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Autore: Enchalott    20/09/2021    4 recensioni
Questa storia è depositata presso lo Studio Legale che mi tutela. Non consento "libere ispirazioni" e citazioni senza il mio permesso. Buona lettura a tutti! :)
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Dopo una guerra ventennale, i Salki vengono sottomessi dalla stirpe demoniaca dei Khai. Negli accordi di pace figura una clausola non trattabile: la primogenita del re sconfitto dovrà sposare uno dei principi vincitori. La prescelta è tanto terrorizzata da implorare la morte, ma la sorella minore non ne accetta l'ingiusto destino. Pertanto propone un patto insolito a Rhenn, erede al trono del regno nemico, lanciandosi in un azzardo del quale si pentirà troppo tardi.
"Nessuno stava pensando alle persone. Yozora non sapeva nulla di diplomazia o di trattative militari, le immaginava alla stregua di righe colorate e numeri su una pergamena. Era invece sicura che nessuna firma avrebbe arginato i sentimenti e le speranze di chi veniva coinvolto. Ignorarli o frustrarli non avrebbe garantito alcun equilibrio. Yozora voleva bene a sua sorella e non avrebbe consentito a nessuno di farla soffrire."
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La tela del ragno
 
Eskandar ispezionò i finimenti di Ankŭrsai e le assestò un’amichevole pacca sul collo. La vradak arruffò le piume squadrando il suo cavaliere con i fieri occhi di granato.
«Ti annoi, eh? Non sai quanto ti invidio.»
Dopo aver accettato l’incarico da Mahati, era stato convocato dall’Ojikumaar in persona: si era presentato al suo cospetto pervaso da una sensazione di pericolo. In ginocchio davanti a lui non aveva abbassato la guardia, arrovellandosi sulle ragioni della chiamata.
 
«Sei stato addestrato a salvaguardare il Kharnot, reikan
«Sono la sua ombra e il suo scudo, altezza.»
Rhenn aveva approvato con un cenno del capo, lo sguardo distante.
«Suppongo tu sia assuefatto alla circospezione. Le tue capacità e la tua avvedutezza renderebbero un servigio al regno.»
«Vivo per obbedire, mio signore.»
«Parole umili e sagge. Non mi sorprendo che tu sia tanto prezioso a mio fratello.»
Il senso di minaccia era incrementato ed Eskandar si era affidato all’intuito, dal quale non era mai stato tradito.
«Qualcuno ha osato intrufolarsi nel tempio» aveva rivelato Rhenn «Ho rinvenuto le tracce, ma lo scopo mi è oscuro. Se si trattasse di tentato omicidio o rapimento, potrebbero riprovarci. Non intendo farmi cogliere impreparato.»
«Nessun Khai oserebbe una simile nefandezza!» aveva esclamato lui.
Il principe era apparso divertito. Lo aveva studiato, vagliando la reazione indignata come per sondare un’eventuale implicazione.
Mahati aveva ragione: il primogenito di Kaniša sapeva sempre quale carta giocare e quando gettarla sul tavolo. Era stato scaltro a convocarlo: se fosse stato delegato dal Šarkumaar come spia, non avrebbe retto a lungo il doppio gioco e l’accenno alla presenza estranea sarebbe valso come avvertimento. Era un modo per escluderlo dalla partita e controllarlo da vicino.
«Dimentichi gli hanran» aveva puntualizzato Rhenn «Non hanno né devozione né onore e negli ultimi tempi c’è un bizzarro fermento tra le loro fila. È imperativo tutelare il re, ogni circostanza fuori posto va considerata con la dovuta premura.»
Eskandar aveva stretto i pugni all’implicazione dei ribelli. Si raccontava che il loro capo fosse stato un cavaliere alato di grande abilità e che, quando aveva parlato in favore degli schiavi perdendo la stima del sovrano, molti guerrieri lo avessero seguito rinunciando al clan. Anche lui aveva sperimentato una frustrante impotenza quando alcuni compagni avevano ripudiato le armi e l’orgoglio, disertato l’armata per sposare la causa della cosiddetta redenzione e non era riuscito a farli desistere.
«Come posso servirvi?»
L’erede al trono aveva esibito un sorriso compiaciuto.
«Trova il mandante, colui che si fa chiamare Elefter. Scopri se il ratto che si è trastullato al tempio è uno dei suoi e portamelo vivo.»
Aveva ammirato la mossa astuta con cui Rhenn aveva pensato di allontanarlo sia da Mardan sia da Mahati. Era conscio di trovarsi sulla lista degli uomini da non sottovalutare. Rifiutare una sua richiesta era inattuabile, soprattutto dopo essere stato messo a conoscenza della circostanza. Aveva le mani legate, ma sciogliere i nodi era una delle sue specialità.
«Consideratelo fatto.»
«Mi piace la tua risolutezza, reikan. Degna di un Khai.»
Eskandar si era guardato dal considerarlo un complimento: era un modo per ricordargli che chi possedeva il sangue demoniaco non era né un traditore né un cospiratore. Se si fosse macchiato di tali colpe l’avrebbe pagata cara.
«Come agire se scoprissi che si tratta di ladruncoli da strapazzo o di uno stolto tentativo di spiare le sacerdotesse?»
«Uccidili.»
 
Eskandar condusse il vradak fuori dal ricovero e lo allineò a quelli schierati sulla merlatura: lo stormo era pronto a tornare in battaglia dopo tre soli giorni di riposo. Si domandò se Mahati l’avrebbe guidato o se al contrario avesse deciso di ascoltare il suo spassionato consiglio, lasciandogli il comando.
Quando il Kharnot fece la sua comparsa, scrollò la testa.
Mai incontrato uno più ostinato di lui!
Eppure lo colse nell’atto di schermarsi gli occhi verso la torre orientale come a cercare qualcuno. Pensò di essere preda di un miraggio quando lo sguardo perse l’usuale freddezza: un millesimo sufficiente a convincere Eskandar che fosse andato oltre la copertina del libro.
 
Mahati spostò il mantello sulla spalla, infastidito dal caldo. Una sensazione che si sarebbe dissipata varcato il prasma verso il piovoso autunno dell’Irravin.
Sarebbe potuto restare, ma aveva optato di verificare dal vivo se Sheratan avesse approfittato del vantaggio. C’era poi quella percezione irritante che gli si era conficcata nella mente: per un’imperscrutabile ragione i nemici, privi del sovrano, senza armi da lancio e con le scorte ridotte all’osso, non erano apparsi tanto disperati quanto avrebbero dovuto. La regina non si era arresa e l’esperienza gli diceva che non si trattava di orgoglio: in quel caso avrebbe tentato il tutto per tutto in campo aperto. Amshula stava confidando in qualcosa, che fosse una nuova arma o un aiuto insperato, non le avrebbe concesso tempo.
Sollevò il viso e individuò la figura minuta della principessa salki. Lo aveva atteso al rientro e lo omaggiava alla partenza.
Tsk, cosa devo fare con lei?
L’indulgenza con cui si pose il quesito lo sorprese. Ripensò ai tre giorni trascorsi in sua compagnia e a quanto avesse appreso sul suo modo di pensare. All’assurdità di quella mattina, quando si era destato con la sua guancia sulla spalla. Nessuna Khai lo avrebbe realizzato con tanta innocenza o si sarebbe scusata per la vicinanza addebitabile al sonno movimentato, nessuna gli avrebbe strappato un sorriso.
Esiste dentro di me un altro Mahati, capace di empatizzare, di comprendere e di raggiungere l’iwatha?
Si domandò cosa sarebbe avvenuto quando Yozora sarebbe stata sua: se le emozioni sarebbero sparite dopo aver soddisfatto gli istinti carnali o se sarebbero incrementate fino a trasformarlo in un uomo diverso.
Più forte, più fiducioso, più equilibrato… è come se nulla potesse arrestarmi.
Eskandar gli rivolse un sogghigno complice.
«Il leone bianco è in caccia.»
«Tanto per cambiare. Quale preda sta inseguendo?»
«Topi. Hanno ficcato il naso nella sua tana.»
«Roditori poco accorti.»
«Già, ne esistono di più furbi. A uno di essi è stato proposto di schierarsi con il leone.»
«Lo farà?»
«Darà quell’impressione.»
Il principe rivolse all’amico un’occhiata significativa. Poi gridò il segnale di volo.
 
 
Shaeta si guardò allo specchio sconsolato, misurando l’abbigliamento assurdo e l’acconciatura con cui l’avevano agghindato.
«Per favore madre, mi vergogno!»
In cuor suo Amshula condivise la frustrazione, ma le parole non espressero accordo.
«La vita è più importante dell’immagine. Nessuno ti riconoscerà nei panni di vestale della celeste Azalee, prendila come una prova.
«Non voglio andare al tempio! Preferisco stare con te!»
La regina gli accarezzò i capelli castani, scostando il velo bianco che li tratteneva, pregando la dea della Pioggia che persuadesse la natura a rallentare la sua trasformazione in uomo. Se avesse perso del tutto l’aspetto fanciullesco, l’inganno – del quale erano al corrente Danyal e la prima sacerdotessa - non avrebbe funzionato.
«Mi costa separarmi da te, tesoro. Ma la lontananza sarà di breve durata, se invece i Khai ti catturassero…»
«Non ho paura di loro! Danyal mi ha istruito!»
Il generale avvertì una stretta al petto, ma si fece avanti a supporto della regina.
«Vostra madre ha ragione, altezza. Esistono esperienze che non passano attraverso l’addestramento o i precettori, spesso quelle che ci formano sono impreviste, lontane dalle aspettative.»
Shaeta sollevò il viso imbronciato.
«Indossare abiti femminili e nascondermi sarebbe educativo? Voi lo fareste?»
L’uomo sorrise e gli occhi bruni ammiccarono sotto le folte ciglia.
«Se venisse richiesto da chi mi ama.»
Il ragazzo si guardò scoraggiato: così conciato i demoni non l’avrebbero riconosciuto né fiutato tra gli incensi del santuario, ma vedersi in quei panni gli abbatteva il morale. Non assomigliava affatto a suo padre e nemmeno al se stesso che conosceva: era un estraneo privo di identità.
Non che prima ne avessi una precisa.
«Mi chiedo come riusciate sempre a convincermi» borbottò.
Danyal s’inginocchiò, prendendogli la mano con rispetto.
«Così siete identico a vostra madre. È un punto d’orgoglio.»
Le guance di Shaeta si colorirono per l’emozione. Guardò Amshula e scoprì che era vero. Nessuno gli avrebbe portato via il suo amore o il loro legame.
«Posso almeno scegliermi il nome?» sospirò arrendevole.
 
La regina cercò di riguadagnare l’obiettività offuscata dal distacco forzato. Struggersi l’avrebbe distolta dalle responsabilità e avrebbe ottenebrato le facoltà decisionali. Portava sulle spalle il destino del popolo, l’angoscia personale era un atto egoista. Ogni donna di Minkar aveva pianto un marito, un fratello, un figlio. Era fortunata perché Shaeta era vivo, non aveva diritto di disperarsi.
«Ai Khai non interessa il tempio di una divinità minore, lo avrebbero depredato anni fa. Il principe è al sicuro.»
«Sapete come prenderlo, Danyal. Non sarei riuscita a persuaderlo senza di voi.»
«Ho soltanto mostrato un punto di vista alternativo.»
Amshula si fermò sull’ultima rampa e lui si voltò per attenderla, la fiaccola levata. Nonostante avesse passato la trentina, era attraente e carismatico. I capelli castani sfioravano il colletto bordato di rosso dell’uniforme, più corti di come li portava un tempo. Ricordava la sfumatura esatta delle sue iridi, anche se cercava di non incrociare mai il suo sguardo: temeva che capisse, che la scheggia di un passato da dimenticare riaffiorasse, riportando a galla il dolore, la paura, l’umiliazione. Il ricordo di ciò che non aveva avuto.
«Avrei desiderato che Namta gli parlasse così.»
Danyal strinse le dita sull’elsa.
«Sono certo che lo abbia fatto, mia signora. Gli uomini preferiscono affrontare le questioni importanti in privato.»
Lei non gli credette, ma apprezzò l’arduo tentativo di non infangare il defunto re.
«Shaeta ha ragione. Sapete sempre cosa dire.»
 
Raggiunsero i sotterranei degli alchimisti e il più anziano si affrettò ad accoglierli.
«Dateci una buona nuova, mastro Zobel.»
«Ottima, maestà. Abbiamo reperito tutte le sostanze indicate nella pergamena. Alcune sono definite in termini arcaici, da qui la difficoltà. Lo scritto non ha mentito, l’effetto è quello che abbiamo ottenuto nell’ultimo esperimento.»
«Dunque siamo salvi? Possiamo sbaragliare i Khai?»
«Impossibile a dirsi finché non studiamo dal vivo i danni provocati sul loro fisico. L’unica certezza è che il kori non intacca i Minkari.»
«Non l’avete appurato nell’ultimo scontro? Le frecce ne erano intrise.»
«Non c’è stata moria tra i nemici: o la formula non ha funzionato o non li abbiamo colpiti, il dubbio va risolto.»
«Che proponete?»
«Sarebbe fondamentale catturarne uno vivo. Verificare se la morte è immediata o se la pergamena ci ha dato false aspettative.»
«Chiedete l’impossibile!» sbottò Danyal «Dall’inizio della guerra non abbiamo preso un solo prigioniero! È ammettere il fallimento in partenza!»
«Desolato, comandante, non possiamo sperimentare il preparato su larga scala. La procedura per ottenerlo è lunga, la città allo stremo. Una cattura è così inattuabile?»
«Uscite sul campo e appuratelo di persona!»
«Esiste un’altra soluzione» mediò Amshula «Proseguite la sperimentazione, mastro Zobel, lasciate il resto ai soldati minkari.»
L’alchimista s’inchinò e si apprestò a continuare il compito.
 
«Insolente rimesta intrugli!» esplose Danyal una volta fuori.
Il pugno si abbatté sulla parete. Non era da lui perdere le staffe ma l’insinuazione, il mettere alla sbarra il valore dei suoi uomini da parte di chi restava al sicuro lo mandava su tutte le furie. Forse non aveva mai visto un cadavere smembrato dagli artigli khai o il nulla che rimaneva dopo un attacco con il ladi! La sofferenza atroce di chi spirava per gli effetti del veleno o dilaniato dai rostri dei vradak! Non c’era Zobel al capezzale dei morenti!
«Sono certa che non avesse intenzione di offendervi» lo placò la regina «Ha dato alla sua inquietudine l’aspetto di un’illazione.»
«Non scusatevi per lui, mia signora.»
Amshula attese che Danyal sbollisse. Sapeva che stava ragionando sul sistema di accontentare la richiesta impraticabile e che avrebbe messo a repentaglio se stesso.
«Non arrovellatevi, vi prego. Potremmo domandare una cavia agli hanran
«No. Non agiranno contro la loro stessa gente, avete sentito il loro contatto. Rischieremmo di perdere sia la loro alleanza sia l’asso nella manica. Nessun Khai dovrà sapere che esiste qualcosa in grado di ucciderli.»
«Sono troppo ottimista, non ho pensato che non gradirebbero il nostro vantaggio, sebbene alleati» sospirò abbattuta la regina.
«Abbiamo un nemico in comune, ma non considerateli compagni di battaglia. Per quanto diversi, contare sull’ appoggio incondizionato degli hanran è un errore fatale.»
«È preferibile che gestiate voi la guerra, Danyal. Io non sono portata.»
«È una virtù» sorrise lui indulgente.
«Avete un altro piano?»
«Dare ai Khai ciò che bramano.»
«C-come?»
«Mahati ha ordinato la cattura di Shaeta. Abbiamo l’esca per condurre gli insetti alla tela del ragno.»
 
 
Kamatar ebbe un moto di stizza quando realizzò che il numero di sentinelle a guardia del tempio era stato rimpinguato. Non era una misura usuale, all’interno non c’erano tesori o persone da salvaguardare e nessun Khai avrebbe osato offendere il dio della Battaglia con una profanazione. Si domandò se la precauzione fosse dovuta a lui, se avessero snidato la sua parentela con Ishwin o se avesse compiuto un passo falso.
Mia sorella non può avermi tradito.
Si spogliò del mantello screziato e sistemò le pieghe dell’uniforme. Indossarla lo faceva sentire sporco, estraneo, ma parimenti procurava acute fitte di nostalgia. Tra le fila dei cavalieri alati aveva appreso che essere liberi significava custodire un luogo in cui tornare, coltivare un affetto da proteggere, rispettare la vita e non distruggerla.
L’uomo che gli aveva aperto gli occhi, gli aveva anche salvato la vita. Lo aveva sanato due volte: dalla mancanza di ahaki e dalla freccia che lo aveva quasi ucciso.
 
«Non puoi parlare, reikan, non sforzarti. La ferita è grave.»
Kamatar si era puntellato sui gomiti, sollevandosi dal giaciglio. La mente confusa rammentava lo scontro con i Jandalini, la bordata di dardi dai bastioni, poi il vuoto.
Il sudore gli appiccicava la casacca al corpo, le tempie battevano impazzite. La paglia era vecchia e macchiata di sangue, il lenzuolo consunto, l’ambiente buio. Forse una grotta. Le pupille si erano dilatate per catturare ogni scintilla di luce, ma non aveva riconosciuto il posto. L’unica certezza, non era morto.
«Hai fatto un bel volo, ho pensato di trovare un cadavere. Invece il tuo vradak ti ha protetto, povera bestia. Per lui non ho potuto fare nulla, sono dispiaciuto.»
Aveva sentito una fitta al petto, un’ondata di sofferenza nell’apprendere che Kalanthi se n’era andato e l’avvilimento si era mischiato alla debolezza.
Lo sconosciuto aveva attizzato la lampada a olio e si era avvicinato, rivolgendogli un’occhiata comprensiva. Kamatar aveva compreso: era stato soccorso da uno shitai, un essere corrotto e senza onore.
Aveva portato la mano al fianco sinistro, indietreggiando in un ringhio minaccioso, ma non aveva trovato le spade. La gola aveva preso a bruciare come l’inferno.
«Calmo, ragazzo. Non ti farò del male e non lascerò che ne faccia a te stesso» aveva assicurato quello, ignorando i suoi artigli contratti «So tutto sul šokai e sul codice di un cavaliere alato, ma in questo momento non sei libero. Non puoi scegliere né di uccidermi né di morire.»
Aveva ascoltato quelle parole astruse a occhi sbarrati: il ripudiato aveva un aspetto maturo e composto, capelli castano chiaro e quieti occhi azzurri. Dimostrava seicento anni, sulle sue braccia spiccavano i tatuaggi di guerra. Un rifiuto che aveva rinunciato al clan osava affermare che lui, reikan della prima armata, non era libero e gli impediva di perire da guerriero.
«Mi chiamo Rosshan. Leggo il tuo disprezzo e non mi attendo nulla di diverso. Non sei morto cadendo, hai perso il vradak, non sei in grado di ucciderti e devi la vita a uno schiavo. Niente male come curriculum.»
La rabbia sotterranea di Kamatar era esplosa a conferma del quadro umiliante. Di nuovo il dolore lo aveva piegato in due e non era riuscito ad alzarsi.
«Sull’ultimo punto consolati, reikan. Non sono uno shitai, bensì un hanran. Per “quelli come me”, il termine usato da “quelli come te”, non ha senso.»
La collera era montata fino a offuscargli i pensieri. Un ribelle, che il sommo Belker lo dannasse due volte!
Aveva sputato a terra, ma lo sforzo gli era costato caro. Gli era mancata l’aria, una morsa d’acciaio gli aveva serrato il collo impedendogli di deglutire. Ogni favilla di energia era venuta meno.
«Ti ho raccomandato di sedare i bollenti spiriti» aveva sospirato Rosshan, versando una mestolata in una ciotola sbreccata «Non ti ho salvato per vederti soffocare, non costringermi a sedarti.»
Kamatar aveva accettato la tazza solo per recuperare la vitalità necessaria a fargliela pagare. Distante, eversivo. Non aveva pensato ad altro e lo aveva espresso in un gesto inequivocabile. Tutt’altro che impressionato, l’hanran si era messo a ridere.
«Va bene, sei stato chiaro. Le tue lame sono laggiù, quando ti sarai ristabilito potrai giustiziarmi oppure strapparmi il cuore con le unghie. Toglierti la vita, se lo brami. Ma ora comando io, fattene una ragione.»
Lui si era sfiorato la medicazione e le dita si erano macchiate di scarlatto.
«Sì, dovrò cambiare la benda e cauterizzare la lesione. Se tu parlassi, moriresti per l’emorragia. Puoi solo ascoltare o dormire, con le buone o con le cattive.»
Kamatar aveva sollevato uno sguardo invitto. Non aveva pensato che ogni certezza sarebbe mutata in quel silenzio forzato.
«Ora che ci capiamo, ultimiamo le presentazioni» aveva proseguito Rosshan «Non conosco il tuo nome e sono certo che non vorrai scriverlo nella polvere, pertanto ti chiamerò Elefter. Mi pare molto adatto.»
 
Elefter significava “senza catene” e allora gli era sembrato una presa in giro. Invece Rosshan aveva saputo comprendere ciò che non aveva scorto di se stesso.
Si passò le dita nella chioma ruggine e mise in vista il vassoio con l’offerta. Aveva l’aspetto di uno dei tanti devoti venuti a riverire Belker. Attraversò il cortile interno e si mimetizzò tra le colonne istoriate, attendendo il momento per svicolare. Sollevò il cappuccio, posò l’oblazione e spense le candele, diventando parte dell’oscurità.
Ishwin stava ultimando la preghiera. L’avrebbe seguita nell’ala privata quando il santuario si sarebbe svuotato. Non dovette aspettare a lungo. La pithya congedò i presenti e scese dalla parte opposta, mentre i guardiani serravano i pesanti portali dietro chi si era attardato.
Elefter si appiattì contro le pareti del corridoio. Giunto a meta, fece per abbandonare il rifugio, ma ciò che vide lo trattenne. Non fu scoperto per un soffio o per clemente volontà degli dei. Retrocedette svelto, nascondendosi in una nicchia.
Seduto sul divano, in attesa di Ishwin, c’era l’Ojikumaar in persona.
   
 
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