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Autore: wolfymozart    17/06/2021    1 recensioni
La rivoluzione incombe su Parigi, restituendo dignità agli oppressi e presentando un conto amaro agli oppressori. Ma nei suoi giudizi perentori e tranchant, di condanna e assoluzione, non tiene conto delle sfumature, mai nette, tra innocenti e colpevoli, non tiene conto di sentimenti, paure, speranze di quanti, pur nella schiera degli oppressori, sono stati anch'essi vittime del sistema.
Un rivoluzionario integerrimo ma tormentato, una nobildonna infelice ma determinata, un amore impossibile, una condanna eterna.
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rivoluzione francese/Terrore
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Ponthieu, settembre 1793
 
Una lieve brezza scuoteva le chiome degli alberi in quella tersa mattina di fine estate, mentre il sole dorava i vigneti del Ponthieu ormai prossimi alla vendemmia. L’abito estivo bianco da viaggio faceva risaltare ancor più il corpo esile ed aggraziato della contessa de Beaufort, che sotto l’ampio cappello, sorrideva salutando festosa i suoi familiari. Una carrozza attendeva lei e la piccola Juditte nel cortile del palazzo dei Blanchard, pronta per riportarle a Parigi, dopo un’estate trascorsa in campagna. Juditte aveva tratto giovamento da quei mesi passati nel Ponthieu, all’aria aperta, a correre nei campi, ad aiutare le contadine nella raccolta dei frutti, a giocare con gli animali, ad imparare a cavalcare. Il suo colorito era decisamente più roseo, il fisico irrobustito e l’aspetto più giocondo: non sarebbe per nulla al mondo voluta tornare a Parigi, ma la madre non le aveva lasciato speranze, sarebbero partite alla fine dell’estate per ricongiungersi con il conte suo padre, rimasto in città per alcuni suoi affari.
Quella mattina non fu affatto facile consolarla e convincerla a lasciare la sua stanza a palazzo Blanchard, ci volle del bello e del buono per far sì che si preparasse per il viaggio. Lì, sul piazzale antistante il palazzo, piangeva calde lacrime nel salutare i nonni, la dama di compagnia, la cuoca e tutti gli altri dipendenti che era riuniti per salutarle e augurare loro un buon viaggio.
-Marianne, mia cara, sei proprio sicura di voler tornare a Parigi? – le domandò sottovoce la madre, tenendole le mani, mentre tutt’attorno la servitù si prodigava nel sistemare i bagagli in carrozza.
- Sì, madre, dobbiamo ritornare. Guillame desidera così. – rispose Marianne abbassando lo sguardo: ogni desiderio del marito era un ordine a cui difficilmente si sarebbe potuto contravvenire.
- Vedi, la situazione a Parigi si sta molto inasprendo, io e tuo padre siamo molto preoccupati per quello che potrebbe capitarvi…-
- Lo so, madre. – la interruppe. – Io vivo a Parigi da anni, chi meglio di me potrebbe conoscere i rischi? Eppure non ci possiamo trattenere oltre, Guillame ci ha già concesso di trascorrere qui l’estate, mi rivuole con lui in questo momento difficile per la nazione. Anche lui ha paura. –
- Proprio per questo, Marianne, dovrebbe pensarci bene anche Guillame. Roland ci ha invitati Oltremanica, ha un salvacondotto, tuo padre sta lavorando per ottenere passaporti e certificati, perché non venire con noi?-
- State pensando di espatriare? – esclamò sorpresa Marianne. Nei tre mesi trascorsi con loro non ne aveva mai sentito parlare. Espatriare era forse l’unica soluzione per le famiglie aristocratiche, ma negli ultimi tempi i controlli erano sempre più serrati e la punizione per chi veniva colto sul fatto era quella di trovarsi faccia a faccia con madama Ghigliottina. I suoi genitori, dunque, covavano questo piano? Stavano trafficando per entrare in possesso di documenti falsi? Marianne trasalì al solo pensiero che qualcosa potesse andare storto. Aveva intuito che anche il marito fosse implicato in qualche intrigo non ben identificato, ma non avrebbe mai immaginato suo padre, generale dell’esercito, fedele alla Francia, in procinto di lasciare la nazione come un sorcio, nascosto nella stiva di qualche nave inglese.
- Sì, da tempo tuo padre tiene una corrispondenza con il barone Woodville, un amico di Roland. È questione di pochi giorni, poche settimane al più. Ce ne andremo, l’aria qui sta diventando sempre più irrespirabile, quel pazzo sanguinario di Robespierre…Per questo non sono tranquilla sapendoti a Parigi. Venite anche tu e Juditte con noi, Roland vi aspetta.
- Non è possibile, ve l’ho già detto. Ora dobbiamo partire. Arrivederci, madre. – si accomiatò posando un leggero bacio sulla guancia di sua madre.
- Per l’amor del Cielo, riguardati Marianne e abbi cura di Juditte. – le rispose lei, in pensiero.
Poi fu la volta di suo padre, il conte Auguste, in tenuta da caccia, che la salutò con un inchino e un lezioso baciamano.
-Marianne, comprendo quanto questi tempi siano difficili per la nazione e per noi tutti, ti fa grande onore restare accanto a tuo marito in questo delicato frangente. Beaufort è un uomo molto coraggioso e valoroso, si sta dimostrando un degno pari di Francia. Sii orgogliosa di lui! –
- Caro padre, sono molto orgogliosa di lui e di voi. La Francia ha bisogno di uomini come voi ed è per questo che ho deciso di sostenere Guillame fino in fondo e di non lasciare Parigi finché non la lascerà lui. Ma voi…ho saputo che state per partire…- accennò cauta.
Il padre fece cenno di abbassare la voce, non voleva che la servitù ascoltasse: - Sì, mia cara. Stiamo per partire per raggiungere Roland, tua madre ed io abbiamo preso questa decisione. Ti assicuro che è stata una decisione molto sofferta, ma non avevamo scampo né vie d’uscita. – rispose chinando la testa, come vergognandosi di una sconfitta.
-Capisco. Ma, vi prego, fate attenzione, se dovessero intercettarvi…-
- Non succederà, mia cara. Avremo le carte in regola e un aiuto dal barone Woodville, non sarà una passeggiata, ma sbarcheremo in Inghilterra sani e salvi. –
- Chissà quando ci potremo ritrovare! – sospirò Marianne con uno sguardo mesto, le lacrime agli occhi.
- Molto prima di quanto tu pensi. – rispose il padre, abbracciandola, senza curarsi di violare l’etichetta. Sapeva bene che non sarebbe stato così facile rivedersi, che la situazione era molto più complessa di quanto le avesse prospettato: Guillame non avrebbe mai acconsentito a lasciare Parigi e ad abbandonare i suoi piani controrivoluzionari, era un uomo troppo orgoglioso.
Marianne si sciolse dall’abbraccio e si avviò alla carrozza, tenendo per mano Juditte. Salì sul predellino senza guardarsi indietro, soltanto quando i cavalli si mossero e il rumore degli zoccoli risuonò nel piazzale, osò gettare uno sguardo fugace alla sagoma del palazzo che si allontanava dietro di lei, con il vago sentore che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto in vita i suoi genitori.
I cavalli presero un’andatura di trotto e, una volta usciti dall’arco che segnava l’ingresso della proprietà, si aprirono davanti agli occhi di Marianne gli assolati campi del Pointheu, i colli dolci digradanti verso la pianura, i vigneti ormai carichi di uva matura. Orti, campi, cascinali scorrevano a lato della strada, quando scorse, solitario ai piedi di un colle, un vecchio platano centenario e subito i ricordi le si affollarono nella mente.
Jacques era un tipo curioso, le riempiva la teste con quelle sue strane idee tratte dalle sue letture: uguaglianza, tolleranza, concetti astratti, lontani e quasi pericolosi alle orecchie di una giovane nobile. Eppure lei non si stancava di starlo a sentire mentre si infervorava nei suoi discorsi. Sapeva parlare molto bene, possedeva una rara eloquenza che ne avrebbe fatto un valido oratore se l’avesse voluto. Nonostante l’enfasi che metteva nei suoi sermoni, si rivelava poi estremamente timido in fatto di sentimenti. Arrossiva goffo e impacciato, della sua magniloquenza restava gran poco, ma quel suo sguardo dolce e tenero sopperiva alla mancanza di parole. Lo aveva amato anche per questo. Amava la sua intelligenza al pari della sua tenerezza, ne amava l’eloquenza e la goffaggine, amava quel ciuffo scomposto che non c’era verso di sistemare, quegli occhi scuri tanto profondi che celavano sofferenze ma anche grandi speranze, quella sua andatura composta, elegante e quel suo chinare lo sguardo umile e rispettoso. Quel platano era stato testimone di lunghi pomeriggi d’estate che si protraevano fino al crepuscolo, pomeriggi di letture, di scherzi, di baci appassionati, all’insaputa di tutti, lontani da quel mondo di stupide convenzioni che entrambi non riuscivano a tollerare. Eppure tutto era passato così rapidamente, come l’estate cede il passo all’autunno dopo un improvviso acquazzone. Perché non l’avesse più cercata; perché si fosse rassegnato, non riusciva a spiegarselo. Aveva sognato che ritornasse a palazzo, che la salvasse da quelle nozze indesiderate, che la portasse a Parigi con sé, non importava se in una stamberga o in freddo scantinato, avrebbe tollerato ogni cosa pur di stare con lui. Invece nulla, nemmeno una parola: l’aveva lasciata andare incontro al suo destino, aveva lasciato campo libero al superbo conte de Beaufort, che non l’amava né mai l’avrebbe amata, ma che era spinto dalla prospettiva di mettere le mani sui terreni della sua famiglia nel Ponthieu. La mattina delle nozze, agghindata e ormai pronta per la cerimonia, aveva indugiato a lungo alla finestra della sua stanza, con l’assurda speranza di vederlo arrivare al galoppo o di scorgerlo improntare la gradinata del palazzo con il suo passo elegante tra lo stupore della servitù. Ma si trattava soltanto di sogni ad occhi aperti, Jacques Clermont l’aveva abbandonata, si era scordato di lei, perso a seguire la sua gloria nelle vie di Parigi.
 
 
 
 
Le vie di Parigi sono luogo di incontri, anche sorprendenti talvolta. Una mattina di fine settembre Clermont si sentì chiamare a gran voce dall’altro lato della strada, alzò lo sguardo e scorse Bertrand Laroux che si sbracciava festante. Erano mesi che non si vedevano, da prima dell’estate. Quante cose erano cambiate nel frattempo! L’assassinio di Marat, l’ascesa di Robespierre, il maximum sui prezzi, quelle nuove disposizioni sempre più rigide. Anche Laroux era cambiato, vestiva un abito di foggia pregiata, con la coccarda tricolore in bella vista sul bavero, aveva un’aria ancor più spavalda del solito e un sorriso soddisfatto. Era sempre stato un giovane ambizioso e forse anche invidioso di lui, ma ora sembra aver placato la sua sete di gloria, almeno in apparenza.
-Mio caro Clermont, quanto tempo! – esordì facendoglisi incontro e battendogli una fraterna pacca sulla spalla.
- Come state, Laorux? Che ne è stato del vostro lavoro all’Ami du peuple? Avevate promesso che mi avrei letto qualche vostro articolo su quel giornale. – gli domandò curioso.
- Eh, amico mio, dopo la morte di Marat le cose hanno preso una brutta piega. Ma nella malasorte ho avuto anch’io la mia buona stella: grazie ad un amico – e rivolse l’indice verso l’alto per indicare la posizione eminente di costui – ho ottenuto un posto di segretario al Comitato di sicurezza generale. – rispose tronfio, appuntando i suoi penetranti occhi versi in quelli dell’amico.
- Da giornalista a gendarme, dunque. – constatò con un sorriso che voleva essere cordiale ma che tradì la sua ironia. Da medico ma anche da deputato non aveva mai avuto una grande opinione della categoria. Ne aveva visti fin troppi conciati per le feste dalla mano pesante di qualche gendarme, sia prima che dopo la Rivoluzione. Era un uomo di intelletto, non d’azione, anteponeva la forza delle idee a quella bruta delle mani.
- Non si tratta del termine più appropriato. Semplicemente mi occupo di verificare l’autenticità dei certificati civici e di sorvegliare sui sospetti. Lavoro di scrivania. Non mi vedrete facilmente venire alle mani con i controrivoluzionari, piuttosto ho facoltà di spedirli direttamente da madama Ghigliottina o di concedere la grazia. – sorrise compiaciuto, gli occhi brillavano di soddisfazione. Non seppe spiegarsi il perché, ma Clermont avvertì una sorta di disagio di fronte a tutta questa baldanza. Arrogarsi il compito di stabilire cos’è bene e cos’è male, essere arbitri del destino degli altri uomini, era qualcosa che aveva sempre respinto con tutte le sue forze. E temeva più di tutti quegli individui che si ergevano al livello di giudice supremo.  
- Senza dubbio un compito di grande responsabilità. Sono sicuro che agirete sempre per il bene della Repubblica. – si limitò a dire, accennando un sorriso forzato, ma sfuggendo al suo sguardo.
- Certamente, amico mio. Non dovrei rivelarvelo, ma proprio stanotte abbiamo avuto una soffiata, un complotto di nobiliardi e monarchici sventato grazie anche a me…ma basta! Non posso dirvi altro. Saranno presto assicurati alla giustizia, questi infami. – concluse battendosi con enfasi una mano sulla coscia. – E ora, mio caro Clermont, devo andare: il dovere mi chiama. Chissà che presto non udirete notizie di arresti illustri. -aggiunse strizzando l’occhio. – Viva la Repubblica. –
- Viva la Repubblica, Laroux. Abbiatene cura. – rispose Clermont congedandosi.
- Non ne dubitate, Clermont. – ribadì il giovane con il solito sorriso stampato in volto, prima di svoltare l’angolo e sparire nei meandri delle vie della capitale.
Clermont riprese la sua strada diretto a le Tuileries: era giorno di seduta della Convenzione. L’incontro con Laroux gli aveva lasciato un vago turbamento: quell’uomo aveva assunto un cipiglio da Dio in terra che non gli piaceva per nulla. Era sempre stato un giovanotto ambizioso, Bertrand Laroux, ma non aveva mai avuto un reale potere fra le mani, mentre ora si era appuntato come una medaglia il fatto di essere stato assunto per quell’incarico. Troppi individui, ottenuta la facoltà esercitare un qualsivoglia dominio sugli altri, sfociavano nell’abuso, nel sopruso, nell’arbitrarietà; troppe volte chi aveva la presunzione di detenere la verità, si era degradato a livelli di disumana scelleratezza pur di piegare il resto del mondo al suo pensiero. Mai il deputato Clermont avrebbe permesso di nascondere sotto il nome della Rivoluzione le più feroci nefandezze, mai il medico avrebbe acconsentito all’esercizio gratuito della violenza. In quegli stessi giorni, solo una settimana prima, l’arbitrio pareva essere diventato legge: la cosiddetta legge dei sospetti consentiva di perseguire, arrestare e condannare alla pena capitale non soltanto complottisti controrivoluzionari, nostalgici realisti e acclarati nemici della Costituzione: erano passibili di fermo e di condanna parenti di emigrati, cittadini che avevano dimostrato un amore troppo debole nei confronti della Repubblica, persone che per un motivo qualsiasi si trovavano sprovviste di certificato civico. Un clima di terrore aveva pervaso le strada di Parigi e della Francia, un’atmosfera cupa di sospetto, diffidenza e violenza. La piega che gli eventi stavano prendendo non lo lasciava sereno, eppure mai avrebbe tradito la causa rivoluzionaria e giacobina che aveva sposato. Immerso in questi pensieri, si ritrovò proprio di fronte a le Tuileries, avanzò verso l’ingresso, mostrò il proprio certificato identificativo alla guardia di turno e fece il suo ingresso nella sala di riunione della Convenzione.
 
   
 
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