Imperatori e Re
Torino, 8 luglio 1805
A Sua Eccellenza il Marchese Umberto Terzi Prefetto di Novara
Torino, 8 luglio 1805
Torino, 8 luglio 1805
Eccellentissimo Prefetto,
sono stato informato del gran numero di incendi che sta devastando i boschi della Vostra Prefettura. D’ora innanzi, chiunque sarà sorpreso nell’atto di appiccare un incendio in un bosco sarà fucilato sul posto. Se dovessi venire a conoscenza di un altro incendio scoppiato nel territorio di Novara, ci sarà un’unica fucilazione, da me personalmente ordinata.
Napoleone
Bonaparte consegnò il foglio, senza rileggerlo, a uno dei suoi segretari e contemporaneamente gli domandò:
– E’ arrivato il Conte di Canterbury?
– Sì, Maestà, l’Ambasciatore inglese è arrivato e attende nella terza anticamera, la Sala delle Vittorie.
Napoleone si alzò dalla sedia e si consegnò alle cure del valletto che ne completò la vestizione.
In cinque anni, dopo la presa di Torino e la vittoriosa battaglia di Marengo, molte cose erano cambiate e la potenza di lui era cresciuta a dismisura.
La Spagna era stata conquistata e affidata al governo del fratello Giuseppe. Da lì, Bonaparte controllava la rotta atlantica e inviava periodicamente delle navi davanti alle coste britanniche, in attesa di pianificare l’invasione dell’isola.
La parte più meridionale della Francia, quella vicina ai Pirenei, era, da cinque anni, sotto il controllo di lui e tale controllo si era spinto fino alla costa orientale, con l’effetto di chiudere ogni sbocco sul Mediterraneo al territorio rimasto sotto i Borboni.
Oltre alla Sardegna, Napoleone aveva conquistato la Corsica, l’Isola d’Elba e Malta, divenendo, quindi, il padrone incontrastato nel Mediterraneo occidentale.
Dopo avere occupato il Regno di Sardegna, aveva esteso il suo dominio in tutto il nord Italia e, da lì, poneva in essere molteplici tentativi di minare l’autorità del Papa, a sud e dell’Imperatore, a nord.
Ormai, si faceva chiamare Imperatore di Francia, di Elba e di Corsica e Re d’Italia e, entro pochi mesi, si sarebbe celebrata, a Torino, la cerimonia della solenne incoronazione che, secondo i desideri del neo monarca, sarebbe avvenuta per mano di Pio VII in persona.
Dopo che il valletto ebbe terminato il suo lavoro, Napoleone si diresse a passo svelto e deciso verso la Sala del Trono.
Il Conte di Canterbury non gli era simpatico. Era un aristocratico inglese e queste due caratteristiche che, già separate, glielo avrebbero fatto guardare con sospetto, unite insieme, lo rendevano intollerabile. Non sopportava i modi eleganti dell’Ambasciatore, secondo lui, mirati a far sentire inferiori gli altri. Ne detestava la flemma che, in totale antitesi con il proprio iperattivismo e nervosismo, faceva sembrare qualunque gesto e comportamento del nobiluomo compiuto con degnazione e riluttanza, quasi a voler fare un favore all’interlocutore.
Napoleone aveva, però, compreso che, malgrado le apparenze, sotto il carattere mite e l’indolenza squisitamente britannica, il Conte di Canterbury celava un forte orgoglio, tipico della sua razza, una mente lucida e una volontà d’acciaio e questo non avrebbe agevolato l’ottenimento del risultato che egli si prefiggeva.
Come se non bastasse, l’Ambasciatore era un lontano parente dei de Jarjayes e ciò aveva messo la parola fine alla possibilità che si sarebbero mai potuti piacere. Quella dannata famiglia tornava sempre a incrociarsi con lui…
L’Imperatore prese posto sul trono e le porte che collegavano il salone all’anticamera furono aperte.
Il Conte di Canterbury varcò la soglia e si inchinò a Napoleone. Attraversò la sala fino ad arrivare davanti al trono e si inchinò nuovamente.
Subito dopo la presa del Regno di Sardegna, l’Inghilterra aveva dichiarato guerra a Bonaparte, con conseguente rottura dei rapporti diplomatici e chiusura delle ambasciate in tutti i territori da lui soggiogati. Una missione diplomatica era, tuttavia, stata inviata per tentare di riaprire almeno in parte le trattative ed era stata affidata al Conte di Canterbury che più di ogni altro, in Inghilterra, aveva patito l’ascesa napoleonica, essendo rimasto agli arresti domiciliari per quasi due anni, a causa degli intrighi del Duca d’Orléans, del Conte di Compiègne e dello stesso Generale corso.
L’Ambasciatore non provava simpatia per il nuovo monarca che gli sembrava dispotico, politicamente opportunista e assolutamente infido. I modi bruschi e spiccioli, talvolta ai limiti della maleducazione, che egli esternava lo disturbavano. Comprendeva, tuttavia, di trovarsi in presenza di un genio militare che avrebbe potuto tenere il mondo in scacco per decenni, se non fosse stato opportunamente arginato.
La realtà pura e semplice era che Napoleone rappresentava una variabile impazzita in un mondo fatto di dinastie plurisecolari e di equilibri sedimentati. Non essendo mai stato desideroso né capace di adeguarsi alla realtà circostante, aveva imposto agli altri la propria, con tutti i suoi enormi pregi e gli altrettanto immani difetti.
Il Conte di Canterbury diresse un fugace sguardo alla tela ovale del pittore fiammingo Jan Miel che adornava il soffitto, raffigurante il trionfo della pace e sorrise dentro di sé per il controsenso.
Bonaparte notò l’espressione dell’Ambasciatore e ne restò contrariato, attribuendola all’albagia di lui.
– Avete avuto modo di riflettere su quanto ci siamo detti nel corso del nostro ultimo colloquio, Conte di Canterbury? L’Inghilterra auspica la pace con noi?
– L’Inghilterra persegue sempre la pace, Maestà, in quanto fonte di prosperità e di libero commercio, ma essa si deve attuare attraverso la collaborazione delle potenze europee e non sotto il peso egemonico di una sola di esse che schiaccia e umilia le altre.
– E’ giusto e naturale che siano i vincitori a dettare le condizioni.
– Ma Voi non ci avete ancora sconfitti.
– Vi rifiutate di riconoscere il nostro potere sui territori che abbiamo regolarmente conquistato e dite che siamo noi a non essere collaborativi!
– Un governo deve essere legittimamente costituito e riconosciuto dalle diplomazie e dai popoli. Soltanto così, si può passare da una fase bellica a una di consolidazione degli assetti che sia stabile e duratura.
– Sono gli altri Sovrani e in particolare il Vostro a non riconoscerci come loro pari e a rifiutare la pace!
– E’ molto difficile confidare nella pace con la Vostra flotta che naviga sempre più spesso in prossimità delle coste inglesi, Maestà. Richiamate le Vostre navi, se volete che si discuta di pace.
– E Voi inglesi finitela di imporre dazi esorbitanti sulle merci che provengono dalla Francia.
– Gli inglesi non impongono alcun dazio alle merci che provengono dalla Francia – rispose il Conte di Canterbury, evidentemente riferendosi alla Francia di Luigi XVII e di Maria Antonietta e non alla parte meridionale, occupata da Bonaparte.
Napoleone colse l’allusione e ne fu oltremodo contrariato.
– Bene, Ambasciatore, neanche questa volta siamo riusciti ad appianare le nostre divergenze. Portate i nostri rispettosi omaggi alla Vostra eccellente Signora.
Il Conte sorrise mentalmente, pensando ai vari e vani tentativi di Bonaparte di sedurre la Contessa di Canterbury. Si inchinò all’Imperatore, indietreggiò senza dargli le spalle, si inchinò di nuovo e uscì dalla stanza.
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Nei giardini reali, il Conte di Canterbury si ricongiunse alla moglie e al cognato.
La quarantaduenne Contessa Victoire Aurélie conservava lo spirito e la bellezza dei suoi anni giovanili, sebbene i lineamenti e il fisico fossero lievemente appesantiti dal trascorrere degli anni e dalle gravidanze.
Il Marchese Camille Alexandre de Saint Quentin era, ormai, un trentunenne di bell’aspetto, dal viso aperto e franco e dai modi cortesi e gioviali. Era giunto a Torino una settimana prima, per fare visita alla sorella e al cognato.
– Come è andato l’incontro con l’Imperatore? – chiese la Contessa al marito, già prefigurandosi la risposta.
– L’Imperatore rimane fermo nelle sue posizioni, mia cara, ma Vi porge i suoi rispettosi omaggi – concluse con ironia.
La Contessa di Canterbury accennò un sorriso divertito, pensando alla corte insistente e neanche troppo discreta di cui era stata in passato “rispettosamente omaggiata” dal trionfatore corso che, da quando aveva conquistato il potere e aveva deciso che una corona era un copricapo migliore di un semplice bicorno di feltro, si era anche riscoperto un accanito tombeur de femmes.
Mentre si dirigevano verso il deposito delle carrozze, incrociarono una giovane donna molto bella che camminava nella direzione opposta alla loro. Coi suoi occhi dal colore blu profondo, fissò intensamente il giovane Camille Alexandre e non abbassò lo sguardo neppure quando lui la notò e, con imbarazzo misto ad ammirazione, la guardò a sua volta, restituendole un timido sorriso. Con passo agile e aggraziato, la donna li raggiunse e, dopo averli superati, proruppe in una fresca risata.
Quando finalmente furono saliti sulla carrozza, al riparo da orecchie indiscrete, poterono parlare più liberamente.
– Bonaparte discute di pace per ingannarci e indurci a deporre le armi, ma conserva la sua anima da predatore. Credo proprio che, un giorno o l’altro, pianificherà l’invasione dell’Inghilterra – disse il Conte di Canterbury, con rabbia mista ad apprensione.
– Non crucciateVi, Cedric, l’Inghilterra è protetta in mare dalla Royal Navy, la migliore flotta dell’Europa e del mondo intero – rispose la Contessa.
– Il punto è che, quando la megalomania si mischia al coraggio e all’audacia, c’è da aspettarsi di tutto. Noi inglesi siamo portati a sottolineare gli aspetti negativi di Bonaparte e quelli caricaturali, nelle vignette satiriche che circolano su di lui. Non dimentichiamoci, però, che quell’uomo ha anche un’immensità di pregi: è geniale, coraggioso, intraprendente e, cosa terrificante, sa ammaliare le folle col suo mito di dispensatore di uguaglianza sociale. Il più grande paradosso, invece, è che egli porta con sé la tirannide e l’oppressione mentre l’uguaglianza consiste nel fatto che sono tutti indifferentemente sottoposti allo stesso giogo.
– Le folle non sono stupide, mio caro e io sento molte lamentele sia fra gli aristocratici sia fra i popolani. C’è molto malcontento per le violenze e le razzie dei soldati napoleonici e, malgrado i proclami di severità, l’Imperatore non può certo fucilare tutti i soldati che si sono macchiati di crimini contro le popolazioni conquistate. Al massimo, può promettere di mandare i colpevoli a combattere in prima linea, sempre che, poi, lo faccia davvero.
– Spero ardentemente che sia come dite Voi, mia cara. Nel lungo periodo, penso che Bonaparte sarà sconfitto. Esercita il suo potere senza alcuna legittimazione storica, su territori sottratti ai loro naturali Sovrani. Non potrà vincere in eterno né tenere testa per sempre a un intero continente coalizzato contro di lui. E’ il breve periodo che, invece, mi terrorizza… Se riuscirà ad attraversare la Manica e a sbarcare sulle nostre coste, per noi inglesi, sarà un disastro, visto che l’esercito di terra non è forte come la Royal Navy.
– Eppure, ci sono dei validi ufficiali anche nell’esercito di terra. Avrete sicuramente sentito parlare anche Voi del Maggior Generale Arthur Wellesley, recentemente insignito del titolo di Baronetto.
– Già, Sir Arthur Wellesley… Un valido Generale e un uomo d’onore… – le fece eco il marito – Perché avete quell’aria trasognata, Cognato? – aggiunse, poi, cambiando discorso e rivolgendosi al Marchese Camille Alexandre.
– Chi è quella splendida dama che abbiamo incrociato all’uscita dei giardini reali? – domandò il Marchese ancora tutto infervorato da quel fugace incontro.
– Maria Paola Bonaparte, detta Paolina, la sorella dell’Imperatore – disse seccamente il Conte di Canterbury.
– E’ bella come un angelo – continuò il Marchese de Saint Quentin – e, tuttavia, ha dei modi così singolari… Nessuna gentildonna mi ha mai fissato con tanta insistenza e intensità…
– Semplicemente perché non è una gentildonna – rispose, in modo tagliente, la sorella – ma un’intrigante e libertina civetta. Non c’è giorno che non sorga una lite fra lei e Madame de Beauharnais. Toglitela dalla testa, Camille.
Il Marchese rimase immerso nel suo idillio neonato, incredulo che tanta bellezza potesse coesistere con una reputazione così poco lusinghiera.
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Londra, settembre 1805
Guardava il foglio, ma non si risolveva a prendere in mano la penna.
Sir Arthur Wellesley avrebbe dovuto scrivere a Kitty, la sua fidanzata, per farle sapere di essere tornato in Inghilterra e per rinnovarle la sua proposta di matrimonio, ma non trovava il tempo né il coraggio. Strano a dirsi, per un eroe di guerra che era sopravvissuto alle cariche degli eserciti nemici…
Ormai, non era più un Tenente spiantato e senza prospettive, il terzo figlio di un Conte irlandese morto, pieno di debiti, quando lui era un ragazzo, ma un Maggior Generale che si era coperto di gloria in India, recentemente insignito del titolo di Baronetto e proprietario di una cospicua fortuna.
Lord Thomas Pakenham, secondo Conte di Longford, non gli avrebbe più rifiutato sdegnosamente la mano della sorella Catherine.
La giovane Kitty era stata per lui una fonte di ispirazione. Il rifiuto del fratello di lei l’aveva indotto a dare alle fiamme il suo adorato violino e a dedicarsi anima e corpo alla carriera militare. Il pensiero e il ricordo di lei lo avevano sostenuto per tutti quegli anni e gli avevano infuso il coraggio e la tenacia con cui aveva conquistato la gloria.
Ogni ostacolo materiale, adesso, era rimosso.
Undici anni, però, erano undici anni. Li avevano trascorsi separatamente, in due capi del mondo diversi, senza mai vedersi né parlarsi, soltanto inviandosi qualche sporadica missiva. Erano andati avanti ognuno per conto proprio, facendo esperienze differenti e ignorando tutto l’uno dell’altra. Partendo per l’India, aveva lasciato un’innamorata. Tornando a casa, correva il rischio di trovarci un’estranea. Si sarebbero ancora piaciuti? E se si fossero trovati brutti e detestati? Ma una promessa è una promessa…
Sir Arthur Wellesley ripose il foglio nel cassetto insieme al resto della risma e si alzò dalla scrivania.
Doveva mettere a punto un’efficace strategia per difendere il fratello maggiore Richard, Governatore dell’India, dalle accuse di abuso di potere nell’amministrazione delle risorse della Compagnia delle Indie Orientali.
C’era, poi, il nodo di Napoleone Bonaparte. Quell’uomo, nato nel suo stesso anno, il 1769, rischiava di diventare un serio pericolo per l’Inghilterra e per il mondo e andava fermato. Napoleone Bonaparte doveva essere sconfitto sul suo stesso campo e, cioè, sulla terra e non in mare. Napoleone Bonaparte doveva essere fermato.
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Versailles, 1 settembre 1805
– Dite che sapete dov’è mio figlio, Madame Oscar?! Egli è, dunque, ancora vivo e sta bene? Parlate!
La richiesta della Regina racchiudeva in sé gioia e paura, speranza e incredulità. Dopo cinque anni durante i quali, nell’animo di lei, si erano rincorsi angoscia, ottimismo, fede e disperazione, arrivava finalmente una notizia attendibile, fondata su ricerche metodiche e approfondite.
– I servizi segreti sono riusciti a individuare, con ragionevole certezza, il luogo ove è detenuto il Re, Maestà – rispose Oscar che, alla devozione del soldato, univa la compartecipazione emotiva di una madre – Egli è vivo e mi auguro di cuore che sia anche in buona salute.
– Ditemi, dov’è? – la incalzò Maria Antonietta.
– Si trova in Corsica, Maestà. Il Re è stato tenuto prigioniero in diversi luoghi, ma, dopo la conquista della Corsica, il Generale Bonaparte ha deciso di trasferirlo lì. Quale migliore prigione di un’isola selvaggia, piena di montagne inaccessibili e di grotte, dove il carceriere è nato?
Maria Antonietta aggrottò la fronte, tentando di fare mente locale.
– Sarete Voi in persona a dirigere la missione di salvataggio, Madame Oscar?
– Lo farà il Colonnello de Valmy che ho personalmente addestrato sin da quando era un giovane Capitano, Maestà. Poiché non abbiamo più sbocchi sul Mediterraneo, la nave per la Corsica salperà dal porto di Civitavecchia e lì farà ritorno con il Re a bordo, dopo la liberazione. A quel punto, il Re riceverà asilo politico dal Papa, finché non sarà ricondotto in Francia attraverso lo stretto di Gibilterra, scortato da tre navi della nostra Marina Militare.
– Ritengo opportuno, Maestà, che il Generale de Jarjayes, anziché partecipare al salvataggio, vada in missione diplomatica in Vaticano – si inserì il Vescovo de Talleyrand Périgord – al fine di convincere Sua Santità a non presenziare all’incoronazione del Generale Bonaparte. Qualora il Papa non desse il suo avallo a quella… pantomima, il messaggio sarebbe molto chiaro a livello europeo: Pio VII non riconosce la legittimità del potere temporale del Generale Bonaparte. Questa presa di posizione darebbe nuova linfa alla fazione antibonapartista e incoraggerebbe sempre più potenze ad allearsi contro di lui.
– In questo modo, potrò essere io ad accogliere il Re, quando questi sarà sbarcato a Civitavecchia – aggiunse Oscar.
– Contemporaneamente, qualcuno dovrebbe recarsi a Torino, presso la corte, chiamiamola così, di Bonaparte – proseguì il Vescovo – in modo da controllarne le mosse e da fare da filtro alle notizie che gli giungeranno. E’ vitale che Bonaparte ignori il più possibile ogni nostra iniziativa prima che entrambi i risultati siano conseguiti. Ritengo che questo terzo compito possa essere affidato al Generale de Girodel.
– Accetto l’incarico – disse Girodel, sollevato, in cuor suo, dal fatto che la scelta fosse ricaduta su di lui anziché su Oscar.
Col carattere che aveva, il Comandante avrebbe potuto perdere la pazienza, scagliarsi contro Bonaparte e compromettere il buon esito della missione. Dopo il ferimento della moglie, avvenuto nel Bois de Boulogne, come conseguenza della partecipazione di lei a una missione pericolosa, con l’avallo di Oscar e contro il parere di lui, qualcosa era cambiato nell’animo dell’ufficiale. Pur essendo ancora fedele a Oscar, Girodel non aveva più in lei quella fiducia incondizionata che lo aveva animato in gioventù.
– Non eravate un acceso sostenitore di Bonaparte, Eccellenza? – domandò Girodel al Vescovo.
– Dite bene, Generale – rispose questi – Lo ero.
Il rapimento del Re, l’assalto alla reggia di Versailles, il successivo furore bellico di Bonaparte, le pesanti sanzioni imposte alle popolazioni sconfitte e il desiderio di Napoleone di non fermarsi mai, rimettendo sempre in discussione i risultati conseguiti, avevano convinto Talleyrand che nessuna speranza poteva essere riposta nel Generale corso e che appoggiarlo sarebbe stata una follia. Quell’uomo era un distruttore e non il creatore della nuova Europa. Le potenze europee dovevano collaborare vicendevolmente nel rispetto di equilibri consolidati e non fagocitarsi l’una con l’altra, in un vortice senza fine.
– Ho udito le Vostre argomentazioni, Signori e le condivido – disse la Regina – Procederemo come illustrato dal Vescovo de Talleyrand Périgord.
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