Edward non aveva
dormito molto, anche se Mary era riuscita a stemperare la tensione,
sentiva
dentro un macigno che lo opprimeva. Dover parlare con Steve lo
spaventava.
Essere a conoscenza di quello che era stata la sua disastrata famiglia
lo fece
sprofondare in uno sconforto senza via di uscita. Doveva rintracciare
John e
decidere con lui come affrontare la cosa, sentiva che senza la sua
presenza non
ci sarebbe riuscito.
Si
preparò con cura, indossò la divisa, fece
colazione con
Mary. Lei ostentava una serenità distaccata che
tranquillizzò anche lui.
“Devo
andare Mary, devo affrontare Steve e sono preoccupato,
ma spero che tutto si accomodi.”
La
dolce Mary lo fissò attenta, lui stava cercando di
trovare un equilibrio, e non gli era facile. “Tu come stai,
Eddy?”
Scosse
la testa avvilito. “Decisamente confuso, ma voglio
trovare il bandolo a questa storia, sono stanco di soffrire.” La vecchia nutrice lo
avvicinò comprensiva,
gli toccò la mano e la tenne nella sua.
“Sei
un bravo fratello Edward, non scordartelo mai.” Cooper
sorrise, le restituì un bacio in fronte e uscì ad
affrontare la giornata. Scese
le scale della villa, caricò in auto la
sua immancabile valigetta, e guidò sereno fino alla
Cittadella.
Doveva
accettare tutto quello che sarebbe arrivato. Era
consapevole di essere fragile e insicuro dentro di sé, ma
era determinato a
trovare una soluzione al rapporto burrascoso con suo fratello.
Parcheggiò
nel suo spazio riservato e si incamminò alla
ricerca di John.
La
clinica era già in fermento, sicuramente il buon dottore
si era ripreso. Infatti lo trovò nell’atrio che
aveva recuperato la solita
grinta, intento a redarguire le reclute che doveva portare agli
ambulatori.
“Ciao,
scozzese testardo. Guarda che così li spaventi! Va piano.”
Rise e fissò amichevolmente John che era
sorpreso di vederlo così
presto.
“Cosa
vuoi a quest’ora? Che c’è?” Edward non lo
lasciò replicare, lo prese per
il braccio e lo trascinò dentro all’ambulatorio.
Si voltò verso i ragazzi.
“Ve lo rapisco per un paio di minuti.”
Si
fece serio, mente John cercava di liberarsi.
“Come stai prima di tutto?” Roberts lo
fissò tediato. “Sto bene, senza
voi Cooper intorno, mi sono riposato e quindi ho recuperato. Immagino
che
adesso la tregua sia finita, vista la tua urgenza.”
“Indovinato. Ho
parlato con Mary e avevi ragione. Mio padre ha perso la testa e ha
sottoposto
mio fratello a una cura che solo lui poteva concepire.” John si fece
attento, si appoggiò alla
scrivania e ascoltò Edward che gli raccontò ogni
frase di Mary. Compreso il
modo in cui il padre lo aveva plagiato. Edward si era piantato davanti
a
Roberts, con le mani sprofondate nelle tasche. Cercava di mantenere il
controllo
ma la voce gli tremava.
“Non
mi ricordo John, è come se avessi rimosso tutto.”
Roberts
scosse la testa sconcertato, lo strinse per il
braccio. “Come ti senti adesso?”
Cooper
si sottrasse alla stretta, indietreggiò mentre si tormentava
il mento con la
mano. Lo guardò fisso.
“Confuso. Mi
sembra di non sapere chi sono, se le scelte che ho fatto sono le
mie.” Borbottò
avvilito.
John
si avvicinò molto di più, ma aveva le reclute in
attesa
e chiuse la conversazione dispiaciuto.
“Senti, ne parliamo più tardi. Devo
tornare in ambulatorio. Hai scelto
il momento sbagliato.”
Edward
strinse le labbra, assentì, si avviò alla porta. “Va bene a
più tardi, devo trovare una
soluzione per Steve.”
John
contrariato gli intimò. “Non farlo da solo, fa che
sia
presente, non voglio risse.”
Edward
sapeva che aveva ragione, era difficile senza di lui
trovare il modo di spiegarsi, Steve era sempre sulla difensiva quando
si
toccavano certi argomenti.
Si
avviò pensieroso verso il suo ufficio, la testa rivolta
al fratello.
La
segretaria lo vide arrivare con passo veloce, gli allungò
gli appuntamenti per la giornata, li prese sbadatamente
“Nora,
hai visto Steve?”
Nessuno lo aveva ancora avvistato. Probabilmente era
già
all’addestramento a correre con le sue reclute.
Sbuffando,
entrò in ufficio e si mise a lavorare di buona
lena.
Tolse
la giacca e rimase in camicia con le maniche
arrotolate, la cravatta sciolta. Si passò le mani nei corti
capelli neri,
scompigliandoli.
Ma
le carte che aveva davanti sembravano scritte in arabo,
non riusciva a concentrarsi. Finì per appoggiarsi allo
schienale con le mani
intrecciate sulla nuca, dondolandosi sulla poltrona.
Non
poteva tollerare di credere che le scelte che aveva
fatto non fossero sue.
La Cittadella era una
sua creazione, il suo scopo di vita... Certo di essere fragile lo
sapeva, che
non avesse la forza fisica di Steve era scontato. Ma il desiderio di
aver
scelto la carriera militare non era da mettere in discussione. La
disciplina,
le regole la divisa che indossava erano il suo orgoglio.
Non
si sentiva plagiato, forse su certe scelte poteva anche
essere, come quella di assumersi la famiglia sulle deboli spalle che
aveva.
Non aveva retto
benissimo all’inizio, aveva seguito
l’autorità dettata dal padre e aveva
sbagliato perdendo
i fratelli minori ma
ora sapeva il perché, sapeva cosa doveva fare. Lasciarli
liberi di decidere, di
scegliere e anche di sbagliare, perché vestire i panni di
Sir Anthony non era
da lui. Lui era,
sì, il fratello
maggiore ma era anche pieno di dubbi e di inquietudini.
Se plagio c'era stato
e lo infastidiva molto era il fatto che il padre lo esasperasse con la
discendenza del primo genito. Lo chiamava spesso “il mio
piccolo Geoffrey” e la
cosa lo spaventava sapendo la brutalità del nonno.
Gli
ripeteva come una cantilena.
“Ci
siamo noi tre, figlio: Geoffrey, Anthony e Edward, la
dinastia e la discendenza è importante. La famiglia
è tutto. Il nome della
famiglia è tutto.”
Edward si sentiva
orgoglioso allora, ora molto meno, temeva con disappunto di essere come
loro. Chiuse gli
occhi sopraffatto dal
dolore.
Quel
ricordo lo prese e lo inchiodò allo schienale. Dio, non
era come loro! Non voleva esserlo, mai avrebbe toccato i suoi fratelli
in modo
perverso. Sgridati redarguiti, sì, ma mai brutalizzati.
Si
sorprese a pensare se non avesse mai cercato l’affetto in
una donna per non avere una famiglia e una discendenza.
Il
cellulare vibrò e lo riportò alla
realtà, vide che John
lo stava per raggiungere. Pochi minuti ed entrò con foga nel
suo ufficio.
“Beh,
doc che fai?
Sei diventato irruente come mio fratello?
Bussa la prossima volta, non c’è
Nora?” John
scosse la testa di rimando. “Dai!
Ti ho avvertito con la chiamata, non fare il
saccente.” Cooper
abbozzò,
divertito. “Bene,
allora che faccio con
il mio complicato fratello lo porto da te?”
John
si sedette sulla poltrona di fronte a lui e lo
inquadrò, lo studiò, prese tempo.
“Non
lavoravi? Sembri inquieto. Non ti starai facendo dei
film mentali? Pensa solo a lavorare quello sicuramente ti
distrae.”
Il
generale aggrottò la fronte, seccato.
“Avevo alcune analisi di coscienza da
fare.”
Prese
la penna distrattamente, poi si appoggiò al tavolo con
i gomiti. “Certi ricordi mi tornano, e devo dire che mio
padre fece un buon
lavoro con me.”
John
cercò di leggergli dentro fissandolo.
“E quindi che ne hai dedotto?”
Cooper
si appoggiò allo schienale giocherellando con la
penna. Non distoglieva lo sguardo dal suo amico.
“Che le paure che
provo, sono nate per come venni trattato. Da come impostò la
sua tecnica: a
Steve le frustate, a me la parte psicologica.”
Il dottore si appoggiò allo schienale seccato,
e sentenziò con
decisione. “Non
c’è nulla di malato in
te. Né in tuo fratello.” Cooper si
stampò un sorriso triste. “Vero, ora lo so.
Ma certe cose rimangono, fanno male e devo risolverle.”
John
alzò la mano e la agitò scacciando invisibili
insetti. “Un
po' alla volta con
pazienza, lo farai tu, e tutta la famiglia. Ma non cedere, per
Dio.”
Edward
si tirò dritto sulla poltrona. “Ora devo pensare a
mio fratello e vedere come la prenderà!”
Roberts
annuì silenzioso, poi si decise.
“Lo
chiamo io. Gli dirò che devo parlargli, di raggiungermi
allo studio in clinica, per le sei. Tu arriva a
quell’ora.”
Si
alzò e raggiunse la porta. “Edward gli
racconterò la
verità. Che ho visto la tua schiena, gli parlerò
della tua debolezza e dei tuoi
attacchi di panico.” Cooper
annuì. “Va
bene, credo sia necessario. Fa come hai
detto.”
Il
dottore se ne uscì, chiudendo la porta.
Cooper
rimase pensieroso a fissare la scrivania. Poi si
rivestì e uscì a sbrigare il lavoro che lo
aspettava a Londra.
Prima
si fece accompagnare con l’auto al campo di
addestramento a salutare il fratello.
Steve
vide l’auto e ne fu sorpreso, la raggiunse.
Edward
scese.
Ma
Steve fu più rapido, e incuriosito da quella visita. “Beh, che cosa
ci fai qui con l’auto di
servizio? Vuoi fare colpo sulle reclute?”
Rise, poi lo
avvicinò. “Volevo salutarti, vado nella city. A
pranzo non ci sono.” Il
fratello minore si appoggiò all’auto con la
schiena.
“Va
bene, starò con John se è libero. Non ti
preoccupare. Tu
piuttosto dove ti fermi a mangiare? Non fare il furbo.”
Inclinò la testa
fissandolo serio, sapendo i problemi del fratello maggiore.
“Vado
al dipartimento, pranzerò lì,
tranquillo.” Edward gli
fece un sorriso tirato. Steve non finiva mai di preoccuparsi per lui.
Ma il suo pensiero
volò a quello che li aspettava la sera, a quello che poteva
succedere.
“Che
ti è preso fratello? Sembri strano.” Steve era
sconcertato.
“Non
posso salutarti?”
Il Generale fu veloce, non voleva insospettirlo.
Steve
sospirò poco convinto. Lo lasciò andare via in
auto
con la sensazione che gli stesse nascondendo qualcosa.