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Autore: Neeva    19/05/2005    8 recensioni
Fanfiction classificatasi al 2° posto nella 15° Edizione del Concorso di EFP ("Fanfic sulle celebrità").
"Avrà mai letto di me sui giornali, visto qualche film in cui ho recitato? Seguito da lontano la mia crescita non soltanto artistica? Oppure i ricordi sono legati anche per lui a degli scatti ingialliti dal tempo?".
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Elijah Wood
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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HERE IS NO WHY
Glitter burned by restless thoughts of being forgotten…
 
~ Capitolo 1 ~
The Beautiful People/*
 
Il marciapiede scorre fluido sotto i miei occhi. Un passo dopo l’altro, tra pozzanghere di acqua fangosa. Alla mia destra l’estensione grigiastra del fiume Cedar, che si snoda come un serpente dalla pelle iridescente. Scarpe di tela sdrucite ai piedi, quando sarebbe stato più logico indossare tutt’altro.
 
L’Iowa non è la Bassa California.
 
Qui piove frequentemente, copiosamente.
 
L’avevo dimenticato.
 
Un pesce fuor d’acqua, ecco quello che sono.
 
Un ottimo inizio, non c’è che dire.
 
Ho chiesto al tassista di fermarsi a metà strada tra l’aeroporto e la destinazione finale della nostra corsa.
 
L’auto sembrava andare troppo veloce, mentre a me mancava sempre di più il respiro.
 
“Ha l’ombrello? A breve diluvierà…”, mi ha avvertito l’uomo alla guida, un sessantenne dall’aspetto cordiale.
 
“Non ha importanza”, ne ho liquidato i dubbi con una mancia generosa, un ringraziamento e un saluto frettolosi.
 
Se il tassista mi ha riconosciuto deve aver pensato che ero il solito eccentrico made in Hollywood. Gente strana gli attori, in fondo, no?
 
La destinazione di cui sopra corrisponde ad un indirizzo urbano.
 
Quello di casa.
 
O meglio, di quella dove ho vissuto fino al trasferimento in California.
 
Siamo a Cedar Rapids.
 
È qui che sono nato.
 
Ed è che qui che sono di ritorno.
 
Il volo da Los Angeles l’ho passato ascoltando una lunga serie di playlist a tema, create da me nel tempo libero. Sono un melomane che asseconda senza vergogna la propria passione per la musica. L’iPod che ho sempre con me, e con il quale gioco a fare il DJ, lo dimostra chiaramente.
 
Il paesaggio offerto dal finestrino dell’aeromobile ha catturato più volte la mia attenzione. Lasciato alle spalle il deserto del Colorado, l’Iowa si è palesato distintamente sotto forma di campi di grano e frumento, intervallati qua e là da vigneti coltivati.
 
C’è turbolenza e accolgo con sollievo l’annuncio dell’atterraggio ormai prossimo.
 
Non ho paura di volare, ma sono agitato, consciamente ora, e desidero nient’altro che stabilità sotto i piedi.
 
“Dove la porto, signore?”.
 
Prima di rispondere, ho dovuto riflettere per un qualche istante.
 
Non sull’indirizzo, che ricordo perfettamente.
 
Il dubbio che mi assale riguarda mio padre.
 
Vivrà ancora lì?
 
Di fatto non lo so e se si fosse trasferito altrove, non saprei come cercarlo.
 
Ammetto di conoscere molto poco Cedar Rapids o chi, suppongo e spero, la abiti ancora.
 
Dopo diciassette anni passati a Los Angeles, credo di potermi ormai considerare un homie./**
 
Rifletto su tutto e niente mentre cammino costeggiando il fiume.
 
Ho bisogno di una sigaretta che accendo con gesti fin troppo collaudati.
 
Musica. Tabacco. Caffeina.
 
Tre droghe molto diverse tra di loro e da cui sono allo stesso modo dipendente.
 
Caffè quando mi prendo una pausa o studio per la prima volta con un copione.
 
Nicotina per calmarmi.
 
Musica sempre, per esprimere e filtrare tutto il resto.
 
Un figlio alle prese con il proprio padre.
 
Perché sono così nervoso?
 
Passo a salutarlo, vedere come sta.
 
Non è un’abitudine per me, ma nemmeno un’ascesa al patibolo.
 
E allora perché rimango a bagnarmi sotto la pioggia anziché essere già da lui?
 
Forse la natura del nostro rapporto, inesistente, è un buon punto di partenza per delineare questo ritratto di famiglia un po’ sbiadito.
 
La decisione di tornare a casa è stata figlia di un impulso. Dall’oggi al domani mi sono ritrovato a cliccare su “conferma acquisto volo” e ad essere ringraziato dalla compagnia aerea per l’ottima scelta.
 
Perché proprio adesso?
 
Perché non un mese fa o un anno fa?
 
Non è normale non ricordare l’ultima volta in cui si è incontrato o sentito il proprio padre.
 
Il bisogno di vederlo ha reso perplesso me per primo.
 
Ancora di più, quando ho realizzato che eravamo pronti al decollo e stavo partendo senza aver accennato nulla né a mia madre né a mia sorella.
 
Ho un ottimo rapporto con entrambe.
 
Credo di poter dire che sanno tutto di me e viceversa.
 
Di sicuro non ho mai dovuto mentire sulla meta o le motivazioni alla base dei miei viaggi.
 
Questa volta però è diverso.
 
Non sono in volo per una destinazione esotica.
 
Non sto andando ad un concerto.
 
Non mi hanno invitato ad una festa esclusiva.
 
Di fatto, non so che diavolo stia facendo qui, a cento metri dalla staccionata dell’abitazione che riconosco immediatamente.
 
Non lo so davvero.
 
Suppongo di aver taciuto su Cedar Rapids perché so già che sarà un fallimento.
 
Il genere di cosa da tenere per sé.
 
Di un granchio preso cinematograficamente parlando, sarei il primo a ridere, coinvolgendo senza problemi mia madre, Hannah e Zach.
 
Ma qui si tratta di mio padre e il discorso cambia.
 
Non c’è nulla da ridere.
 
Anche il dolore altrui tornerebbe a galla alla minima menzione di lui.
 
È troppo pericoloso.
 
Che sia tornato in Iowa, dopo il divorzio, è stata una scelta concorde alle proprie origini, fatta da un uomo che ha sempre amato molto lo Stato in cui è nato. I ritmi di una vita con delle certezze di fondo e poca frenesia, poco rischio.
 
Avevo sei anni quando ci siamo trasferiti in California.
 
Mia madre credeva, dimostrando un’indubbia fiducia in me, che potessi fare mia una qualche carriera artistica, magari in pubblicità, e Los Angeles era il luogo migliore per provarci.
 
Vedevano la vita in maniera diversa, i miei, per questo la loro separazione non è stata sorprendente, bensì il risultato di una parabola personale discendente, influenzata da obiettivi e aspirazioni in buona sostanza opposti.
 
La gradualità delle circostanze, l’abitudine all’assenza di mio padre, man mano sempre più marcata… è stato naturale considerare mia madre come l’unico punto di riferimento solido nella mia vita, proprio lei che aveva abbandonato la concretezza dell’Iowa per il sogno volubile della California.
 
Cinquanta metri.
 
Ho le spalle completamente bagnate.
 
Accelero il passo.
 
Il quartiere è cambiato, gentrificato.
 
Villette a schiera su ambo i lati della strada. La pavimentazione del marciapiede è interrotta in maniera modulare da aiuole nel mezzo delle quali si erge il fusto imponente dei cedri che ricorrono nella topografia cittadina. La resina cola lenta dalla corteccia, oggi come allora. Ne percepisco tutto ad un tratto l’odore.
 
Attraverso le strisce portandomi sull’altro lato del viale.
 
Numeri dispari.
 
Il mio domicilio è appunto segnalato da una cifra così.
 
Venti metri.
 
Cammino e registro attivamente dettagli vecchi e nuovi. Ad esempio, cosa ne è diventato del primo piano del palazzo in fondo alla strada, vicino l’intersezione che conduce in pieno centro cittadino.
 
Un tempo ospitava uno degli esercizi commerciali dei miei.
 
L’insegna luminosa di un supermarket in franchising testimonia che la nostra deli/*** non esiste più.
 
Riaffiora al palato il sapore corposo dei sandwich al pastrami e quello piccante della torta al rabarbaro.
 
Passavo i pomeriggi tra quegli odori, la preparazione dei tanti cibi sul menù studiato da mia madre, mentre ero alle prese con i primi compiti di scuola, seduto al tavolo che dava su una piccola area giochi.
 
Sono ricordi che mi pesano addosso come piombo.
 
La mano raggiunge d’istinto il taschino del giubbotto di jeans, alla ricerca del bistrattato pacchetto di Clove, ma freno l’impulso di accenderne un’altra. Sono praticamente arrivato.
 
Fradicio, teso e con una grande voglia di mangiarmi le unghie. Ho promesso ad Ellen/**** che avrei smesso, ma è un vizio radicato. Ho delle mani oggettivamente brutte: unghie cortissime e pellicine spesso sanguinanti. Non c’è una sola persona che non se ne sia accorta guardando “Il Signore degli Anelli”.
 
Sconfiggo la tentazione di girare i tacchi e tornare in aeroporto così come sono venuto.
 
Anonimo e insignificante, sotto la pioggia che tamburella sull’asfalto così come fanno i dubbi nella mia testa.
 
Prendo tempo ed osservo l’abitazione dall’esterno.
 
È uguale ad allora.
 
Ulteriori ricordi si aggiungono ai precedenti. Mi rivedo correre dietro Zach come un’ombra fastidiosa e poi giocare con Hannah sugli scalini del portico. A mia sorella piacevano le bambole allora. Punk lo è diventata crescendo.
 
Anche il colore delle mura è lo stesso.
 
Il giardino invece è diventato sempreverde – maschile, in un certo senso.
 
I fiori di cui si occupava mia madre sono scomparsi.
 
Imbocco il vialetto d’ingresso.
 
Intravedo la luce accesa attraverso la vetrata di quello che era, a memoria, il salotto.
 
Troverò senza dubbio qualcuno in casa, ma di chi si tratti davvero, lo scoprirò soltanto se mi riceveranno.
 
Non ho letto il nome del proprietario sulla cassetta della posta.
 
Non lo leggo nemmeno vicino il portone.
 
Sono al riparo dal temporale finalmente, sotto il portico di legno bianco, ben tenuto. Pitturato di recente.
 
Ho le gambe molli e lo stomaco in subbuglio quando premo il campanello.
 
Fotogrammi di un Halloween quasi preistorico. Gli amici del quartiere che ci visitavano giocando a dolcetto e scherzetto e specularmente, io le loro case, con la stessa domanda sulle labbra: “Trick or treat?”.
 
La porta si apre senza che venga chiesto chi è.
 
Ed eccolo lì, sullo stipite.
 
Warren Wood.
 
Mio padre.
 
“Elijah?”.
 
La voce è roca, familiare, così come il viso, segnato in maniera distinta dal passare degli anni, rimanendo però riconoscibilissimo. L’immagine del cinquantenne che ho davanti si soprappone a quella del trentacinquenne delle polaroid custodite in vecchi album che nessuno sfoglia più.
 
“Elijah…”.
 
Un tono interrogativo prima e attestante l’attimo successivo.
 
Warren non dissimila minimamente la propria sorpresa nel vedermi comparire dal nulla.
 
Avrà mai letto di me sui giornali, visto qualche film in cui ho recitato? Seguito da lontano la mia crescita non soltanto artistica? Oppure i ricordi sono legati anche per lui a degli scatti ingialliti dal tempo?
 
“Hi, Dad”.
 
Lo saluto come se lo avessi visto il giorno prima.
 
Senza dichiarazioni plateali di amore filiale.
 
Lui nemmeno me ne offre.
 
Fa soltanto un passo indietro.
 
Un modo di invitarmi ad entrare, credo, eppure quanto percepisco è l’esatto contrario.
 
Non smette di fissarmi.
 
Dai vestiti bagnati alle mani mangiucchiate e strette a pugno, in una posa passivo-aggressiva che non riesco a controllare. Sono metaforicamente pronto a colpire se provocato.
 
Rifiutato.
 
Il borsone da viaggio che ho imbarcato è capiente e Warren sembra studiarlo con attenzione, ipotizzare uno scenario che nemmeno io ho ben chiaro. Aver portato diversi vestiti con me non vuol dire che ho fatto chissà quali calcoli riguardo la durata della mia visita. Rimarrò un giorno? Tre giorni? Una settimana? È questo il problema? Non mi vuole tra i piedi troppo a lungo?
 
Tutto rimane nella mia testa, ma l’irritazione che provo è gridata a pieni polmoni dalla rigidità con cui respiro, la serietà con cui ne sostengo lo sguardo.
 
È qui che mio padre accenna un sorriso.
 
Un pugno in pieno stomaco.
 
Non me lo aspettavo.
 
Non so come interpretarlo.
 
È inaspettatamente cordiale quando riapre bocca: “Entra in casa. Ti prenderai un malanno se rimani lì fuori”.
 
Lo seguo nell’atrio senza proferire parola, lucido quanto basta per notare che la carta da parati è scomparsa dalle pareti, sostituita da una vernice pastello.
 
Mi impongo di modulare diversamente il respiro, come se si trattasse di un esercizio di recitazione.
 
Mi impongo anche di dimostrarmi meno nervoso, fragile, davanti all’uomo che sono venuto a cercare dopo dieci anni di telefonate, lettere e visite mancate.
 
Come rapportarsi con un genitore assente?
 
Come rapportarsi con un figlio assente?
 
Nessuno dei due ha le idee troppo chiare.
 
Forse se fossi stato più loquace o affettuoso vedendolo uscire sul pianerottolo.
 
Forse se avessi finto tutto quanto non sono riuscito ad esprimere, poggio il borsone a terra, notando la pozza d’acqua che si è formata ai miei piedi.
 
Dovrei cambiarmi.
 
Non ho intenzione di ammalarmi.
 
Obbligare mio padre ad occuparsi di me in quel modo.
 
Mi sposto però in cucina, una stanza perfettamente in ordine e dall’aspetto accogliente.
 
Il bollitore elettrico è acceso.
 
Qualcosa di caldo da bere. Non è una cattiva idea.
 
Mi tolgo il giubbotto greve di pioggia e lo appendo ad una sedia.
 
Mio padre mi raggiunge allora, uscendo da quella che ipotizzo essere rimasta la lavanderia. Mi lancia un asciugamano che afferro al volo e con cui mi tampono come meglio posso i capelli.
 
Mi siedo nel momento esatto in cui vedo offuscarsi i contorni della credenza appartenuta alla mia bisnonna. I limoni che decorarono il copritavolo perdono altrettanto improvvisamente forma, diventando un ammasso indistinto di giallo.
 
“Un tè, Elijah?”.
 
Scuoto la testa, rimettendo a fuoco la stanza. “Un caffè. Preferirei un caffè”, rispondo educato e incredibilmente a disagio.
 
Warren annuisce, versando due cucchiai di Nescafé in una tazza. A quel punto aggiunge l’acqua e allinea sul tavolo tovaglioli di carta, cucchiaini, una zuccheriera, del latte.
 
Senza fronzoli, ma perfetto dal punto di vista formale.
 
“Zucchero?”, inquisisce, fissandomi diritto negli occhi. Suppongo siano lucidi. Sto bramando una doccia, un letto e un viaggio di ritorno a casa. Quella vera, a Venice, in prossimità del mare, con mia madre e quella monella appiccicosa di Hannah per vicine e confidenti.
 
“Due zollette, grazie”. Visto che siamo giocando ai gentiluomini, faccio anch’io la mia parte.
 
“Latte?”.
 
“No, I like it black”.
 
Prendo il mug che mi viene porto.
 
Mi tremano impercettibilmente (o quasi) le mani.
 
Freddo, nervosismo, stanchezza.
 
Avrei un milione di motivazioni da addurre.
 
Il caffè ha un buon sapore. Non ne avevo mai bevuto tra quelle mura.
 
Osservo mio padre tagliare una fettina di limone per il proprio tè.
 
È l’unica frivolezza che si concede per alterarne il sapore.
 
Non lo sapevo.
 
Ne ignoro i gusti in toto o comunque, nei miei ricordi lo vedo più spesso con una birra in mano, accompagnando una pizza o della carne alla brace.
 
Senza volerlo, Warren imita i miei gesti, rivolgendo i propri pensieri alla tazza che tiene tra le mani.
 
Ben salde, le sue.
 
Curate.
 
Nessun segno evidente di lavoro manuale propriamente detto.
 
Dopo il trasferimento in California aveva iniziato ad occuparsi di vendite.
 
Come si sia reinventato qui a Cedar invece, non l’ho mai saputo.
 
“Ti dispiace se accendo una sigaretta?”.
 
Mio padre fa cenno di no.
 
Mi guardo intorno, allora, alla ricerca di un portacenere.  
 
Lo avvisto sulla credenza.
 
Ha l’aria di non essere mai stato usato prima.
 
Un souvenir delle Bahamas – ceramica dipinta ad olio con maestria.
 
“Posso?”, chiedo ancora una volta facendo sfoggio di buone maniere, ignorando se ci sia un legame affettivo tra Warren e il posacenere.
 
“Puoi…”.
 
La risposta è quanto di più breve e asciutto potessi aspettarmi, ma il tono equivale a un attacco personale.
 
Vi trovo insito un rimprovero.
 
Il solito rimprovero.
 
Difatti.
 
“… ma suppongo che potresti darci un taglio con quel veleno”.
 
Non gli do tempo di aggiungere altro.
 
“Affrancati la paternale”, lo blocco immediatamente.
 
Non ha il diritto di farmi la morale.
 
Come genitore non è mai andato oltre la facciata ed è a quella che lo relego adesso.
 
Quelle che fisso quando poggio sul tavolo il pacchetto sono due iridi impenetrabili.
 
Il muro contro muro mi fa accendere l’ultima sigaretta rimasta come se nulla fosse, aspirando vorace la prima boccata dal retrogusto di mentolo. Da lì alterno il tabacco al caffè, divenuto tiepido.
 
Osservo estraniato la nube di nicotina che esce dalla finestra socchiusa, mentre mio padre finisce il proprio tè con sorsate lunghe e fin troppo misurate.
 
Fuori impazza una pioggia torrenziale.
 
“Devo uscire. Hai bisogno di qualcosa?”.
 
“No… niente”.
 
Warren mi trafigge con uno sguardo che mi inchioda al muro.
 
“Fai come se fossi a casa tua, mentre sono via”.
 
È il suo turno di delimitare i campi adesso, di specificare il ruolo che ho io nella sua vita.
 
La comparsa.
 
Un ospite che non si manda via per mera cortesia.
 
Non cedo alla tentazione di gridargli contro che, maledizione, questa è casa mia.
 
Non rispondo alla provocazione.
 
Mi ripeto che la mia vita, quella vera, è a Los Angeles e che lui non ne fa parte.
 
Spengo la cicca nel souvenir.
 
Il volto sorridente di una delle bahamensi rimane sfregiato dal fuoco.
 
_________
 
/* Brano dei Marilyn Manson;
/**Slang losangelino per indicare una persona del posto;
/*** Deli è il diminutivo “Delicatessen”, negozio di specialità alimentari di origine straniera (le cosiddette “prelibatezze”), assimilabile a una salumeria nella quale si vendono anche sandwich e/o pasti caldi;
/**** Host del programma cult negli USA “The Ellen Degeneres Show”.
 
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L'angolo dell'autrice...


"Il protagonista di questa storia è Elijah Wood e il suo rapporto con la famiglia, gli amici, il successo. Detto così sembra tutto molto semplice, ma questa storia è intensa. Contiene tante e tante sensazioni e proprio come nella realtà, e come da titolo, si fa ben vedere che non sempre c'è un “perché” alle cose. Raccontata in prima persona, riesce nell'intento di desiderare di farsi leggere fino alla fine".

Questo è stato il commento lusinghiero di Erika alla mia storia, classificatasi al secondo posto del XV concorso di scrittura a tema indetto sul sito (“Fanfic su celebrità”).
Forse non è proprio il tipo di racconto che ci si aspetterebbe trattandosi di un personaggio famoso, ma l’idea è nata per caso, dopo aver letto quest’intervista, e ho seguito la cosiddetta Musa.
Se dovessi riassumerne la trama con un paio di frasi direi che si tratta di un tuffo nel passato che non ha la pretesa di risolvere nulla, né l’ipocrisia di addolcire con della retorica semplicistica situazioni emotivamente complesse.
L’ispirazione me l’hanno fornita su un piatto d’argento gli Smashing Pumpkins.
Il titolo è tratto da una loro canzone e riassume alla perfezione l’incapacità di spiegare il crearsi di determinate circostanze. È lecito chiedersi il perché, ma non sempre si otterranno delle risposte. 
I titoli dei singoli capitoli anche corrispondono a quelli di tracce musicali, citate da Elijah qua e là e che hanno un legame reale con la sua persona (ma non sempre con quanto narrato nel capitolo in sé).
Terminata la pubblicazione della storia condividerò una playlist così da ricrearne il mood anche sonoramente.
Non c’è nulla di dinamico nella narrazione, al punto da poterla definire una non-azione.
Molto di quanto accade, avrete notato, passa per la testa e il cuore dei personaggi.
Grazie per aver letto questo primo capitolo e a presto,
-N
 
  
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