non riusciva a partorire nulla che andasse oltre la confusione.

“Mia signora!” la voce della serva non la scosse, era come se arrivasse da una profondità marina distante miglia e miglia da lei.

Creobola, che pur non conosceva ancora bene la Leonessa, si spaventò molto nel vederla in quello stato. Le sue pupille sembravano due punte di spillo, e le sue labbra erano pallide. La fronte era coperta da un sottile strato di sudore e tutto, in lei, la faceva sembrare preda di un qualche demone invisibile.

La serva la scosse, cercando di attirarne almeno lo sguardo, e ripeté: “Mia signora..!”

La donna, finalmente, la guardò, le iridi trasformate in due pozzi verdi, vuoti e lontani.

“Li hanno fermati.” la rassicurò la serva, chinandosi un po' su di lei, facendo forza affinché provasse a rialzarsi: “L'avevano appena portato fuori, stavano per scappare sul retro...”

“Come..?” Caterina cercava di dare un senso alle parole dell'altra, ma più ci provava, più si convinceva di averla capita male: “Volevano... Volevano portarlo via?” chiese, per fugare ogni dubbio.

“Così pare...” rispose, lentamente, la domestica, mentre, dopo un paio di tentativi a vuoto, la sua signora riusciva a rimettersi in piedi.

“Chi..?” cominciò a dire la Sforza, mentre la consapevolezza prendeva il posto del caos e la rabbia, corroborata dalla sensazione che il pericolo maggiore fosse scampato, iniziava a prendere il sopravvento.

“Due servi...” fece in tempo a dire Creobola, ma non poté terminare spiegando che i due colpevoli, avendo capito di essere stati colti sul fatto, avevano lasciato il bambino lì dov'era ed erano scappati nei boschi, senza che nessuno li inseguisse.

La Tigre non aveva fatto in tempo a sentire per intero il resoconto della domestica, perché, malgrado le gambe ancora incerte, si era messa a correre, per raggiungere l'esterno della villa, laddove le era stato detto che i rapitori erano stati fermati.

Nel frattempo gli altri abitanti della villa, compreso un assonnato Ottaviano, stavano facendo un percorso simile. Quando Caterina arrivò sul posto, trovò però solo Bianca con Giovannino in braccio, Bernardino, ansante e quattro domestici accaldati per una corsa.

Ipotizzando che fossero quei quattro, i colpevoli, non ragionando lucidamente – dato che difficilmente i colpevoli se ne sarebbero rimasti lì tranquilli ad aspettare – la Leonessa vi si scagliò contro.

Ignorando il piccolo Medici, che, in lacrime, protendeva le bracciotte verso di lei, ancora spaventato per quello che era accaduto, e anche frate Lauro, che la richiamava alla calma, tentando di gridarle che si stava sbagliando, la donna scaricò sui servi una sfilza di bestemmie che da tempo non sfioravano le sue labbra. Cercò di colpirli, di afferrarli per i capelli, di stringere loro il collo, senza neppure rendersi conto che nessuno di loro cercava di farle del male a sua volta o di difendersi con le cattive.

“Madre... Madre!” ci volle la voce di Galeazzo, e le sue mani già da uomo, per frenarla.

Caterina, sentendo la stretta del ragazzo, che ancora non aveva sedici anni, ma il cui fisico prometteva di farlo diventare un adulto forte e sicuro, si fermò di colpo.

“Non sono stati loro.” spiegò il Riario, con Bernardino che annuiva alle sue spalle: “I due che hanno cercato di portarlo via, sono scappati per i boschi...”

“E nessuno ha provato a fermarli? Andavano interrogati, andavano...” la voce si spense in fretta, nella gola della Sforza.

Erano finiti i tempi in cui poteva contare su un intero esercito. Si guardò attorno. Ciò che aveva a disposizione, ormai, erano solo i suoi figli, una manciata di servi e domestiche – per altro di dubbia fedeltà – e un frate.

Abbattuta, scosse il capo, si fece dare Giovannino, che tra le sue braccia si placò subito, e disse, fredda: “Galeazzo... Scrivi subito a Fortunati. Lo voglio qui prima che si possa. Parta nel momento stesso in cui leggerà. Digli che deve essere qui e basta, senza spiegargli il motivo. Venga e basta!”

Correndo in casa, con il figlio che le si aggrappava quasi con ferocia, la donna andò nella propria stanza. Fece sedere Giovannino sul letto, e poi, preda di un conato irrefrenabile, afferrò con un gesto rapido il vaso da notte e vomitò, davanti agli occhi preoccupati del figlio, fino a farsi dolere il ventre.

Nel vaso rimase solo schiuma, e una vaga traccia del vino bevuto la sera prima. L'odore pungente, diverso da quello che Caterina si sarebbe attesa, le mise un dubbio.

Il suo stato di coscienza alterato e, soprattutto, il fatto che fossero riusciti a sottrarle il bambino mentre lei dormiva... Guardò la piccola caraffa sulla scrivania. Sapeva che era vuota, ma andò comunque ad annusarla. Non percepì nulla di strano, eppure non si dava pace.

“Io sto bene...” disse Giovannino, con la semplicità dei suoi tre anni e mezzo, sperando, forse, di far calmare la madre.

La donna si rese conto solo in quel momento di quanto il figlio fosse a disagio. Così, lasciando a dopo le indagini del caso, gli si mise accanto e, accarezzandogli la testa, gli baciò la fronte.

“Questo è quello che conta.” gli assicurò, abbracciandolo: “E farò tutto quello che posso perché sia sempre così.”

 

La Marchesa di Mantova fece una smorfia e, senza dire nulla, si alzò, lasciando i due musici, a cui aveva chiesto di esibirsi per lei, a continuare da soli il loro spettacolino.

Quel pomeriggio non c'era nulla che le piacesse, nulla che le interessasse. Da quando aveva saputo che pochi giorni prima suo fratello Alfonso era diventato formalmente il nuovo marito della figlia del papa, Isabella non sapeva darsi pace.

Non era tanto per l'insofferenza che Alfonso, si diceva, avesse dimostrato fin da subito all'idea di riprendere moglie, quanto più la consapevolezza che lei stessa si fosse imparentata con i Borja, in particolare con quella Lucrecia di cui si sparlava da anni in tutta la penisola.

“Figlia, moglie e nuora del papa!” sbottò da sola, mentre raggiungeva il suo studiolo, attirando lo sguardo stranito di una serva.

Arrivata alla sua scrivania, si prese un istante la testa tra le mani. Dopo un paio di sospiri profondi, si rimise composta e cercò di sistemarsi come meglio poteva, dandosi un tono e aprendo, a caso, un tomo che aveva lasciato lì quella mattina.

Si massaggiò distrattamente l'addome. Aveva partorito già da più di tre mesi, eppure quella volta la pancia sembrava non volersene andare del tutto. Era un grande cruccio, per lei e per i suoi sarti, eppure pareva non esistere decotto o intruglio sufficiente a farla tornare come prima.

'Chissà se anche quella maledetta valenciana è grassa e con le smagliature sul ventre' si chiese, malignamente, l'Este: 'Dopo ben due gravidanze, sarebbe il minimo...'.

In molti sostenevano che la Borja, di figli, ne avesse uno solo: quello nato dal matrimonio con Alfonso d'Aragona. Isabella, invece, era certa che le maldicenze che la volevano madre di un bambino dal padre ignoto non solo fossero vere, ma andassero sottolineate ogni volta in cui si parlava di lei.

Se non fosse stato per la dote incredibile – trecentomila ducati – e la raccomandazione del re di Francia, difficilmente Ercole avrebbe accettato di vendere l'onorabilità del figlio al papa e ai vizi dei Borja.

Isabella si schiarì la voce, sollevando il mento, come se, pur essendo da sola, volesse dimostrare che la propria postura era ancora quella degna della Marchesa che era. Lucrecia avrebbe avuto il titolo di Duchessa, un giorno, ma per il momento, sarebbe stata solo una cognata, per lei.

Lasciò passare un paio d'ore e poi, abbandonando la lettura, o, almeno, smettendo di far finta di leggere, la donna lasciò lo studiolo. Non mancava molto all'ora di cena, e forse avrebbe fatto meglio a ritirarsi per cambiarsi d'abito, ma Isabella voleva rimanere da sola.

Come sempre, quando esprimeva tra sé un desiderio semplice come quello, suo marito Francesco sembrava avere il dono di sapere come fare a distruggerlo.

“Ce l'ho fatta, sai?” le chiese, arrivandole alle spalle.

Pur vivendo nello stesso palazzo, erano quasi tre giorni che non si incrociavano. Così come l'Este aveva cercato di non incrociare il Marchese, così lui aveva fatto con la moglie. L'ultima volta che si erano parlati – e Francesco pareva intenzionato a riprendere il discorso proprio da allora – la Marchesa l'aveva quasi preso in giro, dicendogli che non sarebbe mai riuscito a ottenere alcuna concessione dall'Imperatore, data la scarsa solidità che aveva dimostrato in politica estera negli ultimi mesi.

“A fare cosa?” ribatté lei, voltandosi a guardarlo, fingendo di non capire.

Il Gonzaga aveva gli stivali sporchi e le brache impolverate. Quasi per certo era stato nelle stalle fino a poco prima, a badare ai suoi amati cavalli, bestie che, per Isabella, gli erano molto più care di una moglie.

“L'Imperatore mi concede di assoldare nei suoi territori fino a ottomila uomini.” spiegò lui, gonfiando un po' il petto, e lasciando che il mento asimmetrico scivolasse un po' di lato, assecondando l'espressione tronfia che aveva assunto.

“Bravo.” rispose, con un lieve sarcasmo, la Marchesa: “E ora fai qualcosa per guardarti dal papa e da suo figlio.”

Francesco schiuse le labbra e sbatté le palpebre, come a dire che non ne coglieva la ragione.

“Il Trivulzio ha lasciato Milano...” spiegò lei: “Ci sono nuovi luogotenenti e Governatori ovunque... Lascia che il re di Francia si stabilizzi a dovere nei suoi nuovi territori, e i Borja ricominceranno a rosicchiare terreno ovunque, come hanno fatto in Romagna l'anno scorso. Credi davvero che un Marchesato piccolo come il nostro sarebbe difficile da conquistare, per loro?”

Il Gonzaga non disse nulla, atterrito dalle parole della moglie. Era convinto che anche lei vedesse nell'alleanza e nella familiarità con l'Imperatore la chiave di volta della rinascita di Mantova, e invece...

“Caccia i fuoriusciti milanesi.” suggerì lei, stanca di avere a che fare con una mente tarda come quella del marito: “Rafforza i nostri confini e riavvicinati a Luigi.”

Il Marchese ascoltò in silenzio, e poi fece un cenno con il capo, dovendole dare ragione. La guardò meglio e, trovandola elegante e fiera come sempre, un po' si vergognò di essere conciato come l'ultimo degli stallieri.

Un po' intimidito, l'uomo provò a dire: “Dopo cena ti andrebbe di...”

Senza nemmeno attendere la proposta per intero, la Marchesa liquidò la questione con un inappellabile: “No.” e, voltatasi, prese con decisione la strada che conduceva alle sue stanze, pensando che forse, quella sera, sarebbe stato meglio cenare in camera, da sola.

 

“Ci ha messo troppo!” l'agitazione, nella voce di Caterina, sfiorava l'isterismo, eppure la donna pareva non accorgersene: “Ti ho mandato a chiamare tre giorni fa!”

“Non potevo lasciare tutto all'improvviso solo perché me l'hai chiesto tu!” esclamò Fortunati, senza, però, alzare davvero la voce.

La Tigre, che vagava come una penitente per tutta la sala, si fermò di colpo e si mise a fissarlo, con lo stesso piglio che aveva usato, per anni, con gli uomini del suo esercito. Proprio quell'atteggiamento scatenò infine la reazione del piovano.

“Che ti piaccia o no, è così.” si impuntò lui, allargando le braccia: “Ti sono fedele, sono dalla tua parte, faccio tutto quello che posso per aiutarti... Ma non sono un tuo soldato!”

La Sforza scosse il capo con forza, come se quello che Francesco aveva appena detto fosse una scusa inaccettabile: “Hai voluto tu stare dalla mia parte – gli ricordò – e se lo sei, pretendo che tu lo sia in tutto.”

“Non sei nella posizione di dettare regole, non più.” fece presente Fortunati.

Colpita da quell'affermazione, che la ferì nel profondo anche perché arrivata da un uomo sempre così mite e remissivo da pensarlo incapace di una simile esternazione, la Leonessa si avviò platealmente alla porta.

“Aspetta!” la frenò il piovano, colmando in due passi la distanza tra loro e afferrandole un braccio.

In uno scatto violento che poco aveva a che fare con la diatriba del momento, la donna si ritrasse e gridò: “Non toccarmi!”

Tra i due scese un profondo silenzio. Francesco teneva le mani alzati, quasi a sottolineare la propria innocuità, mentre Caterina, con il fiato corto e gli occhi stravolti dalla paura, restava vicino alla porta. Le ci volle qualche secondo, prima di riprendersi. Sapeva di non aver avuto una reazione commisurata ai fatti, e, pur non volendolo ammettere, ne sapeva anche il motivo. Cominciava ad accettare di nuovo il contatto fisico con le persone, soprattutto uomini, che non fossero i suoi figli, ma solo se arrivava con lentezza, con preavviso. Riusciva a sopportare un contatto casuale con un servo, o quello con le mani del sarto che le era stato mandato – proprio dal piovano – qualche giorno prima del tentativo di rapimento, ma una presa così, improvvisa e inattesa, l'aveva subito ripiombata nel panico.

Sapeva che la sua mente era ingabbiata, che il suo corpo metabolizzata scorrettamente gli impulsi che riceveva. Non sapeva dire se fosse colpa della lunga e solitaria prigionia o se fosse colpa di quello che le aveva fatto Cesare Borja. Sapeva solo che, per il momento, era così.

Francesco, di norma attento a quel genere di risposte della Leonessa, era così preso dal voler fare la pace da muoversi di nuovo senza ragionare. Posandole, paterno, una mano sulla spalla, riprovò a dire qualcosa, ma nel momento stesso in cui le sue dita si strinsero un po' sulla stoffa morbida dell'abito della Tigre, questa si ritrasse di nuovo.

“Ti ho detto di non toccarmi.” lo avvertì, sollevando l'indice, per ammonirlo.

“Comunque – riprese lui, aggrappandosi dove poteva per farsi perdonare – anche se fosse arrivato subito, che avrei potuto fare? Giovannino è qui con te, i due che volevano rapirlo sono scappati e non sappiamo chi abbia dato l'ordine, sempre che qualcuno ci sia stato, di sottrartelo...”

“Mio figlio qui non è al sicuro.” fece allora lei: “Quei servi sono creature di mio cognato. Devi trovare un posto, per Giovannino.”

Il piovano si rabbuiò: “Credi davvero che Lorenzo abbia osato fare un azzardo simile?”

“Io so solo che qualcuno mi ha drogata – spiegò lei – e non fare quella faccia, perché deve essere così: mi sarei accorta, altrimenti, che qualcuno era entrato in camera mia e aveva rapito Giovannino!”

Francesco cercò di togliersi dal viso la sfumatura scettica che aveva inconsciamente assunto, e fece un sospiro, scuotendo la testa, ma la donna riprese prima che lui potesse obiettare.

“Solo Lorenzo, qui, ha interesse a fare del male a mio figlio. Lui lo vuole per averne i soldi, o, magari, sottraendomelo, avrebbe voluto dimostrare che non sono in grado di custodirlo...”

“E chi ti avrebbe drogato, sentiamo... Come, con cosa?” le perplessità di Francesco, forse giustificabili, irritarono immensamente la Tigre.

“Credi a quello che vuoi: io voglio mettere al sicuro mio figlio. Tra qualche minuto arriveranno qui anche i miei figli. Decideremo con loro il da farsi.” disse, lentamente, Caterina.

Avrebbe voluto dirgli che, forse, era stata Creobola a drogarla, con il vino che le aveva portato la sera prima. Però era stata quella stessa serva ad aiutarla a sventare il rapimento... Forse aveva portato il vino adulterato a sua insaputa...

“Va bene. Aspettiamo che arrivino i tuoi figli.” convenne il piovano: “Magari loro saranno più...”

Avrebbe voluto dire 'ragionevoli', ma si morse la lingua appena in tempo.

La Leonessa apprezzò quell'ultimo sprazzo di autocontrollo, e andò a una delle sedie imbottite, sperando che i suoi figli arrivassero presto. Era stata lei a chiedere loro di attendere qualche minuto, perché prima voleva confrontarsi da sola con Fortunati, ma adesso non voleva più restare da sola con lui.

Anche l'uomo si mise a sedere, a debita distanza dalla Sforza, e accavallò le gambe, come faceva spesso, quando era pensieroso. Cercò di non fissarla, per non innervosirla, ma ogni tanto le lanciava un'occhiata.

Nell'attesa silenziosa, il piovano arrivò a interrogarsi sulla reazione che la Tigre aveva avuto quando lui aveva provato a instaurare con lei un minimo contatto fisico. Si diede dello sciocco da solo. Aveva seguito in prima persona parte dell'abbrutimento che la milanese aveva dovuto subire, sotto al giogo dei Borja. Aveva già avuto modo di notare e provare a capire le difficoltà che lei stava trovando, nel tornare a una vita che potesse dirsi quasi normale.

“Scusami, per prima.” disse alla fine, senza specificare a cosa si riferisse.

“Non pensiamoci più.” tagliò corto lei, sapendo bene di cosa l'uomo stesse parlando.

Francesco stava per aggiungere qualcosa, quando dalla porta arrivarono Galeazzo, Bianca e Bernardino.

“Giovannino – spiegò il Riario – è con Sforzino nella sala delle letture...”

“Avevo chiesto anche a lui di esserci.” fece notare Caterina.

“Dice che... Preferisce di no.” disse, vaga, Bianca.

La madre sollevò un sopracciglio. Sforzino era così, in fondo. Non voleva mai immischiarsi in nulla che potesse turbarlo più di tanto. A modo suo era egoista, ma la Sforza non lo biasimava, per quello.

“Manca ancora Ottaviano...” soffiò Fortunati, sistemandosi meglio sulla sedia.

“No, a lui queste cose non devono interessare.” fu il commento secco della Leonessa: “Per quello che mi riguarda, ci siamo tutti.”

“Allora, che facciamo?” chiese Caterina, dopo che il discorso era stato sviscerato a lungo.

“Il convento di San Vincenzo d'Annalena è sicuro...” spiegò il piovano, riprendendo un'idea che era saltata fuori a metà discussione, prima di essere momentaneamente accantonata: “Ho degli agganci solidi e le Murate, che non sono distanti, potrebbero fornirci delle coperture, se ci servissero...”

“Dovrò restare là con lui?” domandò Bianca, il cuore che correva, rifuggendo la prospettiva di tornare in un convento, e chissà per quanto tempo.

La Leonessa stava per dire di sì, perché si sarebbe sentita molto più tranquilla, con la figlia a prendersi cura del piccolo. Tuttavia, quando ne incrociò gli occhi blu, si rese conto di averle già comandato troppo in passato.

“No, no... Preferisco stia lì da solo.” disse, a malincuore: “Lorenzo si insospettirà meno... Se venisse a sapere dalle sue spie che qui non ci sei più nemmeno tu, potrebbe farsi venire dei sospetti...”

La Riario parve immensamente sollevata, ma parlò comunque con un tono dimesso: “Come preferisci.”

“Allora prenderò contatti con chi di dovere.” concluse, alla fine, Francesco.

“Fai in fretta, questa volta.” intimò la Tigre, parlandogli a voce bassa e in fretta, mentre gli altri cominciavano a lasciare la sala.

Fortunati annuì e poi, con un sospiro, le assicurò: “Io faccio tutto quello che posso, in ogni modo che posso, e solo per te.”

“Lo so.” deglutì lei, restando per qualche istante imbrigliata nello sguardo sicuro del piovano.

Aveva quarantun anni, circa tre più di lei, eppure le suscitava un interesse che mai un uomo di quell'età aveva suscitato in lei. Che le piacesse o no, era l'unica figura, in quel momento, che vedesse davvero come uno scoglio a cui aggrapparsi. Ed era anche un uomo di bell'aspetto, benché non avesse il fisico forgiato dall'addestramento che avevano avuto praticamente tutti gli amanti con cui la Tigre aveva pasteggiato. Eppure, forse, così come aveva pensato qualche giorno prima, con lui avrebbe anche potuto andare oltre e...

Lasciando a metà quella considerazione, arrivata come un fulmine a ciel sereno, la donna distolse in fretta lo sguardo, accigliandosi, mentre lui le chiedeva il permesso di congedarsi, in modo da poter andare subito al convento a rinverdire vecchie conoscenze.

“Stai attento.” gli disse la donna e poi, senza più guardarlo, ribadì, una volta di più: “E fai in fretta.”

 

   
 
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