Anime & Manga > Lady Oscar
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Autore: settembre17    10/09/2021    12 recensioni
In questi capitoli (un po’ più lunghi del mio solito) immagino il percorso, scandito in tre tappe, che porta Oscar ad accorgersi davvero di André e di quello che la lega a lui. In ogni capitolo ci sarà anche uno sguardo obliquo su André nella prospettiva di altri personaggi.
Alla fine, è tutto un parlare di lui, ma la sua prospettiva, volutamente, non c’è.
I fatti, ben noti a tutti e già splendidamente raccontati nel manga e nell’anime, saranno solo quelli necessari allo scorrimento della trama, qualcosa sarà omesso, qualcosa sarà lievemente cambiato (metto subito le mani avanti) molto è frutto della mia immaginazione.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Seconda tappa. La vicenda si fa sempre più tortuosa. Spero di riuscire a rendere però l’idea di una certa linearità in questo percorso interiore così difficile.
Buona lettura e sempre grazie a tutti, a chi c'è dall'inizio e a chi si aggiunge per strada, a chi scrive un commento e a chi legge soltanto, non è poco e lo so.
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PROLOGO
I primi giorni i soldati della guardia l’avevano lasciato in pace: innanzi tutto pareva legato in qualche modo al loro carismatico compagno Alain, poi dovevano ancora studiarlo, infine trovavano che lui non se la cavasse male: se poteva essere gentile lo era, altrimenti si faceva i fatti suoi e stava quasi sempre in silenzio.
Nella sua camerata dormivano in otto e, quando era entrato per la prima volta, tutti avevano interrotto la mano di carte o la gara di freccette che stavano giocando per squadrarlo e poi l’avevano salutato con indifferenza. Ma con il passare dei giorni i suoi compagni si accorsero che, per motivi diversi, il nuovo arrivato non li lasciava indifferenti.
Alain lo osservava spesso, trovava quel tipo piuttosto strano: c’era del buono in lui, lo sentiva chiaramente, ma c’era anche molto mistero e questo lo innervosiva. Ad esempio lo teneva d’occhio mentre rifaceva la branda: si vede che non sei abituato a rifarti il letto, amico, fai troppi movimenti inutili. Ma era anche chiaro che a quello lì piaceva dormire in un letto fatto come si deve perché non si limitava ad alzare il lenzuolo sul materasso, no, lo tirava per bene, cioè faceva il letto immaginando come voleva che fosse alla fine, non tanto per farlo. Certo che sei proprio un bel tipo tu! Ti raccatto ubriaco marcio nella taverna più squallida di Parigi e poi fai tutto il damerino da sobrio, “figlio di un falegname”, sì, bravo, bravo. Vorrei proprio sapere chi sei tu davvero. E smettila di lisciare quel lenzuolo, mi dai sui nervi! Che poi, senti, i superiori vogliono la branda rifatta, il come non conta e, del resto, che importanza ha come rifai il letto: stasera lo disfi comunque, no? Dio, smettila.
C’era un altro tipo, un soldataccio dall’odore rivoltante, nulla in lui era pulito, né fuori né dentro: era rispettato solo perché la sua corporatura massiccia e uno sfregio sulla faccia lo rendevano ripugnante. Con lui stavano sempre due soldati che gli facevano da leccapiedi, ragazzi talmente ottusi, o forse erano solo indolenti?, che prendevano per buona qualunque idea del loro capo. Il loro intercalare tipico era sempre lo stesso: “Tu che dici, capo?”, una sorta di comoda scorciatoia del pensiero. Dato che lo sfregiato ambiva ad essere non il capo di quei due ma una sorta di vicecapo della brigata, quella strana amicizia tra il nuovo arrivato e Alain gli era istintivamente insopportabile. L’altra cosa che non gli era proprio piaciuta era che il nuovo arrivato non giocava a carte e nemmeno a freccette: diceva sempre -no, grazie-, e a lui ribolliva il sangue ogni volta. No grazie!, ma che bel damerino educato, si può sapere chi sei tu? Chi ti credi di essere? Con chi credi di avere a che fare? Qui le carte e le freccette stabiliscono ordine e giustizia: oggi ho vinto a carte e avrò il pane di quell’idiota di Gérard, tanto per dire. Alain vince quasi sempre ed è il nostro capo: se l’è meritato, non credi? Tu chi diavolo sei, invece? Da dove salti fuori? E non farti vedere mentre scrivi su quell’affare che ti porti addosso: chi ti ha insegnato a scrivere a te, figlio del popolo? Tu non mi piaci, non mi piaci per niente.
Poi c’era un tipo segaligno con l’aria saputa, aveva gli occhi molto distanziati con l’angolo esterno più basso di quello interno e il naso che pendeva decisamente da un lato: nel complesso un effetto asimmetrico che faceva simpatia. La sua mania era mettersi le dita nel naso e poi, incrociando gli occhi all’altezza della punta del naso, osservava tutto attento quello che ne era uscito. A lui il nuovo arrivato piaceva: ehi, ti ho capito io, sai? Ho capito tutto, so io chi sei tu. Ti ho osservato bene e a me, modestamente, non mi sfugge niente. Sai che si dice dalle mie parti? Si dice: guarda come mangi ed ecco chi sei. Et voilà, ecco chi sei tu: tu sei un mangione, amico mio, uno che ci dà dentro di gusto, anche se qui la sbobba fa veramente schifo; ma, ma, ma, l’ho già detto che a me non sfugge niente? Io l’ho notato sai, che tu non ti sporchi mai. Mai una patacca sulla tua bella divisa, mai il mento unto come noi cristiani. E i tuoi denti… dio santo, ma quante volte te li spazzoli quei denti? Allora, senti un po’ la mia conclusione: tu eri in servizio nella casa di un gran borghesone, caro mio, facciamo un avvocato o un dottore visto quanto sei riservato e visto che hai tutta quella mania di scrivere… e poi ti ha dato il benservito, vero?, cos’è gli insidiavi la moglie? Come darle torto, hai l’aria dello stallone, tu! Ahah, sì sì, ci scommetto la pagnotta, bel tenebroso, ti ho capito io!
C’era anche un ragazzo, il più giovane della compagnia: aveva i capelli ricci e un accenno di moustaches di cui andava molto fiero. Lui il nuovo arrivato non lo guardava mai. O meglio, non lo guardava più. Certo che l’aveva guardato il primo giorno, ma solo di sfuggita. Poi era successo quello che lui, solamente dentro di sé, definiva “le moment”: era il secondo, forse il terzo giorno, e si stavano radendo vicini, condividendo lo stesso specchio e la stessa bacinella. Ad un certo punto, lui, che era già un po’ a disagio per quella vicinanza, aveva iniziato a guardare come ipnotizzato il movimento delle mani dell’uomo che aveva vicino: mani grandi e abbronzate, il rilievo delle ossa e dei tendini che appariva e spariva nascosto dalla pelle a seconda del movimento necessario alla rasatura, le dita… le dita lunghe e con le falangi perfettamente proporzionate e poi le unghie, corte, curate, leggermente squadrate… la metà dei soldati di quel reggimento aveva le unghie delle mani mangiate fino alla pelle viva, l’altra metà non poteva dire di averle tutte e dieci sane contemporaneamente e questo qui aveva quelle dita!
E mentre era tutto preso da questi pensieri, già un po’ turbato, avvenne “le moment”: con quelle dita, con quelle mani, il nuovo arrivato, che manco si era accorto di lui, del ragazzino con i moustaches, si passò il rasoio vicino, intorno e poi di nuovo vicino a quell’osso sporgente della gola e lì le mani si mossero con maggiore lentezza, perché era un punto delicato e lui non voleva rischiare di tagliarsi, così ci girò intorno piano, molto piano, ed infine, terminato il lavoro, deglutì, facendo scorrere l’osso su e giù come era normale che fosse. Ma quello, quello che stava al suo fianco, ancora con la lama a mezz’aria, sentì un brivido caldissimo e poi ghiacciato giù giù per la schiena e finanche più giù. Chi sei tu? tu… tu sei la versione umana di quella statua di un dio greco che ho visto ai giardini del Palais Royal? Sei un demonio, che mi tenta proprio qui, dove tutto quello che sono deve essere taciuto? Devo stare alla larga da te, tu sei pericoloso.
E infine c’era un ragazzo mite, con le lentiggini e lo sguardo buono. Per lui il nuovo arrivato era davvero il benvenuto: faticava a tenere a bada il bestione e i suoi scagnozzi, che lo prendevano di mira ogni volta che Alain non c’era, e il pensiero che quel posto vuoto fosse preso da un soldato come quelli lì lo terrorizzava. Invece tu sei buono, lo sento, sei buono e sei triste, come me. Anche io sono triste e a volte penso che sarebbe più facile lasciar perdere tutto, anche tu lo pensi? No, tu no, tu hai uno scopo, lo vedo. Tu sei un uomo con uno scopo.
 

Cap. 2 Tra i soldati della guardia

 
Un pomeriggio, infine, lei arrivò. Entrò nel loro dormitorio e non attese la rivista nella piazza d’armi come avrebbe auspicato il colonnello al suo fianco. Lei voleva sorprenderli nel territorio che era loro, guardarli negli occhi quando erano a casa loro, non quando fingevano di essere a casa sua. E così, dopo essere entrata, si presentò con voce marziale e comunicò secca ed autoritaria quello che si aspettava da tutti i suoi soldati tenendo lo sguardo sul gruppo che aveva di fronte, guardandoli ma non guardandoli, concentrata sul contenuto delle sue parole, sull’ideale e non sul reale. Quando ebbe finito e seppe di aver ottenuto la loro attenzione, decise che il reale poteva farsi largo nell’ideale e iniziò a mettere a fuoco i volti davanti a sé. Se era rimasta impressionata nel vedere tutte quelle facce, quei ceffi, quegli sfregiati, quegli sguardi obliqui, nel sentire odori non consoni al suo titolo, nel considerare lo squallore di quel posto non lo diede a vedere, e fece come aveva sempre fatto davanti ai suoi uomini: vide solo soldati in divisa, soldati che le dovevano obbedienza.
Poi, fu un attimo, e lei incrociò uno sguardo a metà, lo sguardo di un solo occhio verde. Ideale o reale? Ideale… No, l’ideale per lei era stato fino a poco prima uno svedese dallo sguardo malinconico. E il reale, troppo reale, era stato lui una sera di qualche settimana prima, una sera in cui avevano rotto tutto quello che avevano insieme. I pezzi erano ancora lì, per terra tra di loro.
Per questo lei non lo stava guardando davvero, lo stava trafiggendo: che. cosa. ci fai. qui.
Lui invece sì, la guardava davvero, la guardava e nel suo unico occhio a lei sembrò di leggere: ecco come ho usato la libertà che tu mi hai dato. Ti piace?
 
Più tardi, a casa, sprofondò nella sua poltrona con un bicchiere di vino in mano e con la testa che ancora cercava di rielaborare quello che aveva vissuto. Bevve d’un fiato.
Sulla disciplina dei suoi nuovi soldati c’era da lavorare, ma questo non la impensieriva. Si versò un altro bicchiere.
Sul fatto che dovesse convincerli ad obbedire a lei, “a una donna” le aveva precisato lui, unico schierato nella piazza d’armi che le pareva più che altro la piazza dell’ammutinamento, era pronta: da vent’anni lottava silenziosamente ma tenacemente per affermare la legittimità dei suoi titoli militari. Ne bevve un altro.
Sul fatto che lui fosse lì, invece, la confusione regnava in lei. Voleva stare lì, in quella caserma? Che ci stesse. Per lei non c’era nessun problema. Prese direttamente la bottiglia. Alla fine, il vino e la stanchezza ebbero il sopravvento e si assopì, di traverso sulla poltrona, e sognò. Nel sogno, era notte, lei scappava, braccata da un lupo e dai suoi piccoli lupi che la cacciavano su per un monte e mentre correva correva senza fiato e senza meta, solo con il pensiero di non farsi prendere, cercava di chiamare lui, ma la voce era strozzata in gola e non usciva e lei, come soffocata, correva correva sola, sola irrimediabilmente sola e lui non c’era! non c’era! Non era lì vicino ad aspettare un suo richiamo d’aiuto, non era al suo fianco ad anticipare un pericolo, non era con lei ad affrontare quei lupi maledetti, dove era? Dove sei? E alla fine il lupo la raggiungeva e, invece che sbranarla, le diceva guardandola con un disprezzo glaciale “Mi hai scambiato per un lupo, vero? Ma io non sono un lupo, sono una lupa! Una lupa!” e intorno i lupacchiotti ridevano e dicevano “Ti ha scambiato per un lupo!”.
Si svegliò di soprassalto, frastornata e con la memoria nitida di quello che aveva sognato, riviveva ogni dettaglio, ogni particolare. Ma non erano le immagini a spaventarla e nemmeno le parole di quel lupo che poi era una lupa o le risate sinistre dei suoi piccoli, no. Lo spavento che la faceva tremare era l’acuta percezione dell’assenza di lui.
 
Nei giorni seguenti lo osservò come un qualunque viandante che non fosse Edipo aveva osservato la Sfinge: più lo guardava e meno capiva, più lo guardava e più lo sentiva estraneo. Eppure lui era sempre lui: la stessa persona con cui aveva condiviso tutta la sua vita, l’aveva avuto vicino giorno dopo giorno, avventura dopo avventura, con lui aveva duellato almeno due volte al giorno per anni, avevano mangiato, avevano riso, avevano parlato di cose serie e di stupidaggini. Insomma, era lui! E allora perché si sentiva così a disagio? Come se non lo conoscesse, come se non l’avesse mai visto davvero.
E più lo guardava più la incuriosiva quell’uomo, così conosciuto e così sconosciuto.
Mentre lo osservava in mezzo ai suoi commilitoni si stupiva di quanta confidenza avesse con loro e le suonava strano il nome di lui chiamato da quelle voci fino a poco tempo prima estranee nella loro vita.
Ma poi lo sguardo si incupiva e lui diventava anche quello che era passato da gridarle “Diventa una donna!” a strapparle una camicia per dimostrarle che era una donna. E lei continuava a sentirsi contesa tra due sentimenti, come se ogni volta dovesse decidere se dare spazio all’affetto o al risentimento: era capace di ignorarlo per giorni, di accomunarlo a tutti gli altri con un semplice battito di ciglia o con un asciutto commento e allo stesso tempo lo voleva sempre vicino, se doveva decidere quali soldati l’avrebbero accompagnata in qualunque tipo di azione, lui c’era sempre, lo sceglieva sempre. E lo osservava come se non l’avesse mai visto prima, come se non l’avesse mai visto davvero. Quante volte in passato l’aveva avuto davanti ai suoi occhi: lui, unico essere umano ammesso ad entrare nella sua solitudine e nella sua riservatezza, e in realtà non l’aveva mai considerato, non l’aveva mai visto davvero, mentre ora, vestito come gli altri, in mezzo a uomini più o meno della sua stazza e della sua età, lo notava sempre, anche senza volerlo, e notava come lui spiccasse ai suoi occhi tra tutti e talvolta, anche se per un brevissimo istante, in un piccolo gesto di lui, in un movimento delle mani, nella falcata della corsa o nel modo con cui reggeva le briglie, lei lo vedeva davvero.
Guardava spesso lui con Alain e, anche se faticava ad ammetterlo, vedeva due amici.
Poi, una volta a casa, stava a tormentarsi: li rivedeva darsi pacche sulle spalle, ridere a battute stupide, darsi appuntamento per una birra, aspettarsi per correre poi insieme alla piazza d’armi facendo a gara a chi si schierava per primo. Ma aveva visto anche altro: a volte stavano in silenzio per molto tempo, poi uno dei due diceva qualcosa e l’altro annuiva o faceva di no con la testa e lei capiva che lì il cameratismo non c’entrava, che quella era l’amicizia delle confidenze, dei segreti, delle cose taciute e per questo rispettate. Capiva e ne soffriva, sentiva che lui scivolava via da lei, che lui si stava costruendo un mondo suo. A volte si chiedeva se con Alain avesse mai parlato di lei.
Certo che lui era bravo a scegliersi gli amici, ammise tra sé. Tra tutti gli uomini di quella sgangherata compagnia, Alain era il migliore. Aveva scelto bene a chi concedere la sua amicizia, lui. E lei? che ne sapeva lei dell’amicizia? A cuor leggero aveva considerato per anni amico un uomo che non si era sforzata di comprendere e di guardare davvero. Si era lasciata definire “amico” da uno che credeva di amare senza nemmeno essersi chiesta che cosa lei volesse dall’amore.
E lui, intanto, andava avanti. E lei si sentiva sempre indietro.
Una notte lo sognò: le teneva la mano nella sua e la accarezzava piano sul dorso. Poi le diceva: “Guardami, sono io”, lei allora alzava lo sguardo su di lui e la sua vista si sdoppiava, vedeva due volti, poi tre, poi quattro e allora lei, spaventata, chiudeva forte forte gli occhi e scuoteva la testa furiosamente e diceva “Non riesco, non riesco! Non riesco a vederti!” e allora serrava la mano in un pugno e lui le stringeva il polso e lei lo supplicava “Così mi fai male” e lui la lasciava andare. “Scusa”, le diceva, e poi se ne andava via salutandola con una specie di saluto militare appena abbozzato.
Ma da quando dormire era diventato così difficile?
Per fortuna la disciplina militare l’aiutava molto: le incombenze erano tante e le giornate ben scandite, non c’era troppo tempo per pensare. Lei, poi, sentendosi sempre sotto gli sguardi di tutti, si imponeva senza sforzo un contegno e un dominio di sé che negli anni aveva perfezionato al punto che qualcuno la riteneva una donna glaciale.
 
Si era ritrovata a casa Girodelle, una sera. Lui aveva detto che era solo passato a salutare, ma più tardi la nonna, un po’ compiaciuta, le aveva rivelato che in realtà Girodelle la voleva sposare e che aveva ufficialmente chiesto la sua mano al generale.
Quella sera, dopo che Girodelle se ne era andato, aveva bevuto e le era venuta la sbronza allegra: a un certo punto aveva schierato sul tavolo davanti a sé tre calici, “uh, come siete eleganti” aveva pensato ridendo, e, nella mente, aveva dato a ciascuno un nome:
- Ecco qui “Stockholm”, e fece un sorriso amaro, “beaux cheveux”, e una risata soffocata a stento la costrinse a un fare un soffio a labbra strette, e questo… , si rabbuiò, questo sei… “tu”.
Le venne la sbronza triste. Guardò ciascun bicchiere senza toccarlo, cercando di vedere nel cristallo il ricordo di qualcosa che la consolasse.  Ne riempì solo uno. Poi non bevve, lo lasciò lì e andò a dormire un po’ barcollando.
Sogni confusi la tormentarono, al risveglio ricordò solo un volto indistinto di uomo che nel buio le diceva “Sei la mia migliore amica”.
 
Qualche giorno dopo lui fu picchiato a sangue dallo sfregiato e dai suoi scagnozzi che avevano scoperto che lui per anni era stato al servizio dei nobili, di lei per la precisione; lei arrivò che tutto era finito. Lui: sdraiato per terra, semisvenuto per le botte e incapace di muovere un muscolo. Vicino a lui, Alain, testimone di una dichiarazione d’amore che lei ancora fingeva di non sentire. Era la seconda volta che lui tra le lacrime rivelava il suo segreto. E ancora una volta lei non disse niente. Lo fece portare in infermeria e finse di non aver sentito la sua supplica “Non sposarti, ti prego”.
Alain aveva assistito a tutto e taceva: ecco chi sei tu, tu sei un pazzo, amico mio.
E intanto lei se ne era andata.
Ma quello che provava lo sapeva solo lei. Nessuno la seguiva a casa, nessuno la vedeva nella sua stanza. La pagina si chiudeva quando lei usciva dalla caserma e se ne apriva un’altra il giorno dopo, quando lei tornava, impettita sul suo cavallo bianco, pronta a dare ordini come ogni giorno. Ma quello che c’era in mezzo lo sapeva solo lei.
 
Incapace di affrontare lui, di guardarlo una buona volta per davvero, si limitò a liquidare l’altro, “Dovete dimenticarmi. E in fretta”, e a mandare a monte una grande soirée organizzata con l’entusiastico consenso di suo padre per trovarle un degno consorte. Pugni chiusi, dritta sulla schiena, sguardo tagliente, entrò nella sala da ballo, salutò, fece una battuta di spirito, girò sui tacchi e se ne andò: padrona della situazione, pensarono con un misto di delusione e di ammirazione tutti gli aspiranti sposi convenuti alla festa, vittima di sé stessa, pensò Girodelle, ho sbagliato tutto, pensò suo padre.
 
EPILOGO (forse)
Quando salvarono la vita al principe spagnolo, lei, lui e Alain furono sbalzati da cavallo da un’esplosione tremenda nella campagna appena fuori da un villaggio. Era una notte molto buia. Lei stava sdraiata per terra, nell’erba, e tutti i suoi sensi erano coperti di ovatta, percepiva ma da lontano, percepiva ma impiegava tempo a dare un nome alla percezione. Vide poco distante da lei un corpo svenuto. Era un uomo. Era lui. Respirava? Sì, respirava. Poi sentì un peso sul braccio, vicino al polso. Si concentrò. A poco a poco capì che quel peso era la mano di lui che la teneva stretta. Sentì che andava tutto bene e, appena prima di crollare incosciente, anche se non poteva vederlo chiaramente, per un istante, nell’oscurità di una notte senza luna, lo vide davvero: vide un’altra lei e un altro lui sdraiati in un altro prato, le mani strette, i pensieri vicini. Ricongiunse il lui di una volta all’uomo che ancora la stringeva forte e la proteggeva. Una lucciola illuminò un filo d’erba davanti a lei. Pensò che sarebbe stato bello se lui l’avesse abbracciata. O forse stava già dormendo.
Non fece sogni.
   
 
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