Storie originali > Introspettivo
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Autore: ClostridiumDiff2020    28/08/2021    0 recensioni
Secondo la leggenda, due giovani amanti, divisi dal fato si tolsero la vita sotto le fronde di un albero di more di gelso. Il terreno impregnato del loro sangue macchiò I candidi frutti di quell'albero che divennero scuri.
All'ombra di quell'albero William cerca di rimettere assieme le fila della sua vita. Inseguendo sogni e una fanciulla dagli occhi di smeraldo.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prologo –
 
 


All’ombra dell’albero poteva percepire la lieve brezza che gli riportava il salmastro odore del mare.
Aveva fatto il medesimo sogno, lei lo aveva osservato con suoi grandi occhi di smeraldo ricolmi di lacrime poi si era chinata per baciarlo e con la lama che giaceva al suo fianco si era pugnalata al petto.
Poteva sentire il profumo delle more di gelso, i suoi capelli scuri che gli solleticavano il volto e ogni volta si svegliava con quel senso di perdita.
Prima di arrivare in quel luogo, dopo l’incidente aveva solamente ricordi di sangue e grida.
Ma poi in quel parco, osservando le onde aveva trovato qualcos’altro, dalla profondità della sua mente erano emersi quegli occhi di smeraldo, quel bacio al sapore del sale e delle more.
Ma poi si svegliava solo in un letto sconosciuto, con quel senso di vuoto e nient’altro.
 
“Ti dispiace se mi siedo accanto te?”
Sollevò lo sguardo e un ragazzo con una camicia rosa gli sorrise.
Lo aveva visto arrivare quella mattina. Il ragazzo si strinse nella maglia cercando di nascondere alla vista le bende che aveva ad entrambi i polsi. Poi si scostò una ciocca di capelli castani dal volto in attesa.
 
Annuì e tornò a volgere i suoi scuri occhi smarriti oltre l’orizzonte.
“Mi chiamo John” esclamò il ragazzo sedendoglisi accanto.
“Mi chiamano William” rispose “ma non ho memoria di aver mai avuto questo nome.”
Il ragazzo gli prese la mano e la strinse con garbo tra le proprie. William si voltò ad osservare quel sorridente volto gentile. Aveva grandi occhi chiari da bambino, come la giada. “Credo che ti si addica, William…Ma potrei chiamarti Bill, che ne pensi? Potrebbe essere più adatto a te?”
 
Bill, quella parola aveva un retrogusto amaro ma familiare. Aspro, come un frutto acerbo dal menzognero incantevole profumo.
William scosse la testa lasciando scivolare via la mano dalla presa dell’altro. “No, William va benissimo.”
“Tu se preferisci invece puoi chiamarmi Johnny, lo fanno tutti. All’inizio mi infastidiva ma, ormai è come un paio di scarpe strette. A furia di indossarle si sformano e diventano perfette per i propri piedi.”
“Preferirei usare John”
Il ragazzo scoppiò a ridere e la sua risata giunse alle orecchie di William come un dolce scampanellio. “Non apprezzi molto i soprannomi vero?”
William scosse la testa. Non ricordava molto e quel poco appariva così sciocco e inutile. Come vuoti rituali svuotati di ogni senso o significato.
 
Sapeva di non volere lo zucchero nel tè e di non amare i diminutivi o i vezzeggiativi.
Di adorare camminare a piedi scalzi nell’erba e amare restare ore a fissare il mare da sotto quell’albero. Queste erano le sole cose che sapeva di se stesso dopo l’incidente.
 
Niente documenti, non una valigia, solo una giacca nera sporca di sangue, dei pantaloni strappati e un volto inciso da profonde cicatrici, recanti una storia che nessuno riusciva a decifrare.
Si osservava di rado allo specchio. Quei segni gli ricordavano ciò che non riusciva a recuperare facendolo solamente arrabbiare. Aveva preso a pugni la parete della sua stanza fino a farsi sanguinare le nocche, finché non lo avevano bloccato.
 
Sapeva bene dove quel sentiero lo poteva portare. Lo avrebbero dichiarato pericoloso per se stesso e per gli altri. Prima rinchiudendolo per sempre e se gli attacchi di rabbia non si fossero comunque placati, nonostante le docce gelate, i farmaci e le interminabili ore passate legato ad un letto a lacerarsi la pelle ruggendo alla notte, allora lo avrebbero cancellato dall’esistenza.
La chiamavano lobotomia transorbitale. Ne aveva già visto gli effetti su un altro paziente. Gli avrebbero piantato un punteruolo nell’occhio destro, spaccandogli il cranio, lacerandogli la mente trasformandolo in una bambola mansueta.
 
Per calmarlo, per aiutarlo a essere più sereno dicevano, ma di fatto cancellando quelle poche cose che lo rendevano ancora certo di esistere. Non si sarebbe ricordato di adorare il tè, e non avrebbe avuto più alcuna importanza in che modo lo avessero chiamato. Forse avrebbe ancora apprezzato quel profumo di fiori ma di certo non avrebbe ricordato di aver mai sognato una ragazza dagli occhi di smeraldo e a nessuno sarebbe importato. Sarebbe esistito sempre di meno fino a svanire del tutto.
Forse avrebbe vagato come un fantasma, raccogliendo sassi, alla ricerca di qualcosa che non avrebbe mai più potuto raggiungere.
 
Una mano gli sfiorò il volto facendolo sussultare.
“Scusa” gli disse John ritraendola rapido “Solo che non volevo che andasse perduta”
Una goccia salata gli scivolò tra le labbra, inumidendo il suo amaro sorriso.
Non si sarebbe ricordato nemmeno quel momento.
Anche se la sua vita era fatta di brevi scintille non voleva che si disperdessero in un asettico mare di indifferenza.
   
 
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