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Autore: RedSonja    11/08/2021    0 recensioni
Durante una missione, Tanjiro viene trasportato indietro nel tempo. Con l'aiuto di nuovi, improbabili, alleati dovrà trovare un modo per tornare nel suo tempo, lì dove i suoi compagni lo stanno cercando.Ma non tutti i mali vengono per nuocere: che possa essere l'occasione per scoprire qualcosa di inaspettato sulle origini dei demoni?
Questa fanfiction è un crossover con l'universo di Inuyasha, perciò la storia si svilupperà su due linee narrative: da una parte le avventure di Tanjiro nell'epoca Sengoku, accompagnato dal gruppo di Inuyasha, e dall'altra la storia di Zenitsu, Inosuke e Nezuko, nell'universo di KnY
Genere: Avventura, Azione, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altri, Inosuke Hashibira, Nezuko Kamado, Tanjirou Kamado, Zenitsu Agatsuma
Note: Cross-over, What if? | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Capitolo 3

 

Si sentiva cullare.

Da quanto tempo non gli accadeva? Sicuramente da molto, da quando papà si era ammalato… O era prima? Non riusciva a ricordare un “prima”, solo quella vaga sensazione di protezione e calore. E poi… poi il freddo, il bianco della neve, il nero del carbone. C’è un odore dolce troppo dolce, ma non sa di buono; è quel vago sentore di passato nella crema quando è sul punto di diventare acida.

Cos’era successo dopo? Lo aveva dimenticato. Fa freddo, ma non come in una mattina d’inverno, e neppure come quando la pioggia ti gela le ossa.

Questo freddo è diverso, è un freddo che brucia; aveva sempre pensato che il ghiaccio fosse il contraltare del fuoco, ma solo ora si rende conto di quanto sia sbagliato: quello che sentiva su di sé era un gelo che ardeva quanto il sole di mezzogiorno. 

Gli secca la gola e non gli dà tregua. 

Lo fa rabbrividire e poi sudare. I muscoli sono intorpiditi e le ossa scricchiolano, quasi che il ghiaccio che sente scorrergli lungo la schiena le abbia rivestite, come i laghi in inverno, come la brina sui rami spogli degli alberi

Nonostante tutto, stava bene lì. Non c’era nulla intorno a lui, in quello strano limbo tra la vita e la morte: la terra di nessuno tra i due opposti, un interstizio senza nome tra due estremi ben definiti. La non-esistenza. 

Eppure era certo di dover fare qualcosa, qualcosa di importante, e di non poter rimanere.

Ma non ricorda.

In fondo, cosa poteva essere così importante da fargli abbandonare quel buio avvolgente, fatto di fiamme e ghiaccio? Sentiva delle voci in lontananza.

Lo chiamavano ma non capiva cosa dicevano; a volte vorrebbe dire loro di stare zitte, di non parlargli. Non voleva avere nulla a che fare con loro. Sperava che se ne andassero, che lo lasciassero in pace; è stanco, vuole riposare, se lo è meritato. Non aveva già fatto abbastanza?

Ma quelle voci si fanno sempre più vicine. 

Stava gridando? Si può gridare senza una bocca?

Il ghiaccio e il fuoco fanno a turni per tenergli compagnia.

Qualche volta si unisce a loro anche l’acqua. La sente scorrere, una carezza lungo il viso, ed è una sensazione nota.

Forse sta piangendo, non ne è sicuro; da quando si trovava lì non era sicuro di nulla.

Le voci a volte sussurrano rassicuranti, altre volte lo incalzano; Tanjiro avrebbe voluto rispondere loro che non le capisce, che gli dispiaceva, gli dispiaceva così tanto, ma avevano sbagliato persona. Non è a lui che avrebbero dovuto rivolgersi, lui aveva fallito, lui…

 

Aprì gli occhi. La stanza ruotava attorno a lui.

Aveva la nausea.

Si era svegliato, e desiderava ardentemente di non averlo mai fatto, per quanto potesse essere orribile anche solo pensarlo; aveva le labbra secche e screpolate, la lingua pesante e gonfia e non riusciva a parlare.

La stuoia su cui stava steso era dura e rudimentale, ben lontana dalla comodità di un futon, ma comunque migliore della corteccia contro cui si era addormentato… Quando era successo? Quanto tempo era stato incosciente, ma soprattutto, dove si trovava?

Chiunque lo avesse portato fin lì si era preso cura delle sue ferite: gli squarci che aveva sulla schiena e sull’addome erano stati disinfettati e bendati, con una stoffa ruvida e grezza, ma pulita. Le cure di una mano esperta, nonostante l’arredo modesto della capanna in cui si trovava.

Dunque non si era sbagliato: poco lontano dal punto in cui era svenuto doveva effettivamente trovarsi un villaggio; qualcuno lo aveva trovato e portato dal medico del posto.

Con un po’ di fortuna sarebbe riuscito a raggiungere Chiba in giornata e incontrarsi con gli altri.

Stringendo i denti, Tanjiro provò a sedersi, prima che una mano tanto decrepita quanto ferma lo afferrasse per la spalla, spingendolo giù senza tante cerimonie.

“Dove credi di andare in quelle condizioni ragazzo? Sei fortunato ad essere ancora tra i vivi. Ad essere onesta, se non fosse per il fatto che ho una certa esperienza in materia, avrei pensato che fossi un demone, visto che nonostante tutto, respiri ancora.“

Tanjiro aprì la bocca per ribattere, ma l’anziana donna, che vestiva gli abiti tipici delle miko, con gli haori rossi, e un alquanto insolita benda sull’occhio destro, non sembrava intenzionata a sentire alcuna scusa.

“Invece no, sei solo un ragazzino che, i kami solo sanno perchè, se ne va in giro da solo per i boschi e per poco non muore dissanguato alle porte del mio villaggio. Sei stato fortunato che quell’altro incosciente di Atsushi non dia mai retta e abbia deciso di andare comunque al Pozzo Mangiaossa, o avremmo trovato il tuo cadavere.”.

Ah sì, il vecchio pozzo prosciugato. Tanjiro ricordava perfettamente sia quello, sia l’enorme shintai.

“Signora, dove mi trovo?”

Il rantolo che gli uscì al posto della voce se lo sarebbe aspettato da qualcuno moribondo. Descrizione effettivamente calzante, se si teneva conto del numero di fasciature che gli avvolgevano il corpo malmesso.

La vecchia miko lo squadrò dalla testa ai piedi. Mai come in quel momento sentiva di aver capito cosa si intendesse con "uno sguardo che ti scruta nell’anima"; era evidente che la donna non si fidava di lui, né di qualsiasi cosa le avesse raccontato. Tuttavia, non c’era ostilità nel suo sguardo, non ancora perlomeno, solo quella gelida indifferenza di chi sa di detenere il potere di vita o di morte, e che non si farà scrupoli ad usarlo.

Sapeva di essere sotto esame e che dall’impressione che le avrebbe fatto sarebbe dipeso il suo soggiorno al villaggio. 

Tanjiro veniva da una famiglia modesta, perciò aveva dovuto imparare presto a distinguere chi prendeva le decisioni da chi le eseguiva, e quanto fosse importante che chi decideva avesse una buona opinione di te; chi gli stava davanti in quel momento apparteneva al primo gruppo, e non aveva dubbi quanto al fatto di non essere partito con il piede giusto.

Spiegarle la situazione sarebbe stato complesso, ma sempre meglio di una bugia, sia perchè ne era fisicamente incapace, tratto che gli altri non smettevano mai di rimarcare, Zenitsu in particolare, sia perchè se, malauguratamente, fosse stata tutta una prova, la donna non avrebbe accettato giustificazioni di sorta. 

“Sei in un villaggio. Al sicuro, per il momento. E prima che tu me lo chieda, quella bella spada che ti portavi dietro l’ho presa io. Ora, perchè non mi spieghi piuttosto cosa facevi in giro per il bosco, da solo, con quelle ferite, e come te le sei procurate?”

Per essere in un’età così avanzata, doveva ammettere che quella donna irradiava un’enorme energia. 

Anche se aveva ricevuto lo stesso addestramento della Signora Satō, e ricopriva il suo stesso ruolo, era evidente che questa vecchia fosse ad un altro livello di abilità, come una Colonna tra gli Ammazzademoni.

Tanjiro si prese un momento per riordinare le idee. Non perché dovesse pensare ad una storia da raccontarle, ma perchè doveva raccontare ciò che gli era accaduto nel modo semplice possibile. 

“So che quello che sto per raccontarle le sembrerà assurdo, ma la prego di credermi.”

Decise di interpretare il silenzio che seguì come un assenso.

“Faccio parte della Squadra Ammazzademoni, e queste ferite me le ha inferte un demone. Insieme a due compagni sono stato inviato a Chiba, per indagare su una serie di omicidi, con il compito di trovare ed eliminare il colpevole. Durante il combattimento ho perso i sensi e mi sono risvegliato in una grotta, non so dove si trova e non sarei in grado di tornarci. Ma la prego di credermi, non ho idea di che villaggio sia questo né come tornare dai miei compagni.”

L’espressione della donna rimase impassibile, mentre si alzava con un movimento meno goffo di quanto si sarebbe aspettato, considerando la sua età.

La seguì con gli occhi, mentre raggiungeva il paiolo che bolliva sul fuoco, al centro della casa, e ne versava un mestolo in un bicchiere sbeccato.

Glielo servì senza una parola.

Prima di berlo, Tanjiro ne ispirò l’odore; sapeva di erbe medicinali, sicuramente sarebbe stato tanto sgradevole da mandare giù tanto lo era da annusare, ma non avrebbe saputo stabilire la sua tossicità a priori. Il volto dell’anziana miko non lasciava trasparire alcuna emozione, ma non ne aveva bisogno di alcun indizio per capire che anche quella era una prova.

Bere o non bere, l’esito dipendeva da una sua decisione. 

Se il contenuto del bicchiere fosse stato un veleno, probabilmente sarebbe morto a breve e non avrebbe mai potuto restituire a Nezuko la sua umanità; se, d’altra parte, quel liquido fosse stata una medicina, non berla avrebbe potuto segnare ugualmente la sua fine. 

Era stato incosciente per ore, o forse addirittura giorni, e in quel lasso di tempo, la donna che si era presa cura di lui era la stessa che gli stava di fronte: per quel che ne sapeva, le sue medicazioni potevano contenere un veleno, di cui quell’infuso era l’unica cura disponibile; oppure, semplicemente, qualunque scelta avesse fatto, la guaritrice aveva già deciso che tenerlo in vita avrebbe significato un rischio inutile, programmando, fin dall’inizio, il suo risveglio, l’interrogatorio e la morte.

Tanjiro bevve fino all’ultima goccia, trattenendo a stento un conato. Si dice che una buona medicina abbia sempre un pessimo sapore, perciò quella doveva essere la madre di tutte le cure.

La donna prese il bicchiere, accennando per la prima volta un sorriso; la curva delle labbra era così impercettibile che sarebbe sfuggita a chiunque non l’avesse osservata attentamente.

“Sai, non tutti avrebbero preso la stessa decisione. Ci vuole un grande coraggio per fidarsi del prossimo.”

L’anziana gli dava le spalle, intenta a poggiare il bicchiere usato su una delle due mensole disponibili, tra ciotole e coltelli di diverso tipo.

Quando si voltò, aveva tra le mani una scodella di riso bollito.

Era un pasto poco sostanzioso, ma Tanjiro avrebbe accettato qualsiasi cibo commestibile in quel momento. Non si era reso conto di quanto fosse affamato, prima di sentirne l’odore.

Il riso era tiepido e un po’ scotto, ma non aveva la minima importanza mentre se lo portava alla bocca con le bacchette.

“La ringrazio, signora, è veramente ottimo.”

“Ma va’, è solo un po’ di riso. Piuttosto, vedi di mangiare con calma, non hai ripreso conoscenza per una settimana.”

Sedettero in silenzio, finché il piatto non fu completamente vuoto e posato al fianco della stuoia.

“Così tu saresti un Ammazzademoni, eh? Però, sei giovane per un mestiere del genere.”

Giovane? A quindici anni non era più un bambino già da molto; erano passati tre anni da quando i demoni erano entrati nella sua vita, e la metà di questo tempo lo aveva passato in viaggio con Inosuke e Zenitsu o alla Villa delle farfalle, a farsi rattoppare alla meno peggio prima di ricominciare a viaggiare in lungo e in largo per il Giappone.

“Ho iniziato ad addestrarmi a tredici anni, dopo che i demoni hanno ucciso mia madre e i miei fratelli, e l’unica sorella che mi è rimasta è stata trasformata da uno di loro quello stesso giorno.”

La donna gli passò una tazza di tè, poi se ne versò una per sé.

“Capisco. Quindi sei entrato negli Ammazzademoni per vendicarti?”

La risposta giusta sarebbe stata no; che non era diventato parte della squadra per una ragione personale, ma perché voleva impedire che altri provassero il suo stesso dolore.

Ma sarebbe stata una menzogna: la verità è che voleva Muzan morto, così che Nezuko potesse provare di nuovo cosa significasse vedere la luce del sole e lui potesse sentire di nuovo la sua voce.

Abbassò lo sguardo, improvvisamente interessato ad uno dei calli che gli martoriavano le mani 

“É così.”

La miko si portò la tazza alle labbra, l’occhio buono che lo fissava da sotto le ciglia rade; passò qualche istante prima gli rivolgesse di nuovo la parola.

“Come ti chiami, ragazzo?”

“Tanjiro, signora. Kamado Tanjiro, della Squadra Ammazzademoni”

“Io sono Kaede e ora “ si alzò di nuovo, scomparendo nell’altra stanza che componeva l’abitazione; tornò tenendo tra le mani un familiare fodero nero “è giusto che questa torni dal suo proprietario”

Allungando il busto in avanti di quel poco che le fasciature gli permettevano, Tanjiro si protese verso la nichirin; il peso familiare della spada lo faceva sentire al sicuro e pronto per rimettersi in piedi.

Certo, il suo corpo aveva altre idee, così come l’anziana miko, che intuendone le intenzioni si affrettò ad aggiungere:

“Non pensare neanche di alzarti da lì prima che siano passati almeno altri sette giorni; i miracoli non capitano due volte e tu, il tuo, te lo sei già giocato. Anzi, fammi vedere come vanno le ferite sulla schiena, credo sia ora di cambiare la medicazione”.

Senza tante cerimonie, Kaede si posizionò alle sue spalle, svolgendo con mani esperte le bende che gli attraversavano il busto.

Sotto di esse la pelle martoriata era coperta da croste di sangue rappreso e di resine medicinali che tenevano insieme il profilo slabbrato dei tagli, aderendo al filo con cui erano stati ricuciti; Tanjiro era trasalito dal dolore quando l’ultimo strato di bende era venuto via, insieme a parte di quella poltiglia rossastra.

Con l’ausilio di un panno bagnato, la sacerdotessa cominciò il lavoro metodico di pulizia delle ferite, che prevedeva la rimozione, più delicata possibile, del sangue rappreso e la riapplicazione dell’unguento. 

Quando passò su una zona particolarmente irritata, sentì i muscoli del ragazzo irrigidirsi e un sibilo di dolore sfuggirgli dalle labbra serrate; disinfettare la ferita era sempre la parte peggiore del processo di guarigione.

La “tigre del prato”* era una certezza quando si voleva una cicatrizzazione rapida, e con l’aiuto dell’infuso di salvastrella*, c’erano buone probabilità di evitare nuove emorragie. Il ragazzo aveva una tempra eccezionale per essersi svegliato dopo solo sette giorni di incoscienza, considerando che quando lo aveva trovato sotto al Goshinboku aveva perso almeno un litro di sangue, tra quello che inzuppava il kimono e quello che aveva cominciato a formare una pozza a terra.

Lo aveva fatto portare fino alla sua capanna, dopo non poche rimostranze da parte di quei pecoroni dei suoi vicini, in modo da esaminarlo da vicino e rattopparlo alla meno peggio; non aveva idea di come fosse finito vicino al Pozzo Mangiaossa, e nemmeno di come si fosse procurato quegli squarci simmetrici sul ventre e sulla schiena, ma aveva visto abbastanza feriti gravi nella sua vita da sapere che le ipotesi più plausibili fossero solo due: una guerra tra shogun o un demone affamato nei paraggi.

Difficile dire quale delle due fosse la causa senza parlare prima con lo straniero, ma se c’erano conflitti o demoni mangiauomini nei paraggi era suo dovere saperlo e agire di conseguenza.

Erano un piccolo villaggio tra territori in conflitto: non erano mancate scorrerie da parte di predoni o truppe ufficiali nel corso degli anni, anche se con l’aumentare dell’attività demoniaca, in seguito al ritorno della Sfera dei Quattro spiriti, molti dei banditi che infestavano quelle zone erano scomparsi, fuggiti chissà dove o divorati da questo o quel mostro.

Ora sapeva che conoscere la storia di quel ragazzo, sempre che fosse tutta la verità, non l’avrebbe affatto aiutata.

La Squadra Ammazzademoni era un mito, una leggenda da raccontare ai bambini prima di mandarli a letto, soprattutto in tempi bui come quelli che stavano vivendo, in cui speranze e illusioni erano le uniche consolazioni che genitori e fratelli avessero da offrire ai bambini che continuavano a nascere e morire nelle spire di una guerra interminabile.

Eppure, c’era qualcosa in quel giovane, qualcosa che le impediva di scrollare le spalle e liquidare la faccenda come una menzogna qualsiasi, di un folle o di un ladro; il ragazzo le era sembrato sincero, e la lama di quella katana che si portava dietro le aveva ricordato una vecchia storia che le aveva raccontato sua sorella molti tempo addietro, quando era ancora una bambina e Kikyo una sacerdotessa di raro potere nel fiore degli anni. Prima di Inuyasha e Onigumo, e della pira che avrebbe bruciato la sua infanzia insieme al corpo esanime di Kikyo, bella nella morte come lo era stata in vita, eternamente ferma ai suoi sedici anni.

 

Ma, se le storie erano vere, per il ragazzo non c’erano speranze, qualsiasi sforzo compisse per combattere quella battaglia eterna era destinato a fallire: i demoni si rigenerano, hanno una vita di una longevità inimmaginabile per gli esseri umani, che invece sono fragili come porcellana nelle mani di una domestica distratta, destinati a morire dopo una manciata di miseri anni, affetti dalla malattia e dalle ferite.

Lo aveva visto: Inuyasha, che lei aveva conosciuto nei suoi giorni da bambina, era ancora lo stesso, libero dai segni del tempo e delle battaglie, mentre lei era avvizzita come una quercia secolare, nei cinquant’anni che aveva sorvegliato il sacrario a cui Kikyo lo aveva sigillato.

L’Ammazzademoni avrebbe imparato quella lezione molto presto, diventando a sua volta un vecchio albero spezzato dal dolore e dalla vita, sempre che la morte non se lo portasse via ancora giovane e sognatore.

Persa in quei pensieri cupi, non si accorse di aver finito il proprio compito finchè non strinse l’ultima benda, strappando un mugolio soffocato al suo paziente.

“Ecco fatto. Ora vedi di startene buono a riposo se non vuoi che le ferite si riaprano e tutto questo lavoro sia stato inutile. Non intendo doverci rimettere le mani perchè non mi hai ascoltato, mi hai capito?

Tanjiro non avrebbe osato dire di no neanche se avesso voluto; l’unico occhio della donna lo fissava con una fermezza che non ammetteva repliche e lui era troppo stanco per ribattere.

Era comunque troppo tardi per aiutare Zenitsu e Inosuke, e in quelle condizioni non sarebbe riuscito ad arrivare a Chiba prima di morire dissanguato, ne era consapevole; avrebbe accettato l’ospitalità che gli era stata offerta, per rimettersi in sesto, prima di rimettersi in marcia per tornare dai suoi compagni.

Ma prima di tutto doveva riuscire a capire dove si trovava, e quella era la sua migliore occasione per appurarlo.

“Sacerdotessa Kaede, dove ci troviamo in questo momento?”

L’occhio che lo scrutava sembrò volergli scavare nell’anima, ma stavolta l’attesa fu molto più breve delle altre, più per mantenere un barlume di diffidenza che non per reale ostilità.

“Siamo un piccolo villaggio nei pressi di Edo, quell’accampamento militare che i Tokugawa si ostinano a chiamare città”.*

Edo? Tokugawa?

Kaede aveva continuato a parlare ma la mente di Tanjiro era ferma a quella frase e non c’era verso che riuscisse a darle un senso; o meglio, il senso ce lo aveva, ma era una situazione così assurda che non poteva credere che fosse possibile. 

Tokyo non era più Edo da quasi cinquant’anni* quando era partito, all’alba di dieci giorni prima, da Chiba, e di sicuro era tutto fuorché un accampamento militare.

La testa gli girava e lo stomaco decise che quello era il momento migliore per fargli presente che, dopotutto, non era rimasto particolarmente entusiasta della ciotola di riso bollito che aveva mandato giù un’ora prima, facendogli rimettere quel pasto frugale in un secchio che l’anziana sacerdotessa gli aveva prontamente messo davanti, allarmata dal pallore che gli aveva risucchiato tutto il sangue dal viso.

Aveva pensato di essersi allontanato da Chiba, ma non avrebbe mai potuto immaginare che la distanza avesse superato il piano fisico per estendersi a quello temporale.

Lo sconforto arrivò come una doccia gelida, le lacrime che scendevano senza ritegno dagli occhi castani, bagnando la coperta lisa che gli avvolgeva le gambe. 

Avrebbe potuto camminare per giorni, mesi, ma non sarebbe mai riuscito a tornare da Nezuko e gli altri, semplicemente perchè, ammesso che fosse arrivato a Chiba, non avrebbe trovato nessuno ad attenderlo. Il pensiero che le persone con cui aveva passato anni e che era arrivato a considerare una nuova famiglia fossero perdute per sempre, non perchè avessero smesso di esistere, ma perchè non erano ancora nate nel tempo in cui lui si trovava, era un pensiero insopportabile.

Era certo che non avrebbe mai potuto provare un dolore peggiore del giorno in cui aveva trovato i corpi senza vita di sua madre e dei suoi fratelli, lì dove Nezuko giaceva alle soglie della morte e dell’orrore, ma si era sbagliato. La pena che gli gravava sul cuore e gli impediva di respirare, nonostante annaspasse alla ricerca d’aria tra un singhiozzo e l’altro, era così straziante che persino la dura sacerdotessa ne fu profondamente scossa, mossa da un moto materno, che raramente aveva sperimentato, a cingergli le spalle tremanti in un abbraccio esitante.

Tanjiro non se ne accorse neppure, continuando a piangere finchè le lacrime non si furono seccate sulle guance, lasciandogli una patina salata che gli tirava la pelle, e un mal di testa pulsante dietro alle tempie.

Gli occhi gli bruciavano, così come i polmoni che si gonfiavano senza riuscire davvero ad incamerare aria, mentre dalla gola secca non usciva alcun suono.

Ora che il dolore era passato non sentiva nulla, se non la terribile consapevolezza di essere perso, straniero in un tempo che non era il suo, e senza nessuna idea di come tornare a casa, o addirittura se fosse possibile tornare.

La donna allentò la presa, lasciandolo libero di passarsi una mano sugli occhi irritati.

Non avrebbe capito cosa fosse appena successo se non avesse visto una scena molto simile appena un anno prima, all’arrivo di Kagome nel villaggio.

Se, come sospettava, anche il giovane ammazzademoni si trovava in un’epoca che non era la sua, non potevano far altro che aspettare il ritorno del gruppo di Inuyasha e sperare che il potere della sacerdotessa fosse abbastanza per rimandarlo nel tempo da cui proveniva, questo ammesso che fossero stati in grado di stabilire da dove era arrivato esattamente.

Con un sospiro, la donna prese la sua decisione.

Non poteva lasciarlo disperare nella convinzione che non ci fosse alcuna possibilità, anche se quella speranza era appesa a un filo talmente sottile da potersi spezzare in un secondo.

“Ascoltami attentamente -” non era certa l’avesse sentita, quegli occhi tanto vivi fino a pochi istanti prima le restituivano un vuoto che la inquietava profondamente “- ciò che sto per dirti potrebbe sembrarti folle, e di sicuro è un azzardo, ma nella tua situazione potrebbe essere l’unica soluzione possibile.”

Ancora silenzio, ma stavolta qualcosa si era mosso nelle iridi brune, accendendole di riflessi rossi che poco avevano di umano

“Quello che è successo a te oggi non è una novità da queste parti.” Un’altra pausa, e stavolta era innegabile il bagliore di speranza che aveva attraversato lo sguardo di Tanjiro, restituendogli vita e colore sulle guance pallide

“Qualche tempo fa è arrivata qui una giovane donna dal futuro, una donna dalla somiglianza incredibile con la mia defunta sorella. E con lei, è tornata anche la Sfera dei Quattro Spiriti. Quella giovane, come te, temeva di non poter mai più tornare a casa, per poi scoprire un passaggio tra le due ere.”

Ora che lo sguardo del ragazzo si era riacceso le dispiaceva doverne mitigare l’entusiasmo, ma non sarebbe stato corretto nei suoi confronti nascondergli parte della verità. Meglio che sapesse fin da subito quanto eccezionale fosse la sua condizione, e quanto incerte le probabilità di successo 

“Ma devi sapere che nessuno di noi sa come questo passaggio sia possibile, né se per te funzionerà. Voglio che tu ne sia consapevole”

Tanjiro non la ascoltava già più.

Anche se fosse stata una sola possibilità su un milione ci avrebbe provato; non gli importava quanto remota, quanto astratta o irraggiungibile fosse, il fallimento non era un’opzione.

Nezuko, Zenitsu e Inosuke lo stavano aspettando, o forse stavano piangendo la sua morte su una tomba vuota, e non si sarebbe mai perdonato le lacrime che avevano versato per lui; per aver fatto provare loro quel dolore che lo teneva sveglio la notte da tre anni.

“Mi dica dove si trova questa donna, mi dica dov’è, sacerdotessa Kaede, devo parlarle assolutamente!”

Ora che aveva un obiettivo si sentiva rinvigorito, nemmeno le ferite gli facevano più male, ma la presa decisa della vecchia guaritrice lo raggiunse prima che potesse alzarsi.

Il fantasma di un sorriso si dipinse sulle labbra raggrinzite della vecchia

“Vedo che ti sei già ripreso. Mi fa piacere, ma temo che dovrai a freno la tua impazienza: Kagome non è nel villaggio, tornerà appena le sarà possibile. E comunque tu non sei nelle condizioni di viaggiare; rimarrai mio ospite finchè non smetterai di sembrare uno appena uscito dalla tomba.”

In un primo momento Tanjiro fu tentato di insistere, di farsi dire dove fosse quella Kagome e raggiungerla, a prescindere dal prezzo che avrebbe dovuto pagare, ma le parole di Kaede erano ragionevoli: in quelle condizioni non avrebbe mai potuto spostarsi agevolmente in una terra straniera, stravolta dalla guerra.

Avrebbe aspettato, sarebbe guarito, e non appena Kagome fosse tornata avrebbe chiesto il suo aiuto: con un po’ di fortuna, a breve avrebbe potuto essere di nuovo a casa della signora Satō.

Rassegnandosi a quel riposo forzato, Tanjiro annuì il suo assenso, tornando a stendersi, in attesa che il sonno lo venisse a chiamare.

 

Inosuke si trascinava a fatica per le vie deserte del villaggio.

La ferita alla gamba gli faceva un male cane, ogni volta che respirava le costole rotte scricchiolavano senza ritegno e gli veniva da vomitare come mai gli era successo prima.

E, come se non bastasse, non solo doveva trascinarsi dietro il peso morto di Koitsu, non solo doveva fare da balia asciutta a ciò che restava della famiglia dello shogun, ma in più Gonpachiro era scomparso - si rifiutava di dare credito a quella vocina nella testa che affermava fosse finito al creatore, razza di idiota dai capelli rossi - e toccava a lui portare tutti al sicuro.

Senza contare che doveva tornare a cercarlo dopo aver scaricato le zavorre dalla vecchia strega che li ospitava.

Era meglio per Kokonpachiro  che fosse stecchito veramente, perchè se per sua disgrazia era ancora vivo lo avrebbe ammazzato con le sue stesse mani per averlo incastrato in quella situazione.

Arrivare a casa dei Katō era stata la parte più facile, se si ignorava il piagnucolio della mocciosa e le moine della madre; quasi quasi era stato tentato di darle una botta in testa, giusto per farle perdere i sensi e dare sollievo all’emicrania che sentiva crescere dietro agli occhi, ma poi avrebbe dovuto spiegarlo a fronte larga quando sarebbe tornato, e non aveva alcuna voglia di sopportare quel suo sguardo dispiaciuto che lo faceva sentire un verme.

Quindi aveva accelerato il passo, non abbastanza da distanziarle veramente, solo quel poco che gli concedeva l’illusione di essere più vicino alla meta di quanto non fosse in realtà; all’andata avevano percorso quella stessa strada di corsa, impiegandoci poco meno di mezz’ora, ma non poteva imporre quell’andatura a qualcuno che non fosse un Ammazzademoni e poi, per quanto non fosse affatto contento di ammetterlo neppure a se stesso, non era in condizione di poter fare la stessa cosa portando Monitsu a cavalluccio.

Non con la gamba e le costole in quelle condizioni, e con il rischio di svenire da un momento all’altro.

Quando la signora Satō se li era trovati davanti alla porta d’ingresso per poco non le era preso un colpo.

Inosuke sapeva di avere un aspetto tutt’altro che rassicurante già normalmente, e ne andava molto fiero in realtà, ma in quel momento ebbe l’impressione di aver passato la linea sottile tra minaccioso e terrificante, perlomeno a giudicare dal modo in cui la donna si ritrasse quando se lo trovò davanti, il petto nudo e l’haori di pelliccia rossi di sangue, una lama scheggiata nella mano sinistra e gli occhi della testa impagliata illusoriamente vivi nella luce tenue della notte.

Senza tante cerimonie le passò affianco, lasciando che fosse la vecchia a sbrigarsela con madre e figlia, prima di dirigersi verso la stanza in cui avevano dormito i giorni addietro.

Il peso del corpo privo di sensi del biondo cominciava ad essere più di un fastidio, non vedeva l’ora di scaricarlo sul futon in attesa che la vecchia venisse a rattopparlo. 

Dei tre era quello messo meglio, a parte un taglio sul braccio, era proprio il biondo.

Alla fine erano riusciti ad eliminare il demone con relativa facilità, sfruttando la sua distrazione e un po’ di fortuna

Dalla posizione supina in cui era atterrato, quando Keina aveva fatto precipitare lui e Kentaro dal piano di sopra, Inosuke non era riuscito a capire cosa fosse successo esattamente a capelli rossi; il veleno di quella strega era così forte da impedirgli di alzare il busto se non si pochi centimetri, e il corpo gigantesco del mostro non gli permetteva di vedere che cosa stesse succedendo.

 

Il gemito strozzato di Monjiro aveva attirato la sua attenzione, spingendolo ad aumentare gli sforzi. Con un po’ di impegno riusciva a muovere anche il braccio destro e le gambe, seppure a malapena; qualsiasi tossina gli avesse iniettato, doveva essere un paralizzante di potenza eccezionale per averlo tenuto giù così a lungo e continuare a dargli problemi.

Il rumore del legno che cedeva lo avrebbe fatto trasalire, se la vibrazione del colpo per il pavimento non lo avesse avvertito in anticipo.

Gonpachiro doveva essere stato scaraventato a terra, probabilmente privo di sensi, mentre la donna demone rideva sguaiatamente della sua sorte.

Inosuke non provava un vero e proprio odio per i demoni, non come era uso nella Squadra Ammazzademoni: come Kentaro, molti di loro si erano arruolati in seguito alla morte di una persona cara, avevano una ragione più che personale per desiderarne l’estinzione; ma per lui era diverso.

Inosuke non aveva una famiglia, i suoi contatti con gli esseri umani erano limitati al vecchio che lo aveva allevato e a quel idiota di suo figlio, e di certo non era per loro che era finito a combattere. 

A lui importava solo essere il più forte, e che gli altri gli riconoscessero questo primato: che lo venerassero come il grande guerriero che era, se poi quei due sprovveduti con cui viaggiava fossero sopravvissuti, tanto di guadagnato.

Per questo non aveva avuto grandi problemi sapendo che Nezuko li avrebbe accompagnati. Era la sorella di fronte larga, che fosse anche un demone a lui non importava minimamente.

Quando era riuscito a rimettersi in piedi, però, era la sete di sangue a motivarlo: non era una vittoria quella che cercava, ma una vendetta.

Per quanto non gli importasse nulla di cosa era successo allo shogun, e la sua morte non fosse altro che un danno collaterale così come tutte le altre che l’avevano preceduta, non poteva ignorare ciò che aveva fatto a Monjiro, e questo perchè lui non era stato abbastanza veloce nell’assestare il colpo.

Ormai il danno era fatto, non gli restava che eliminare il problema alla radice.

Avevano praticamente dovuto far crollare l’intero castello in testa a Keina per poterla immobilizzare abbastanza a lungo da riuscire a tagliarle il collo in uno sforzo congiunto, che comunque era costato un taglio slabbrato dalla spalla alla mano a Moitsu e altre due costole a Inosuke.

 

Portare al sicuro madre e figlia era stato piuttosto facile dopo aver eliminato il demone, anche se ciò era dovuto più ad un colpo di fortuna che non ad una reale abilità dei due: quando Koitsu aveva fatto cadere il secondo piano, le aveva spostate in uno degli angoli di ciò che rimaneva del pavimento del terzo piano, in modo che fossero fuori dalla portata degli attacchi a distanza di Keina: per quello che avevano potuto osservare, infatti, nonostante la grandezza del corpo, le dimensioni della coda da scorpione non erano allungabili e il moncherino della chela amputata da Tanjiro non si era ancora rigenerato.

Finchè non si fossero mosse sarebbero state al sicuro: Keina non avrebbe potuto usare su di loro il pungiglione se i due Ammazzademoni avessero continuato a pressarla, almeno finchè non avesse avuto di nuovo a disposizione tutte e due le chele.

Seguendo il piano originale di Kokonpachiro, Inosuke si era mosso per amputare la chela rimanente, mentre Moitsu si concentrava sul collo del demone. O, perlomeno, così le avevano lasciato credere: come era prevedibile, la coda aveva iniziato a puntare Koitsu, che facendo sfoggio della sua velocità, si stava facendo rincorrere per tutto il salone, demolendo ciò che restava della giungla in cui avevano combattuto poco prima.

Tra le assi di legno spezzate e i rampicanti staccati dai colpi del demone nel tentativo di intercettare Zenitsu, non c’era un solo spazio libero su cui poter stare in piedi.

Poco male per Inosuke, ma uno svantaggio di non poco conto per Keina, le cui zampe da insetto e la stazza notevole rendevano poco agevole muoversi in uno spazio ristretto.

Era un piano perfetto dal punto di vista di Inosuke, ma non aveva considerato un fatto molto semplice: quello che era un ostacolo per Keina lo era anche per Moitsu, la cui tecnica prevedeva un tragitto lineare e da percorrere alla massima velocità; infatti, fu proprio quella disattenzione a far rischiare la pelle a capelli gialli: durante il passo, il piede si era agganciato ad uno dei rampicanti che ingombravano il terreno rendendolo facile preda per la coda micidiale.

Inosuke era stato abbastanza rapido da frapporsi tra il pungiglione e il petto dell’amico e deviare il colpo, ma non così tanto da aggiustare la guardia; la chela destra, quella che non aveva reciso alla prima occasione, si era abbattuta su di lui, sbalzandolo di qualche passo, prima di dirigersi verso la testa di Koitsu.

Seppure a malapena, lo spadaccino del fulmine era riuscito a parare con la lama della katana, ma non a fermarla; la ferita al braccio, dolorosa ma non mortale, aveva iniziato a sanguinare copiosamente, rendendogli difficile la presa sull’elsa.

Fu di quell’attimo di distrazione che Inosuke si servì per chiudere lo scontro: stando attento a rimanere nell’angolo cieco di Keina, le era arrivato alle spalle e, sfruttando la coda come trampolino, aveva eseguito la Sesta Zanna, prima che lei potesse girarsi del tutto.

Il sorriso ferale che gli aveva squarciato il viso era certamente meno umano della testa di cinghiale che lo celava.

Rinfoderando le lame si era avvicinato a Moitsu per controllare che stesse bene; a parte il taglio sul braccio non aveva altre ferite, invece a lui la gamba e le costole facevano un male cane.

Con il veleno ancora in corpo, alzarsi e combattere era stato uno sforzo di volontà non indifferente, e ora cominciava a sentire gli effetti della respirazione continua mischiati a quelli del veleno.

Doveva trovare Kokonpachiro, e alla svelta, così potevano andarsene da lì.

Quando si avvicinò al buco nel pavimento dove avrebbe dovuto trovarsi il corpo svenuto del ragazzo, si rese conto che sarebbe stato molto più complicato del previsto: lì dove avrebbero dovuto trovarsi le fondamenta del castello c’era un abisso difficile da misurare ad occhio.

E di fronte larga nessuna traccia.

 

Gettando la testa di cinghiale in un angolo della stanza, Inosuke si accasciò contro la parete, i capelli bluastri a nascondere il viso, poggiato sugli avambracci possenti.

Ora che non aveva nulla da fare non pensare a Monjiro era impossibile.

Chissà cosa c’era sotto al castello e se c’era un modo per arrivarci; forse Gonpachiro li stava aspettando, sempre se era sopravvissuto alla caduta e non ci fossero altri demoni lì sotto.

 

Originariamente doveva solo riposarsi un po’ e poi andare a cercare capelli rossi, ma i suoi piani raramente andavano come li aveva immaginati. Anche quella volta non era stata diversa.

Finì che quella che doveva essere un’ora di sonno si trasformò in un vero e proprio letargo da cui lo svegliò il giorno dopo la vecchia strega, con un sorriso tirato e dei panni puliti da indossare, dopo che si fosse tolto di dosso il sangue rappreso.

La stanza era vuota.

Moitsu doveva averlo preceduto in cucina.

Costringendo il proprio corpo ad alzarsi, nonostante le fragorose proteste delle costole fratturate, si incamminò verso il bagno, all’esterno della casa.

La villa dei Katō sembrava ancora più vuota ora che ad occuparla erano solo in quattro, cinque se si contava anche Nezuko, probabilmente ancora addormentata nella stanza a fianco.

O perlomeno Inosuke si augurava fosse ancora priva di sensi. Non voleva essere lui a doverle dare la notizia che quell’eroico idiota di suo fratello era disperso.

Darsi una ripulita gli impiegò un’ora abbondante: il sangue era sempre una seccatura da togliere, specialmente se secco; ma la parte peggiore fu dover infilare uno yukata decisamente troppo stretto per le sue spalle. Dopo un paio di tentativi si rassegnò a lasciarlo lento e si avviò a passo spedito verso la cucina: era quasi ora di pranzo e aveva una fame da lupi, dei vestiti poco gli importava.

La padrona di casa lo intercettò prima che potesse arrivare a destinazione, costringendolo ad infilare, invece, una stanza laterale; neanche il tempo di mettere un piede dentro e lo investì un odore acre di erbe medicinali.

“Avanti caro, siediti, che quella gamba ha un aspetto che non mi piace per nulla”

Inosuke non aveva particolarmente voglia di farsi impiastricciare con chissà quale unguento, ma se fosse servito a togliersela di torno alla svelta non avrebbe opposto resistenza.

La donna gli rivolse un altro sorriso tirato, dando dei colpetti leggeri sulla stuoia di fronte a lei.

Con riluttanza, obbedì a quell’invito non verbale, stendendo la gamba interessata.

Il taglio, nonostante fosse lungo, era fortunatamente poco profondo, tanto che la sacerdotessa si limitò a disinfettarlo e a passarci sopra una pezza intrisa di un un estratto che Inosuke non avrebbe saputo identificare

“So che brucia, ma non posso bendarla prima di averla pulita.”

L’unica risposta che ottenne fu una scrollata di spalle; mentre la guaritrice si adoperava a bendare la gamba e le costole spezzate, i pensieri di Inosuke corsero di nuovo a Tanjiro.

Doveva tornare al castello il prima possibile e vedere cosa c’era sotto alle fondamenta, ma non poteva andarci in quelle condizioni, nel caso in cui ci fossero stati altri demoni nel bosco vicino, attirati dalla carneficina che si erano lasciati dietro.

Oppure…

Oppure poteva fare come Monjiro e convincere la vecchia a parlargli e a farsi dire qualcosa sul castello. A giudicare dall’aspetto non lo avrebbe sorpreso se gli avesse detto che aveva visto costruirlo.

Prese un bel respiro. Quando serviva, quel dannato fronte larga non c’era mai. 

“Senti un po’, vecchia, non è che per caso sai cosa c’è sotto al castello?”

Lo sbuffo che sfuggì alle labbra della sacerdotessa era più divertito che seccato. 

Quando le si erano presentati alla porta quei tre ragazzi con le divise da Ammazzademoni si era chiesta se sarebbero stati all’altezza; ospitandoli a casa sua, si era quasi dimenticata del motivo per cui si trovavano a Chiba e ora, quello strano ragazzo con il viso sempre coperto dal muso di un cinghiale e i modi selvatici seduto di fronte a lei, non riusciva ad allontanare la sensazione che, per quanti orrori avessero visto, fossero tutti ancora troppo giovani.

E uno aveva ne aveva già pagato il prezzo.

Di tre ne erano tornati due, in condizioni abbastanza gravi.

Inizialmente aveva creduto che l’altro fosse morto, le erano persino scese delle lacrime che non era stata abbastanza rapida a nascondere, ma poi aveva osservato come si comportavano gli altri e aveva capito: la morte dà una definitezza alla sorte di una persona.

Non c’era da domandarsi cosa ne fosse stato di lei, non c’erano preoccupazioni, solo un lutto da elaborare e una ferita che si sarebbe sanata con il tempo; ma quando non si aveva la certezza della sorte toccata ad una persona cara, non restava altro che convivere con quell’assenza, e la speranza e la rabbia che si portava dietro. Le domande, il senso di consapevolezza e quel dubbio che non si fugava mai del tutto: sarebbe stato diverso se fossi stato lì?

Megumi le aveva viste, quelle domande, negli occhi di Inosuke, e aveva aspettato che le esternasse, ma mai si sarebbe aspettata che iniziasse proprio con quella.

C’erano poche leggende a Chiba, ma quella sul “Fiume della memoria” era senz’altro la più conosciuta della zona, soprattutto perchè a chiunque venisse chiesto di parlarne la risposta sarebbe stata sempre un diniego.

Alcune storie nascono e muoiono in un certo luogo, e non sono fatte per essere ascoltate da orecchie estranee. 

Ma Megumi non era mai stata obbediente, e poi il ragazzo aveva già deciso di tornare al castello, che lei parlasse o meno; soddisfacendo la sua curiosità avrebbe potuto essergli d’aiuto, forse. 

Se avesse potuto consigliargli altrimenti lo avrebbe fatto, perchè con le sue parole quei ragazzi avrebbero rischiato la pelle per una speranza appesa ad un filo, ma era inutile tentare di dissuaderlo, questo le era chiaro.

 

Prese la sua decisione con il cuore pesante, sperando che almeno una volta in questa lunga vita che le era stata concessa, i kami stessero ascoltando le sue preghiere.

 

Gli occhi che si fissarono in quelli di Inosuke non avevano nulla della giocosa bonarietà che avevano imparato a conoscere in quel breve soggiorno; erano affilati come la lama di un coltello e duri come la pietra.

Ne fu colpito, anche se non lo avrebbe mai ammesso.

Le parole che seguirono gli fecero dimenticare ogni livido e ogni dolore, le gambe già in corsa prima che la frase fosse finita.

“Va’ a chiamare il tuo amico e la ragazza-demone. Voglio raccontarvi una storia.”

 

Angolo dell’Autrice

Sono pessima lo so, avevo promesso di aggiornare presto ma tra la tesi e altre cose che si sono concentrate in questo periodo non sono riuscita a farlo prima; tra l’altro, questo capitolo è stato difficilissimo da scrivere, e non sono nemmeno soddisfatta del risultato finale, ma mi conosco: l’ho riscritto 5 volte, se non lo pubblico adesso non lo faccio più.

Quindi eccomi qua, in ritardo come sempre, ma pronta a continuare questa avventura perchè mi rifiuto di lasciare a metà la storia (insomma mi dovrete sopportare per un altro po’)

Anche questa volta ho un paio di note da aggiungere here we go:

“tigre del prato”: è il nome popolare della Centella Asiatica. Il nome deriva dal fatto che gli animali selvatici si rotolino sui prati in cui cresce questa pianta per via delle sue proprietà cicatrizzanti (Kaede usa un unguento fatto con questa pianta per medicare Tanjiro)

“salvastrella”: è una pianta con proprietà astringeti, ossia in grado di contrastare le emorragie (è nell’infuso che Kaede fa bere a Tanjiro)

Naturalmente non sono un’erborista, prima di utilizzare qualsiasi forma di medicina omeopatica chiedete informazioni ad un medico.

Ultima cosa e poi chiudo: l’ambientazione di Demon Slayer e Inuyasha è abbastanza vaga in fatto di linea temporale. Sappiamo che Demon Slayer è successivo al Bakumatsu (il periodo in cui il Giappone si apre all’Occidente, circa fine del 1800, inizio ‘900) perchè in un episodio si vedono persone vestite in giacca e cravatta, così come alcune automobili e il treno a vapore, mentre le avventure di Inuyasha si collocano nel periodo Sengoku e non si sa nulla di più; quindi, per far capire il salto temporale nei dialoghi, mi sono presa la libertà di fare riferimento a Edo (nome storico di Tokyo, prima che diventasse capitale al posto di Kyoto,), costruita, appunto, alla fine dell’Epoca Sengoku. 

Direi che come al solito ho parlato troppo lol, scusate. Come sempre vi ringrazio per aver letto fin qui, e apprezzerei tantissimo sapere cosa ne pensate.

Alla prossima,

RedSonja

  
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